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Il batterio che deve il suo nome ai Midichlorian di Guerre Stellari

Il batterio ... ispirato a Star Wars
In contemporanea al successo mondiale che sta riscuotendo "Rogue One" come non citare quella che nella saga di "Star Wars" sono il fondamento stesso della "Forza", i midi-chlorians? Qualunque fan ricorderà che questo è il nome della forma di vita microscopica che vive all'interno delle cellule ed è alla base non solo della Forza ma della vita stessa. 
Questa la frase detta da Qui-Gon Jinn ad Anakin Skywalker (cit. "Star Wars - La minaccia fantasma") che descrive la loro funzione:
"Without the midi-chlorians, life could not exist, and we would have no knowledge of the Force. They continually speak to us, telling us the will of the Force. When you learn to quiet your mind, you'll hear them speaking to you."
Biologicamente parlando, un perfetto esempio di endosimbiosi.
Passando dalla finzione filmica alla realtà biologica, si è preso spunto da questi esseri fantasiosi per battezzare una particolare specie di batteri con il nome Midichloria mitochondrii. Il senso di questa scelta apparentemente bizzarra sta nell'importanza di questo organismo, imparentato con gli organismi procarioti che 1,5 miliardi di anni fa furono catturati dalla cellula proto-eucariote e dopo essere scampati alla "digestione" diedero origine ai mitocondri. Un passaggio cruciale per la "nascita" della cellula eucariote che si ripeterà successivamente con l'inglobazione di cianobatteri (batteri fotosintetici) che si trasformeranno nel tempo negli attuali cloroplasti, l'organello essenziale delle cellule vegetali.
(--> teoria endosimbiontica).
I principali eventi di endosimbiosi che hanno reso possibile la vita come la conosciamo sul nostro pianeta




Per ulteriori dettagli sul tema vi rimando all'articolo precedente su questo blog --> "Dalla "Forza" di "Star Wars" l'ispirazione per il nome del batterio Midichloria mitochondrii"


***
Articolo successivo sul tema --> "Loki, Asgard e prima ancora Midichlorian"


E per Natale l'augurio spaziale di Chewbacca

Auguri 
videomontaggio musicale sulle note di Silent Night






Tutti i credit al geniale James Covenant e a HISHE (How It Should Have Ended).
Se non vedete il video cliccate su youtube
(all credits to the original poster- see youtube notes)






L'evoluzione in diretta. I batteri diventano resistenti agli antibiotici ... in meno di 2' (di video!)

Osservare l'evoluzione in diretta è più semplice di quanto crediate e per farlo è sufficiente utilizzare un ceppo di batteri monitorando la comparsa della resistenza ad un dato antibiotico. Nel test non si è usato alcun agente in grado di favorire la comparsa di mutazioni: solo il batterio e "l'ostacolo" alla sua crescita, l'antibiotico.

L'esperimento dovrebbe anche fungere da memento per un utilizzo consapevole degli antibiotici, il cui uso DEVE sempre essere basato su reali necessità e nelle dosi e per la durata previste. Non seguire queste direttive è il modo migliore per favorire la comparsa di ceppi resistenti rendendo così inefficace quello che è il vero "farmaco miracoloso" della medicina moderna che negli ultimi 80 anni ha salvato da morte certa milioni di persone. Una "disattenzione di utilizzo" che stiamo cominciando a pagare.
Nota. Ho parlato in passato delle problematiche connesse alle resistenza agli antibiotici sottolineandone le cause come il loro utilizzo indiscriminato e spesso inutile (come durante le infezioni virali) nell'essere umano, problema aggravato dall'impiego massiccio, ma ahimé necessario, negli allevamenti intensivi. L'effetto evidente di tale abuso lo si ha con la comparsa di ceppi resistenti ad ogni antibiotico oggi disponibile (osservato nel batterio che causa la tubercolosi). Per capire l'impatto nella vita quotidiana immaginate di dovervi sottoporre ad un banalissimo intervento dentistico e di non potere fruire di alcuna efficace profilassi antibatterica. 
Un esempio di test per resistenza agli antibiotici. La patina
visibile sulla piastra sono i batteri, mentre i tondini sono impregnati
con un antibiotico. L'area più chiara intorno ad essi indica assenza
di crescita batterica, quindi sensibilità a quel dato antibiotico. L'estensione
dell'area "libera" da batteri da invece una stima della concentrazione efficace.
Nel video che segue (realizzato nel laboratorio di Roy Kishony ad Harvard) vedrete una mega piastra di coltura per batteri su cui oltre al classico terreno di coltura è stato distribuito un dato antibiotico a concentrazione crescente ("a gradino" e non a gradiente continuo) dai lati verso il centro. Alle due estremità le concentrazioni sono sufficientemente basse da permettere una certa crescita del ceppo di partenza, mentre le parti immediatamente più interne hanno concentrazioni tali da non permettere alcuna crescita.

Una volta fatta la "semina" si osserverà (video accelerato, ricordatevi che in condizioni ottimali il batterio si divide ogni 20') la diffusione verso le aree di terreno "vergini" fino a che il fronte batterico incontra la zona a concentrazione di antibiotico "non permissiva". Dopo qualche "tentennamento" emergeranno ceppi mutanti con maggiore tolleranza per l'antibiotico. L'origine puntiforme dei mutanti (vale a dire da singole cellule) è evidente dal pattern di diffusione del fronte batterico che da continuo assume una forma a gemmazione.
Il processo di crescita, arresto e comparsa di nuovi mutanti si ripete fino a che tutta la piastra è colonizzata dai batteri, anche nelle aree in cui la concentrazione di antibiotico era tale da non permettere alcuna crescita nel ceppo originale.

Video
Clicca QUI (link youtube) se non vedi il video
(credit: Kishony Lab / Harvard University)

Va sottolineato che questa è una semplificazione di quanto avviene in natura in quanto qui si è presa in considerazione unicamente la trasmissione verticale della resistenza (dalle cellule madri alla progenie) che implica l'avvenuta esposizione ad un dato antibiotico e la sopravvivenza del mutante e della sua progenie. In condizioni naturali esiste anche (ed è ben più temibile) la trasmissione orizzontale in cui la resistenza viene trasferita sotto forma di pacchetti genetici a batteri di specie diverse; può quindi diffondersi nell'ambiente e diventare disponibile anche a ceppi batterici che non hanno mai incontrato quel dato antibiotico, divenendo quindi resistenti a priori (basta che <<0,1% della popolazione abbia quel carattere perché il resistente diventi dominante al verificarsi di date condizioni selettive).

Questo insegna che esporre i batteri a concentrazioni di antibiotico inferiori rispetto a quelle raccomandate nel foglietto illustrativo (o per un tempo insufficiente) è il modo migliore per favorire la comparsa di batteri resistenti. Lo stesso discorso si applica all'utilizzo di farmaci antivirali o a quelli antineoplastici, anche questi soggetti ai problemi di resistenza acquisita.

Credo quindi che il video sia una visione utile in quanto troppo spesso si pensa ai farmaci come a pilloline magiche le cui logiche del dosaggio sfuggono ai più ("sto meglio quindi interrompo il trattamento prima del previsto") mentre sono il frutto di studi complessi di farmacocinetica e di farmacodinamica.

Nota. Un esperimento simile ma ben più ambizioso è stato condotto sui topi in libertà. Diverse centinaia di topi sono stati alloggiati in appezzamenti di terreno in Nebraska, delimitati da staccionate invalicabili a loro e ai predatori. Le aree differivano tra loro per la tipologia di terreno (tra cui il colore). Prima dell'introduzione dei topi (prelevati dalle colline circostanti), i terreni sono stati bonificati dai serpenti, per cui l'unico predatore potenziale era il gufo. Con il passare del tempo (l'esperimento è durato circa 5 anni) si è visto un netto cambiamento nel colore del mantello, più chiaro nei terreni chiari, indice di avvenuta selezione a favore dei topi dotati di miglior mimetismo come difesa dai gufi. L'analisi genetica condotta a intervalli di tempo sui topi selezionati, ha identificato la variazione della frequenza di alcuni alleli del gene Agouti (tra i principali responsabili del colore del pelo). --> Articolo su The Atlantic

Dalle api idee su come fare volare i mini-droni in ambienti complessi

Il volo degli insetti è uno dei campi di studio più stimolanti per gli ingegneri che si occupano di robotica, in particolare per coloro che sono impegnati nello sviluppo di mini droni in grado di svolgere volo autonomo in ambienti complicati.
I droni capaci di volo autonomo non sono certo una novità e lo stesso si può dire per quelli modellati sulle caratteristiche degli insetti (--> QUI). Far volare un drone in uno spazio aperto non è oggi cosa tecnologicamente complicata, come dimostra la disponibilità nei negozi di elettronica di droni tascabili. Più complicato è invece progettare qualcosa che sia in grado di muoversi autonomamente e ad una velocità accettabile in ambienti complessi come ad esempio una fitta vegetazione. Capacità questa molto ben sviluppata negli insetti volanti che essendo inoltre piccoli e dotati di un sistema nervoso minimale (rispetto a quello di un qualsiasi vertebrato) e ben studiato, forniscono il modello ideale a cui ispirarsi per creare nuovi sistemi di navigazione nei droni.
Le api sono il modello ideale a cui ispirarsi per un insieme di fattori che vanno dalla loro capacità di orientamento al volo di precisione; sono inoltre tra gli insetti volanti più studiati, secondi solo al moscerino della frutta (alias Drosophila melanogaster e consimili).

Non sorprende quindi che le api robotiche ("robobee") siano "di moda" tra gli studiosi di microrobotica, come quelli che lavorano al prestigioso Harvard Microrobotics Lab. Oggi però i riflettori li puntiamo sulla università svedese di Lund dove si sta lavorando ad un prototipo capace di destreggiarsi autonomamente in ambienti complicati come quelli ricchi di vegetazione. Siamo ancora solo a livello di prototipi ma è interessante vedere il razionale alla base di questo approccio.
Tutto nasce dalla capacità delle api di volare agevolmente attraverso un fitto fogliame, cosa non semplice dati i fattori di confondimento dovuti sia alla presenza di ostacoli che al ben più problematico variare della intensità di luce da punto a punto, causato dall'azione filtrante delle foglie. Una gamma di luminosità che potrebbe mandare nel pallone molti sensori (provate a fare una foto nel sottobosco...) ma che non rappresenta un problema per le api che si spostano da un punto all'altro con deviazioni "plastiche", senza esitazioni e soprattutto senza andare a sbattere.
Il tutto, è bene ricordarlo, è gestito da un sistema nervoso semplificato e da occhi a bassa risoluzione, una dotazione non molto distante (come hardware) da quella implementabile nei moderni droni.
Nota. Nemmeno la risoluzione teorica degli occhi umani è così alta come si potrebbe pensare. Siamo al livello di 1 Mpx anche se noi crediamo di vedere in HD. L'impressione della ricchezza visiva deriva da una serie di caratteristiche funzionali e strutturali che agiscono come una sorta di post-produzione:
  • in primis abbiamo i movimenti saccadici dell'occhio che portano in continuo le diverse porzioni del campo visivo sulla fovea, una minuscola zona della retina dove più alta è la densità di fotorecettori; 
  • in secondo luogo (ma solo come ordine temporale) vi è l'elaborazione corticale del "segnale visivo" che inizia nella corteccia primaria (V1) e da lì lungo le vie dorsali o ventrali e ci permette di ricostruire i dettagli dell'immagine. 
La nostra capacità di evitare ostacoli anche quando non ne siamo consci sfrutta invece una via diretta e più antica (attraverso il cosiddetto cervello rettiliano) in cui il segnale visivo transita per talamo e amigdala (che urla "allarme, allarme") e attiva la risposta motoria nel tronco encefalico. Una volta attivato questo segnale di allarme, l'occhio viene "comandato" a fissare la minaccia e a fuggire o ad affrontarla (questo è il momento  in cui si diventa coscienti del "pericolo" scampato, come ad esempio un serpente). Per altri dettagli --> "Il cervello vede in 13 millisecondi".
Euglossa viridissima
(credit: wikimedia commons)
Il segreto del volo fluido delle api non può ovviamente risiedere in una elaborazione corticale di "minacce" ambientali ma deve per forza di cose essere "automatica" e rapida. 
Il punto centrale sembra risiedere nella loro capacità di elaborare la differenza di luminosità punto per punto permettendo così la rilevazione dei buchi nella vegetazione attraverso cui potere passare senza sfiorarne i bordi.
Se nell'ape comune che predilige prati e fiori questa è una abilità importante, diventa fondamentale nelle api delle orchidee (Euglossa viridissima) che vivono nelle foreste pluviali di Panama.

L'elemento utile per neuroscienziati e progettisti di droni sta proprio nella diversa modalità di elaborazione dei dati visivi tra il cervello di un essere umano e quella di un'ape. Mentre il cervello umano assorbe molte più informazioni di quelle di cui siamo consci, questa la ragione per cui si sono mantenute le vie "subcoscienti di risposta automatica", le api e altri insetti risolvono il problema dell'eccesso di informazioni facendo arrivare al cervello solo una minima parte degli input ambientali, girando tutto il resto nei circuiti periferici dove hanno sede le risposte automatiche. Il risultato è che gli insetti vedono l'ambiente ma non i dettagli e questo è esattamente quello che serve per evitare di andare a sbattere pur mantenendo una velocità adeguata al volo o per sfuggire ai predatori.
In parole semplici le api regolano velocità e l'altezza dal suolo registrando la velocità di avvicinamento dell'ambiente. Quando si trovano in un ambiente complesso la variazione di input si tradurrà in una automatica variazione di velocità e direzione del volo, così da rendere il volo "senza pensieri".

La grande sfida del prossimo futuro sarà sviluppare un sistema di rilevazione e controllo continuo sulla falsariga di quello delle api.
(Su temi analoghi vedi anche --> "Dalle api un sistema di atterraggio per gli aerei").

Di seguito un video sugli studi in atto dall'altra parte dell'oceano, ad Harvard


***

Di fronte al rischio concreto della scomparsa delle api (e a cascata dei problemi catastrofici per l'agricoltura), l'organizzazione Greenpeace ipotizza che uno degli utilizzi pratici di questi minidroni sarà quello di fungere da "impollinatori surrogati".
Video da greenpeace


Articoli su temi correlati in questo blog: "RoboBee. Un insetto robot capace di muoversi sia in aria che in acqua"; "Il robot che copia il movimento dai serpenti"; "Le frontiere della robotica";

Fonti
- Studies of bees can enable drones that “see”
 Lunds Universitets Magasin (2016)

- Insect eyes enable drones to fly independently
 Lunds Universitets Magasin (2016)

- Finding the gap: a brightness-based strategy for guidance in cluttered environments. 
 Baird E, Dacke M. (2016) Proc. R. Soc. B 

Epidemia di morbillo. Gli ultimi dati e le contromisure ovvie ma disattese da troppi

Il motivo della nascita di questo blog era condividere le letture e notizie scientifiche "meno mediatiche" (recuperate da fonti rigorose) sottolineandone la componente di interesse generale per i non addetti ai lavori. Vedersi costretto ogni tanto a tornare su problemi nati dal diffuso atteggiamento antiscientifico (articoli raggruppati sotto il tag "Dimensione X") mi lascia sempre un po' di amaro in bocca. Ma anche questo fa parte dell'importanza della divulgazione scientifica.

Il 2016 sarà ricordato negli USA come un buon anno per la riduzione del numero di casi di morbillo dopo il record negativo del 2014, il top negli ultimi 50 anni da quanto il vaccino fu reso disponibile. 
Questo risultato è stato raggiunto dopo l'allarme dichiarato dallo stato dell'Arizona che a luglio aveva notato un picco di casi facendo presagire una nuova ondata epidemica. La reazione delle autorità sanitarie (dichiarazione dello stato di emergenza sanitario) e la retromarcia dei genitori "dubbiosi" hanno permesso di mettere un freno e oggi il 2016 potrà essere archiviato con un numero di casi tornato ai livelli del 2010.

Gli sforzi delle autorità e dei dipartimenti della salute si sono uniti in una campagna pervasiva volta a dimostrare che le vaccinazioni salvano vite mentre le leggende metropolitane amplificate dai social media e da un costante atteggiamento anti-scientifico non sono una semplice "libertà" ma colpiscono sempre le fasce più deboli della popolazione, i bambini.

Un allarme che avevo rilanciato in un articolo su questo blog a febbraio del 2015 che vi invito a rileggere in quanto sempre più attuale anche in Italia --> "Il ritorno del morbillo. La stupidità si paga". Utile da leggere non per l'allarme in se ma perché ho cercato di spiegare le ragioni "tecniche" alla base dell'epidemia contestualizzandole alle situazioni locali.

I dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO) pur se parziali (mancano ancora quelli americani) dimostra che l'Italia non sta facendo bene e questo non stupisce data la presa di posizione populista di alcuni movimenti politici. Fonte: Measles Surveillance Data (WHO)
Volete fare un regalo ai vostri bambini per Natale? Cominciate ad assicurare loro un futuro senza morbillo (e soprattutto senza le sue complicanze) vaccinandoli. Chi vuole fare il brillante e l'alternativo ha altri mezzi per farlo, di sicuro a minor impatto sulla salute pubblica.
Sono troppo severo? Forse, ma quando uno dedica la propria vita professionale alla scienza diventa poco tollerante a furia di fronteggiare favolette propagandate da chi, nella migliore delle ipotesi, ha una specializzazione in ... scienze politiche (ogni riferimento a personaggi pubblici è assolutamente voluto ...).

Un utile articolo sul problema della falsa informazione centrata sul rischio vaccini è quello pubblicato su EMBO Journal da Katrin Weigmann ---> "An injection of confidence"


Fonti
Arizona now has largest measles outbreak in U.S.
Measles Cases and Outbreaks
Anti-Vaxxers May Have Caused The Largest Measles Outbreak This Year; Health Officials To Declare State Of Emergency


RoboBee. Un insetto robot capace di muoversi sia in aria che in acqua

articolo precedente sul tema robotica --> "copiare il movimento dai serpenti"

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Forse non è il primo nel suo genere ma l'insetto robot sviluppato da Harvard Microrobotics Lab ha la indubbia capacità sia di volare che di nuotare.
Credit: Harvard Univ. (from Wikipedia)
Non si tratta di una trovata pubblicitaria che fa presagire l'uscita dell'ennesimo film di James Bond e dei suoi mirabolanti gadget ma della realizzazione di una vecchia idea risalente al 1939; all'epoca un ingegnere russo propose la realizzazione di un velivolo in grado di funzionare all'occorrenza anche come sottomarino. Non si sa se tale idea fosse il frutto della volontà di compiacere un irascibile (e pericoloso quando arrabbiato) Stalin, me non stupirà scoprire che tutti progetti sviluppati da allora su tale ipotesi abbiano fallito; troppa la complessità connaturata a tale sfida ingegneristica che dovrebbe coniugare la forma necessaria per spostarsi nell'aria (grandi profili alari per assicurarne la portanza) e nell'acqua (superficie ridotta al minimo per ridurre la resistenza).

Dopo quasi 80 anni di prove, oggi gli ingegneri di Harvard hanno cambiato prospettiva (e ridotto le dimensioni del velivolo), prendendo spunto dalla natura e in particolare dalla soluzione usata dalla pulcinella di mare. Questi graziosi uccelli (genere Fratercula appartenenti alla famiglia Alcidae) dai becchi sgargianti rappresentano uno tra i migliori esempi di "veicoli ibridi" naturali, in grado di sfruttare il movimento della ali sia in aria che in acqua. La modalità di propulsione nei due mezzi è simile, mentre quello che varia è la velocità dello sbattere le ali.

RoboBee (ape robot), è un microrobot frutto di tali studi. Grande poco più di una monetina è in grado di librarsi in aria come un insetto, sbattendo le piccole ali 120 volte al secondo ma capace di muoversi anche in acqua. Il passaggio in acqua è il vero momento critico in quanto, date le piccole dimensioni e peso, non sarebbe in grado di rompere la tensione superficiale dell'acqua e rimbalzerebbe come un sasso quando viene lanciato sulla superficie di uno stagno. Per superare l'ostacolo, RoboBee si avvicina alla superficie tenendo un certo angolo e abbassa repentinamente la velocità a 9 battiti al secondo, con il risultato di schiantarsi senza tante cerimonie in acqua e affondare.
Lo spegnimento del movimento alare è necessario a causa delle conseguenze che l'impatto con l'acqua, la cui densità è mille volte maggiore di quella dell'aria, avrebbe sulle piccole ali. Una volta sommerso il mini-robot può riavviarsi e continuare così a muoversi.
 Credit: Harvard University
 se non vedi il video clicca --> youtube

Si tratta chiaramente ancora di un test dato che il prototipo, proprio a causa delle sue piccole dimensioni, necessita di una alimentazione elettrica esterna e che il mezzo in cui viene fatto muovere è acqua deionizzata, per evitare problemi elettrici. Altro limite importante è che non si è ancora stati in grado di fare muovere RoboBee in direzione inversa, cioè dall'acqua verso l'aria proprio per problemi legati alla spinta in uscita cosa che implicherebbe un movimento delle ali eccessivo (e quindi il loro repentino distacco).

Il percorso è ancora lungo ma i primi passi concreti nello sviluppo di questi veicoli è iniziato.
(Articolo successivo sul tema che apparirà in questo blog tra pochi giorni --> "Dallo studio delle api idee per il volo dei mini-droni")

(nel prossimo articolo sul tema si vedrà come sfruttare il sistema di elaborazione visivo delle api per volare in ambienti complessi --> QUI)


Articoli precedenti e correlati su questo blog --> "mini robot volanti"  oppure clicca sul tag --> "robotica"


Fonte
- Dive of the RoboBee
 Harvard School of Engineering and Applied Sciences / news



Dallo studio delle api un sistema di atterraggio per gli aerei, a prova di hacker

La storia dell'innovazione umana è da sempre ispirata all'osservazione della natura, in particolare allo studio del paziente lavoro fatto dalla selezione nel corso di centinaia di milioni di anni per trovare la forma migliore ad una particolare funzione. Dalla prima scintilla catturata dopo un incendio al volo degli uccelli, il sogno umano è sempre stato quello di emulare quello che in natura sembrava essere così semplice. In particolare il sogno di volare è, da che se ne ha memoria storica, la fonte di fascinazione per eccellenza a cui si è abbeverato il genere Homo: dal mito di Icaro agli studi rigorosi ma poco praticabili di Leonardo si è infine arrivati alla pratica con i fratelli Wright che hanno aperto l'era dell'aeronautica moderna.

Ma tanto rimane ancora da imparare sia per quanto riguarda l'aerodinamica che i sistemi di controllo del volo. Un esempio in tal senso viene dallo studio delle api e trova applicazione in un un innovativo sistema di atterraggio completamente indipendente dalla tecnologia attuale, a prova quindi di malfunzionamenti e di hackeraggio dei sistemi.

Atterraggio "previsto" dalle telecamere dell'aereo
Thurrowgood et al)
Il progetto, coordinato da Saul Thurrowgood del Queensland Brain Institute, ha sviluppato un sistema di atterraggio che si differenzia dalle altre tecniche in uso in quanto è indipendente da sensori a raggio laser, radiofari o segnali GPS. Tutti sistemi che possono essere violati dall'esterno, con conseguenze facilmente prevedibili.
Lo spunto è venuto dallo studio della biologia delle api e di come usano la variazione degli input visivi per calibrare la loro discesa. Dati recenti indicano che questi insetti sfruttano non solo la variazione di posizione del punto di riferimento sottostante ma anche la visione stereoscopica per valutare la distanza dal punto scelto (e quindi variare la propria velocità).

Di seguito il video del test con la visione "ad ape" a sinistra e dall'esterno a destra.

Entrambe queste "procedure di navigazione" sono state integrate nel sistema di atterraggio automatico, opportunamente modificate in modo da essere idonee alle caratteristiche di un velivolo ad ala fissa. Integrazione effettuata mediante telecamere montate nella parte anteriore di un aeromobile di prova di piccole dimensioni (due metri di apertura alare).
Il commento degli australiani è finora positivo "l'aereo ha utilizzato i dati provenienti dai suoi occhi (telecamere) per guidare se stesso, percepire l'altitudine, controllare la velocità e spegnersi una volta atterrato".
E' evidente che lo scopo di questo non è quello di sostituire i sistemi (ottimi) in uso ma di integrarli con sistemi di backup indipendenti. Il malfunzionamento (o la manomissione) di uno di questi potrebbe essere così immediatamente scoperto, fornendo al contempo uno strumento di guida "sicuro".
Questo studio si avvale, e la cosa non stupisce, di finanziamenti forniti dal centro studi degli eserciti americano e australiano oltre che dalla Boeing.

(Altri articoli che trattano sulle applicazioni tecnologiche derivate dallo studio delle api -->"Robobee"

 Fonte
- A Biologically Inspired, Vision-based Guidance System for Automatic Landing of a Fixed-wing Aircraft
Saul Thurrowgood et al (2014) Journal of Field Robotics, 31(4) 699–727, July/August 2014

Il robot che copia il movimento dai serpenti

Gli ingegneri della Carnegie Mellon University sono da anni impegnati nello sviluppo di robot in grado di muoversi negli ambienti più complessi. Pensiamo ad esempio alle analisi sottomarine, alla ispezione di miniere a rischio o ancora la penetrazione in edifici crollati alla ricerca di sopravvissuti. La natura è, ancora una volta, la migliore fonte da cui prendere ispirazione per disegnare la struttura e il tipo di movimento adatto per ciascuno di questi fini. Non stupirà allora sapere che i robot umanoidi sono ben poco utili (oltre che estremamente complessi da sviluppare) per scopi pratici e che altre forme come il robot serpente siano ben più idonee agli scopi esplorativi.
Il robot serpente (credit: Carnegie Mellon University)

Costruire in laboratorio un robot versatile nei movimenti come un serpente non è stato ovviamente banale; ma chi se non un vero serpente (in questo caso il serpente a sonagli Sidewinder) poteva fornire le dritte giuste su come muoversi, fare giri veloci e all'occorrenza avvolgersi attorno ad un supporto?
Grazie alla collaborazione con gli scienziati del Georgia Institute of Technology è stato così possibile analizzare nel dettaglio i movimenti dei crotali scoprendo che il complesso movimento di un sidewinder può essere descritto in termini di due moti ondosi - verticali e orizzontali. E' proprio agendo sulla fase e l'ampiezza di queste onde che i serpenti riescono a manovrare agilmente e rapidamente.
Il robot sulla sabbia
Credit: N. Zevallos and C. Gong
"La costruzione (e programmazione) del movimento di questi robot è un lavoro che va avanti da alcuni anni" afferma Howie Choset, responsabile del progetto. "E' stato però solo grazie allo studio dei sidewinders che abbiamo imparato come rendere queste manovre efficienti e 'semplici'. Questo ha reso i nostri robot modulari degli strumenti molto preziosi per le attività di ricerca urbana e soccorso, controllo delle centrali nucleari a rischio e persino in archeologia".
Il lavoro, pubblicato poche settimane fa sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), mostra le potenzialità raggiunte da questo robot (inclusa quella di salire avvolgendosi sul supporto) e completa idealmente i dati presentati su Science lo scorso anno centrati sul movimento "a serpente" sulle dune sabbiose (che in natura richiede l'attivazione di centinaia di muscoli mentre qui è semplificato in una combinazione di onde verticali e orizzontali).


Lo studio del movimento del serpente sulla sabbia

In modo analogo è stato possibile comandare il robot affinché si arrampicasse su oggetti verticali ... come la gamba di questo ricercatore.


Video della presentazione del robot serpente


Alcuni dati sul robot: 5 centimetri di diametro per 40 centimetri di lunghezza; il corpo è costituito da 16 giunti ciascuno dei quali posto perpendicolarmente al precedente, una struttura che consente di assumere diverse configurazioni e di emulare lo spostamento, ben più complesso, del serpente naturale.

Infine, un video riassuntivo delle capacità di questo robot



(Articolo precedente sul tema --> "Le frontiere della robotica")


Prossimo  articolo --> "L'insetto robot capace di passare dal volo al nuoto"

Fonti e link utili
- Sidewinding with minimal slip: Snake and robot ascent of sandy slopes
Hamidreza Marvi et al, Science 10 October 2014: Vol. 346 no. 6206 pp. 224-229

-  Snake robot uncovers secrets to sidewinders' maneuverability
Stamper SA et al, Proc Natl Acad Sci U S A. 2015 May 12;112(19):5870-1
-  Snake Robots! Slithering Machines Could Aid Search-and-Rescue Efforts
livescience.com
- Biorobotics Lab (indice video e foto)
http://biorobotics.ri.cmu.edu/media/index.html

le frontiere della robotica (2)

continua da "Le frontiere della robotica (1)"

(...) Fra i tanti esempi abbiamo robot a forma di pesce o di serpente (a scopo ambientale, sorveglianza o soccorso) oppure piccoli droni ispirati alle api (vedi in prossimo i prossimi articoli).
Le robo-api (robobees in inglese) hanno obiettivi ambiziosi:
  • impollinazione
  • ricerca e soccorso (come strumento di monitoraggio dopo disastri naturali)
  • esplorazione di ambienti pericolosi e/o difficili da raggiungere.
  • sorveglianza militare
  • mappaggio meteorologico e climatico ad alta risoluzione
  • monitoraggio del traffico

Il bello è che non si tratta di progetti ambiziosi orientati ad un lontano futuro, ma sono in fase avanzata di sviluppo o di collaudo.
L'immagine sopra mostra un dettaglio della parte progettuale di una roboape (nome originale RoboBee) i cui primi voli risalgono al 2007, ed il cui progetto è largamente basato sugli sforzi del laboratorio di microrobotica, coordinato dal Robert Wood, ad Harvard
Viene da se che la parte più complessa è quella quella "neurale" per il controllo dei diversi sensori di cui il robo-insetto è dotato.
Non basta. Il progetto è ancora più ambizioso. L'obiettivo finale è quello di emulare il comportamento sofisticato dei veri insetti attraverso l'interazione a scopo comunicativo fra le diverse macchine volanti. Tutto questo mediante l'utilizzo di algoritmi specificamente creati.
Per un tale lavoro ci vogliono le menti migliori e fondi idonei. Non illimitati. Semplicemente disponibili, meritocratici ed ovviamente privati.

Il posto in cui questo progetto sta divenendo realtà è la Harvard’s School of Engineering and Applied Sciences (nel ruolo di coordinatore) in collaborazione con il Department of Organismic and Evolutionary Biology Harvard, la Northeastern University, la Centeye (azienda di microelettronica a Washington, D.C. specializzata in sensori) e per finire ricercatori del Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering (già il nome è una garanzia ...).
Link al sito del laboratorio --> qui.

(nei prossimi giorni seguiranno altri articoli sul tema. Stay tuned!)


Articoli precedenti su temi analoghi che potrebbero interessarvi:
--> "Il DNA origami e i nanorobot"
--> "Bio-robot e chip per la memoria umana ..."
--> "Un articolo su Anirban Bandyopadhyay: nanorobot e cervello"


le frontiere della robotica (1)

(articolo aggiornato in data 13/12/2016)

I ricercatori della University of Pennsylvania hanno sviluppato un sistema che permette a piccole unità robotiche di volare mantenendo una formazione di volo estremamente precisa e, diciamolo, inquietante.
I robot, si sa, sono da sempre oggetti di fascinazione sia per gli aspetti tecnici che per quelli immaginifici. Come non ricordare gli innumerevoli libri e film in cui il robot assurge a ruolo centrale della storia. Se poi il ruolo è inquietante, di ribellione alle direttive umane, tanto meglio, come Blade Runner e Terminator insegnano.
Quindi non stupisce come osservare uno sciame (o meglio una squadriglia) di robot in assetto minaccioso sia più coinvolgente che guardare un robot umanoide in atteggiamenti da maggiordomo.

 Tornando alla notizia di cui sopra, la componentistica necessaria per assemblare robot volanti di tale complessità vede una componente prettamente meccanica ed una di controllo. 


Le parti meccaniche dei robot sono state sviluppati dalla KMel Robotics mentre il sistema di controllo viene da un team di ricercatori del laboratorio "General Robotics, Automation, Sensing, and Perception" della University of Pennsylvania.
vedi il video

Nel frattempo altri team di ricercatori si sbizzarriscono nel processo di sviluppo di robot con sembianze - o più spesso azioni mutuate da - animali per i più diversi scopi

(continua QUI)

Morbo di Parkinson e batteri intestinali. Una "liaison" pericolosa da approfondire

Dal lavoro di un team di ricercatori del Caltech emergono indizi sul potenziale collegamento funzionale tra le caratteristiche della flora batterica intestinale e il rischio di morbo di Parkinson (da qui in avanti userò PD, acronimo anglosassone per Parkinson Disease). In estrema sintesi, i cambiamenti nella composizione della flora batterica sono correlate e precedenti al deterioramento delle capacità motorie, uno dei marcatori diagnostici più precoci della malattia.
Il lavoro è stato pubblicato sul numero di dicembre della prestigiosa rivista Cell dal gruppo coordinato da Sarkis Mazmanian.

Morbo di Parkinson
Le aree più ricche di  neuroni dopaminergici
sono le più danneggiate nel Parkinson
 
Il PD ha una prevalenza nella popolazione italiana sopra i 60 anni poco sotto al 2 % per un totale di 230 mila individui affetti; a livello globale il numero è intorno a 10 milioni con 1 milione solo negli USA (numeri destinati a cresce con l'invecchiamento della popolazione anche in aree finora "risparmiate" ma solo perché l'aspettativa di vita media è inferiore alla età media di esordio del PD). Numeri alla mano il PD è la seconda malattia neurodegenerativa in termini di frequenza e ha un impatto economico e sociale nettamente superiore a quello delle patologie neoplastiche in quanto è una malattia invalidante, non curabile e con lungo decorso (quindi ad alto carico assistenziale). 
Tra le manifestazioni esterne tipiche del PD vi sono tremori e difficoltà a camminare mentre a livello cellulare si possono osservare aggregati proteici ricchi di alfa-sinucleina (αSyn) sia a livello cerebrale che intestinale. Altro marcatore noto è l'aumento a livello cerebrale di proteine pro-infiammatorie (citochine) che a loro volta innescano danni tipici di una infiammazione cronica.
Il 75% delle persone con PD presenta inoltre problemi nella funzionalità gastrointestinale che si palesano principalmente con sintomi di costipazione.

Il morbo e l'intestino
Dati i sintomi è nell'intestino che i  ricercatori sono andati alla ricerca di un qualche fattore "facilitatore" della malattia, trovandolo nella flora intestinale; attenzione però, facilitatore è cosa ben diversa da agente induttore in quanto NON è un evento necessario e sufficiente ad indurre la malattia.
Il microbiota opera per il nostro benessere (se bilanciato)
Come descritto in articoli precedenti l'intestino è sede permanente di una variegata comunità di batteri (quasi sempre benefici e dannosi quando l'equilibrio tra le varie componenti viene meno) noto come microbiota (o microbioma se si usa una prospettiva genetica ---> QUI). Il microbioma ha, oltre ad una funzione ausiliaria nella digestione, un ruolo chiave per lo sviluppo e il funzionamento dei sistemi immunitario e nervoso.
Il primo viene costantemente "tenuto in esercizio" e "modulato" in modo da abituarsi ai batteri "buoni" (essenziali sia da un punto di vista metabolico che come competitori dei ceppi patogeni) e in grado di autoregolarsi evitando così il permanere di stati infiammatori.
Il secondo aspetto è diretta conseguenza del fatto che il 70% di tutti i neuroni del sistema nervoso periferico si trova nell'intestino e che ad esempio la serotonina (uno dei neurotrasmettitori chiave per l'umore) è prodotta per il 90% in questo distretto. Il sistema nervoso dell'intestino è direttamente collegato al sistema nervoso centrale attraverso il nervo vago, il che aiuta a comprendere meglio come la qualità del cibo possa influenzare l'umore e viceversa come l'umore abbia effetti sulla digestione. Non a caso Michael Gershon ha titolato brillantemente il suo libro "Il secondo cervello" per sottolineare la centralità dell'intestino anche nelle funzioni "alte".
Credit: Caltech
La correlazione tra intestino e Parkinson è nota da tempo, sebbene catalogato come epifenomeno, e trova facile riscontro nella comparsa dei problemi gastrointestinali con anni di anticipo rispetto ai sintomi motori. Il dato di per sé non è ovviamente sufficiente per affermare che l'intestino è l'epicentro della malattia ma solo che i primi effetti si manifestano in tale sede forse a causa dell'estesa innervazione dell'area; al massimo una tale evidenza potrebbe rafforzare l'ipotesi ambientale come concausa della malattia, specie nelle forme di PD non familiari (il 90% dei casi sono sporadici, correlabili a mutazioni de novo e/o a cause ambientali).
L'eziologia della malattia è complessa anche nelle forme familiari dove la forma monogenica (un solo gene alterato responsabile) non supera il 30% dei casi ereditari (che ricordo sono il 10% del totale dei casi). Il che pone un problema diagnostico non indifferente nei soggetti sani ma a rischio (per familiarità) dato che il restante 70% delle forme ereditarie sarà per definizione poligenico, vale a dire conseguente alla mutazione o deregolazione di due o più geni (18 sono i geni "parkinsoniani" più comuni). Il problema è ancora più evidente quando non si dispone di biopsie dei genitori deceduti da cui ricavare il profilo genetico a rischio. Oltre alla αSyn i geni più frequentemente alterati nei malati sono PARK2, UCH-L1, LRRK2, PINK1 e DJ-1 (per approfondimenti --> "Genetics of Parkinson’s Disease").
La somma di questi elementi ha innescato nei ricercatori una domanda "semplice" e diretta: esiste un legame tra microbioma e rischio/decorso della malattia?

Lo studio
Per verificare tale ipotesi di lavoro i ricercatori hanno utilizzato un modello animale classico della malattia cioè topi modificati geneticamente che producono alti livelli di αSyn (come negli umani questa alterazione cellulare provoca la deplezione dei neuroni dopaminergici). I topi sono stati separati in due gruppi, di cui uno allevato in ambiente classico di stabulario e l'altro in ambiente asettico, con il risultato che i primi possedevano una normale flora intestinale mentre i secondi ne erano privi. Per il resto la genetica e le condizioni di vita (cibo, attività ludiche sulla ruota, etc) erano identiche. Ad intervalli regolari i topi vennero valutati per le loro abilità motorie di tipo prettamente ludico (test su tapis roulant, discesa e risalita da un palo, camminata su un asse). Ebbene, i topi cresciuti in ambiente asettico (e quindi senza germi intestinali) possedevano abilità motorie significativamente migliori di quelli cresciuti normalmente. Ricordo che i topi di partenza sviluppano nella quasi totalità sintomi parkinsoniani già nelle primissime fasi dell'età adulta, quindi il miglior risultato del primo gruppo indica che il decorso della malattia è stato fortemente rallentato se non bloccato; l'unica differenza tra i due gruppi è il microbioma.
Nessuna differenza è stata invece riscontrata usando topi normali come popolazione di partenza, e questo è il controllo essenziale per definire l'importanza della alterazione in αSyn.

Il nesso causale tra presenza di batteri e predisposizione genetica potrebbe risiedere nel metabolismo delle fibre alimentari su cui la flora intestinale ha una azione determinante (scompone la cellulosa in elementi assorbili dalla mucosa). Tra i prodotti ottenuti dalla digestione delle fibre vi sono gli acidi grassi a catena corta (SCFA), come ad esempio acetato e butirrato, molecole capaci di attivare la risposta immunitaria nel cervello, un'area nota per essere "immunologicamente privilegiata in quanto ad accesso limitato anche per le cellule immunitarie" (una scelta evolutiva proprio per prevenire i danni provocati da una infiammazione anche solo temporanea). La difesa immunitaria del cervello è assicurata da cellule immunitarie locali ((microglia) e da una barriera "impenetrabile" a tossine e patogeni (la barriera ematoencefalica).
I dati raccolti hanno portato Mazmanian ad ipotizzare che fosse lo squilibrio nei livelli di SCFA a favorire la comparsa di uno stato infiammatorio nel cervello e da lì i sintomi motori tipici del PD. A riprova di tale ipotesi se si arricchiva con SCFA il mangime dato ai topi privi di germi, le cellule della microglia si attivavano e dopo alcune settimane comparivano i sintomi parkinsoniani. Nei topi normali (che non esprimono alti livelli di αSyn) l'aggiunta di SCFA nel mangime non provocava invece alcun effetto ad indicare che gli SCFA (e quindi il metabolismo dei batteri) non erano l'agente causale ma una concausa.
In altre parole le cause sono una summa di genetica e "ambiente".
Prove ancora più convincenti di tale correlazione sono venute dalla collaborazione tra il team di Mazmanian con quello di Ali Keshavarzian a Chicago, in cui vennero eseguiti test centrati sul trapianto fecale.
Nota. Già in un precedente articolo avevo accennato a questo approccio "strano" ma molto promettente per la terapia di patologie intestinali croniche come la sindrome del colon irritabile. Si è visto che per compensare squilibri (innati o acquisiti) nella flora intestinale che causano la comparsa di uno stato infiammatorio cronico, è possibile trapiantare la popolazione batterica presente nell'intestino dei soggetti sani in quello dei malati (attraverso un "banale" trasferimento di materia fecale dall'intestino del primo verso i secondi); tale trattamento è sufficiente per eliminare i sintomi più acuti della malattia, altrimenti difficilmente trattabili.
L'esperimento congiunto è consistito nel trasferimento di campioni fecali prelevati da pazienti con malattia di Parkinson (oppure da controlli sani) nell'intestino dei topi privi di germi. Risultato anche qui chiaro: i sintomi del Parkinson comparivano solo nel primo gruppo mentre nessun effetto era evidente se il destinatario del "trapianto" erano i topi normali (senza alterazione in αSyn) o se il materiale fecale proveniva da batteri non parkinsoniani.
Gli indizi raccolti sono forti (e la pubblicazione su Cell lo dimostra) ed indicano che il metabolismo batterico che porta alla produzione di SCFA è capace di indurre l'attivazione immunitaria nel cervello con effetti deleteri in presenza di una genetica predisponente.
Video riassuntivo della scoperta (credit: Caltech)

Le implicazioni di questa scoperta sono notevoli in quanto suggerisce che oltre allo sviluppo di farmaci ad azione cerebrale miranti a rallentare il decorso del Parkinson si apre un nuovo promettente campo di intervento cioè agire sul microbioma intestinale: molto più semplice da raggiungere e da modificare. Tali farmaci potrebbero essere progettati per modulare i livelli di SCFA e/o la composizione dei batteri locali, come fanno i probiotici.
Nota. Ho scritto rallentare e non invertire in quanto i sintomi motori compaiono quando circa l'80% dei neuroni dopaminergici in alcune aree sono morti, quindi quando i danni sono molto estesi
Un approccio particolarmente utile in fase preventiva per i soggetti con storia familiare di Parkinson.

Articoli precedenti sul tema --> "Parkinson"

Fonte
- Gut Microbiota Regulate Motor Deficits and Neuroinflammation in a Model of Parkinson's Disease
Sampson TR et al, Cell (2016)167(6):1469-1480
- Parkinson's Disease Linked to Microbiome
Caltech/news




Qualche scarica ... per ricordare

Il caro vecchio elettroshock a dispetto della pessima fama acquisita negli anni '60 trova nuovi seguaci. Chiariamo NON si tratta di reiterare l'utilizzo di un metodo tristemente noto grazie  alla visione di film come "Qualcuno volò sul nido del Cuculo". Il principio è lo stesso ma le modalità di esecuzione sono ben diverse: sotto anestesia; a minor intensità e con un rigoroso monitoraggio dei parametri fisiologici.
Un approccio concettualmente simile (scariche elettrica per variare l'attività neuronale) è quello basato sull'utilizzo di elettrodi sottilissimi posizionati a diretto contatto con il bersaglio e di un generatore (poco più grande di una scatola di fiammiferi), posizionato esternamente o sottocute, dotato di una ampia autonomia (superiore all'anno e quando necessario ricaricabile mediante trasduzione magnetica).
I risultati ottenuti nel corso degli anni con questi strumenti sono più che lusinghieri e spaziano su diversi fronti: dalla terapia del dolore al Parkinson fino al miglioramento delle capacità mnemoniche (vedi in proposito gli studi di Itzhak Fried del Cognitive Neurophysiology Laboratory presso la UCLA). 
Se nel caso della terapia del dolore la stimolazione è a livello spinale, nel caso si voglia agire sulle funzionalità cognitive il bersaglio sarà ovviamente cerebrale e la tecnica conosciuta come Deep Brain Stimulation. Mediante la somministrazione di scariche elettriche in aree specifiche del cervello si è riusciti a migliorare le performance cognitive in pazienti nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, aprendo così un nuovo percorso per il trattamento sintomatico di patologie neurodegenerative e/o del dolore cronico, attualmente non trattabili.

Maggiori informazioni sull'argomento sono reperibili sul sito della UCLA.

Ti potrebbe anche interessare --> "Bio-robot e chip per la memoria umana".
Articolo successivo sul tema Alzheimer --> "Terapia anti-androgenica e rischio Alzheimer".
Sulla stimolazione transcranica --> "Un approccio neurologico contro l'anoressia"
Possibile leggere il pensiero con la scansione attività cerebrale? --> QUI


 Fonte
-  Memory strengthened by stimulating key site in brain
UCLA/news (2012)
- Deep brain stimulation for enhancement of learning and memory.
Neuroimage. 2014 Jan 15;85 Pt 3:996-1002
-  Trattamenti Chirurgici: la DBS - Deep Brain Stimulation
Parkinson Italia onlus e Istituto Clinico Humanitas

Per chi volesse approfondire l'argomento in modo professionale
L'edizione più "economica" è quella del 2012 --> Deep Brain Stimulation


Suona incredibile ma si potrebbe riuscire a predire il rischio Parkinson ... dall'odore

Un team di ricerca inglese si sta dedicando ad uno studio curioso quanto potenzialmente ad alto impatto terapeutico: scoprire se esiste una impronta digitale "odorosa", generata dalla somma delle molecole secrete dalla cute, nei soggetti in cui il morbo di Parkinson è ancora nella fase asintomatica.
I ricercatori sono partiti dall'ipotesi che le alterazioni sottostanti a tale malattia potrebbero modificare le caratteristiche chimiche del sebo, un liquido oleoso con funzioni protettive per la pelle. Se venisse dimostrata l'esistenza di tale correlazione, il sebo diventerebbe un utile biomarcatore diagnostico, con in più il vantaggio di non necessitare di esami invasivi (e costosi).

L'idea non nasce dalla fantasia di un qualche neurobiologo ma dall'esistenza di una persona dimostratasi capace di identificare le persone affette da Parkinson semplicemente annusandone la t-shirt (--> BBC news).
La donna dall'olfatto diagnostico (Parkinson's UK in Scotland)
Nota. Sebbene esistano alcune patologie notoriamente associate alla presenza di un odore corporeo caratteristico e facilmente percepibile, nella maggior parte dei casi questa associazione, se presente, non è rilevabile da un "naso" medio. Nella popolazione esistono tuttavia individui noti, come "super-percettori" (di odori o sapori), capaci di identificare odori e aromi "invisibili" alla gran parte delle persone. A questa categoria di persone (super-sniffer) appartiene la persona prima citata, una donna scozzese.
Un altro esempio che sostanzia l'esistenza di marcatori odorosi in alcune malattie è la dimostrata capacità di alcune razze di cani di percepire la presenza di neoplasie (o altre alterazioni neuro-vascolari) in individui spesso non consapevoli di esserne affetti.
Lo studio pilota appena iniziato, finanziato dall'ente Parkinson’s UK, verte sull'analisi in singolo cieco di 200 volontari, sia sani che malati. La caratterizzazione del profilo odorifero dei tamponi (lasciati per un certo periodo di tempo in contatto con la pelle dei soggetti) si baserà non solo su tecniche analitiche quale la spettrometria di massa ma anche sulla collaborazione con "detector-umani", cioè individui dotati di capacità olfattive superiori alla media.

Se il progetto avrà successo, questo fornirà un fondamentale supporto allo sviluppo di terapie preventive o contenitive della sintomatologia del Parkinson in quanto potrà essere "disegnata" sulle primissime fasi della malattia quando ancora il danno non è talmente esteso da essere,  funzionalmente, irrimediabile.
(Articolo successivo sullo stessa tema --> QUI)
Un articolo su un tema "più leggero" ma sempre attinente all'olfatto è quello da titolo evocativo "Perché i giapponesi hanno ragione quando dicono che noi puzziamo" (-->QUI). Un esempio di come, a volte, la scienza deve dare ragione a quelli che avremmo definito stereotipi.


Fonte
- Skin odour could lead to early diagnosis of Parkinson’s
The University of Manchester, news


I terremoti non sono eventi rari. La mappa 2001-2015 ci serve come memento

Il video sotto è un memento sul fatto che i terremoti non sono un accidente anomalo per cui si può incolpare la cattiva sorte (o come fece un dirigente del CNR riguardo alle cause come "un castigo divino" ... si avete letto bene, furono proprio queste le sue parole. Guardate l'intervista, qui) ma la normalità sul nostro pianeta.
Anzi è bene ricordare che in assenza dei movimenti tettonici è opinione condivisa che la Terra ben difficilmente avrebbe visto la comparsa (e il mantenimento) della vita.
Solo ricordandoci della instabilità intrinseca della crosta terrestre (e quindi dell'ambiente in cui viviamo) potremo minimizzare molte delle tragedie umane associate a questi fenomeni, costruendo edifici adeguati e colpendo alla radice ogni omissione progettuale.



Crediti per il video a: "Science On a Sphere" del NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) sito ricco di utili informazioni sempre aggiornate

Confrontate gli epicentri dei terremoti con le linee di faglia e avrete una misura spannometrica della probabilità di eventi sismici (o vulcanici nel caso delle linee di subduzione o di emersione)




Anche i topi lo dicono: niente di meglio che vivere in un ambiente stimolante per essere più sani

Mi riaggancio oggi all'argomento pubblicato pochi giorni fa su questo blog (--> "Un batterio contro il PTSD" e in particolare sugli effetti fisici dello stress), per focalizzarmi su una interessante scoperta fatta nei topi riguardo a come sia possibile modulare la capacità di risposta immunitaria semplicemente rendendo l'ambiente più piacevole.

Il lavoro, pubblicato da un gruppo di ricerca della Queen Mary University di Londra, ha dimostrato come la ricchezza esperienzale (mediata dalla "ricchezza" sensoriale dell'ambiente) gioca un ruolo chiave nel migliorare lo stato psicofisico dell'animale, che si rispecchia in una migliorata funzionalità immunitaria. 
In parole semplici, vivere in un ambiente "variegato" rende più forti. Un assunto valido anche e soprattutto per gli esseri umani ma che mancava finora di evidenze a livello cellulare.

Poco si sa di come l'ambiente sia capace di influenzare l'attività del sistema immunitario (esclusa ovviamente la componente prettamente "immunogena") se non che fattori come l'inquinamento e la ipersanitizzazione (insieme allo stato psicologico), sono tutti fattori che agiscono sul rischio di sviluppare malattie autoimmuni.

La ricerca inglese, pubblicata nella rivista "Frontiers of Immunology", ha indagato il rapporto tra "ricchezza sensoriale" dell'ambiente e funzionalità dei linfociti T, le cellule chiave della funzionalità immunitaria (sia normale che patologica).
Allo scopo di dimostrare e quantificare tale effetto si sono suddivisi i topi in due gruppi "esperienziali": il primo gruppo è stato messo a dimora nelle gabbie standard (dotate di segatura, cibo, acqua e tutto il necessario per la costruzione del nido) mentre l'altro ha goduto della versione deluxe della gabbia (più ampia, dotata di trucioli e giocattoli di legno, tra cui un contenitore-nido colorato, un tubo in tessuto e la classica ruota per l'attività fisica). 
La gabbia deluxe piena di attività ludiche e stimoli visivi (credit: qmul.ac.uk)

Dopo solo due settimane di permanenza nell'ambiente deluxe il sistema immunitario dei topi ha risposto ai test di efficienza in modo nettamente superiore rispetto ai controlli, con in più un netto decremento di eventuali stati infiammatori presenti in partenza. In un certo senso è come se i topi avessero fatto le vacanze in un resort all-inclusive, ivi comprese attività ludiche e stimoli sensoriali "nuovi".

Senza entrare troppo nel dettaglio delle procedure sperimentali, basta sapere che alla fine del condizionamento, si è proceduto alla purificazione dei linfociti T, poi esposti ad agenti in grado di mimare una infezione. Una volta attivata la risposta si è analizzato il profilo delle proteine immunitarie rilasciate (note come interleuchine, abbreviate in IL seguite dal numero) e al confronto quali-quantitativo con i controlli. E' emerso così che le cellule dei topi del "resort" avevano un profilo di espressione genico assolutamente unico definito da circa 56 geni espressi in modo "gruppo-specifico" e maggiori livelli di produzione di IL-10 e IL-17, entrambe proteine importanti nella risposta alle infezioni.

Lo studio è invero limitato dal fatto che i ricercatori non hanno incluso nello studio topi malati e si sono focalizzati su un solo tipo di cellule. Mancano inoltre raffronti con test simili condotti su esseri umani (ovviamente NON in gabbie deluxe ma ad esempio differenziati tra due settimane in un appartamento o in un resort con palestra e attività ludiche). La IL-17 è di suo particolarmente interessante in quanto questa interleuchina e le cellule Th-17 che la producono sono indiziate come concausa in alcune patologie autoimmuni.

Banalizzando all'estremo l'impatto dello studio, uno potrebbe auspicare la comparsa di prescrizioni mediche tipo "due settimane nel resort a spese del servizio sanitario nazionale" (ma SOLO laddove non esistano patologie concomitanti) o più prosaicamente il miglioramento delle condizioni abitative (magari obbligo di molta meno TV e più attività stimolanti) come modo per indurre gli effetti visti nei topi. In effetti non si tratterebbe di un approccio nuovo, ricalcando il classico consiglio dato dai medici ai nostri genitori fino a non molti anni fa di mandare i figli perennemente malati (raffreddore, tonsille, tosse, etc etc) in campagna dai nonni per un mese ... con risultati effettivamente quasi miracolosi.

Scherzi a parte, capire nel dettaglio quali sono le vie metaboliche attivate nei topi da resort aprirebbe prospettive interessanti da un punto di vista farmacologico con trattamenti miranti a produrre gli stessi effetti; il che avrebbe senso nel trattamento delle infiammazioni croniche, refrattarie ai trattamenti classici e ad alto impatto economico nella nostra società.
Potrebbe interessarvi l'articolo centrato sul miglioramento della vista in topi esposti ad un ambiente sensorialmente ricco --> "Correre, aiuta i topi a recuperare la vista"

Fonte
- Impact of enriched environment on murine T cell differentiation and gene expression profile
Lorenza Rattazzi et al, Frontiers in Immunology (2016) 7:381


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