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Ecco come le cellule NK riconoscono le cellule infettate da SARS-CoV-2

Il sistema immunitario consta di due linee di difesa (escludendo le barriere fisiche, come l’epitelio e le secrezioni protettive, tipo il muco): difese innate e difese acquisite
Al primo tipo appartengono macrofagi, granulociti, cellule Natural Killer (NK) e sistema del complemento, mentre al secondo i linfociti. 
La principale differenza tra i due è che le difese innate possono essere paragonate a pattuglie che (a seconda del tipo) colpiscono tutto ciò che non ha un lasciapassare idoneo e/o chi mostra “segnali” riconosciuti in modo automatico come “nemico”, tipo particolari combinazioni di saccaridi tipici di molti batteri. 
Cellula Natural Killer (credit: NIAID)
Cito solo per completezza la linea di difesa interna alle cellule che riconosce DNA o RNA "alieni" (virali) che porta alla duplice attivazione di un segnale di allarme per le cellule vicine (interferone) e il suicidio della cellula stessa. Si tratta di difese molto antiche che funzionano egregiamente per scovare e annientare in poco tempo gli intrusi. Per ulteriori dettagli vi rimando ad una review di qualche anno fa.
Al contrario la difesa acquisita (alias immunità adattativa) necessita di un "incontro con il nemico" in quanto si fonda sulla cattura da parte delle cellule spazzino del potenziale intruso e la presentazione dell’identikit dello stesso nella “nursery” dei linfociti, selezionando le cellule che hanno prodotto (per puro caso durante il riarrangiamento dei geni codificanti le immunoglobuline) una immunoglobulina adatta al bersaglio. Questa difesa è molto più efficente ma richiede 3 settimane per raggiungere il picco di risposta. 

Tra le cellule alla base della risposta innata, le NK sono le più interessanti (e anche meno comprese) in quanto importanti anche nel monitoraggio ed eradicazione (e in futuro nella terapia) delle cellule tumorali che spontaneamente compaiono durante la vita.
Immagine al microscopio (falsi colori) che mostra il riconoscimento e attacco delle NK di una cellula tumorale (image credit: dana-farber.org)
L'attività di controllo delle NK è stata anche associata alla protezione di primo livello contro l’infezione da Sars-CoV-2 mediante la distruzione delle cellule infettate; un processo importante perché dà il tempo all’organismo di montare difese (adattative) adeguate. Mancavano però ad oggi i dettagli su come facessero le NK a capire se e quale cellula fosse infettata (tra l’altro da un virus nuovo, sebbene membro di una classe, coronavirus, con cui conviviamo da sempre).
Le NK vivono in un equilibrio dinamico che previene la loro attivazione (attacco), grazie al bilanciamento tra i segnali inibitori delle nostre cellule (“qui tutto a posto. Non sono un estraneo”) e attivatori ("qui c'è qualcosa di strano") da cui dipende se la NK attaccherà o meno la cellula incontrata nel suo giro di pattuglia.
In breve, i ricercatori hanno identificato un peptide virale, esposto sulla superficie delle cellule infettate grazie alla proteina HLA-E (proteina della famiglia MHC importante per la regolazione del sistema immunitario), che viene riconosciuto dal recettore NKG2A presente sulle NK. Una volta avvenuto il riconoscimento, l'equilibrio si sposta su "attacco", ignorando i segnali di “tutto ok”; in pratica è come una macchina sempre accesa con il freno a mano tirato a cui viene tolto il freno. Il coinvolgimento del recettore NKG2A viene da studi precedenti che avevano mostrato come in alcuni casi il virus riuscisse a sfuggire al controllo impedendo l'attivazione del recettore sulle NK.
credit: Quirin Hammer et al 
Qualche parola in più sullo studio, diviso in una prima fase in cui l’ipotesi “esiste un frammento virale riconosciuto da un recettore” è stata testata al computer e la successiva conferma in laboratorio.
I test in vivo si sono basati sull’infezione di cellule polmonari umane con il virus, poi “esposte” a cellule NK dotate o meno di NKG2A (knock-out funzionale). I risultati hanno dimostrato la centralità del recettore nel processo di riconoscimento della HLA-E che "presenta" un peptide non-self.

I ricercatori sono ora impegnati nell’analisi di campioni di sangue (ottenuti dalla biobanca dell'ospedale) di oltre 300 persone curate per COVID-19 durante la prima ondata della pandemia. Lo scopo è vedere se le caratteristiche delle NK presenti nei pazienti correlavano con la gravità dei sintomi.

In futuro questa conoscenza potrebbe essere utile durante la fase di monitoraggio di nuove varianti di virus per prevedere se e quanto la nuova variante verrà riconosciuta (quindi neutralizzata) dal sistema immunitario innato.


Fonte
- SARS-CoV-2 Nsp13 encodes for an HLA-E-stabilizing peptide that abrogates inhibition of NKG2A-expressing NK cells
Quirin Hammer et al, (2022) Cell Reports







Il pianeta con nuvole di ferro e pioggia di titanio

Torniamo sul tema “pianeti bizzarri” con un nuovo studio pubblicato su Nature Astronomy in cui si descrivono per la prima volta le caratteristiche atmosferiche di un “hot jupiter” che orbita talmente vicino alla propria stella da essere in rotazione sincrona (tidal locking).
Immagine artistica di WASP-121b. Credit: T. Mikal Evans

Questa classe di pianeti è stata per lungo tempo dominante nei cataloghi degli esopianeti (in antitesi alla tipologia di pianeti nel nostro sistema solare) per ragioni tecniche legate alla modalità di rilevazione di pianeti distanti  da decine a migliaia di anni luce da noi. Più un corpo è dimensionalmente grande e più vicino alla stella e tanto più facile rilevarlo con sistemi quale il metodo dei dei transiti. Un corpo terrestre siti nella zona abitabile dell’orbita necessita di tecniche più complesse (e tempi di indagine lunghi ... dato il maggior tempo di rivoluzione) … che spiega la loro rarità nei cataloghi.
(Vedi la ➡️ postilla metodologica per una descrizione sommaria dei metodi oggi in uso, tra cui quello dei transiti).
Lo studio in questione, condotto da ricercatori del MIT, ha analizzato l’atmosfera di WASP-121b, un gigante gassoso distante 850 anni luce, grande 1,8 volte Giove e con un tempo orbitale di sole 30 ore attorno ad una stella simile al Sole (per capire quanto sia vicino considerate che l’anno di mercurio è di 88 giorni). Non solo incredibilmente vicino ma anche tidally locked, cioè che mostra sempre la stessa faccia alla stella; un lato arroventato in eterno e l'altro esposto al buio spaziale.
Questa classe di pianeti è da sempre oggetto di studi data la estrema luminosità del lato illuminato. Tutt’altro discorso il lato oscuro la cui comprensione è però fondamentale per comprendere la dinamica atmosferica, tanto più essendo un pianeta gassoso.

I ricercatori hanno usato il tracciamento dell’acqua nell’atmosfera alle diverse altitudini per ottenere una mappa della circolazione dei venti tra lato chiaro e lato buio. 

Mentre sulla Terra, il ciclo dell'acqua è, per dirla facile, “evaporazione-condensazione-nuvole-pioggia” su WASP-121b è tutto molto più dinamico. Sul lato diurno, la molecola dell’acqua viene spezzettata in idrogeno e ossigeno (avviene a temperature superiori a 3.000 kelvin) che poi vengono spinti dai venti verso il lato notturno dove la minore temperatura consente a questi di ricombinarsi in molecole d'acqua; molecole che, una volta raggiunto nuovamente il lato illuminato, danno inizio ad un nuovo ciclo.
Nota. I venti locali sono nell’ordine di circa 11 mila km/h.
L’analisi è stata effettuata mediante l’analisi delle linee spettrali corrispondenti al vapor acqueo. Da qui l’informazione che il lato diurno ha temperature tra 2.500 kelvin nel suo strato più profondo osservabile, a 3.500 K nei suoi strati più alti. Il lato notturno mostra invece un fenomeno di inversione termica con 1.800 K nel suo strato più profondo, e 1.500 K nelle zone esterne (qui la definizione di “freddo” è molto relativa…). La mappa ottenuta ha permesso così di ottenere un modello atmosferico finora mancante.

Le molecole d’acqua non sole le sole ad essere in perenne movimento. I dati ottenuti indicano che il lato notturno è abbastanza freddo da ospitare nubi esotiche fatte di ferro, titanio e corindone, un minerale che annovera tra le sue varianti rubini e zaffiri. Quando queste nuvole raggiungono il lato diurno, le alte temperature vaporizzano i metalli endendo molto probabile lungo il percorso fenomeni molto esotici come una pioggia di gemme liquide.

Fonte
- Diurnal variations in the stratosphere of the ultrahot giant exoplanet WASP-121b
Thomas Mikal-Evans et al, 21 February 2022, Nature Astronomy.



Marte. Un destino senz'acqua scritto nel suo "DNA"

Aggiornato 19/2/2022

Fin dagli albori delle osservazioni "ravvicinate" di Marte con i primi telescopi, l'essere umano ha cominciato a fantasticare sulla presenza di acqua nel pianeta arrivando a "vedere" (con Schiapparelli) una vera e propria rete di canali che ne solcavano la superficie. Un errore "umano" dovuto alla scarsa risoluzione degli strumenti e al "volere vedere" i canali (vedi in tal senso l'articolo sulla pareidolia e la nota a fondo pagina).

Esemplare in tal senso il paragone tra le immagini prese dalla sonda Viking 1 che "mostrava" un monte con una faccia (zona di Cydonia Mense) e la stessa area vista infine dal Mars Global Surveyor's (per maggiori dettagli vedi il sito della NASA). 

Con il progresso tecnologico sono iniziate le vere e proprie missioni in loco, prima con lo sguardo dall'alto (le sonde Mariner degli anni '70) e infine con una pattuglia di rover che scandagliano la superficie marziana da una decina di anni (vedi l'articolo sul rover Opportunity). Nel frattempo si sono accumulate le conoscenze sulla geologia e la struttura interna di Marte, una massa di informazioni che ha permesso di teorizzare nel passato del pianeta la presenza di ampi oceani che ricoprivano in buona parte l'emisfero settentrionale; oggi l'acqua permane nelle calotte polari e si evince in altre aree dalla comparsa di canaloni stagionali.

I canali stagionali di Marte. L'immagine è una GIF per cui dovreste vederla "animata". In caso di problemi cliccate sul link originale --> qui (credit: NASA/JPL/Caltech)

Si è però anche avuta la conferma che il pianeta aveva perso il suo campo magnetico (troppo piccolo per mantenere un nucleo "attivo" come lo hanno Terra e Venere) e con esso lo schermo dai venti solari che, inesorabili, hanno spazzato con il tempo gran parte dell'atmosfera, favorendo così anche l'evaporazione dell'acqua. Sebbene pertinente questa considerazione ha un punto debole che viene da Venere; il pianeta pur non avendo un campo magnetico ed esposto ad un vento solare nettamente più forte di quello che colpisce Marte, è dotata di una atmosfera molto densa. Questo dato implica che la magnetosfera è solo uno degli elementi che determina il destino dell'atmosfera planetaria (gli studiosi quantificano l'effetto in un 30%). 

Uno studio pubblicato nel 2022 che descrivo alla fine dell'articolo fornisce una spiegazione sul perché il moto convettivo si sia spento e con esso il campo magnetico.

Vedi in merito l'articolo precedente sulla relazione massa planetaria e capacità di trattenere gas atmosferici e in rete la descrizione della Jeans escape e un bel sito con un poco di matematica facile attinente all'atmospheric leakage.

Il tassello (definitivo?) sulla ineluttabile aridità del pianeta (predestinato dalla nascita pur in presenza di una "infanzia" acquatica) viene da uno studio di qualche anno fa che indicava nella geologia del pianeta, nello specifico nei basalti, il vero vulnus causale della scomparsa degli oceani.

Affrontiamo il problema acqua in modo pragmatico, con una domanda semplice: dove è finita l'acqua?
La prima teoria formulata (vedi sopra) è che questa sia andata persa nello spazio quando i cambiamenti nelle profondità interne di Marte causarono il collasso del suo campo magnetico. Ciò permise alle particelle ad alta energia e ai campi magnetici del vento solare di colpire, spazzandola, l'alta atmosfera del pianeta; con il crollo della pressione atmosferica (oggi poco meno dell'1% di quella terrestre) anche il "pesante" vapore acqueo si sarebbe perso con il tempo. Questa teoria ha solide fondamenta teoriche ma anche un punto debole: nell'infanzia marziana, si stima fossero presenti tra 20 e 200 milioni di chilometri cubi di acqua, il 10% degli oceani terrestri attuali (1,3 miliardi di chilometri cubi) ma pur sempre un volume importante, soprattutto data la minore dimensione del pianeta.


Video della NASA in cui si ricostruiscono gli antichi oceani marziani (--> video nella forma estesa)

Cominciamo a semplificare il problema con un assunto semplice. L'acqua scomparsa può avere preso solo due direzioni: su (verso lo spazio) o giù (nel sottosuolo).

I dati ottenuti dal MAVEN - Mars Atmosphere and Volatile Evolution (missione di esplorazione spaziale della NASA, parte del Programma Mars Scout, con satellite in orbita dal 2014) indicano che la velocità di evaporazione verso lo spazio non si accorda alle tracce geologiche (ad esempio nell'erosione) che indicano una perdita molto più veloce. Deve quindi esserci stato un contributo complementare, decisivo per la scomparsa dell'acqua. 

Sebbene alcune teorie ipotizzino che gran parte dell'acqua mancante sia intrappolata nel permafrost del suolo marziano (secondo alcuni ci sarebbero laghi sotto le calotte polari), una teoria proposta nel 2017 in un articolo pubblicato sulla rivista Nature, prevede che gli oceani siano stati letteralmente "succhiati" verso l'interno dalla particolare chimica dei basalti posti sul fondale oceanico.

La chiave di volta per comprendere questa teoria è nella composizione del mantello del pianeta (da cui origina il magma), ricco di ferro. Quando Marte era ancora vulcanicamente attivo (si ipotizza che l'ultima eruzione sia avvenuta un centinaio di milioni di anni fa) l'incontro tra la lava ricca di ferro e l'acqua superficiale avrebbe favorito alcune reazioni chimiche di per sé non molto diverse da quelle  terrestri. Ma il basalto marziano (dati confermati dai rover che scandagliano la superficie di Marte) avrebbe il doppio del ferro rispetto a quello terrestre con il risultato della formazione di rocce idrate  ricche di ferro. Secondo i calcoli degli autori dello studio, supponendo una certa efficienza nella reazione acqua-rocce, diventa reale la possibilità che un oceano profondo 3 km ricoprente l'intera superficie marziana (ipotesi estrema visto che ricopriva solo una parte) possa essere  stato "catturato" dalle rocce basaltiche, nei tempi previsti.

Con il tempo le colate laviche avrebbero seppellito le precedenti, spostandole sempre più verso l'interno dove sarebbero state nuovamente fuse. Un processo simile a quello che avviene sulla Terra ma con una differenza. Mentre da noi questa nuova amalgama genera magma arricchito di acqua che dalla litosfera torna verso la superficie, la diversa chimica delle rocce marziane avrebbe favorito il processo inverso cioè un ulteriore perfusione dell'acqua verso il basso fino a raggiungere il mantello da cui non poteva più riemergere.
Di conseguenza Marte sarebbe stata condannata fin dalla sua "culla" ad un futuro privo di acqua.

Il risultato sottolinea come la chimica delle rocce abbia ancora più importanza del previsto. Sono sufficienti piccole variazioni (su scala planetaria), come la quantità di ferro, perché si abbia un effetto sproporzionato nel decidere il destino di un pianeta del tipo se la superficie del pianeta potrà trattenere l'acqua per un periodo di tempo sufficiente al "tiro di dadi" che prima attiva la scintilla biotica e poi consente lo sviluppo di organismi pluricellulari.

L'interno di Marte in un 1' (video credit: NASA/JPL)

La scoperta non ha solo valenza per la comprensione dell'evoluzione del nostro vicino planetario ma fornisce informazioni utili allo studio degli esopianeti, in particolare nella predizione di quali siano i candidati migliori per ospitare la vita. Non basta trovarne uno alla giusta distanza dalla giusta stella, delle giuste dimensioni e atmosfera, e con tettonica attiva. Deve avere una composizione particolare del mantello affinché sia capace di mantenere per un tempo "sufficiente alla vita" le risorse chimiche (acqua, etc) presenti sulla superficie.

Ultima in ordine di tempo la recentissima osservazione (articolo pubblicato su Science 2 settimane fa) in cui i ricercatori evidenziano come un ulteriore contributo alla perdita di acqua (tuttora in atto) viene dalle stagionali tempeste di sabbia, talmente estese ed impetuose che possono trasportare le polveri fino a 100 km di altezza e con essa il vapor acqueo, facilitando così la sua perdita nello spazio (vedi "Martian dust storms parch the planet by driving water into space"). 


Perché Marte perse il suo campo magnetico
Un recente studio pubblicato su Nature Communications ("Stratification in planetary cores by liquid immiscibility in Fe-S-H") cerca di rispondere a questa domanda.
Partiamo dalla Terra dove il campo magnetico è dovuto alle correnti convettive dovuto ad un nucleo interno  composto da una zona "solida" e da una parte più esterna liquida a cui la trasmissione del calore innesca i movimenti convettivi secondo schemi generati dalla somma di rotazione del pianeta ed effetto Coriolis.
Nota. La magnetosfera terrestre non è in realtà sferica in quanto il vento solare la "modella" dandogli una forma asimmetrica. 
 Image Credit: NASA
Si suppone che sugli altri pianeti la magnetosfera (quando presente) debba avere una origine simile. Nel caso di Marte la comprensione è limitata dall'avere poche informazioni sulla sua composizione interna; i dati ottenuti dall'analisi dei meteoriti suggeriscono che il suo nucleo sia ferro fuso arricchito di zolfo. Dati più recenti ottenuti grazie all'analisi delle onde sismiche marziane rilevate dalla sonda InSIGHT, ci dicono che il nucleo marziano è in realtà più grande e meno denso di quanto finora ipotizzato. Un dato che implica la presenza nel nucleo di elementi leggeri come l'idrogeno.
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 Image Credit: By Andrew Z. Colvin via universetoday.com

Una tale correzione nella composizione ha permesso di rifare esperimenti di simulazione sulla Terra con i quali cercare di capire perché il campo magnetico del pianeta si è spento. Esperimenti necessari perché i precedenti mancavano proprio della presenza dell'idrogeno.
Le teorie sulla genesi planetaria ipotizzano che l'acqua sia stata inglobata in modo analogo sulla Terra e su Marte durante la fase di accrescimento, per cui anche l'idrogeno dovrebbe farne parte. Nonostante la sua importanza teorica, finora il sistema Fe-S-H è stato meno studiato rispetto al sistema Fe-S alle alte pressioni.
I ricercatori hanno preparato un campione di materiale che riproducesse quello che compone il nucleo di Marte (ferro, zolfo e idrogeno) posizionandolo all'interno di un dispositivo noto come Diamond Anvil Cell (DAC). In poche parole il campione in studio viene compresso tra due piccole piastre diamantate (il motivo è che i diamanti resistono a pressioni estreme, simili a quelle che li hanno generati all'interno della Terra.
Il DAC può sottoporre campioni microscopici a pressioni di centinaia di gigapascal, con in più il riscaldamento effettuato da un laser in modo da similare le condizioni del nucleo marziano. In queste condizioni, il campione è stato analizzato ai raggi X e con elettroni per monitorare cosa succedeva al materiale in queste condizioni. Hanno così osservato che il campione Fe-S-H non solo si scioglieva ma cambiava di composizione che determinava la sua immiscibilità. 
Da qui l'idea che l'immiscibilità di Fe-S-H ad alte temperature e pressioni ha svolto un ruolo significativo nella storia planetaria marziana.
Vediamo un poco più in dettaglio che cosa significa. Il Fe-S-H, inizialmente omogeneo, una volta sottoposto alle precedenti condizioni si separa in due liquidi distinti. Uno dei liquidi era ferro arricchito di zolfo mentre l'altro era arricchito di idrogeno. In queste condizioni, nel nucleo marziano il liquido più denso sarebbe rimasto confinato nella parte più profonda, mentre quello leggero verso l'esterno. Questo in condizioni normali avrebbe generato le correnti convettive, ma in questo caso si è dedotto che nel punto di separazione tra i due si è avuta una stratificazione stabile che ha "spento" ogni possibilità di corrente convettiva. Senza convezione anche la magnetosfera viene meno e cascata inizia il fenomeno di perdita atmosferica di cui si è detto in presenza.
 Image Credit: Yokoo et al. 202 via universetoday.com

Si sapeva già che la convezione su Marte era cessata circa 4 miliardi di anni fa; oggi si capisce anche perché e ancora di più che il destino di pianeta "morte" fosse scritto nel suo "DNA" cioè nella sua composizione.


Fonti
- Dust storms on Mars propel water's escape to space
Science (nov. 2020)
- The divergent fates of primitive hydrospheric water on Earth and Mars
Jon Wade et al, Nature volume 552, pages391–394(2017)
- Is Mars still volcanically active? New study says maybe
earthsky.org
- The mystery of Mars’ interior
seis-insight.eu 
- Stratification in planetary cores by liquid immiscibility in Fe-S-H
S. Yokoo et al, Nature Communications 13: 644 (2022)


***

Nota. I canali marziani descritti da Schiapparelli (per come vennero percepiti dal grande pubblico) furono il frutto di un doppia coincidenza. In primis la risoluzione dei telescopi permetteva di avere una vaga idea della superficie del pianeta e questo portò ad errori interpretativi di cui quello mostrato ad inizio pagina è solo un esempio recente. Il cervello riempie le informazioni mancanti in modo che per lui abbia senso (oltre all'articolo sopra citato - C'è chi vede la faccia di Elvis in un toast - ne ho scritto anche in "... chi vede gli occhi su un pallone").

Il secondo errore è da attribuire ad un astronomo americano Percival Lowell, estimatore di Schiapparelli, che tradusse erroneamente la parola "canali" in "channels" (canali artificiali) invece che con "canals" (canali naturali). Basta leggere il commento dell'italiano alle proprie osservazioni per vedere che lui non si riferiva a canali creati dai marziani:
«Piuttosto che veri canali della forma a noi più familiare, dobbiamo immaginarci depressioni del suolo non molto profonde, estese in direzione rettilinea per migliaia di chilometri, sopra larghezza di 100, 200 chilometri od anche più. Io ho già fatto notare altra volta, che, mancando sopra Marte le piogge, questi canali probabilmente costituiscono il meccanismo principale, con cui l'acqua (e con essa la vita organica) può diffondersi sulla superficie asciutta del pianeta»
(Giovanni Schiaparelli, La vita sul pianeta Marte, dal fascicolo n°11 - Anno IV della rivista Natura ed Arte, maggio 1895, cap.I)
La mappa pubblicata da Schiapparelli nel suo articolo del 1888

Vero anche che Schiapparelli non fece molto per smontare le idee di Lowell, tanto che nel 1895 pubblicò l'articolo "la vita su Marte" in cui in modo molto divertente (e sicuramente divertito) racconta di come la struttura deputata all'organizzazione dei canali fa capo al Gran Prefetto dell'Agricoltura che nella stagione dello scioglimento dei ghiacci da l'ordine di aprire le chiuse dei canali. Insomma i marziani come un popolo di idraulici.
Non è un caso se nella sua copia del libro conservata presso l'osservatorio di Brera lui abbia scritto una nota illuminante "semel in anno licet insanire" (una volta all'anno è lecito fare pazzie).




***



Alla ricerca delle basi molecolari del batterio primatista di velocità

Come i batteri, gli archaea si trovano in una vasta gamma di habitat, anche all'interno dei corpi umani (ad esempio intestino), ma a differenza dei batteri non ci sono ad oggi evidenze di un loro coinvolgimento in malattie.
Il termine microbo è quanto di più ampio si possa immaginare e racchiude di fatto tutti i microorganismi unicellulari e non (ad esempio i virus che come scritto in precedenza proprio organismi non sono). Tra questi abbiamo protozoi, funghi e batteri. Anche immaginando di limitarsi ai soli batteri la dicitura è quanto meno generica dato che sono suddivisi in due regni (Archea e Bacteria) tanto diversi tra loro quanto un "batterio" propriamente detto lo è da una cellula eucariote. Maggiori dettagli nel precedente articolo "Alla ricerca di LUCA...",
Gli archaea, noti principalmente per essere presenti in ambienti, che definire estremi è riduttivo (dalle sorgenti bollenti a luoghi iperalcalini, etc), annoverano tra i loro membri anche campioni di velocità, grazie alla dotazione di un filamento a forma di spirale (sul tipo del flagello batterico) chiamato archaellum
L'esemplare di cui si tratta oggi è il Methanocaldococcus villosus, una specie che si trova vicino a vulcani sottomarini al largo dell'Islanda, dove la temperatura dell'acqua può raggiungere circa 80°C, che può nuotare a una velocità pari 500 lunghezze del corpo al secondo. Date le dimensioni di 1 micrometro, questo equivale a 0,5 mm/sec.
Nota. Se pensate che 80 C siano tanti, il vero campione di resistenza è stato trovato a 2500 metri sotto il fondale oceanico, nei pressi di una zona di subduzione. Qui le temperature possono arrivare a 120 C e una pressione di 55 MPa..
M. villosus (credit: microbewiki)

Cosa sarà mai meno di 1mm/sec vi chiederete, ma basta pensare che la velocità di un ghepardo è circa 20 lunghezze del corpo al secondo per estrapolare che se M. villosus avesse le stesse dimensioni si muoverebbe a circa 3 mila chilometri all'ora!

Per comprenderne la "meccanica" è necessario esaminare il suo organo propulsore, l'archaellum. Lo studio più recente risale a poche settimane fa e si è basato sull'analisi al microscopio crioelettronico, la cui capacità di risoluzione è a livello atomico.
Immagine al computer che evidenzia in primo piano (blu e arancione) le due subunità alternate che formano l'archaellum. Sullo sfondo sono invece raffigurate i vari M. villosus.
Image Credit: Università di Exeter

L'archaellum e i flagelli batterici hanno la stessa funzione, far muovere la cellula in un processo che parte dal complesso motorio, dove viene generata la coppia che viene poi trasmessa al filamento. Il filamento batterico del flagello cambia conformazione a causa delle sue subunità costituenti che commutano tra due stati discreti, uno lungo e l'altro corto. Come funzioni l'archaellum è invece poco compreso.
Dallo studio ora pubblicato è emerso che l'elica del M. villosus è il risultato dell'assemblaggio di alcune migliaia di copie di due proteine ​​alternate e non di una, come studi su altri organismi avevano fatto intendere; una architettura (e conseguente assemblaggio) più complessi dell'atteso.
L'archaellum ruota, spinto da un motore intracellulare alimentato ad ATP, che genera la coppia. Per propagare il movimento lungo la sua lunghezza, il filamento passa da un filamento curvo nelle cellule a riposo ad una conformazione a uperelica rotante quando le cellule nuotano. La struttura eteropolimerica ha il vantaggio di una maggiore flessibilità conformazione che rende la trasmissione della coppia più efficiente.

Modificazioni post-traduzionali come la glicosilazione giocano un ruolo chiave nell'assemblaggio e nella motilità del filamento. Si ritiene che la glicosilazione aumenti la resilienza negli habitat acidi, nonché la stabilità termica in modo direttamente proporzionale al grado di glicosilazione. Caratteristiche essenziali queste dato che M. villosus prospera a una temperatura ottimale di 80 °C (l'intervallo di temperature in cui vive oscilla tra 55 e 90 °C) il che suggerisce che questo organismo vari la glicosilazione del filamento prodotto a seconda delle condizioni in cui viene a trovarsi.


Video di qualche anno fa quindi mancante dei dati presentati nello studio appena pubblicato

Lo studio ha sia valenza scientifica nel campo della biologia dei microorganismi che in ambito  tecnologico: in un prossimo futuro si potrebbero infatti progettare dispositivi micro-robotici per la somministrazione di farmaci, il cui motore potrebbe sfruttare quanto appreso dalla ricerca sull'archaellum.


Fonte
An archaellum filament composed of two alternating subunits
Lavinia Gambelli et al, Nature Communications, 7 February 2022




Da chi vede Elvis in una patatina a chi scorge occhi su un pallone

[aggiornato 13-02-22]
Esempio di pareidolia su una roccia delle Coast Mountains (BC, CA)


Tempo fa scrissi sul blog l'articolo "C'è chi vede Elvis in una patatina e chi Gesù in un toast", un titolo curioso molto apprezzato dai lettori (magari rileggetelo prima di andare avanti).

Chi vuole vedere un gigante
nella roccia, lo vedrà.
Lungi dall'essere la descrizione di novelli mistici (in fondo Elvis è considerato un Messia da un folto numero di fan) il tema centrale che si voleva sottolineare era la tendenza del cervello umano ad operare, "catalogando" gli input sensoriali; un processo questo che velocizza enormemente il processamento sensoriale ma che può portare a svarioni percettivi (come appunto la pareidolia).
Nella stragrande maggioranza dei casi questi errori di catalogazione sono immediatamente percepiti come tali dalla nostra attività corticale, che rielabora la precedente  percezione "un drago nel cielo" in "che strana quella nuvola. Sembra quasi un drago".
Le infinite forme assunte dalle nuvole
Ci sono tuttavia molti casi in cui tale "modulazione" non avviene.
Al netto dei casi patologici dove la errata percezione è frutto di allucinazioni visivo-uditive, è sufficiente il retroterra culturale e religioso perché la percezione "distorta" compaia e si auto-rafforzi nelle persone. Pensare in termini "quella nuvola mi sembra un drago e come tale è un segno di sventura" non sarebbe stato insolito per un cristiano del medioevo mentre il suo contemporaneo cinese dell'era Ming, avrebbe pensato all'opposto in un segno benaugurante.
Esempi come questi sono disponibili in infinite varianti a seconda della declinazione culturale del divino nella persona in esame.

Vedere un segno divino, un drago o la propria amata in una nuvola non dipende ovviamente né dalla nuvola né dalla nostra retina ma dal processamento cerebrale post sensoriale, particolarmente importante negli umani grazie alla presenza della neocorteccia.
Un cane non "vede" un fiore o una nuvola, sebbene sia perfettamente in grado di osservarli e metterli a fuoco; si tratta di realtà "viste ma non percepite consciamente" in quanto non appartenenti a cataloghi sensoriali in grado di attivare la loro attenzione. Se non sono "visti" di fatto "non esistono" nel loro mondo percettivo.
Oltre ai casi "faceti" (Elvis) e a quelli "condizionati" dal retroterra culturale, entrambi accomunati dalla "volontà" di vedere forme familiari, ci sono purtroppo situazioni in cui questa percezione anomala è cronica ed è causa del deterioramento della qualità della vita di chi ne soffre. Pensiamo ad esempio a chi soffre di schizofrenia, una patologia che può associarsi ad una visione distorta della realtà percepita con volti minacciosi o "voci" persistenti.
Un particolare caso (sebbene benigno nelle conseguenze) di un corto circuito tra la visione di un volto e il suo riconoscimento è la prosopagnosia, una patologia percettiva di cui soffriva lo stesso Oliver Sacks. Il compianto neurologo scoprì di soffrirne solo in età adulta; si era reso infatti conto che fino ad allora il suo cervello era riuscito ad eludere il problema di associare un volto ad una persona grazie a trucchetti automatici inconsci come la voce, odori, situazioni, etc. Ricordo che la prosopagnosia colpisce unicamente il passaggio tra visione di un volto e il suo riconoscimento; tutto il resto (qualità visiva, riconoscimento ambientale, di oggetti o degli elementi costituenti il volto come naso, occhi,...) è assolutamente normale.
Credit to the original poster
Sono tornato con il pensiero a questi temi dopo avere letto pochi giorni fa un report in cui si descriveva la capacità di modificare sperimentalmente la percezione visiva di un soggetto, grazie alla stimolazione di particolari aree del cervello. L'individuo "stimolato" vedeva comparire "volti" su oggetti inanimati oppure volti reali distorcersi come immagini di un "cartone animato".

L'articolo, pubblicato sulla rivista PNAS da Gerwin Schalk del MIT,  è centrato su test condotti su un giapponese di 26 anni affetto da epilessia refrattaria ai trattamenti farmacologici standard (una malattia che in altri tempi, nemmeno tanto lontani, avrebbero portato all'aura di misticismo o all'accusa di essere indemoniato). Il soggetto, consapevole della malattia e soprattutto della importanza di indagare le aree cerebrali coinvolte per disegnare nuove terapie, accettò di sottoporsi ad un mappaggio dell'attività cerebrale allo scopo di identificare le aree a funzionalità anomala. Durante i test si accorse di avere strane allucinazioni consistenti nella comparsa di parti di un volto su oggetti di uso quotidiano, quali un pallone da calcio o una scatola.
Per descrivere il fenomeno della visione di volti laddove non esistono i ricercatori hanno coniato la parola "facephenes".
Nota. La traduzione in italiano potrebbe essere visusfeni, basata su "visus", per indicare le caratteristiche identificative di un volto, e -feni (da ϕαίνομαι, "sembrare" in greco); allo stesso modo acufene è il termine comunemente usato per indicare false percezioni uditive. Userò per semplicità la versione originale facephene.
Mappare l'attività cerebrale mediante elettrodi (capaci di rilevare e/o di stimolare l'attività neuronale) posizionati sulla cute del cuoio capelluto è pratica comune nel processo di identificazione di anomalie "elettriche" cerebrali. Nel caso in esame i ricercatori decisero di includere nello studio la circonvoluzione fusiforme, e in particolare una sua sotto-regione nota come fusiform face area
Le due FFA negli esseri umani
(credit:CC BY-SA 2.1 jp)
(FFA), che si ritiene svolga un ruolo chiave nella percezione dei volti (ipotesi fondata sia su dati clinici che su studi su primati).

Durante la stimolazione di alcune aree all'interno della FFA sinistra il paziente dichiarò di vedere comparire immagini fugaci di volti (o parti di volti) su oggetti preesistenti, privi per il resto di alcuna caratteristica facilitante l'associazione ad un volto.
Il fenomeno si verificava unicamente quando il paziente fissava attentamente un oggetto; per converso la stimolazione del FFA non era mai in grado di fare comparire un volto dal nulla ma solo sulla "tavolozza" rappresentata da un oggetto.
La trascrizione dei commenti del paziente durante i test condensa bene quando detto ed evidenzia anche l'importanza del retroterra culturale data la sua tendenza ad associare quanto percepito ai fumetti/anime, molto in voga in Giappone
Test 1. Stimolazione quando il soggetto guarda una scatola.
     Paziente: "Non cambia molto. Ma per un istante, all'inizio, ho visto un occhio, un occhio e una bocca un poco aperta. Ho iniziato a pensare che cos'è questa cosa? Subito dopo mi sono accorto che stavo solo guardando una scatola"

Test 2. Stimolazione guardando una palla
     Paziente: "Come posso spiegarlo? ... Proprio come il precedente, vedo un occhio, un occhio e una bocca, di lato".
     Sperimentatore: "Che tipo di espressione aveva?"
    Paziente: "Proprio ora? Qual'è quel personaggio dei cartoni animati? ... Non so quale esattamente ma una sorta di personaggio dei cartoni animati."

Test 3. Stimolazione guardando lo sperimentatore
     Paziente: "la tua espressione facciale è cambiata!"
     Sperimentatore: "in che cosa?"
    Paziente: "qualcosa tra i tuoi occhi e la tua bocca. La la tua faccia mi sembra quella di un personaggio degli anime".
Credit: Schalke et al. (2017) via discovermagazine.com
Ad oggi gli unici dati che avevano fornito informazioni sulla localizzazione dei circuiti neuronali coinvolti nel riconoscimento dei volti erano di tipo clinico, basati sulla correlazione tra presenza di aree lesionate (a causa di traumi o patologie) e sintomatologia. I dati attuali sono importanti in quanto indicano in modo diretto che non solo la FFA è importante ma che è di per sé sufficiente ad evocare la percezione di un volto. Si passa dalla nozione che la FFA è necessaria a quella che è sufficiente perché la percezione di un volto avvenga.
Quindi il nesso causale sulla FFA sede del processo (e non un punto di passaggio) ne esce rafforzato.
Certamente si tratta di uno studio estremamente limitato che dovrà essere ripetuto includendo volontari sani.

Ci sono però da considerare alcuni dettagli.
  • Uno studio precedente del 2012 (Parvizi et al.) è solo parzialmente in accordo con quanto ora osservato; si menzionava infatti l'effetto sulla percezione dei volti dopo la stimolazione del FFA mentre non si faceva alcuna menzione del fenomeno facephenes. La discrepanza potrebbe essere di natura procedurale (posizionamento elettrodi non identico) o potrebbe fare pensare che solo alcuni soggetti sono predisposti alle facephenes.
  • Dalla lettura dell'articolo mi rimane il dubbio se il paziente vede il facephene "dentro" gli oggetti (che diventerebbero quindi oggetti con facce) oppure "sopra" gli oggetti. La descrizione vaga riportata dai pazienti non aiuta anche perché potrebbe esserci un problema di traduzione. Ovviamente il paziente parla con il medico in giapponese e le sue parole sono poi tradotte in inglese. Nell'espressione originale potrebbero esserci sfumature semantiche poi perse con una traduzione da parte del medico poco accurata.

*** Aggiornamento febbraio 2022 ***
Strano ma vero.
Uno studio recente ha mostrato che c'è una tendenza marcata (indipendentemente dal sesso dell'osservatore) a vedere facce maschili negli oggetti

Lo studio, apparso su PNAS e condotto da un team australiano, ha analizzato come le facce (di per sé totalmente neutre in quanto non create appositamente) possano veicolare sensazioni emotive e perfino "anagrafiche" (età, sesso e status) di ciò che viene visto.
L'esperimento, condotto online, ha coinvolto 3815 persone a cui sono state mostrate 200 foto di oggetti capaci di innescare la pareidolia. Ai partecipanti è stato chiesto di assegnare alle immagini una valutazione da 0 a 10 circa la presenza di un volto e altri parametri come la presenza di emozione sul volto, l'età percepita e il sesso (maschio, femmina o neutro).
Nella maggior parte dei casi i volti sono stati percepiti come giovanili (bambini o al più adolescenti) mentre la parte "emotiva" è stata più variegata con il 34% delle immagini percepite come felici, il 19% sorprese, il 19% neutre e il 14% arrabbiate. Percentuali inferiori indicavano nei volti segni di tristezza, paura o disgusto.
Ma il risultato che che ha catturato l'attenzione dei ricercatori è stato che la massiccia associazione (90%) dei volti con il genere maschile (9% femminile e 1% neutra).
 (Image credit: Wardle et al., PNAS, 2022)


I pregiudizi percettivi sono in verità molto comuni e sono il risultato di come il cervello processa le informazioni, usando scorciatoie per minimizzare e velocizzare l'analisi. Ma se la percezione "analitica" del messaggio veicolato dal volto è facilmente spiegabile, non così facile era spiegare la netta mascolinizzazione dei volti fittizi.
Per capirlo sono stati fatti vari test. In primis si è verificato se il pregiudizio fosse causato da associazioni semantiche di genere, dovute ai nomi degli oggetti o agli oggetti stessi che sembravano visivamente maschili. In seconda battuta sono state riproposte le immagini, ma in scala di grigi, per vedere se erano i colori a veicolare "il genere".
Risposta negativa in entrambi i casi.
Passo successivo la creazione di volti "morfizzati" al computer in modo ambiguo per verificare se la risposta dei partecipanti rimaneva sempre spostata sul genere maschile (a denotare un bias innato). Nemmeno questo era il caso come dimostra la leggera preponderanza di volti percepiti come femminili. 
Infine si passati alla analisi al computer per verificare se la percezione maschile fosse guidata dalla preponderanza di negli oggetti di tratti "spigolosi" invece che smussati. Niente anche qui, sebbene le caratteristiche visive potevano spiegare parte della variabilità nelle risposte (ma non un "voto bulgaro" come il 90% di cui sopra).
Risultato è che ad oggi manca una chiara spiegazione del bias maschile. Rimane, in verità, una possibilità, cioè che derivi da un'origine concettuale o linguistica. La risposta non potrà che venire dall'analisi comparata di test fatti su campioni non anglofoni, la cui lingua sia priva ricca di connotati neutri nella descrizione degli oggetti


Articoli precedentemente apparsi sul blog e attinenti al tema qui trattato:
--> "200 neuroni sono sufficienti per identificare un volto"
--> "Identificata area del cervello che riconosce i bordi
--> "13 msec per catturare un immagine").
 --> "Vedere agli infrarossi


Fonte
-  Facephenes and rainbows: Causal evidence for functional and anatomical specificity of face and color processing in the human brain.
Schalk G. et al, Proc Natl Acad Sci U S A. 2017 Nov 14;114(46):12285-12290

- Electrical stimulation of human fusiform face-selective regions distorts face perception
Parvizi J. et al, J Neurosci. 2012 Oct 24; 32(43): 14915–14920

- Schalk's Lab

- Illusory faces are more likely to be perceived as male than female
Wardle et al., PNAS, 2022

Le aurore su altri pianeti

Non è necessario essere andati oltre il circolo polare per conoscere lo spettacolo delle aurore boreali, il risultato dello “scontro” tra le particelle cariche del vento solare e lo scudo magnetico terrestre.
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credit:time.com
Per essere più precisi, il campo magnetico del nostro pianeta deflette queste particelle ad alta energia facendole “scivolare” oltre la Terra; a cascata si genera un fenomeno noto come riconnessione magnetica che fa sì che il plasma del vento solare penetri dentro la magnetosfera, interagendo con la parte più dell’alta dell’atmosfera terrestre (ionosfera) a cui cede protoni ed elettroni. Gli atomi atmosferici si eccitano e da qui originano le luci multicolori tipiche delle aurore.
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Ne consegue che il requisito primario per avere una aurora è avere un campo magnetico per cui Marte, che ne è privo, dovrebbe mancare anche di aurore.
In verità le ricenti osservazioni compiute in loco hanno mostrato la presenza di aurore riconducibili a cause diverse. Marte ha infatti una magnetosfera pur essendo priva di un campo magnetico proprio, essendo questa generata sia dall’interazione del vento solare con quello che rimane dell’atmosfera marziana, che dai minerali magnetici intrappolati nella crosta planetaria le cui particelle cariche non vengono dirottate ai poli come invece avviene sulla Terra. Il risultato sono mini aurore localizzate in specifiche zone magnetiche,
Le immagini catturate dalla sonda degli EAU giunta nell'orbita marziana ad inizio 2021

Nessuna sorpresa invece dai pianeti gassosi del sistema solare, dotati di una campo magnetico imponente seppur di origine diversa da quello terrestre.
Mentre nel caso terrestre l’origine del campo magnetico è da ascriversi al nucleo di ferro e ai moti convettivi che fungono da enorme dinamo, nel caso di Giove e Saturno si ritiene che questi siano causati dall'idrogeno nelle profondità del pianeta che data l'enorme pressione e temperatura si trasforma  in un conduttore elettrico.
Il risultato netto sono imponenti aurore ai poli, la cui intensità ha, come vedremo poi, origina dal materiale perso dalle loro lune. In proposito ci vengono in aiuto due studi appena pubblicati dall'università di Leicester (ma da team di ricerca diversi).

Giove
Le enormi aurore di Giove (mille volte più luminose di quelle della Terra) provengono da una fonte unica: la lava spaziale.
Image credit: NASA, ESA,  J. Nichols/University of Leicester
La luna di Giove Io è il corpo planetario vulcanicamente più attivo del sistema solare, la cui attività non origina dall'interno come sulla Terra ma dalle enormi forze mareali che Giove esercita sulla luna. I suoi oltre 400 vulcani attivi sparano regolarmente lava a decine di miglia di altezza, dove sotto forma di plasma vengono "catturati" dal potente campo magnetico gioviano venendo infine convogliati sui poli del pianeta. Lì, le particelle caricate elettricamente interagiscono con i gas nell'atmosfera per creare l'aurora.
O almeno questa era la teoria accettata da decenni. Il problema arrivò nel 2016 quando l'analisi dei dati della sonda Juno la mise in discussione in quanto non si rilevò traccia di correnti elettriche ai poli.
La teoria ha però ripreso ora il vecchio vigore quando i ricercatori inglesi hanno confrontato i dati sul campo magnetico e le relative correnti ottenuti da Juno con la luminosità delle aurore fatte dal telescopio spaziale Hubble. Dal confronto è emersa la correlazione tra le eruzioni vulcaniche della luna Io, le correnti elettriche nel campo magnetico di Giove e l'intensità delle aurore, dipingendo un quadro più complicato rispetto all'iniziale.
Il campo magnetico di Giove spinge inizialmente il plasma lontano dal pianeta, ma non sufficiente da sfuggire al campo magnetico che infine lo rallenta e lo trascina indietro lungo le linee del campo fino a "precipitarlo" sui poli dove entra in contatto con l'atmosfera superiore del pianeta.
Image credit: Emma Bunce, Stanley Cowley, Jonathan Nichols/Un. Leicester


Saturno
Saturno è l'unico tra i pianeti osservati le cui aurore ricevono un contributo determinante dai venti vorticosi dell'alta atmosfera, oltre che dalla magnetosfera e, come per Giove, dal materiale perso dalle sue lune (Encelado e forse Titano).
Immagine agli infrarossi di Saturno e della aurora. Foto presa dalla sonda Cassini.
Credit: NASA, Cassini, VIMS Team, Un. Arizona, Un. Leicester, JPL, ASI 
Nota. A differenza di Io che emette lava, il materiale espulso da Encelado sotto forma di "geyser" è in gran parte acqua con tracce consistenti di idrogeno, CO2 e metano.
I dati appena pubblicati dai ricercatori inglesi fanno luce non solo sulla genesi delle aurore di Saturno ma rispondono ad un problema nato dalle osservazioni delle sonda Cassini.
Gli strumenti su Cassini tentarono all'epoca di misurare il tempo di rotazione del pianeta gassoso misurando la periodicità delle emissioni nella banda radio prodotte dall'atmosfera. Il problema (e la sorpresa) si manifestò con la scoperta che tali misurazioni differivano sostanzialmente da quelle rilevate due decenni prima dalla sonda Voyager 2, transitata nei pressi del pianeta durante il suo viaggio verso i confini del sistema solare. Escludendo, per ragioni legate alla fisica planetaria, che si trattasse di una vera variazione della velocità di rotazione, bisognava capire il perché di tali differenze che doveva essere specifico di Saturno.
Il primo passo è stato misurare, mediante un telescopio alle Hawaii, le emissioni mensili nell'infrarosso da parte delle zone più esterne dell'atmosfera, mappando così i flussi variabili nella ionosfera. Le mappe sono state poi confrontate con le aurore polari, scoprendo così che una parte significativa di esse sono generate dal "meteo" locale, cioè da direzione e intensità del vento (tra 0,3 e 3 km/s) nell'alta atmosfera. Il meccanismo proposto è che i venti spingono la ionosfera a muoversi in modo altrettanto vorticoso e una volta raggiunta la circostante magnetosfera, guidano le correnti che producono l’aurora.
Un dato che spiega il perché le emissioni radio siano nel caso di Saturno del tutto fuorvianti per il calcolo della durata del "giorno planetario".
Nota. Un metodo affidabile di calcolo è stato sviluppato nel 2019 dai ricercatori della missione Cassini, sfruttando le perturbazioni indotte dalla gravità sul sistema di anelli di Saturno. Un giorno saturano dura 10 ore, 33 minuti e 38 secondi.
La scoperta, che risponde a due domande in un colpo solo, rende anche giustizia ad un nome (aurora boreale) il cui significato originario si era perso con la comprensione di come si formasse sulla Terra.
Il nome infatti era indicativo di "alba del vento del nord" ad indicare la (errata) correlazione con il vento. I dati arrivati da Saturno ci dicono ora che il termine è del tutto coerente almeno su quel pianeta.




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