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Un farmaco per l'HIV utile per la riabilitazione dopo ictus

Torno sul tema della scoperta di nuove applicazioni per vecchi farmaci (articoli precedenti --> NewOldDrugs) per aggiungere come nuovo esempio quello della nuova vita di un farmaco, oggi in uso per il trattamento del HIV, nella terapia dei pazienti colpiti da ictus.

L'ictus è una delle principali cause di disabilità a lungo termine e come tale ha attratto ricercatori impegnati a capire come migliorare la condizione dei pazienti e con essa minimizzare i costi (umani ed economici) che stato e famiglie si trovano ad affrontare.
Gran parte degli approcci oggi in uso si fondano su tecniche riabilitative più che su trattamenti farmacologici, semmai diretti per contrastare possibili recidive. Ma queste tecniche sono più utili per il recupero motorio (quando possibile) mentre poco si può fare per le lesioni che impattano su apprendimento e memoria.
Il recupero motorio successivo a lesioni cerebrali deve molto alla plasticità sinaptica, cioè la rimodulazione delle connessioni nervose e la riprogrammazione di aree cerebrali. I pazienti in terapia motoria devono a tutti gli effetti "reimparare" a camminare (o a parlare) come fanno i bambini nel primo biennio di vita.
Se si potesse facilitare la plasticità neuronale reimpostandola sulle potenzialità tipiche del cervello giovane, i tempi e l'efficacia terapeutica ne avrebbero grande giovamento.

Uno studio pubblicato sulla rivista Cell da Thomas Carmichael va in questa direzione con la scoperta che la proteina di membrana CCR5 oltre ad essere il bersaglio naturale per la terapia anti-HIV (essendo il co-recettore che usa il virus  per agganciarsi alla cellula) è anche un target per il trattamento riabilitativo successivo a ictus o trauma cranico.
Una scoperta importante perché permette di usare da subito quanto già scoperto finora, in termini di molecole terapeutiche e sicurezza farmacologica, grazie alla sperimentazione sul HIV.

Come anticipato nei precedenti paragrafi, i meccanismi molecolari e cellulari coinvolti nel recupero successivo ad una lesione cerebrale, cioè la plasticità sinaptica, sono simili a quelli utilizzati nell'apprendimento e nella memoria. L'analisi mediante imaging cerebrale funzionale conferma che i pazienti in riabilitazione dopo un ictus hanno un pattern di attivazione simile a quello di chi sta imparando a camminare e parlare.

Il dato che ci interessa qui è che le ricerche condotte su modelli animali di ictus hanno dimostrato come l'inibizione del segnale mediato da CCR5 migliori il processo di apprendimento e la plasticità neuronale nei circuiti ippocampali (memoria) e corticali (motoria e sensoriale). 
I topi sani hanno, in quelle regioni, un segnale derivante da CCR5 sotto il limite di rilevamento. Al contrario l'espressione della proteina CCR5 nei neuroni corticali aumenta in modo significativo una decina di giorni dopo l'ictus e si mantiene stabile per circa 1 mese; probabilmente un effetto legato alla lesione e all'attivazione del sistema immunitario locale.
Spegnendo il gene, con opportuni farmaci (ad esempio il maraviroc, un antagonista del CCR5 utilizzato nella clinica per il trattamento dell'AIDS), entro la prima settimana si nota un netto miglioramento delle capacità di recupero motorie del topo.
Più in dettaglio si è osservato che se somministrato quotidianamente a partire da 24 ore dopo l'ictus e per 9 settimane, la funzionalità motoria era chiaramente migliorata rispetto ai controlli già a partire dalla terza settimana.
Inoltre il maraviroc si è rivelato efficace anche nell'ictus cronico, somministrato a partire dalla terza settimana. Questo è uno degli aspetti più interessanti in quanto oggi le uniche terapie approvate per l'ictus devono essere somministrate entro 24 ore dall'ictus, un limite di efficacia molto pesante per le capacità di recupero dei pazienti.

Andando un poco più nel dettaglio, lo spegnimento del gene CCR5 favorisce la "germinazione" (sprouting) assonale successiva alle lesioni, cioè la formazione di nuove connessioni in grado di aggirare l'area danneggiata. Nei fatti sia ha un aumento del numero totale di spine dendritiche nella corteccia pre-motoria e un aumento della rigenerazione assonale.

In un precedente articolo riguardante il razionale teorico (ma scientificamente ed eticamente fallace) dietro la creazione dei bambini GM in Cina (--> qui) avevo parlato degli individui con naturale protezione al virus HIV (o almeno ad alcuni ceppi del virus) grazie all'essere portatori di una mutazione inattivante nel gene CCR5 (mutazione delta32). La loro relativa abbondanza (circa 1% nelle popolazioni europee è omozigote per questa mutazione) ha permesso di fare uno studio retrospettivo sui pazienti colpiti da ictus dato che su 446 pazienti, 68 erano portatori della mutazione. La valutazione refertuale dello stato cognitivo nelle settimane successive all'evento mostra che i pazienti portatori della mutazione guarivano meglio degli altri a parità di terapie ricevute e di fattori di morbilità.

Poiché il maraviroc è un farmaco attualmente in uso, la traslazione clinica del trattamento anche per i soggetti colpiti da ictus dovrebbe essere relativamente veloce in modo da verificare, su un campione statisticamente idoneo, l'utilità del trattamento dopo l'ictus

Fonte
- CCR5 is a therapeutic target for recovery after stroke and traumatic brain injury. 
Joy, M. T. et al. (2019) Cell. v176, pp. 1143–1157

Sensore portatile per rilevare perdite (o avvelenamento) da metanolo

I ricercatori svizzeri del ETH hanno sviluppato un dispositivo portatile ed economico in grado di rilevare la presenza di metanolo nelle bevande alcoliche (e non solo).
Chi ha qualche anno sulle spalle ricorderà bene il caso del vino al metanolo di fine anni '80 che causò molte vittime ma che almeno forzò l'entrata in vigore di controlli più stringenti sui produttori. Se il problema almeno nei prodotti di largo consumo è stato ampiamente ridimensionato, non è un rischio secondario sia nelle produzioni artigianali che nei paesi non sviluppati.
Tra potenzialmente fatale e inebriante ... c'è un carbonio di differenza

Il metanolo viene a volte chiamato il gemello mortale dell'etanolo, una somiglianza chimica e in parte funzionale, con il metanolo a rappresentare il lato oscuro. Mentre l'etanolo è l'ingrediente inebriante che caratterizza vino, birra e grappa, il metanolo è una molecola non tossica di suo ma che genera prodotti altamente tossici una volta metabolizzata. Oltre ad una azione negativa diretta sull'attività del sistema nervoso centrale (come l'etanolo ad alti dosaggi) ha una tossicità mediata dai suoi metaboliti, prima la formaldeide ed infine l'acido formico. In particolare il formiato (sale dell'acido formico) inibisce la citocromo C ossidasi, un importante enzima mitocondriale, causando in serie ipossia cellulare e acidosi metabolica.
Anche una quantità relativamente piccola di metanolo può provocare cecità e, se non trattata per tempo, essere fatale.

Casi di avvelenamento dovuti al consumo di bevande alcoliche contaminate con metanolo si verificano anche in assenza di evidente dolo (negli anni '80 veniva aggiunto di proposito perché un mezzo più economico per raggiungere la gradazione alcolica desiderata), in quanto la fermentazione alcolica produce di suo piccole quantità di metanolo. Ogni volta che l'alcool viene distillato in modo non professionale, si può quindi avere un accumulo di metanolo nel liquore prodotto.

Finora, il metanolo poteva essere distinto dall'etanolo solo in un laboratorio chimico con ovvia riduzione dell'accuratezza e tempestività dei controlli nel luogo di produzione. I ricercatori hanno ora sviluppato un dispositivo portatile basato su un piccolo sensore di ossido di metallo in grado di rilevare l'alcol adulterato in due minuti "annusando" i vapori di metanolo ed etanolo da una bevanda. Inoltre, lo strumento può anche essere utilizzato per diagnosticare l'avvelenamento da metanolo analizzando l'espirato di un soggetto, con ovvi vantaggi nella tempistica della diagnosi..
credit: Van den Broek J et al. Nature Communications 2019

La tecnica sottostante (sensori all'ossido di metallo per vapori di alcol) non rappresenta nulla di nuovo solo che finora aveva una forte limitazione nel non essere capace di distinguere vapori di etanolo da quelli di metanolo.
Il nuovo, ed affidabile, sensore sfrutta due innovazioni: nanoparticelle di ossido di stagno drogate con palladio e infine un "trucco" per distinguere tra metanolo ed etanolo. Invece di analizzare il campione direttamente con il sensore, i due tipi di alcol (o i suoi vapori) vengono prima separati facendoli passare in un tubo riempito con un polimero poroso, dal quale viene aspirata l'aria mediante una piccola pompa. Poiché la molecola di metanolo è più piccola, questa passa attraverso il tubo polimerico più rapidamente dell'etanolo permettendo una sua rilevazione precisa.

Il dispositivo di misurazione si è rivelato eccezionalmente sensibile, persino per tracciare quantità di contaminazione da metanolo fino alla soglia più bassa del limite consentito per legge.  Durante i test di affidabilità  sono stati analizzati campioni di alito di persone che avevano precedentemente bevuto rum, aggiungendo poi nell'espirato quantità variabili di metanolo; aggiunte fatte in doppio cieco per testare la sensibilità diagnostica.
Il nuovo dispositivo è stato brevettato e si sta lavorando per ridurre ulteriormente le dimensioni dello stesso, rendendolo così disponibile a costi estremamente contenuti. Prospettiva non secondaria perché il metanolo è ampiamente usato nell'industria e potrebbe diventare ancora più comune se venisse scelto come carburante del futuro; da qui la necessità di sviluppare un sensore per rilevare perdite nei serbatoi.

Fonte
- Highly selective detection of methanol over ethanol by a handheld gas sensor
J. Van den Broek et al, (2019) Nature Communications

Ethanol Vs. Methanol
https://homeguides.sfgate.com



La cannabis provoca una alterazione quali-quantitativa del recettore della dopamina

Una delle certezze mediche, purtroppo troppo spesso minimizzata, è che chi consuma cannabis in modo continuativo manifesta sul lungo periodo deficit comportamentali, compromettendo la normale capacità di giudizio e autocontrollo.
Nota. Nonostante l'essere considerata una droga leggera e molto alla moda (basta vedere il numero di film, in Italia quelli di Salvatores, in cui i personaggi ne fanno uso), spacciata come innocua, è bene ricordare che secondo i dati del National Institute of Drug Abuse statunitense circa il 9% degli individui che utilizzano per la prima volta cannabis ne diventeranno dipendenti, con numeri che salgono al 17% per chi inizia da adolescente e supera il 25% per chi la consuma giornalmente.
L'effetto è ascrivibile ad una alterazione delle funzioni dopaminergiche; più in dettaglio si tratterebbe di una disfunzione neuroadattativa indotta dal THC (il principio attivo della cannabis), che ricalca quanto avviene nei modelli animali con l'eccessiva attivazione del recettore eteromerico della dopamina, D1/D2.
Tuttavia poco si conosceva sui meccanismi molecolari alla base di tale somiglianza funzionale.

Uno studio recente chiarisce come l'assunzione cronica di THC aumenti sia il numero di neuroni che esprimono il recettore eteromerico D1/D2 che il numero di eteromeri all'interno dei singoli neuroni nella parte del cervello nota come striato. Le conseguenze a valle, a livello cellulare, sono nell'attivazione dei segnali basati sul calcio e l'inibizione di quelli basati sul cAMP.
Particolarmente interessante l'effetto del cannabidiolo, capace di attenuare buona parte (ma non tutte) le alterazioni indotte dal THC.
Il cannabidiolo è la seconda sostanza più abbondante nella cannabis dopo il THC. A differenza di questa, però, il CBD non è psicoattivo, non crea assuefazione e possiede notevoli capacità rilassanti, antinfiammatorie e antidolorifiche; per questa ragione ha indicazioni nel combattere gli effetti collaterali causati dal THC.
Riassumendo, i dati recenti sottolineano la centralità del recettore eteromerico D1/D2 nei disturbi comportamentali legati all'uso di cannabis

Articolo precedente sul tema --> Fumare troppa erba causa deficit di dopamina

Fonte
- Δ9-Tetrahydrocannabinol Increases Dopamine D1-D2 Receptor Heteromer and Elicits Phenotypic Reprogramming in Adult Primate Striatal Neurons
A. Hasbi et al, iScience 2019



L'attività fisica fa bene alla memoria ma nell'Alzheimer questo meccanismo si inceppa

Mens sana in corpore sano o anche fare attività fisica fa bene al corpo e alla mente

Una frase che ha fondamenti scientifici consolidati. I dati accumulati nel corso degli anni convergono  infatti su due punti:

  • fare attività fisica in modo continuativo fa bene alla funzionalità cerebrale in generale e alla memoria in particolare;
  • i soggetti affetti dal morbo di Alzheimer (AD) hanno disfunzioni nel metabolismo cerebrale che diminuiscono l'efficacia protettiva dell'attività fisica per quanto riguarda le capacità mnemoniche.
Non a caso tra le terapie di mantenimento adottate per i pazienti affetti da AD, un ruolo chiave lo hanno quelle finalizzate a tenere sotto controllo malattie metaboliche, il diabete ad esempio, e massimizzare l'attività fisica.
Entrambi gli approcci hanno dato buoni risultati, anche se purtroppo temporanei
Nota. Non esistono oggi terapie curative per l'Alzheimer ma solo attività tampone che nella migliore delle ipotesi possono solo rallentare l'inevitabile decorso 
Il focus sulla attività fisica è in un certo senso totalmente empirico poiché i meccanismi molecolari che sottintendono al rapporto memoria-attività fisica non sono del tutto compresi.

A fare chiarezza nel campo arriva uno studio pubblicato da poco sulla rivista Nature Medicine che identifica nella irisina, una proteina con attività ormonale che fa da trait d'union tra attività fisica prolungata e i benefici osservati nei pazienti.

La irisina è una miochina, vale a dire un membro della famiglia di proteine secrete dai muscoli e dotate di attività endocrina paracrina. Studi precedenti avevano dimostrato che questa proteina viene liberata in seguito all'esercizio fisico e ha come effetto finale quello di favorire la liberazione di un fattore neurotrofico come il BDNF dall'ippocampo (il luogo in cui si consolida la memoria).

Il lavoro appena pubblicato si è focalizzato sulla misurazione del livello di irisina nel cervello ottenuto dalle autopsie dei pazienti, e ha evidenziato che il suo livello è inferiore a quello nei soggetti di controllo (deceduti per altre cause e non affetti da AD). Il dato è stato confermato in modelli murini, cioè topi predisposti al AD, in cui si osserva come la presenza delle placche amiloidi sia di per sé capace di ridurre il livello di irisina; dato confermato nei topi normali semplicemente iniettando le proteine responsabili della formazione delle placche.
La prova del nove, duplice, è venuta attraverso lo spegnimento genico (topo knock-out) della irisina che ha portato al deterioramento della capacità di formare nuove memorie a lungo termine e all'aggiunta di nuove copie geniche (veicolate mediante vettore virale) nelle cellule neuronali che ha protetto i topi dalla perdita di memoria.

Test istologici hanno cercato a questo di capire se vi fosse una qualche interazione diretta (e con effetti negativi) tra le proteine formanti le placche amiloidi e la irisina. Non si è osservata alcuna interazione diretta ma la irisina attiva una serie di segnali che agiscono direttamente sui meccanismi di formazione della memoria, deteriorati nel AD.
Nello specifico la irisina agisce sul pathway cAMP-PKA-CREB. Livelli medio bassi di irisina non sono sufficienti per compensare anomalie nel pathway ma se ne viene fornita in eccesso diventa capace di prevenire la disfunzione del pathway agendo come un "tampone".
La correlazione tra irisina e attività fisica è stata testata sul campo facendo fare ai topi molta ginnastica, nello specifico facendoli nuotare per 1 ora al giorno, 5 giorni a settimana, per 5 settimane. Il risultato è stato soddisfacente, visto che si è riusciti a prevenire i deficit funzionali nell'ippocampo e nella formazione della formazione. Al contrario topi privi del gene della irisina sottoposti allo stesso training non avevano alcun vantaggio da questa tabella ginnica. 

Di importanza per terapie future sugli umani, l'osservazione che l'infusione per via endovenosa della proteina carente massimizzava l'effetto benefico dell'attività fisica.

I ricercatori si stanno ora concentrando nella identificazione dei recettori della irisina nel cervello, passo fondamentale per disegnare molecole mimetiche in grado di attivare lo stesso pathway e dotate di una migliore biodisponibilità rispetto alla irisina (nello specifico molecole in grado di raggiungere il bersaglio anche se assunte per via orale invece che per endovena o per perfusione locale).


Riassumiamo i punti essenziali del lavoro fatto finora in modo che il messaggio arrivi anche a chi non mastica molto di ricerca:

  1. la irisina è il mediatore tra attività fisica e la produzione di fattori neurotrofici protettivi nel cervello;
  2. i pazienti affetti da Alzheimer hanno bassi livelli di questa proteina (non si sa se questo sia un epifenomeno o una causa diretta) per cui non riescono a sfruttare tutti i benefici neuroprotettivi del fare attività fisica.
  3. "rifornire" di irisina aggiuntiva, topi predisposti alla malattia ripristina gli effetti benefici del fare ginnastica.
  4. Si cerca ora di identificare una molecola in grado di mimare la irisina che sia facile da somministrare e parimenti efficace, in vista di futuribili trattamenti nei pazienti




Articoli precedenti sul tema -->"Dove inizia l'Alzheimer" oppure cliccando i tag --> "Alzheimer

Fonte
- Exercise-linked FNDC5/irisin rescues synaptic plasticity and memory defects in Alzheimer’s models
Mychael V. Lourenco et al, (2019) Nature Medicine, volume 25, pp. 165–175







Starhopper, il razzo prototipo di SpaceX, ha fatto il suo primo balzo

E' stato coronato da successo il lancio di Starhopper, un prototipo di razzo sviluppato da SpaceX, l'azienda di voli spaziali creata da Elon Musk. 
Un lancio con traiettoria invero estremamente limitata rispetto ai lanci classici ma lo scopo degli ingegneri era quello di fare un test di massima in vista dell'inizio dei voli spaziali commerciali previsto per il 2021. 

Voli che vanno di pari passo (e che dovrebbero aiutare a finanziare) la missione su Marte e che, per ovvie ragioni, necessiterà di avere a disposizione tanti piccoli razzi deputati unicamente al trasporto merci.
Se non vedi il video --> Youtube


Il lancio di prova mostrato in queste immagini è avvenuto il 27 agosto nei pressi di Boca Chica, una piccola città nel sud del Texas. Il test della durata di soli 57 secondi ha visto Starhopper raggiungere l'altezza prefissata per poi raggiungere ed atterratta in un sito vicino
Il test serviva ad verificare l'effetto di alcune modifiche nei nuovi razzi Raptor e nel posizionamento dei serbatoi e quindi migliorare i design di SpaceX Starship, la navetta pensata per il trasporto di esseri umani nello spazio.
Di fatto Starhopper è solo un pezzo della nave Starphip, alta 55 metri; un approccio quello di SpaceX modulare nei test che ha permesso di minimizzare i costi di progettazione secondo il modello classico della NASA.


La "voce" del campo magnetico terrestre al contatto con il Sole

In ogni singolo istante la Terra è bersagliata da sciami di particelle solari e cosmiche, alcune delle quali (i neutrini ad esempio) sono così resilienti alle interazioni da passare il pianeta da parte a parte senza alcun contatto. Altre vengono invece fermate negli strati più alti dell'atmosfera o deflessi dal campo magnetico terrestre.
Rappresentazione del campo magnetico terrestre e del suo funzionare da scudo contro il vento solare (credit: ESA)

Intercettare tutte queste particelle è il primo ed essenziale passaggio per poterle studiare; a tal scopo sono stati creati appositi rilevatori che vanno da "semplici" rilevatori sulla superficie a enormi vasche piene di acqua e circondate da sensori posti all'interno di montagne come il Gran Sasso in Italia (da poco spostato oltreoceano al FermiLab)  o nel caso del Super-Kamiokande giapponese, in una miniera.

Alcuni rilevatori sono stati invece montati su satelliti orbitali e grazie a questi è stata ricostruita la "voce" solare. Niente di metafisico per carità, ma una conversione delle variazioni indotte localmente sul campo magnetico locale quando viene bersagliato dagli sciami di particelle prodotti da una tempesta solare. 
L'analisi condotta è sui dati ricavati dai database prodotti dal lavoro dei quattro satelliti della missione Cluster, iniziata nel 2000 dall'Agenzia Spaziale Europea (Esa) con il fine di monitorare l'attività solare. Il periodo coperto da questo analisi è il primo quinquennio durante il quale si sono verificate 6 tempeste solari. 
Ottenuti i dati si è proceduto a trasformare le frequenze delle onde da impatto in segnali percepibili, ottenendo così una sorta di canto misterioso.
Il suono e video relativo alle due attività in figura sono disponibili 

Grazie ad un sistema di analisi noto come Vlasiator i ricercatori hanno evidenziato non solo una marcata differenza tra l'andamento del ritmo quando il Sole è in quiete e durante una tempesta, ma un pattern più complesso del previsto.

Un esempio di come sia possibile non solo ottenere effetti curiosi da dati fisici ma ricavare nuove informazioni da dati archiviati da più di un decennio

Fonte
- Earth’s magnetic song recorded for the first time during a solar storm
ESA news (11/2019)



Squali che brillano nelle profondità oceaniche

Alcuni squali non hanno bisogno di glittering per le loro serata dance.
Scyliorhinus retifer (credit: David Gruber)
A parte le battute, mi sono recentemente imbattuto nella notizia sulla scoperta di una particolare specie di squalo, imparentata con il classico gattuccio (Scyliorhinus retifer), dotata di biofluorescenza.
La sua pelle assorbe la luce blu dall'oceano (vale a dire l'unica lunghezza d'onda nel visibile proveniente dal Sole, capace di penetrare per qualche decina di metri l'acqua) e riemette luce ad una lunghezza d'onda maggiore (quindi energia inferiore), generando sulla cute dei pattern luminosi visibili solo da altri squali.
L'oceano ci appare blu perché quella lunghezza d'onda della luce è l'unica ad essere assorbita (arriva fino a 200m)

 I ricercatori hanno scoperto che tale proprietà dipende da una classe di metaboliti precedentemente ignota presente nelle minuscole squame, simili a denti, che compongono la pelle degli squali. 
Ingrandimento delle squame al "naturale" e in fluorescenza
(credit: James Weaver via sciencealert.com)

Oltre a probabili funzioni di comunicazione (ancora da esplorare) si ipotizza che queste molecole fluorescenti possano anche avere funzioni nella risposta immunitaria; ipotesi derivante da esperimenti che hanno dimostrato proprietà antimicrobiche.
Scoperta interessante sia da un punto di vista naturalistico e (forse) etologico che nella perenne ricerca di molecole sinergizzanti i classici antibiotici.

Fonti
- Bright Green Biofluorescence in Sharks Derives from Bromo-Kynurenine Metabolism
 HB Park et al. (2019) iScience

-  These Sharks Produce an Eerie Glow Through a Mechanism Previously Unknown to Science
sciencealert.com (2019)

- Biofluorescence in Catsharks (Scyliorhinidae): Fundamental Description and Relevance for Elasmobranch Visual Ecology
David Gruber et al, Scientific Reports volume 6, Article number: 24751 (2016)






La tecnologia che permette di mostrare in 3D cellule funzionalmente diverse in un tessuto

L'articolo odierno è un poco specialistico ma cercherò di semplificarlo al massimo in modo che arrivi a tutti la potenza intrinseca al metodo descritto.
Parlo di biologia molecolare e di una tecnica pubblicata poche settimane fa, nota come SLIDE-SEQ, con la quale è possibile ricostruire l'identità e la posizione di ogni singola cellula in un tessuto.
Nota. La SLIDE-SEQ è una variante della tecnica nota come RNA-SEQ.
I passaggi della RNA-SEQ (Malachi Griffith et al, via wikipedia)

Gli organi (i.e. il polmone) sono fatti da molti tipi di tessuto (epiteliale, connettivo, …) e ciascun tessuto da una molteplicità di cellule, la cui varietà differisce molto a seconda del tessuto preso in esame.
L'analisi al microscopio ottico, grazie all'utilizzo di opportune colorazioni e alla morfologia cellulare, permette un certo grado di riconoscibilità e qui entra in gioco l'esperienza dell'istopatologo capace di riconoscere la tipologia cellulare ed eventuali anomalie strutturali del tessuto.
Quando da un insieme tutto sommato "semplice" come quello del polmone si passa al cervello la complessità cresce in modo esponenziale sia per l'aumento sia della tipologia di cellule che della organizzazione 3D e della rete di connessioni, con variazioni importanti anche tra aree distanti meno di 1 cm. In questo ambito non è importante distinguere solo un neurone da un astrocita (tralasciando le pur importanti cellule che delimitano i vasi sanguigni) ma è fondamentale capire la tipologia del neurone, ad esempio un neurone dopaminergico da uno che libera GABA. Anche qui la morfologia aiuta (vedere i bellissimi neuroni cerebellari del Purkinje, tipicamente GABAergici, presenti nel cervelletto), altre volte la identificazione visiva è quantomeno improba.
Cellule del Purkinje (credit: BrainsRusDC via wikipedia)
Negli ultimi anni le tecniche si sono affinate a tal punto da permettere di identificare una cellula in base al tipo di espressione genica, riconducibile al tipo di RNA messaggeri prodotti. La identificazione quali-quantitativa del tipo di mRNA presenti si basa su tecniche come retrotrascrizione (RNA come stampo per generare DNA) e sequenziamento, il cui risultato è una "impronta digitale" di una cellula in un dato stadio di maturazione. 
Parliamo di "impronte" risultato della valutazione di migliaia di messaggeri diversi, che a volte possono differire in modo sostanziale per la presenza/assenza di una o poche specie. Un lavoro che oggi è gestito "facilmente" grazie alla capacità elaborativa dei computer che definiscono un pattern di espressione analizzando in parallelo migliaia di campioni diversi provenienti (idealmente) da cellule singole
E' possibile associare gli RNA prodotti da una particolare cellula (e solo da quella) etichettando tutte queste molecole con un barcode nel momento in cui la cellula viene rotta in prossima di un "sensore" di RNA.
Ottenuta l'impronta "funzionale", questa viene comparata con quelle presenti in database relative a cellule già "catalogate", ottenendo così l'identificazione di quale cellula si trova in una data posizione.

Vediamo a grandi linee quello che hanno fatto i ricercatori del team di Evan Macosko i cui laboratori si trovano al Broad Institute (Cambridge, USA).
Nota. Gli stessi autori che qualche hanno fa avevano sviluppato un'altra tecnica molto interessante nota come DROP-SEQ.
Su un vetrino opportunamente trattato vengono posizionate migliaia di "beads" (palline sintetiche) ricoperte di piccoli e molteplici frammenti di DNA necessari per "catturare", appaiandosi, con l'RNA con cui vengono a contatto. Ciascuna pallina è diversa in quanto i frammenti di DNA sulla sua superificie sono univocamente "taggati" con un barcode, diverso in ciascuna pallina.
Le palline, fissate al vetro, hanno un diametro di circa 10 uM, di poco inferiore alla dimensione media di una cellula. Dimensione non casuale: ciascuna pallina interagirà con molta probabilità con una singola cellula.
Prima di iniziare l'esperimento la posizione di ciascuna pallina sul vetrino viene mappata così da avere una indicazione univoca della posizione di un dato segnale alla fine dell'esperimento.
L'esperimento vero e proprio inizia prelevando una piccola porzione del tessuto in esame, che ovviamente è tridimensionale, per affettarla (come farebbe un salumiere ma con "fettine" ampie pochi mm e spesse qualche micron). Ciascuna fettina viene prelevata e posizionata su singoli vetrini fino ad esaurimento del campione. Una volta a contatto con il vetro la cellula viene lisata in modo che il suo contenuto fuoriesca ed entri in contatto con le palline immediatamente adiacenti.
Dopo una serie di lavaggi si procede ad amplificare il numero di copie di RNA associati alle palline: per prima cosa le si "retro-trascrive" a formare DNA (complementare al RNA di partenza) e infine si amplificare il numero di frammenti in modo che possano essere facilmente quantificati.
Ricordo che ciascuno di questi frammenti si porta dietro un barcode unico, riconducibile alla pallina di origine, mappata all'inizio.
Visualizzazione dei passaggi chiave della tecnica. Posizionamento delle beads sul vetrino,
mappaggio, aggiunta sezione del tessuto, processamento del campione.
(Credit: Makosko Lab / sciencemag.org (
crop from original pict --> here)
Compiuta l'analisi per ciascuna delle migliaia di palline e per tutte le sezioni, le informazioni ricavate permetteranno di ricostruire una mappa 3D del tessuto di partenza con falsi colori (falsi perché il colore è semplicemente un identificativo del tipo di cellula) ma che rende bene l'idea di quali cellule si trovano in una data posizione.
Gli autori hanno testato la procedura sull'ippocampo una particolare area del cervello fondamentale per la formazione della memoria. Il risultato finale è nella GIF sottostante.
Le informazioni raccolte su ciascuna fettina di tessuto permette di ottenere una sorta di "GPS" funzionale dell'ippocampo
(credit. Macosko labs)

Se vi chiedete dove sia localizzato l'ippocampo (anzi "gli", essendo 2, uno per emisfero), vi do un aiuto visivo
credit: Life Science Databases(LSDB)

Se avete trovato interessante la tematica vi rimando a due articoli di questo blog in cui ho sommariamente descritto tecniche visivamente spettacolari come --> CLARITY e --> BRAINBOW



Fonti
Evan Macosko lab
- Slide-seq: A scalable technology for measuring genome-wide expression at high spatial resolution
Samuel G. Rodriques et al,  (2019) Science, Vol. 363, Issue 6434, pp. 1463-1467
- A GPS-like System for Single-Cell Analysis
Francis Collins blog (director of NIH)


Il transito di Mercurio davanti al Sole, in 4k

La notizia (e le foto) le ho inviate nei giorni scorsi attraverso Twitter: parlo del passaggio di Mercurio "davanti" (alias tra noi e) al Sole. Evento durato circa 5 ore che non si ripeterà prima del 2032.

Se le foto scattate a Washington DC erano belle, la vera chicca è il video in 4k del transito, regalatoci dalla NASA grazie alle foto scattate dal Solar Dynamics Observatory, il telescopio spaziale NASA per l’osservazione diretta del Sole, in funzione da quasi dieci anni.
Le riprese sono state effettuate a varie lunghezze d’onda per ottenere il maggior numero di "visioni" di questo passaggio.

Credit video: NASA’s Goddard Space Flight Center; 
Credit musica: Frosted Lace by Matthew Charles Gilbert Davidson

Per approfondimenti 



***aggiornamento 04/2020***
Nel 2018 è stata lanciata la sonda BepiColombo con lo scopo di studiare in dettaglio Mercurio da un orbita stabilizzata nel 2025. Il percorso di avvicinamento sarà graduale e sfrutterà il campo gravitazionale terrestre e venusiano per riuscire a raggiungere l'obiettivo.
Questa la traiettoria che seguirà la sonda






Due lune di Nettuno che fanno di tutto per non avvicinarsi troppo

Nettuno ha 14 lune ma due di queste, Naiadi e Talassa, hanno un orbita singolare, fortemente intrecciata dovuta ad un effetto di risonanza.
Una interazione che la NASA ha soprannominato "la danza dell'elusione" (dance of avoidance)
Credit: NASA-JPL/Caltech

Naiadi ruota attorno al pianeta ogni 7 ore, mentre Talassa, appena più esterno, ne impiega 7,5. 
Le loro orbite distano solo 1850 km ma le lune non arrivano mai troppo vicine arrivando ad un minimo di 3540 km. Un "mantenimento delle distanze" che si spiega con l'orbita fortemente inclinata di Naiadi che sembra procedere a zig-zag. 
Immaginando di trovarci su Talassa vedremmo la luna Naiadi salire e scendere due volte dall'alto e altrettante volte venendo da sotto l'orizzonte.

L'ipotesi è che tutto sia iniziato quando Nettuno catturò Tritone, quella che oggi è la sua luna più grande, causando interferenze gravitazionali che portarono alla distruzione di una o più lune preesistenti. Le lune interne attuali (a cui appartengono Naiadi e Talassa) e l'anello (non solo Saturno lo possiede) sarebbero quindi il risultato dell'aggregazione dei detriti provenienti dalle lune distrutte. Naiadi si sarebbe stabilizzata nel corso degli eoni lungo un orbita che appare come una continua fuga e rincorsa su Talassa.

Video credit: NASA/JPS youtube

Lo studio, pubblicato in anteprima su arXiv, si basa sui dati ottenuti tra il 1981 e il 2016 dal telescopio Hubble e dal Voyager 2 (che ha appena abbandonato il sistema solare --> QUI ).
L'articolo finale sarà pubblicato sulla rivista Icarus ad inizio 2020

Per saperne di più sulle lune di Nettuno vi rimando al sito
e al precedente articolo tematico

Fonte
Orbits and resonances of the regular moons of Neptune
Marina Brozović et al, ICARUS, Volume 338, 1 March 2020, 113462


Luca Parmitano, comandante della missione sulla Stazione Spaziale Internazionale

Luca Parmitano
Qualche giorno fa Luca Parmitano, che in questa missione ha il ruolo di comandante, ci ha regalato un bel selfie mentre si trovava all'esterno della ISS. 
Non una foto classica fatta durante una passeggiata spaziale ma durante un complesso lavoro di riparazione e manutenzione dello spettrometro Alpha Magnetic Spectrometer (AMS-02), fondamentale per l'attività di cattura e analisi delle particelle cosmiche nell'ambito dello studio della materia oscura. Lavoro durato circa 6 ore durante il quale Parmitano e il collega Andrew Morgan, hanno eseguito per la prima volta in orbita il taglio ed il ricollegamento delle linee di raffreddamento della stazione spaziale.
Credit: ESA e canale Twitter di Parmitano (@astro_luca)
Credit: ESA

Il lavoro in esterni è stato trasmesso in diretta streaming sul canale della NASA
Se non vedi lo stream --> youtube

Di seguito un riassunto video del lavoro svolto
Se non vedi il video --> youtube

La riparazione non è frutto di un malfunzionamento inatteso ma di una attività tesa a prolungare al massimo il funzionamento dello spettrometro che era stato pensato per durare 3 anni: installato sulla ISS nel 2011, dopo 8 anni è ancora attivo e questo ha convinto i tecnici della NASA a investire tempo (e denaro) per sviluppare nuove procedure e più di 20 strumenti personalizzati da associarvi.

Ad oggi l' AMS-02 ha permesso di individuare oltre 140 miliardi di particelle.

Per saperne di più sugli scopi e funzionamento degli spettrometri e dell'AMS-02 vi rimando ai seguenti testi di approfondimento:


Articoli precedenti sugli astronauti italiani

Foto relativa alla precedente missione di Parmitano (2013)

Un chip biodegradabile capace di rilasciare antidolorifici a richiesta

Combattere il dolore, specie quello cronico refrattario ai trattamenti e quello acuto post-operatorio, è uno dei principali target della ricerca biomedica.
Un problema quello del dolore intenso ben noto ai pazienti sottoposti ad impianto di una protesi ortopedica. Nel tentativo di controllare il dolore, i chirurghi iniettano antidolorifici nel tessuto già durante l'intervento. Quando l'effetto svanisce, in genere entro il secondo giorno, si inizia il trattamento con morfina (o suoi derivati) attraverso un catetere che si innesta vicino alla colonna vertebrale. Ovviamente i cateteri non sono particolarmente comodi e inoltre poco efficienti perché il farmaco diffonde in tutto il corpo andando ad agire su più distretti con la conseguenza di effetti collaterali.
Una possibile soluzione viene dal lavoro dei ricercatori del Microsystems Laboratory della svizzera EPFL che hanno sviluppato un prototipo di impianto biodegradabile in grado di rilasciare anestetico solo localmente, su richiesta, e per diversi giorni. In caso di successo il vantaggio sarebbe doppio: diminuzione del disagio post-operatorio dei pazienti ed eliminazione dell'intervento chirurgico per la rimozione del catetere. 
image: EPFL.ch
Il rilascio del farmaco è controllato da un piccolo circuito elettronico a forma di spirale biodegradabile, realizzato in magnesio, che si attiverebbe, scaldandosi, per risonanza quando esposto ad un campo elettromagnetico alternato posizionato all'esterno del corpo.
Il circuito è miniaturizzato, con uno spessore di soli due micron e tre millimetri di diametro.
L'obiettivo finale è quello di accoppiare i risonatori con capsule piene di antidolorifici e quindi inserirli nel tessuto durante l'intervento chirurgico. Il contenuto delle capsule potrebbe così essere rilasciato on demand grazie al campo magnetico che riscaldando la membrana della capsula favorirebbe il rilascio del farmaco di una singola capsula.
Niente di particolarmente complicato dato che oggi è possibile fabbricare risonatori che funzionano solo a diverse lunghezze d'onda, per cui effettuando il trattamento ad una specifica lunghezza d'onda, solo una specifica capsula si scalderà liberando l'anestetico.


La ricerca è stata pubblicata su Advanced Functional Material.

Fonti
- Biodegradable Frequency‐Selective Magnesium Radio‐Frequency Microresonators for Transient Biomedical Implants
M. Rüegg et al, Advanced Functional Materials (2019)

- Tiny biodegradable circuits for releasing painkillers inside the body
EPFL / news


Igea. Un asteroide promosso a pianeta nano

Pianeta, planetoide o pianeta nano?
Questi i dubbi che deve affrontare il catalogatore di oggetti del sistema solare quando magari deve decidere dove collocare un corpo troppo grande per essere un "semplice" asteroide ma troppo piccolo o di forma anomala per essere un pianeta.
Un dilemma divenuto centrale con la retrocessione di Plutone da pianeta a pianeta nano. Declassazione meritata (al netto delle proteste pittoresche di chi pensa che la scienza sia un televoto) perché 4 sono i criteri che devono essere rispettati affinché un pianeta sia tale, e a Plutone ne mancava uno  (ne ho parlato in un precedente articolo --> missione New Horizons)

Più difficile è invece fare una netta separazione tra maxi asteroidi e planetoidi ma anche qui ci possono venire in aiuto i criteri di cui sopra per cui i planetoidi ne rispettano almeno 2 e i pianeti nani 3 (vedi nota a fondo pagina).

Il tema è tornato di attualità con le notizie sull'asteroide Igea (Hygiea il nome originale) grazie allo strumento SPHERE montato sul Very Large Telescope (VLT) che ha permesso di ottenere immagini ad alta risoluzione, altrimenti difficili data la superficie scura.

Hygiea
(Credit ESO/ MISTRAL algorithm
Hygiea è il quarto oggetto più grande nella fascia degli asteroidi, subito dopo Cerere, Vesta e PalladeE' il principale esponente di una delle più grandi famiglie di asteroidi, con circa 7000 membri, che si ritiene abbia avuto origine da uno stesso progenitore nel sistema solare primigenio. 
Nota. Fuori dalla fascia di asteroidi ci sono corpi più massicci come i pianeti nani Eris, Haumea e Makemake.
I nuovi dati hanno dimostrato che Hygiea ha forma sferica e questo fornisce il tassello finale (la massa) per raggiunge i requisiti di pianeta nano. In sintesi:

  • massa. La forma sferica è infatti indice di una massa sufficiente perché la gravità modelli il corpo in modo simmetrico, come è appunto una sfera. 


  • Deve orbitare attorno al Sole.
  • Non deve essere una luna 
  • Infine aggiungiamo un requisito "negativo" cioè NON aver ripulito la propria orbita dai detriti (se lo avesse fatto, avrebbe acquisito lo status di pianeta vero e proprio).

  • Le immagini hanno permesso anche di stabilire la dimensione di Hygiea, ponendo il suo diametro a poco più di 430 km. Plutone, il più famoso dei pianeti nani, ha un diametro vicino a 2400 km, mentre Cerere ha una dimensione di circa 950 km.


    Mediante simulazioni al computer gli astronomi hanno dedotto che la forma sferica di Hygiea e il complesso degli asteroidi nella fascia sono probabilmente il risultato di una grande collisione frontale con un corpo di diametro tra i 75 e 150 km. La collisione, avvenuta verosimilmente circa 2 miliardi di anni fa, avrebbe distrutto il corpo del planetoide (o chissà un pianeta vero e proprio) originale; parte dei frammenti si sarebbero poi riassemblati a formare Hygiea e le migliaia di asteroidi.

    Sorprendente l'assenza di crateri da impatto; solo due e troppo piccoli per essere un residuo della collisione originaria. L'assenza potrebbe indicare  un certo grado di rimodellamento superficiale (qualcosa di simile ad attività tettonica ma in piccolo) o una composizione rocciosa particolarmente malleabile.
    Nota. La terminologia è poco chiara tanto che spesso i media usano in modo intercambiabile il termine planetoide e pianeta nano. In realtà un pianeta nano è un gradino sopra a planetoide nella "scalata" al rango di pianeta; quando si hanno dubbi o poche informazioni sui parametri critici si preferisce catalogare l'oggetto come planetoide.
    Un termine poco usato ma esistente è anche quello di plutoide ad indicare un pianeta nano sito oltre Nettuno. Per tale ragione Sedna potrebbe essere ugualmente definita sia come pianeta nano che come plutoide.
    Dico "potrebbe" perché ufficialmente non rientra tra i 5 pianeti nani "ufficiali". La ragione è in un certo senso burocratica perché quando la IAU definì nel 2006 i parametri minimi che un pianeta nano doveva possedere inserì anche una magnitudine assoluta superiore a 1. Il che in realtà ha poco senso (e infatti venne poi trascurata ma mai ufficialmente abrogata) perché la luminosità ha poco a che fare con l'essere un pianeta nano ed è semmai una caratteristica della composizione superficiale dell'oggetto.
    Esistono inoltre corpi che potrebbero ben essere definiti pianeti nani, perché dotati di lune, e questo è indicazione del possedere una certa massa da cui è facile calcolare diametro e densità. Al di là di una certa dimensione inoltre qualsiasi cosa fatta anche di ghiaccio diventerà una sfera, e quindi un pianeta nano. Orcus, Quaoar, Salacia e 2007 OR10 rientrano in questa categoria. Sedna invece no perché (oltre alla distanza che la rende non facilmente osservabile) non si conoscono lune per cui è difficile avere una stima precisa della sua dimensione (il diametro stimato è circa 1000 km).
    In sintesi, Igea ha ottenuto un rango più che dignitoso ma evitiamo di parlare di nono pianeta, la cui ricerca, invero affascinante, è stata trattata in un precedente articolo --> Il pianeta 9 è un miraggio?.

    Fonte
    - A basin-free spherical shape as outcome of a giant impact on asteroid Hygiea
    P. Vernazza et al, Nature Astronomy (2019)



    Il mediatore robot che fa comunicare api e pesci

    Con una buona dose di fantasia sperimentale i ricercatori sono riusciti a fare interagire a distanza due specie animali molto diverse, e a fare prendere loro una decisione condivisa.

    A fare da mediatore tra i due "mondi" un terminale robotico.

    Le api e i pesci non hanno mai avuto occasione di incontrarsi e nemmeno avrebbero molto da "dirsi" se anche venissero posti in ambienti comunicanti. Tuttavia, i ricercatori della EPFL e dell'università di Graz decisero che un modo si poteva trovare per fare "comprendere" i segnali dell'altra specie, nonostante le due si trovassero una in Svizzera e l'altra in Austria.

    Per svolgere il lavoro il mediatore robotico doveva essere posto a diretto contatto con entrambe le specie, mimetizzandosi tra esse, influenzare il comportamento e trasferire via internet il segnale di feedback.

    Uno di questi "persuasori" venne posto in un acquario circolare e attivato per indurre i pesci a nuotare in una determinata direzione. Eseguito il primo compito bisognava tuttavia trasmettere l'informazione alle api, la cui colonia era sita su una piattaforma che ospitava due terminali attorno ai quali le api tendono spontaneamente a muoversi.

    Ciascun terminale robotico, quello in acqua e quello sulla piattaforma, sono stati ovviamente progettati  per emettere segnali specifici per la specie bersaglio:

    • Il robot-pesce emette sia segnali visivi (forma, colore, strisce,...) che comportamentali (accelerazioni, vibrazioni e movimenti della coda) "comprensibili" per i pesci. 
    • Il terminale sulla piattaforma emette segnali sotto forma di vibrazioni, variazioni di temperatura e movimenti dell'aria, tutti "messaggi" compresi dalle api. 
    In entrambi i casi gli animali hanno risposto al segnale veicolato dal terminale (che a sua volta rispondeva del segnale ricevuto dall'altro terminale): i pesci hanno iniziato a nuotare in una determinata direzione e le api hanno iniziato a sciamare attorno a uno solo dei terminali.
    Sono bastati 25 minuti perché i due gruppi di animali sincronizzassero i loro comportamenti acquistando qualcosa dell'altro: le api sono diventate un po' più indipendenti nei movimenti mentre i pesci hanno assunto una compattezza maggiore del solito.

    I terminali hanno di fatto agito come dei negoziatori o interpreti durante una incontro internazionale.

    I risultati dello studio aiuteranno gli ingegneri a migliorare le modalità con cui le macchine sono in grado di percepire segnali e trasmettere segnali all'interno di un ecosistema. Gli ambiti applicativi sono molti. Tra tutti due esempi: "convincere" gli uccelli a evitare gli aeroporti, o richiamare gli impollinatori verso le colture biologiche tenendoli lontani da quelli trattati con pesticidi



    Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science Robotics.


    Articoli su tematiche simili

    Fonte
    - Robots mediating interactions between animals for interspecies collective behaviors
    F. Bonnet et al, Science Robotics (2019) v4, Issue 28



    Guanti elettronici per la riabilitazione soggetti colpiti da ictus

    Uno dei tratti caratteristici delle persone che sono sopravvissute ad un ictus sono problemi nel linguaggio, nella deambulazione o nelle capacità prensili. 
    I problemi negli arti superiori possono avere un maggior impatto sulla vita quotidiana, rispetto al danno reale. La perdita di sensazioni tattili o nel controllo muscolare del braccio o della mano rende estremamente complicato svolgere attività basilari come vestirsi, nutrirsi e maneggiare oggetti come uno spazzolino da denti o la maniglia della porta.
    La riabilitazione aiuta ma è il percorso non è né breve né semplice.
    Un aiuto, almeno per quanto riguarda gli arti superiori, viene da un prototipo di guanto messo a punto dai ricercatori di Stanford e della Georgia Tech.
    credit: Caitlyn Seim via stanford.edu (video --> youtube)

    Il guanto ha il fine di stimolare la mano (i muscoli di controllo) mediante vibrazioni opportunamente dirette. L'idea è di un guanto indossabile per alcune ore ogni giorno in contemporanea alle normali attività del soggetto come andare al supermercato o leggere un libro.
    Una volta completati i test di affidabilità si inizieranno i test clinici per verificarne la capacità terapeutica e ottenere così l'autorizzazione all'ingresso sul mercato come dispositivo medico.

    ***

    Sempre in tema di guanti con funzioni riabilitative, va segnalato quello sviluppato dai ricercatori della Purdue University. Si differenzia dal precedente perché progettato per facilitare l'utilizzo dei portatori di protesi fornendo un combinato di sensori nel guanto e di un rilevatore da polso. 
    video --> youtube (credit: Purdue University)




    Un robot filiforme per muoversi nei punti più tortuosi (vasi sanguigni compresi)

    Le prospettive aperte dalla micro-robotica (in attesa dei --> nanobot) sono enormi, con applicazioni che vanno dal monitoraggio ambientale (specie nella sensoristica) all'impiantistica fino alle applicazioni in ambito medico.
    A quest'ultimo campo appartiene un robot filiforme capace di percorrere i piccoli vasi sanguigni (vene e arterie sono "facili" in questo senso) ideale per quelli dal percorso irregolare. Il prototipo è stato realizzato al Massachusetts Institute of Technology.

    Il robo-filo in azione in un test in laboratorio su canali artificiali con tortuosità.
    Se non vedi la GIF --> qui (credit: Kim et al.)
    Non si tratta invero di una assoluta novità nel campo ma di un miglioramento (sia dimensionale che funzionale) rispetto a quelli sperimentati in ambito cardiaco, poco adatti per l'accesso ai vasi dall'andamento più tortuoso.

    I nuovi robot filiformi sono morbidi, larghi meno di 1 millimetro, rivestiti con un gel lubrificante ricco di acque e il loro movimento è controllabile, grazie a microscopiche particelle magnetiche, da magneti esterni, inoffensivi e impercettibili per il paziente. 

    Se non vedi il video --> youtube/MIT

    Questi mini-robot possono navigare senza intoppi in canali artificiali dall'andamento tortuoso, creati per ricreare il percorso dei vasi sanguigni nel cervello umano.


    Per altri articoli sul tema bio-robotica vi rimando ai precedenti articoli sul tema (--> robotica) dove sono trattati prodotti come i plantoidi, le robo-api e molto altro.

     Fonte
    - Ferromagnetic soft continuum robots
    Yoonho Kim et al., Science Robotics  28 Aug 2019:Vol. 4, Issue 33

    - Robotic thread is designed to slip through the brain’s blood vessels
    MIT / news




    ***

    Se siete geek quel tanto che basta per apprezzare l'assemblaggio e controllo di robot ad uso casalingo allora non posso non consigliarvi il nuovo prodotto della DJI, il RoboMaster S1. Programmabile sia con Python che con Scratch è un vero e proprio prodotto educational. Non è economico ma in fondo non costa poi tanto di più di un mini drone che ha però lo svantaggio di essere utilizzabile solo in certi luoghi e che di assemblabile/programmabile/espandibile ha poco.
    All credit to DJI.com/it

    Al momento non è in vendita su Amazon Italia ma solo Amazon.com


    Maggiori informazioni sul sito della DJI Italia --> DJI - Robomaster S1





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