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Visualizzazione post con etichetta microbioma. Mostra tutti i post
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Gaming. Usare la potenza di calcolo del cervello giocando per fare scienza

Di giochi a sfondo scientifico ne ho già scritto in passato e vanno da modalità meramente passive in cui si “regala” la capacità computazionale del proprio computer per la ricerca di segnali extraterresti (vedi SETI@home) a giochi veri e propri l’utente a programmi come Foldit in cui attraverso la risoluzione di puzzle si aiuta a risolvere la struttura 3D della proteina in esame, restringendo i campo per i ricercatori che da questa partiranno per ricavare la struttura definitiva.
Tutti questi sistema sfruttano il potere di calcolo (macchina o umano) fornito spontaneamente dai partecipanti.
Vi rimando a due articoli precedenti sul tema gaming e scienza: "gaming scientifico"; "Con Niche si gioca a fare i biologi evoluzionisti"
Un esempio recente (ed estremo, per numero di persone coinvolte e modalità di analisi) di quello che potremmo definire indirect-science-gaming ha permesso di ricostruire il genoma di un batterio.
Nello specifico il compito è stato svolto da alcuni milioni di giocatori umani che, in simultanea, si sono uniti, in modalità gaming, per risolvere un problema in ambito genomica batterica difficilmente gestibile anche al top delle risorse computazionali disponibili per la ricerca. A costo (quasi) zero e con divertimento dei giocatori; o meglio hanno affrontato il problema senza saperlo visto che per loro si trattava di un puzzle
L’analisi è stata da poco pubblicata su Nature Biotechnology, il che la dice lunga sul livello qualitativo dei risultati ottenuti.

Uno dei problemi principali associati alla elevata capacità produttiva dei moderni sistemi di sequenziamento del DNA è la quantità di dati che vengono prodotti, i quali a loro volta necessitano di potere computazione perché tutte le “stringhe informative” fornite possano essere assemblate nell’ordine corretto. Se, come nel caso del genoma umano (3 miliardi di basi per genoma aploide), si ha già la sequenza di riferimento a cui rapportare la nuova informazione prodotta (ad es. per vedere le differenze individuali) l’analisi è tutto sommato “semplice” in quanto si confronta il dato con il “registro” e si vede se ci sono differenze.
Qualora invece si stia analizzando un genoma “nuovo” come quello di un organismo poco studiato o, come nel caso in esame, un mix di molti genomi microbici diversi, allora il carico computazionale diventa molto elevato.

Per facilitare il compito usando "scienziati inconsapevoli", i ricercatori hanno integrato all’interno di un classico sparatutto (Borderlands 3) un puzzle simile ad un tetris, dove era necessario allineare in modo appropriato i mattoncini colorati.
Il gioco originale in cui è stata inserito il puzzle giocabile via un Arcade
credit: Amazon
Ogni volta che il puzzle veniva risolto, previo accesso ad una arcade inserita nel gioco, i giocatori acquisivano vantaggi nel gioco principale. 
Questo l'arcade che compariva ai giocatori quando (nel gioco) dovevano affrontare un puzzle per guadagnare punti. 

Il corretto allineamento corrispondeva (anche se in modo non esplicito in quanto “mascherato”) all’allineamento di piccole sequenze di DNA ottenute da milioni di campioni ricavati dalla complessa comunità batterica (microbiota) presente nel nostro intestino (a diversi tempi e in diverse condizioni, tipo prima e dopo una dieta). Ognuna delle quattro basi di cui è composto il DNA era rappresentata da un diverso colore del mattoncino e la distribuzione dei mattoncini equivaleva all’allineamento corretto dei tanti frammenti presenti a dare la sequenza complessiva. 
image credit: Roman Sarrazin-Gendron et al / Nature


In pochi giorni è stato possibile coinvolgere 4,5 milioni di persone che hanno giocato (complessivamente) 135 milioni di volte al puzzle, una potenza di calcolo cumulativa da fare impallidire i supercomputer. Si è così potuto ricostruire il quadro filogenetico rappresentante l’evoluzione di una comunità batterica comunità di batteri che ospitiamo nell’intestino in risposta a cambiamenti di vario tipo.
A differenza di altri giochi, qui si è trattato di utilizzare l’energia computazione nascosta del cervello dei giocatori per risolvere a costo zero compiti che avrebbero richiesto computer molto costosi e tempi lunghi.
Un risultato che dimostra le potenzialità insite nell’affrontare (senza fatica percepita e in modo volontario) un problema complesso unendo milioni di cervelli.

Fonte
Improving microbial phylogeny with citizen science within a mass-market video game
Roman Sarrazin-Gendron et al, Nature Biotechnology (2024)


***


Per i nerd nostalgici, ecco un libro che ripropone le immagini degli arcade dell'età dell'oro


Scoprire antibiotici contro i superbatteri grazie alla IA

La notizia copre due argomenti molto caldi per le loro implicazioni attuali e future: l’intelligenza artificiale con tutte le implicazioni di benefici e minacce per l’umanità magari vista come “obsoleta” e il problema della sempre maggiore diffusione di batteri resistenti a molti (a volte a tutti) gli antibiotici disponibili.
Image credit: Gary Liu et al, (2023) Nature Chemical Biology
Poiché la IA, pur nella forma “castrata” di chatGPT si è dimostrata veloce e (quasi sempre) affidabile sia nel recupero/organizzazione di informazioni disperse nel mare magnum di internet che nella produzioni di opere digitali “nuove”, molti ricercatori hanno provato a sfruttare la sua capacità di calcolo sia ricavare informazioni sulla struttura di molecole complesse come le proteine (senza passare per la tediosa parte sperimentale) che per disegnare molecole in grado di interagire in modo mirato con un determinato bersaglio, allo scopo di modificarne la funzionalità. Proprio in quest’ultimo ambito si pone lo studio volto ad identificare molecole che funziona antibiotica.
Per farlo è stato necessario prima creare un algoritmo in grado di rispondere al quesito molecolare di interesse. Poi gli sono stati in pasto tutte le informazioni disponibili sul batterio “bersaglio” (Acinetobacter baumannii, indicato dall’OMS tra i più problematici in circolazione) e una “libreria” di circa 7 mila molecole e in sole 2 ore la “macchina” ha sputato la sua sentenza fornendo la molecola (in formula e struttura) da usare, o meglio da validare sperimentalmente in laboratorio.

I test successivi, sia su colture cellulari che in modelli animali, ne hanno confermato la specificità (fondamentale per evitare il depauperamento del microbiota) e l’efficacia. Dati preliminari, certamente, ma che fanno prefigurare una rivoluzione all’orizzonte specie considerando i tempi lunghi (in media 7 anni) e gli ingenti costi per lo sviluppo di un farmaco (vedi la serie di articoli dedicati).

Il lavoro pubblicato su Nature Chemical Biology è stato condotto dai ricercatori del MIT


Fonte
Deep learning-guided discovery of an antibiotic targeting Acinetobacter baumannii.
Gary Liu et al, (2023) Nature Chemical Biology




Una linea diretta tra cervello e stato microbiota intestinale

I neuroni ipotalamici rilevano direttamente le variazioni dell'attività batterica nell'intestino e adattano di conseguenza l'appetito e la temperatura corporea. I risultati dimostrano l'esistenza di una comunicazione diretta tra cervello e microbiota intestinale.

L'intestino è considerato un secondo cervello non tanto per l'immagine comune di "reazioni viscerali" a particolari situazioni ma per l'elevata innervazione ad opera del sistema nervoso enterico e per il ruolo chiave giocato dal microbiota intestinale nella produzione di serotonina e a cascata il suo impatto sul  nostro stato mentale.
Il sistema nervoso enterico si basa sullo stesso tipo di neuroni e neurotrasmettitori che si trova nel sistema nervoso centrale
L'intestino ospita una vasta comunità microbica (nella quasi totalità batteri) con numeri intorno ai 1000 miliardi di batteri suddivisi in 300-1000 specie diverse. Dalla loro composizione dipende anche la nostra silhouette; molti sono oramai gli studi che dimostrano come la flora negli obesi, nei diabetici e nei malati del morbo di Crohn sia diversa da quella presente nei normopeso e come il trapianto del microbiota possa eliminare molti problemi.
Sul tema vedi i precedenti articoli (tag "microbioma"), ad esempio "microbioma: un ecosistema"
A completare il quadro arriva ora uno studio pubblicato sulla rivista Science in cui ricercatori francesi hanno scoperto che i neuroni ipotalamici sono in grado di rilevare direttamente le variazioni dell'attività batterica nell'intestino adattando di conseguenza l'appetito e la temperatura corporea. Un risultato che dimostra il dialogo diretto tra il microbiota intestinale e il cervello, e che potrebbe aprire la via per nuovi approcci terapeutici a malattie metaboliche come il diabete e l'obesità.
Nello studio condotto su un modello animale, i ricercatori si sono concentrati sul recettore intracellulare NOD2, importante per il riconoscimento di particolari molecole batteriche, i peptidoglicani; come tale non sorprende che sia espresso principalmente dalle cellule immunitarie 
Nello specifico NOD2 riconosce un tipo particolare di peptidoglicani noti come muropeptidi il cui nome indica i peptidoglicani associati alla parete cellulare batterica.
Varianti del gene NOD2 sono state associate ad un aumento (40x) del rischio di sviluppare il morbo di Crohn, nonché a malattie neurologiche e disturbi dell'umore.

I dati finora disponibili erano però insufficienti per dimostrare una relazione diretta tra l'attività neuronale nel cervello e l'attività batterica nell'intestino.
Grazie a tecniche di imaging cerebrale, i ricercatori hanno osservato che NOD2 nei topi era espresso anche da neuroni in varie aree del cervello, in particolare, nell'ipotalamo. Passo successivo è stato rilevare la scomparsa dell'attività elettrica di questi neuroni quando entrano in contatto con i muropeptidi batterici dall'intestino.
A riprova della correttezza dell'osservazione, se si eliminava NOD2 da questi neuroni, anche l'attività neuronale non era più soppressa in presenza dei muropeptidi. 
La presenza di muropeptidi nell'intestino, sangue e cervello è un biomarcatore dello stato di proliferazione batterica, più elevata e maggiore la crescita. Da qui il senso del sistema di feedback negativo per cui quando le cellule dell'ipotalamo rilevano una aumentata proliferazione, viene diminuita la voglia di assumere altro cibo e minore regolazione della temperatura. I topi femmina sono anche meno propensi a costruire un nido, indice che le condizioni non sono ideali. 
I topi mutati sono meno capaci di regolare l'assunzione di cibo e la temperatura corporea e in conseguenza sono sovrappeso e più suscettibili (specialmente le femmine mature) allo sviluppo del diabete di tipo 2.
 Credit: Institut Pasteur / Pascal Marseaud via neurosciencenews.com


In sintesi con questo studio si è dimostrato che i neuroni di un'area chiave del cervello (ipotalamo) sono in grado di rilevare direttamente la presenza (e la "conta") dello stato della flora intestinale e come tale operare le contromisure. Finora si riteneva che questa rilevazione fosse mediata dalle cellule immunitarie.
L'impatto dei muropeptidi sui neuroni ipotalamici e sul metabolismo solleva interrogativi sul loro potenziale ruolo in altre funzioni cerebrali e potrebbe aiutarci a capire il legame tra alcune malattie cerebrali e varianti genetiche di NOD2.

Fonte
- Bacterial sensing via neuronal Nod2 regulates appetite and body temperature
 Ilana Gabanyi et al, Science, 2022 Apr 15;376(6590)







Alla ricerca delle basi molecolari del batterio primatista di velocità

Come i batteri, gli archaea si trovano in una vasta gamma di habitat, anche all'interno dei corpi umani (ad esempio intestino), ma a differenza dei batteri non ci sono ad oggi evidenze di un loro coinvolgimento in malattie.
Il termine microbo è quanto di più ampio si possa immaginare e racchiude di fatto tutti i microorganismi unicellulari e non (ad esempio i virus che come scritto in precedenza proprio organismi non sono). Tra questi abbiamo protozoi, funghi e batteri. Anche immaginando di limitarsi ai soli batteri la dicitura è quanto meno generica dato che sono suddivisi in due regni (Archea e Bacteria) tanto diversi tra loro quanto un "batterio" propriamente detto lo è da una cellula eucariote. Maggiori dettagli nel precedente articolo "Alla ricerca di LUCA...",
Gli archaea, noti principalmente per essere presenti in ambienti, che definire estremi è riduttivo (dalle sorgenti bollenti a luoghi iperalcalini, etc), annoverano tra i loro membri anche campioni di velocità, grazie alla dotazione di un filamento a forma di spirale (sul tipo del flagello batterico) chiamato archaellum
L'esemplare di cui si tratta oggi è il Methanocaldococcus villosus, una specie che si trova vicino a vulcani sottomarini al largo dell'Islanda, dove la temperatura dell'acqua può raggiungere circa 80°C, che può nuotare a una velocità pari 500 lunghezze del corpo al secondo. Date le dimensioni di 1 micrometro, questo equivale a 0,5 mm/sec.
Nota. Se pensate che 80 C siano tanti, il vero campione di resistenza è stato trovato a 2500 metri sotto il fondale oceanico, nei pressi di una zona di subduzione. Qui le temperature possono arrivare a 120 C e una pressione di 55 MPa..
M. villosus (credit: microbewiki)

Cosa sarà mai meno di 1mm/sec vi chiederete, ma basta pensare che la velocità di un ghepardo è circa 20 lunghezze del corpo al secondo per estrapolare che se M. villosus avesse le stesse dimensioni si muoverebbe a circa 3 mila chilometri all'ora!

Per comprenderne la "meccanica" è necessario esaminare il suo organo propulsore, l'archaellum. Lo studio più recente risale a poche settimane fa e si è basato sull'analisi al microscopio crioelettronico, la cui capacità di risoluzione è a livello atomico.
Immagine al computer che evidenzia in primo piano (blu e arancione) le due subunità alternate che formano l'archaellum. Sullo sfondo sono invece raffigurate i vari M. villosus.
Image Credit: Università di Exeter

L'archaellum e i flagelli batterici hanno la stessa funzione, far muovere la cellula in un processo che parte dal complesso motorio, dove viene generata la coppia che viene poi trasmessa al filamento. Il filamento batterico del flagello cambia conformazione a causa delle sue subunità costituenti che commutano tra due stati discreti, uno lungo e l'altro corto. Come funzioni l'archaellum è invece poco compreso.
Dallo studio ora pubblicato è emerso che l'elica del M. villosus è il risultato dell'assemblaggio di alcune migliaia di copie di due proteine ​​alternate e non di una, come studi su altri organismi avevano fatto intendere; una architettura (e conseguente assemblaggio) più complessi dell'atteso.
L'archaellum ruota, spinto da un motore intracellulare alimentato ad ATP, che genera la coppia. Per propagare il movimento lungo la sua lunghezza, il filamento passa da un filamento curvo nelle cellule a riposo ad una conformazione a uperelica rotante quando le cellule nuotano. La struttura eteropolimerica ha il vantaggio di una maggiore flessibilità conformazione che rende la trasmissione della coppia più efficiente.

Modificazioni post-traduzionali come la glicosilazione giocano un ruolo chiave nell'assemblaggio e nella motilità del filamento. Si ritiene che la glicosilazione aumenti la resilienza negli habitat acidi, nonché la stabilità termica in modo direttamente proporzionale al grado di glicosilazione. Caratteristiche essenziali queste dato che M. villosus prospera a una temperatura ottimale di 80 °C (l'intervallo di temperature in cui vive oscilla tra 55 e 90 °C) il che suggerisce che questo organismo vari la glicosilazione del filamento prodotto a seconda delle condizioni in cui viene a trovarsi.


Video di qualche anno fa quindi mancante dei dati presentati nello studio appena pubblicato

Lo studio ha sia valenza scientifica nel campo della biologia dei microorganismi che in ambito  tecnologico: in un prossimo futuro si potrebbero infatti progettare dispositivi micro-robotici per la somministrazione di farmaci, il cui motore potrebbe sfruttare quanto appreso dalla ricerca sull'archaellum.


Fonte
An archaellum filament composed of two alternating subunits
Lavinia Gambelli et al, Nature Communications, 7 February 2022




Un probiotico da inalare?

Gli organismi sani condividono il "territorio" (o meglio l'interfaccia con l'esterno) con una microflora tollerata dal sistema immunitario dell'ospite; un rapporto vantaggioso per entrambi (commensalismo) che da una parte fornisce un ambiente protetto e ricco di nutrienti e dall'altra viene ricambiato fornendo una barriera competitiva contro l'invasione di microbi patogeni, il processamento del cibo e la produzione di molecole per noi vitali (dalle vitamine alla serotonina).
Image credit: Mayoclinic
La microflora commensale (o microbiota nativa) è un insieme eterogeneo di batteri e protozoi che risiede a ridosso dei tessuti epiteliali esposti all'esterno (anche se in cavità interne), a ridosso del "confine" pattugliato dalle difese immunitarie. Di particolare importanza tra le aree "colonizzate" è la mucosa, priva della barriera cheratinica e protetta dal muco secreto da particolari ghiandole.

Il microbiota è presente dalla nascita, fornito dalla madre durante il passaggio attraverso il canale vaginale (ragion per cui i nati da parto cesareo in passato erano più a rischio di infezioni e di asma). Data la natura (almeno in parte) batterica, il microbiota può essere pesantemente colpito dagli antibiotici e questo spiega l'importanza dei probiotici dopo questi trattamenti al fine di ripristinare gli equilibri locali, prevenendo nel contempo la colonizzazione da parte di batteri meno amichevoli delle aree lasciate vuote.

Se l'importanza del microbiota è ben nota a livello gastrointestinale, "l'ecologia" delle aree respiratorie profonde (polmoni) è meno caratterizzata.

Per riempire il gap conoscitivo, i ricercatori dell'università di Ginevra hanno iniziato a studiare il ruolo del microbiota polmonare nei topi e i suo ruolo protettivo contro infezioni da pneumococcus (batteri del genere Streptococco), patogeni responsabili negli umani dei decessi legati a infezioni opportunistiche successive a "banali" influenze stagionali (virali).

In un loro primo articolo risalente al 2019 i ricercatori avevano rilevato la presenza, significativa, di batteri del tipo Lactobacillus sulla superficie polmonare di topi sani.
Il lactobacillo è noto per la sua azione antimicrobica e come modulatore del sistema immunitario, tanto da essere il principale ingrediente nei fermenti lattici.
Nel loro ultimo studio pubblicato ad inizio anno, hanno fatto un passo avanti arrivando alla completa caratterizzazione di questi batteri commensali (battezzati Lactobacillus murinus) investigandone nel contempo il loro ruolo protettivo.
Tra i test condotti cito studi su colture cellulari originate da epitelio polmonare murino in cui la presenza del lactobacillo inibiva la crescita sia di pneumococchi che di batteri come lo Staphylococcus aureus (associato a infezioni polmonari, cute, osse ed articolari), attraverso il rilascio di acido lattico.

Si tratta ovviamente di dati preliminari ma nulla esclude, se validati in modelli più completi, che in un prossimo futuro si potrà pensare a probiotici polmonari per contrastare l'insorgere di polmoniti nei soggetti a rischio, riducendo nel contempo l'uso di antibiotici che come sappiamo hanno sia l'effetto collaterale di uccidere i batteri senza "distinzioni" che di essere inefficaci in un mondo in cui la diffusione dei superbatteri è sempre più rilevante.


Fonti
- Respiratory tissue-associated commensal bacteria offer therapeutic potential against pneumococcal colonization 
Soner Yildiz et al, (2020) eLife

- Commensal Bacteria: An Emerging Player in Defense Against Respiratory Pathogens
Rabia Khan et al, (2019) Frontiers in Immunology

La base molecolare del cattivo odore ascellare è in un enzima presente nel batterio Staphylococcus hominis

Uno tra gli articoli più letti su questo blog è quello della  cattiva nomea, in termine di odorato, che gli asiatici hanno dei gaijin, nel senso generale del termine (bianco, nero o ogni altra variante non dell'estremo oriente).
(Vedi --> Perchè i giapponesi pensano che ...) 
Una stigmatizzazione che abbiamo visto avere fondamenti reali di tipo fisiologico (quindi ineludibili) e non comportamentali (igiene personale), con buona pace di chi sui media si adopera per negare scandalizzato il concetto di diversità all'interno della nostra specie.

E' di poche settimane fa uno studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, che aggiunge alcuni dettagli sul tema, nello specifico sul cattivo odore del sudore.
 Image credit: Rudden et al,
Ho già scritto che una parte importante della "odorosità" viene dalla frequenza delle ghiandole apocrine  che a differenza delle sudoripare "pure", eccrine, fungono anche da veicolo di messaggi ormonali. Un essudato fatto di acqua e sale non genera odore (se non quello classico salino). L'odore anche pungente che noi percepiamo viene dalla digestione di molecole relativamente complesse presenti nel fluido, operato dalla flora batterica sulla cute. Oltre al sebo il liquido secrete contiene glucidi, lipidi e proteine (tra questi feromoni, etc).
Nota. Non è un caso che un bambino (pre-pubere) che abbia passato il pomeriggio estivo a giocare a pallone nel parco difficilmente avrà altro odore che quello del sudore "base" mentre abbiamo tutti l'esperienza di adulti che emanano "aromi" in palestra, dopo un meeting di lavoro ansiogeno, anche solo di pochi minuti, o di primissimo mattino sui mezzi pubblici (pur appena docciati).
Le variabili interindividuali risiedono quindi nelle molecole rese disponibili alla flora (presenti anche in chi si fa una doccia ogni 12 ore) e per presenza nella comunità microbica che ospitiamo di batteri più o meno predisposti a produrre metaboliti di scarto odoriferi.
Ed eccoci arrivare allo studio pubblicato dai ricercatori dell‘Università di York che hanno identificano uno dei principali colpevoli in un enzima, dal nome funzionale Bo (nome derivato dall'acronimo di body odour), presente in un batterio che vive sotto le nostre ascelle.
Ovviamente lo studio prescinde dalle  differenze etniche ed è indirizzato al microbioma ascellare, che è solo una delle zone odorifere. Lo stesso batterio non ha problemi a vivere sotto le ascelle asiatiche piuttosto che quelle gajin, la differenza è semmai nel "cibo" (molecole) che ha a disposizione. Precisazione doverosa è che la flora batterica e la composizione dell'essudato in varie aree a rischio odore (ascelle, piedi, genitali, etc) è diversa per cui lo studio va preso come esemplificativo ma non generale.
Credit: Rudden et al, Per l'immagine in HQ vi rimando all'articolo originale in PDF,
Già in studi precedenti gli stessi ricercatori avevano rilevato l'origine del cattivo odore del sudore nella presenza di batteri del genere Staphylococcus presenti sotto le ascelle e responsabili della produzione di tioalcoli, da cui l'odore pungente. Tra questi lo Staphylococcus hominis spiccava come uno dei principali responsabili dell’odore, conseguente al processamento della molecola Cys-Gly-3M3SH da parte di una C-S liasi (l'enzima "Bo" ora caratterizzato). 
Credit: D. Bawdon et al 
Dalla digestione della molecola il batterio ricava i fondamentali carbonio e azoto sotto forma di glicina, ammonio e piruvato con la liberazione del volatile 3-methyl-3-sulfanylhexan-1-ol (alias 3M3SH) che diffonde dalla cellula batterica ed è il responsabile dell'odore percepito.
L'odore è il sottoprodotto del processamento enzimatico di una molecola di per sé inodore. 
Dall'analisi filogenetica è stato infine possibile datare la comparsa di questo gene a circa 60 milioni di anni fa, ben prima che comparissero i primati. L'odore è chiaramente un "effetto collaterale" irrilevante nella selezione (fatto salvo il messaggio feromonale). a cui tra l'altro a cui i nostri antenati, anche solo pochi decenni facevano molto poco caso prima che si entrasse nell'era dei deodoranti come "obbligo" sociale.

Per altri articoli su tematiche legate all'olfatto cliccate sul tag  --> "olfatto"

Fonti
- The molecular basis of thioalcohol production in human body odour
Michelle Rudden et al,  Scientific Reports,(2020) v.10, Article number: 12500


I probiotici fanno bene. Si, forse, ma anche no

Studi scientifici e sentire comune (in aggiunta al marketing delle multinazionali stile Danone) sono concordi nel dire che i probiotici sono un complemento importante dell'alimentazione in quanto contribuiscono all'equilibrio della flora intestinale. 
Non avrei molto da aggiungere, anche perché dell'importanza del microbioma ho già parlato in passato (-->"Il microbioma e noi"), se non fosse che alcuni dati recenti hanno fatto sorgere qualche dubbio sull'universalità della correlazione. Anche qui non mi stupisco più di tanto perché anche nei prodotti indissolubilmente legati al benessere fisico vi sono condizioni che rendono la loro assunzione controproducente se non dannosa.
Localizzazione composizione del microbioma umano (credit: wikipedia)
Il microbioma, o più correttamente il microbiota cioè i trilioni di microbi - batteri, virus, funghi e protozoi - che prosperano nell'intestino, ha un ruolo importante nel determinare lo stato di salute generale di una persona. 
Del resto come non potrebbe avere un effetto se si considera che il rapporto numerico tra le "nostre" cellule e quelle che ospitiamo (principalmente nell'intestino crasso) è di 1 a 10 e che esperimenti oramai classici hanno dimostrato che l'assenza completa di flora intestinale  (possibile solo in un animale nato e cresciuto in ambiente sterile) ha un effetto negativo sia sulla salute fisica che mentale 
Nel caso dei probiotici il campanello d'allarme è suonato riguardo effetti non previsti sul sistema immunitario.
Cosa sono i probiotici? Un modo semplice e sufficientemente generico (vedremo poi perché è bene stare larghi nella definizione) è quello di prodotti ad uso alimentare contenenti microorganismi innocui e già presenti nell'intestino. La loro utilità sta sia nel contrasto alla proliferazione locale dei patogeni che nelle sinergie metaboliche con l'ospite, evidente nella loro produzione delle vitamine B12 e K, e nella liberazione di acidi grassi a catena corta, nutrienti molto graditi dalle cellule della mucosa. Aggiungiamo infine il loro contributo nella produzione di serotonina e il legame tra microbioma e benessere psicofisico si chiude  ( --> "Microbi intestinali e serotonina").
Nota. L'intestino è stato anche definito come "secondo cervello" proprio per la sua   influenza sull'attività cerebrale.
Da qualche anno l'idea di probiotico appare strettamente legata a prodotti dell'industria alimentare,  che decantandone i benefici cerca di venderci con essa l'idea di benessere sotto diverse forme, siano esse pastiglie o latte fermentato. Tuttavia non si tratta di una scoperta dei tempi moderni come ben dimostra la molteplicità di bevande a base di latte fermentato, tramandate dalla notte dei tempi in popolazioni molto lontane tra loro, utili nella prevenzione delle infezioni gastrointestinali. Probiotico  deve il suo nome dal greco antico "favorevole alla vita"
Le potenzialità di questo prodotto fermentato (alias risultato di un metabolismo microbico, i cui attori  rimangono in loco in assenza di pastorizzazione) vennero rilanciate nel 1908 dal premio Nobel Elie Metchnikoff che ipotizzò una correlazione tra la longevità di alcune popolazioni rurali e l'assunzione quotidiana del latte fermentato. Da quel momento il probiotico è storia moderna.

Ma sono (uso ancora il plurale) veramente, e sempre, un toccasana? 
Al netto che una persona sana, con dieta equilibrata e con una propensione all'attività fisica non dovrebbe averne bisogno, è pur vero che gli ultimi punti sono carenti in società pur opulente ma dove si vive un susseguirsi di happy hour e lavoro sedentario, conditi da stress. A questi aggiungiamo le persone debilitate o reduci da terapie antibiotiche ed ecco comparire un gruppo eterogeneo di potenziali fruitori di probiotici.
I numeri parlano chiaro: la domanda di integratori probiotici è in continuo aumento e come mercato globale oggi vale 36 miliardi di dollari.

Alcuni ricercatori si sono chiesti se l'assunzione costante di questi prodotti sia veramente benefica, o almeno innocua, oppure se debba essere controllata in particolari situazioni.
Ricordiamo sempre che non si tratta di materiale inerte ma di microorganismi dotati di un proprio metabolismo e quindi capaci di metabolizzare quello che incontrano nel tubo digerente (cibo ma anche farmaci). Sono inoltre in perenne "contatto" con le cellule del sistema immunitario che pattugliano l'epitelio intestinale e con cui, in condizioni normali, vige un "accordo di non belligeranza", tollerati dalle "guardie di frontiera". Quando qualcosa cambia nella flora locale, anche solo nei rapporti numerici per cui diventano rilevanti popolazioni prima minoritarie, ecco che possono sorgere stati infiammatori e con essi disturbi di varia natura.
Ed eccoci arrivare al perché io abbia usato prima il plurale parlando dei probiotici. Questi prodotti non hanno infatti una composizione predefinita (né sono tenuti ad averla) sia nel confronto tra prodotti diversi che tra lotti diversi dello stesso prodotto. Vero che in genere si tratta di mix contenenti batteri appartenenti al genere Bifidobacteria, Lactobacilli o Eubacteria ma è altresì vero che ciascuna delle multinazionali fonda la "diversità" del suo prodotto su un loro "microbo" divenuto marchio registrato.
Limitandoci ai lactobacilli presenti nei prodotti più famosi abbiamo:
L. acidophilus1 (LC1 di Nestlè)
L. casei (BIO della Danone)
L. casei Immunitas (Actimel della Danone)
L. casei Shirota (Yakult)
Uno studio preliminare presentato ad un convegno tenutosi ad Atlanta ha destato l'interesse della comunità perché mostra una potenziale controindicazione: i pazienti affetti da melanoma rispondevano meno alla terapia se assumevano anche integratori probiotici.
Il campione preso in esame (46 pazienti) è troppo piccolo per formulare conclusioni ma fa sorgere alcune domande sulla capacità dei probiotici di alterare l'equilibrio nella flora intestinale e a cascata ripercuotersi sulla risposta immunitaria (vi rimando  alla nota a fondo pagina per la descrizione di due studi del 2017 in cui si dimostra come la composizione del microbiota influenzi l'efficacia della immunoterapia in tre tipi di cancro).
Nota. I malati di cancro assumono probiotici per mitigare alcuni degli effetti collaterali della terapia - in particolare la diarrea derivante dalla chemioterapia. In linea generale non è il medico a prescriverli ma si tratta di probiotici da banco; le statistiche indicano che il 42 percento dei pazienti in terapia li assume.
E qui arriva il problema che va oltre il concetto stesso (e l'utilità indubbia) dei probiotici cioè una regolazione lassa, che vale anche per vitamine e integratori alimentari, molto diversa da quella rigida che vincola ogni farmaco autorizzato al commercio (a riguardo --> la pagina del ministero della salute). La conseguenza è che il consumatore ingerisce batteri o spore (non patogeni) la cui composizione può variare molto in quanto non vige alcun obbligo per aziende di mantenere la stessa combinazione di ceppi batterici tra un lotto e l'altro.
Variabilità che va a braccetto con non prevedibilità e questo può avere ricadute importanti quando si innesta su terapie in corso. Alcuni ceppi potrebbero facilitare l'assimilazione del principio attivo (aumentando così la dose effettivamente disponibile) mentre altri potrebbero avere l'effetto opposto, annullando la terapia. Quando da terapia farmacologica si passa ad immunoterapia il discorso si complica perché variando la composizione della flora intestinale anche le "guardie di confine" ricevono input diversi e questo può ripercuotersi sulla loro attività. Aggiungiamo che nel caso delle immunoterapie il tasso di successo è intorno al 25%, ed è facile immaginare che non è il caso di introdurre una variabile ad azione ignota; per quello che ne sappiamo potrebbe perfino rivelarsi un utile ausilio terapeutico ma, semplicemente, non ci sono dati in merito.

Torniamo allo studio prima citato, condotto in Texas presso il MD Anderson/Parker Institute.
A 46 pazienti con melanoma metastatico venne chiesto, all'inizio della terapia, di rispondere ad alcune domane sulla loro alimentazione e sull'utilizzo di integratori. I dati vennero poi incrociati con l'analisi dei campioni fecali (analisi genetica del microbioma).
Due le correlazioni emerse: una maggiore assunzione di fibre si correlava ad una microflora più "rigogliosa" e ad una risposta migliore alla all'immunoterapia; all'opposto coloro che avevano assunto probiotici durante il trattamento avevano il 70% in meno di probabilità di rispondere alla immunoterapia.

Troppo presto per trarre conclusioni ma lo studio rende necessario fare ulteriori verifiche, in primis aumentando il campione in esame e caratterizzando la composizione dei probiotici usati, espandendo il test a pazienti con altri tumori.

Ad oggi l'unica certezza è che aumentare l'assunzione di fibre durante la terapia (quindi lavorare sulla dieta) è meglio che usare probiotici


Se passate da Amsterdam vi suggerisco caldamente di visitare Micropia, un museo unico nel suo genere, dedicato sui microorganismi (--> homepage del museo). Non è superfluo sottolineare che la qualità esperienziale dei musei nord europei poco ha a che vedere con quella sonnolente di molti musei italiani.




Fonti
- Probiotics are touted as good for the gut. They may be trouble for the immune system
STAT / news
- Probiotic Safety—No Guarantees
JAMA

***

Nota
Studi condotti su modelli murini hanno dimostrato che il microbioma intestinale può modulare la risposta alle terapie antitumorali.
A completare il quadro sugli esseri umani due studi pubblicati nel 2017 sulla rivista Science. I lavori mostrano l'esistenza di una correlazione tra microbioma intestinale e la efficienza di immunoterapia in pazienti con cancro (terapia il cui bersaglio è PD1, proteina chiave nell'indurre la morte programmata di cellule riconosciute come aberranti).
In entrambi gli studi i ricercatori hanno per prima cosa valutato se la risposta clinica al blocco di PD1 potesse essere prevista conoscendo la composizione del microbioma intestinale. Per raggiungere questo obiettivo si è proceduto, prima e dopo la terapia, all'analisi genomica (microbica) ricavata dai campioni fecali di pazienti affetti da melanoma, carcinoma a cellule renali o carcinoma polmonare NSCLC.
Risultato comune ad entrambi gli studi è che una alta diversità del microbioma intestinale si correlava con una maggiore sopravvivenza libera da malattia successiva alla terapia.
Il primo di questi studi (Gopalakrishnan et al.), focalizzato su pazienti con melanoma, ha osservato che la abbondanza di appartenenti al genere Faecalibacterium prediceva l'efficacia terapeutica (e la presenza di linfociti T CD8+ nel tumore) mentre se abbondavano i Bacteroidales i pazienti avrebbero risposto poco o nulla alla terapia (e un aumento delle cellule T-reg) . Ulteriori test hanno mostrato che la differenza tra risposta e non risposta alla terapia si correlava a variazioni metaboliche con predominanza delle vie anaboliche nei responder edi quelle cataboliche nei non responder. Nessuna correlazione invece tra la responsività alla terapia e composizione microbioma orale.
Il secondo lavoro (Routy et al.) ha valutato se vi fosse una correlazione tra il microbioma intestinale in pazienti con carcinoma e la risposta all'immunoterapia (sempre diretta contro PD1). In questi pazienti l'abbondanza della specie batterica Akkermansia muciniphila si correla ad un esito clinico positivo.
In entrambi gli studi si è osservato che il trattamento antibiotico (a volte imprescindibile) può avere un impatto negativo sull'efficacia terapeutica proprio per la sua azione falcidiante dei batteri intestinali.
Un test che conferma le precedenti scoperte si è basato su (oramai classici) trapianti di batteri fecali tra topi responder e non responder. I risultati confermano che variando in modo guidato la composizione microbica si può invertire la risposta terapeutica (in entrambi i sensi).
I risultati indicano la possibilità di modulare terapeuticamente il microbioma intestinale in pazienti con cancro per migliorare il tasso di successo terapeutico.

Fonti
- Gut microbiome modulates response to anti-PD-1 immunotherapy in melanoma patients. 
V. Gopalakrishnan et al. Science (2017) 

- Gut microbiome influences efficacy of PD‐1‐based immunotherapy against epithelial tumors.
B. Routy et al.  Science (2017) 

- Microbiota: a key orchestrator of cancer therapy. 
Roy, S. & Trinchieri, G. (2017) Nat. Rev. Cancer 17, 271–285



Il rischio carie non è uguale per tutti

I ricercatori della università svedese di Umeå hanno scoperto che la presenza di una variante del batterio Streptococcus mutans nella bocca dei bambini si correla con un aumento del fattore di rischio carie.
I risultati sono stati pubblicati sulla rivista EBioMedicine.

La carie è fortemente legata allo stile di vita alimentare con il rischio che aumenta esponenzialmente con il consumo di zuccheri e una igiene orale approssimativa. Il problema nasce principalmente a causa della presenza di residui di cibo "appetibili" per i batteri e la diminuzione del pH (vale a dire acidificazione) nella cavità orale che causa danni allo smalto. La presenza di batteri come lo Streptococcus mutans aggravano il fenomeno con la ulteriore acidificazione locale dovuta al loro metabolismo. E fin qui nulla di sorprendente.
Tuttavia la correlazione cibo-igiene-carie è valida solo in 4 bambini su 5, con il quinto che è ad aumentato rischio carie anche se segue una alimentazione sana e si spazzola regolarmente i denti.
Questi bambini "ad alto rischio" sono refrattari alle attività preventive classiche e questo a sua volta si ripercuote su un rischio aumentato di patologie terze come le malattie cardiovascolari (la presenza di carie, quindi di proliferazione batterica cronica, aumenta il rischio che i batteri possano entrare nel circolo sanguigno e depositarsi sui tessuti cardiaci).

Allo scopo di comprendere il perché dell'aumentato rischio di carie - indipendente dalla alimentazione - in una parte non irrilevante della popolazione, i ricercatori hanno dato il via ad uno studio clinico. Nel corso di 5 anni è stata analizzata la saliva di 452 adolescenti (tra i 12 e 17 anni) e contestualmente si è monitorato il loro stato di salute dentale. Alla fine dello studio i dati sono stati incrociati, scoprendo che i soggetti che sviluppavano più facilmente la carie, a parità di fattori di rischio, erano quelli che possedevano una particolare variante del batterio, dotata di una aumentata capacità adesiva di maggiore resistenza ai trattamenti di igiene orale.
La differenza è a livello delle proteine adesive batteriche SpaP e Cnm. Nicklas Strömberg, il coordinatore del progetto, ha anche anticipato i risultati di uno studio in fase di completamento che sembra indicare nella carenza (o minore efficienza) di alcuni recettori per i batteri nelle cellule di alcuni bambini, un ulteriore fattore di rischio carie (e non solo).
Lo studio è particolarmente interessante in quanto offre, in prospettiva, nuovi strumenti per una rilevazione precoce dei soggetti a rischio carie che potranno essere indirizzati verso trattamenti preventivi mirati



Fonte
- Streptococcus Mutans Adhesin Biotypes that Match and Predict Individual Caries Development
Anders Esberg et al, EBioMedicine,  2017 (10) pp205-215

- Lo Streptococcus mutans e i suoi amici
Ministero della Salute (opuscolo per i ragazzi --> PDF)


Al posto dei probiotici useremo capsule con batteri

Il tratto digestivo contiene migliaia di miliardi di batteri, molti dei quali utili nel processo digestivo e per tenere sotto controllo i batteri nocivi. Recenti studi hanno dimostrato che alcuni di questi batteri possono influenzare, nel bene e nel male, diabete, patologie cardiovascolari e cancro. 

Nota. Il tema "patogenicità" è alquanto sdrucciolevole essendo in genere il risultato di una assenza di equilibrio tra "ospite" e "ospitato". La coabitazione si ottiene quando entrambi hanno un mutuo vantaggio o semplicemente "assenza di danno". Uno dei principali responsabili della comparsa di patologie successive "all'incontro" con microbi (fatti salvi quelli "francamente patogeni") è il nostro sistema immunitario e più specificamente l'induzione di uno stato infiammatorio cronico. L'infiammazione nello stato acuto è fondamentale per debellare una infezione o riparare un danno, ma se cronicizza è di suo causa di danni tissutali anche permanenti. L'esempio classico è nella correlazione tra scarsa igiene dentale (quindi infiammazione cronica delle gengive) in giovane età e il rischio elevato di patologie del miocardio in età matura; sebbene la causa prima sia l'entrata di alcuni batteri nel flusso sanguigno e il loro depositarsi nei tessuti cardiaci il danno non è legato alla loro proliferazione ma alla risposta immunitaria che provoca danni al miocardio i cui effetti diventano evidenti sul lungo periodo.
Imparare a conoscere i microbi con cui conviviamo è quindi la chiave di volta per massimizzare la loro utilità e contrastare, modificando la composizione della loro popolazione, quelli negativi. Per avere una idea di quanto il nostro stato sia intrinsecamente "legato" a quello dei microbi ospiti, pensate che una persona di 70 kg è fatta di circa 3,8 x1013 cellule e ospita sulla sue superficie (ivi compresa quella intestinale) 3 x 1013 cellule microbiche. Un rapporto quasi di 1:1 (Ron Sanders et al, 2016) come a dire che metà delle "nostre" cellule è batterica.

Tra i tanti gruppi impegnati in questi studi, segnalo oggi il lavoro condotto da un team del MIT di  Boston.
Il lavoro pubblicato dal team di Ana Jaklenec sulla rivista Advanced Materials, è centrato su come inglobare batteri utili all'interno di rivestimenti polimerici di una capsula in modo da farli transitare in tutta sicurezza attraverso il brodo corrosivo dello stomaco e il potere emulsionante dei sali biliari fino all'intestino dove colonizzeranno (come fanno tutti i loro simili) le mucose, sostituendosi idealmente ai ceppi patogeni o semplicemente non ottimali (come quelli associati all'obesità). 
Microbi e obesità. Molteplici modelli animali (e alcuni studi su essere umano) hanno dimostrato che il trapianto (leggasi trasferimento di residui fecali) da un donatore normopeso ad uno obeso è sufficiente a trasformare l'animale da obeso a normopeso, a parità di dieta. Una chiara indicazione del rapporto causa-effetto tra i due.
Un esempio di prodotto da scaffale
Nello specifico, le capsule qui testate sono dotate di un rivestimento polisaccaridico fatto di chitosano e alginato. Oltre alla biodegradabilità, questi zuccheri complessi hanno il vantaggio di essere mucoadesivi, di attaccarsi cioè alle pareti intestinali, favorendo così il rilascio locale dei batteri. I test sono stati condotti usando il Bacillus coagulans, un batterio già in uso nel trattamento della colite e della sindrome dell'intestino irritabile. Questo ceppo non si trova normalmente nell'intestino umano, ma si è dimostrato molto efficace nell'alleviare il gonfiore addominale e il dolore associato, grazie alla sua capacità di produrre acido lattico.
Sebbene possa sembrare strana l'idea di trattare una colite fornendo dei batteri, bisogna ricordare che la causa prima di queste patologie è uno sbilanciamento della popolazione microbica locale verso ceppi meno benigni che a sua volta induce uno stato infiammatorio cronico. Fornire ceppi benigni (e tollerati dal sistema immunitario che li riconosce come "non pericolosi") è il modo più naturale per spegnere la miccia. 
La superficie carica negativamente del Bacillus è ideale per l'assemblaggio dei 4 strati del rivestimento della capsula, grazie all'alternanza delle cariche positive del chitosano a quelle negative dell'alginato, con il risultato di una capsula ben compatta.
I batteri incapsulati hanno un tasso di sopravvivenza al transito gastrointestinale sei volte maggiore di quello dei batteri non rivestiti.

Capsule del genere sono in tutto e per tutto dei probiotici ma a differenza di quelli reperibili in farmacia o nei reparti frigo dei supermercati, sono personalizzabili e con una efficienza di colonizzazione molto più alta. Gran parte dei batteri presenti nei vari prodotti oggi in commercio sono invece "labili" e con scarsa resistenza al transito gastrico; il che si traduce in una variabilità nel dosaggio utile, che è individuo e dieta specifico.

I primi beneficiari di questi trattamenti saranno le persone afflitte da coliti ricorrenti come le persone affette dal morbo di Crohn.


Fonte
- Layer-by-Layer Encapsulation of Probiotics for Delivery to the Microbiome
Anselmo AC et al, (2016) Adv Mater. 28(43):9486-9490


Batteri miccia per il diabete?

La convivenza con i microbi che ospitiamo sulla nostra superficie corporea (sia interna nel caso di intestino e mucose che esterna nel caso della cute) è di mutuo beneficio per entrambi. Noi forniamo loro un habitat in cui vivere e loro ci forniscono sia capacità metabolica aggiuntiva, degli sparring partner per il nostro sistema immunitario e una arma per tenere a bada i microbi patogeni.
Al cambiare delle condizioni dell'habitat cambia anche la popolazione microbica residente in un ciclo resiliente ma allo stesso tempo autoalimentato (vedi sotto il legame con l'obesità). Questo spiega anche l'importanza dei probiotici (di fatto microbi in bibita o pastiglie) dopo terapia antibiotica o in caso di malesseri da "disequilibrio" microbico.
Non a caso quindi lo studio del microbioma ha acquisito negli anni una centralità sempre maggiore, grazie anche ai metodi di indagine genomica oggi disponibili che permettono di ottenere dati sempre più precisi anche su popolazioni microbiche complesse. Come detto, comprendere le variazioni del microbioma, in senso sia quantitativo che qualitativo, ci fornisce una chiave di lettura importante per capire il nostro stato di salute.

L'equilibrio della popolazione microbica
 tiene a bada "i cattivi"
Tra i tanti aspetti che spiegano l'interesse dei ricercatori per il microbioma vi è la relazione tra l'alterazione della flora intestinale e alcune disfunzioni metaboliche come ad esempio l'obesità in un intreccio in cui è a volte difficile capire chi sia causa e cosa l'effetto ma è certa l'esistenza di una correlazione; la flora microbica in un paziente obeso è diversa ed è sia causa che effetto dello stato di obesità.

Un altro campo di interesse è nella comprensione dei meccanismi di innesco, oltre alla genetica predisponente, del diabete di tipo 1 (vedi nota a piè di pagina). Tra le ipotesi più condivise è che una qualche infezione anche asintomatica agisca come miccia inducendo casualmente una risposta "scomposta" da parte del sistema immunitario che "confonde" epitopi presenti sulle cellule beta di Langerhans del pancreas con quelli dell'intruso. Manca ad oggi tuttavia la cosiddetta "pistola fumante", cioè il microbo (batterio, virus o altro) responsabile di mandare "in confusione" le cellule immunitarie nei soggetti geneticamente predisposti.

Sul tema arriva ora uno studio condotto da un team della università di Yale, il cui lavoro è apparso su Journal of Experimental Medicine, focalizzato nell'analizzare il legame tra batteri intestinali e diabete di tipo 1. Il gruppo coordinato da Li Wen ha studiato le cellule immunitarie responsabili dell'attacco, i linfociti T CD8, in un modello murino; si è così scoperta l'esistenza di una proteina in alcuni batteri intestinali (tra cui un ceppo di fusobatteri) avente una struttura molecolare 3D simile a quella di una proteina prodotta dalle cellule pancreatiche che producono insulina. Fenomeni non rari, noti con il termine di mimetismo molecolare, usati da alcuni microbi per confondersi con l'ospite; il nostro sistema immunitario è infatti "addestrato" per non attaccare le "proprie" strutture, il cosiddetto self.
Può però avvenire (ed è qui che entra in gioco la predisposizione genetica) che questa azione di filtraggio e rimozione delle cellule potenzialmente autoreattive non sia stata completa (o il controllo sia difettivo), lasciando in circolazione linfociti pronti a colpire, dietro stimolo adeguato come uno stato infiammatorio, delle strutture totalmente self scambiandole per non self.

La scoperta potrebbe avere implicazioni significative per questa malattia cronica ad esempio agendo preventivamente sul microbioma intestinale  in soggetti con storia familiare di diabete. Come? Potenzialmente mediante l'assunzione di probiotici in grado di sostituire/modificare la popolazione microbica residente.
Chiaramente si tratta di studi preliminari per cui saranno necessarie ulteriori conferme.

Nota. Le due forme di diabete hanno una eziologia alquanto diversa. La forma 1 insorge in giovane età ed è dovuta al "fuoco-amico" del sistema immunitario; il nostro sistema difensivo riconosce come estranee le cellule produttrici di insulina del pancreas e questo innesca l'attacco che porta alla scomparsa di queste cellule. Scomparse (o notevolmente ridotte) le cellule, viene meno anche la produzione di insulina e con questo l'interruttore che permette alle cellule di "catturare" il glucosio dal sangue con il risultato di un affamamento cellulare pur in presenza di iperglicemia (che a sua volta causa altri problemi). Il diabete di tipo 2 è invece a insorgenza tardiva (oltre la mezza età) e spesso conseguente ad altre disfunzioni metaboliche (innate o indotte da alimentazione) come l'obesità. Almeno nelle prime fasi della malattia i livelli di insulina sono normali, quello che cambia è la ridotta sensibilità delle cellule periferiche all'azione dell'insulina. La penuria "percepita" di cibo dalle cellule induce una iperproduzione di insulina per compensare la resistenza periferica, ma questo sul lungo periodo si traduce in un "esaurimento produttivo" delle cellule e di qui una carenza reale di insulina; di fatto una trasformazione in diabete di tipo 1 sebbene per motivi non legati all'autoimmunità.

Per approfondimenti sul tema microbiota --> "Il microbiota e noi. Un ecosistema" o clicca sul tag --> "Microbioma"

Fonte
- Microbial antigen mimics activate diabetogenic CD8 T cells in NOD mice
Ningwen Tai et al, J Exp Med. 2016 Sep 19;213(10):2129-46



Morbo di Parkinson e batteri intestinali. Una "liaison" pericolosa da approfondire

Dal lavoro di un team di ricercatori del Caltech emergono indizi sul potenziale collegamento funzionale tra le caratteristiche della flora batterica intestinale e il rischio di morbo di Parkinson (da qui in avanti userò PD, acronimo anglosassone per Parkinson Disease). In estrema sintesi, i cambiamenti nella composizione della flora batterica sono correlate e precedenti al deterioramento delle capacità motorie, uno dei marcatori diagnostici più precoci della malattia.
Il lavoro è stato pubblicato sul numero di dicembre della prestigiosa rivista Cell dal gruppo coordinato da Sarkis Mazmanian.

Morbo di Parkinson
Le aree più ricche di  neuroni dopaminergici
sono le più danneggiate nel Parkinson
 
Il PD ha una prevalenza nella popolazione italiana sopra i 60 anni poco sotto al 2 % per un totale di 230 mila individui affetti; a livello globale il numero è intorno a 10 milioni con 1 milione solo negli USA (numeri destinati a cresce con l'invecchiamento della popolazione anche in aree finora "risparmiate" ma solo perché l'aspettativa di vita media è inferiore alla età media di esordio del PD). Numeri alla mano il PD è la seconda malattia neurodegenerativa in termini di frequenza e ha un impatto economico e sociale nettamente superiore a quello delle patologie neoplastiche in quanto è una malattia invalidante, non curabile e con lungo decorso (quindi ad alto carico assistenziale). 
Tra le manifestazioni esterne tipiche del PD vi sono tremori e difficoltà a camminare mentre a livello cellulare si possono osservare aggregati proteici ricchi di alfa-sinucleina (αSyn) sia a livello cerebrale che intestinale. Altro marcatore noto è l'aumento a livello cerebrale di proteine pro-infiammatorie (citochine) che a loro volta innescano danni tipici di una infiammazione cronica.
Il 75% delle persone con PD presenta inoltre problemi nella funzionalità gastrointestinale che si palesano principalmente con sintomi di costipazione.

Il morbo e l'intestino
Dati i sintomi è nell'intestino che i  ricercatori sono andati alla ricerca di un qualche fattore "facilitatore" della malattia, trovandolo nella flora intestinale; attenzione però, facilitatore è cosa ben diversa da agente induttore in quanto NON è un evento necessario e sufficiente ad indurre la malattia.
Il microbiota opera per il nostro benessere (se bilanciato)
Come descritto in articoli precedenti l'intestino è sede permanente di una variegata comunità di batteri (quasi sempre benefici e dannosi quando l'equilibrio tra le varie componenti viene meno) noto come microbiota (o microbioma se si usa una prospettiva genetica ---> QUI). Il microbioma ha, oltre ad una funzione ausiliaria nella digestione, un ruolo chiave per lo sviluppo e il funzionamento dei sistemi immunitario e nervoso.
Il primo viene costantemente "tenuto in esercizio" e "modulato" in modo da abituarsi ai batteri "buoni" (essenziali sia da un punto di vista metabolico che come competitori dei ceppi patogeni) e in grado di autoregolarsi evitando così il permanere di stati infiammatori.
Il secondo aspetto è diretta conseguenza del fatto che il 70% di tutti i neuroni del sistema nervoso periferico si trova nell'intestino e che ad esempio la serotonina (uno dei neurotrasmettitori chiave per l'umore) è prodotta per il 90% in questo distretto. Il sistema nervoso dell'intestino è direttamente collegato al sistema nervoso centrale attraverso il nervo vago, il che aiuta a comprendere meglio come la qualità del cibo possa influenzare l'umore e viceversa come l'umore abbia effetti sulla digestione. Non a caso Michael Gershon ha titolato brillantemente il suo libro "Il secondo cervello" per sottolineare la centralità dell'intestino anche nelle funzioni "alte".
Credit: Caltech
La correlazione tra intestino e Parkinson è nota da tempo, sebbene catalogato come epifenomeno, e trova facile riscontro nella comparsa dei problemi gastrointestinali con anni di anticipo rispetto ai sintomi motori. Il dato di per sé non è ovviamente sufficiente per affermare che l'intestino è l'epicentro della malattia ma solo che i primi effetti si manifestano in tale sede forse a causa dell'estesa innervazione dell'area; al massimo una tale evidenza potrebbe rafforzare l'ipotesi ambientale come concausa della malattia, specie nelle forme di PD non familiari (il 90% dei casi sono sporadici, correlabili a mutazioni de novo e/o a cause ambientali).
L'eziologia della malattia è complessa anche nelle forme familiari dove la forma monogenica (un solo gene alterato responsabile) non supera il 30% dei casi ereditari (che ricordo sono il 10% del totale dei casi). Il che pone un problema diagnostico non indifferente nei soggetti sani ma a rischio (per familiarità) dato che il restante 70% delle forme ereditarie sarà per definizione poligenico, vale a dire conseguente alla mutazione o deregolazione di due o più geni (18 sono i geni "parkinsoniani" più comuni). Il problema è ancora più evidente quando non si dispone di biopsie dei genitori deceduti da cui ricavare il profilo genetico a rischio. Oltre alla αSyn i geni più frequentemente alterati nei malati sono PARK2, UCH-L1, LRRK2, PINK1 e DJ-1 (per approfondimenti --> "Genetics of Parkinson’s Disease").
La somma di questi elementi ha innescato nei ricercatori una domanda "semplice" e diretta: esiste un legame tra microbioma e rischio/decorso della malattia?

Lo studio
Per verificare tale ipotesi di lavoro i ricercatori hanno utilizzato un modello animale classico della malattia cioè topi modificati geneticamente che producono alti livelli di αSyn (come negli umani questa alterazione cellulare provoca la deplezione dei neuroni dopaminergici). I topi sono stati separati in due gruppi, di cui uno allevato in ambiente classico di stabulario e l'altro in ambiente asettico, con il risultato che i primi possedevano una normale flora intestinale mentre i secondi ne erano privi. Per il resto la genetica e le condizioni di vita (cibo, attività ludiche sulla ruota, etc) erano identiche. Ad intervalli regolari i topi vennero valutati per le loro abilità motorie di tipo prettamente ludico (test su tapis roulant, discesa e risalita da un palo, camminata su un asse). Ebbene, i topi cresciuti in ambiente asettico (e quindi senza germi intestinali) possedevano abilità motorie significativamente migliori di quelli cresciuti normalmente. Ricordo che i topi di partenza sviluppano nella quasi totalità sintomi parkinsoniani già nelle primissime fasi dell'età adulta, quindi il miglior risultato del primo gruppo indica che il decorso della malattia è stato fortemente rallentato se non bloccato; l'unica differenza tra i due gruppi è il microbioma.
Nessuna differenza è stata invece riscontrata usando topi normali come popolazione di partenza, e questo è il controllo essenziale per definire l'importanza della alterazione in αSyn.

Il nesso causale tra presenza di batteri e predisposizione genetica potrebbe risiedere nel metabolismo delle fibre alimentari su cui la flora intestinale ha una azione determinante (scompone la cellulosa in elementi assorbili dalla mucosa). Tra i prodotti ottenuti dalla digestione delle fibre vi sono gli acidi grassi a catena corta (SCFA), come ad esempio acetato e butirrato, molecole capaci di attivare la risposta immunitaria nel cervello, un'area nota per essere "immunologicamente privilegiata in quanto ad accesso limitato anche per le cellule immunitarie" (una scelta evolutiva proprio per prevenire i danni provocati da una infiammazione anche solo temporanea). La difesa immunitaria del cervello è assicurata da cellule immunitarie locali ((microglia) e da una barriera "impenetrabile" a tossine e patogeni (la barriera ematoencefalica).
I dati raccolti hanno portato Mazmanian ad ipotizzare che fosse lo squilibrio nei livelli di SCFA a favorire la comparsa di uno stato infiammatorio nel cervello e da lì i sintomi motori tipici del PD. A riprova di tale ipotesi se si arricchiva con SCFA il mangime dato ai topi privi di germi, le cellule della microglia si attivavano e dopo alcune settimane comparivano i sintomi parkinsoniani. Nei topi normali (che non esprimono alti livelli di αSyn) l'aggiunta di SCFA nel mangime non provocava invece alcun effetto ad indicare che gli SCFA (e quindi il metabolismo dei batteri) non erano l'agente causale ma una concausa.
In altre parole le cause sono una summa di genetica e "ambiente".
Prove ancora più convincenti di tale correlazione sono venute dalla collaborazione tra il team di Mazmanian con quello di Ali Keshavarzian a Chicago, in cui vennero eseguiti test centrati sul trapianto fecale.
Nota. Già in un precedente articolo avevo accennato a questo approccio "strano" ma molto promettente per la terapia di patologie intestinali croniche come la sindrome del colon irritabile. Si è visto che per compensare squilibri (innati o acquisiti) nella flora intestinale che causano la comparsa di uno stato infiammatorio cronico, è possibile trapiantare la popolazione batterica presente nell'intestino dei soggetti sani in quello dei malati (attraverso un "banale" trasferimento di materia fecale dall'intestino del primo verso i secondi); tale trattamento è sufficiente per eliminare i sintomi più acuti della malattia, altrimenti difficilmente trattabili.
L'esperimento congiunto è consistito nel trasferimento di campioni fecali prelevati da pazienti con malattia di Parkinson (oppure da controlli sani) nell'intestino dei topi privi di germi. Risultato anche qui chiaro: i sintomi del Parkinson comparivano solo nel primo gruppo mentre nessun effetto era evidente se il destinatario del "trapianto" erano i topi normali (senza alterazione in αSyn) o se il materiale fecale proveniva da batteri non parkinsoniani.
Gli indizi raccolti sono forti (e la pubblicazione su Cell lo dimostra) ed indicano che il metabolismo batterico che porta alla produzione di SCFA è capace di indurre l'attivazione immunitaria nel cervello con effetti deleteri in presenza di una genetica predisponente.
Video riassuntivo della scoperta (credit: Caltech)

Le implicazioni di questa scoperta sono notevoli in quanto suggerisce che oltre allo sviluppo di farmaci ad azione cerebrale miranti a rallentare il decorso del Parkinson si apre un nuovo promettente campo di intervento cioè agire sul microbioma intestinale: molto più semplice da raggiungere e da modificare. Tali farmaci potrebbero essere progettati per modulare i livelli di SCFA e/o la composizione dei batteri locali, come fanno i probiotici.
Nota. Ho scritto rallentare e non invertire in quanto i sintomi motori compaiono quando circa l'80% dei neuroni dopaminergici in alcune aree sono morti, quindi quando i danni sono molto estesi
Un approccio particolarmente utile in fase preventiva per i soggetti con storia familiare di Parkinson.

Articoli precedenti sul tema --> "Parkinson"

Fonte
- Gut Microbiota Regulate Motor Deficits and Neuroinflammation in a Model of Parkinson's Disease
Sampson TR et al, Cell (2016)167(6):1469-1480
- Parkinson's Disease Linked to Microbiome
Caltech/news




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