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Visualizzazione post con etichetta Virus. Mostra tutti i post
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Batterio con mini genoma o quasi-virus?

In un precedente articolo si è discusso del motivo per cui i virus sono catalogati come quasi-organismi, senza però fare ipotesi sulla loro origine.
Tre le ipotesi principale, non mutualmente esclusive: 
  • stringhe di informazione prebiotica comparse al tempo del mondo a RNA, capaci di parassitare le cellule;
  • regressione massima di una cellula che parassitava altre cellule (endoparassita) adattatasi talmente bene da essersi ridotta a mera informazione genetica veicolata da involucro proteico;
  • sul modello del gene egoista proposta da Dawkins, una stringa di informazione comparsa in un genoma diventata indipendente e capace, una volta ricoperta da un involucro proteico, di  infettare altre cellule.
A supporto della seconda ipotesi un articolo apparso su BioRxiv in cui si descrive il batterio Sukunaarchaeum adattatosi a tal punto al ruolo di parassita cellulare da essere rimasto (quasi) solo il suo genoma.
Dati ancora indiziari in verità considerando che ad oggi di questo organismo è noto solo il DNA scoperto all’interno del dinoflagellato Citharistes regius (eucarioti unicellulari Regno Protozoa).
Citharistes regius
Molto interessante, ed indicativo di una evoluzione finalizzata al totale parassitismo, il fatto che la maggior parte dei 189 geni che compongono del piccolo genoma sono attinenti a funzioni legate alla sua replicazione senza quasi geni codificanti per vie metaboliche
I virus propriamente detti sono avanti di un passo avendo eliminato gran parte dei geni "replicativi" (tranne nel caso della trascrittasi inverse necessaria ai retrovirus) demandando il compito della copiatura al macchinario replicativo della cellula, dirottato ad uso esclusivo del virus per generare la progenie.
A rendere ancora più curiosa la scoperta, l’analisi genomica del microbo-quasi-virus lo collaca nel regno degli Archea (batteri antichi diversi dai batteri moderni tanto quanto lo sono dagli eucarioti, con cui tuttavia hanno punti in comune).

La scoperta del Sukunaarchaeum è stata, come spesso accade, casuale.
I ricercatori erano intenti al sequenziamento del DNA nelle cellule di C. regius perché era nota la presenza all'interno del dinoflagellato di cianobatteri simbiotici. Sorpresa fu il ritrovamento, accanto al DNA del dinoflagellato e dei cianobatteri, di una sequenza genica diversa consistente in DNA circolare di sole 238.000 paia di basi, appena il 5% della lunghezza del genoma del batterio Escherichia coli, mai identificato al di fuori di questa cellula ad indicare un ciclo vitale strettamente da endoparassita. 

Per quanto piccolo, la metà del Nanoarchaeum equitans, anch'esso un archeobatterio parassita endocellulare, il record di "essenzialità" spetta alle 160k paia di basi di un batterio che vive in simbiosi nelle cellule di alcuni insetti, a cui fornisce molecole utili.
Nanoarchaeum equitans (ingranditi) e la cellula da loro colonizzata
Credit: alchetron
Sukunaarchaeum è privo di praticamente tutte le vie metaboliche riconoscibili, il che suggerisce che il microbo abbia solo una relazione parassitaria (sfruttamento unilaterale) con il dinoflagellato. Come anticipato, quasi tutti i geni di Sukunaarchaeum sono coinvolti nella replicazione, trascrizione e traduzione del DNA cosa che lo mette a metà strada tra un virus (che delega alla cellula il lavoro) e un classico endoparassita dotato di proprie vie metaboliche.

Manca ancora la fotografia al microscopio del Sukunaarchaeum, cosa non facile considerando che le sue dimensioni sono verosimilmente inferiori al micrometro (le dimensioni di N. equitans, il cui genoma è 2 volte più grande, sono di soli 0,4 micrometri). Ideale sarebbe trovare un “parente” che vive libero così da determinare esattamente la funzione delle proteine del microbo, comprese diverse proteine di grandi dimensioni associate alla membrana che potrebbero essere correlate al modo in cui interagisce. con il suo ospite.

Sukunaarchaeum è con ogni probabilità solo il primo di una lunga lista se si considera che dall'analisi dei database contenenti sequenze di DNA trovate da prelievi in mare in diverse parti del globo, sono state trovate sequenze simili.

Fonti
Microbe with bizarrely tiny genome may be evolving into a virus
Science (06/2025)
A cellular entity retaining only its replicative core: Hidden archaeal lineage with an ultra-reduced genome
Ryo Harada et al. (2025) bioXriv
The genome of Nanoarchaeum equitans: Insights into early archaeal evolution and derived parasitism


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Infezioni respiratorie e rischio attivazione tumori dormienti

Infezioni respiratorie comuni (dall'influenza al Covid19) potrebbero essere in grado di risvegliare le cellule dormienti tumorali favorendo così la comparsa/accelerazione di metastasi.
La conclusione viene da uno studio ottenuto incrociando dati dalla clinica con quelli ottenuti da un modello murino.

Primo tassello dello studio pubblicato su Nature l'analisi dei pazienti oncologici ancora in vita (dati presi dalla UK Biobank) la cui malattia era stata diagnosticata almeno 5 anni prima della pandemia di COVID. L'analisi ha mostrato che coloro che, durante e dopo la pandemia, sono risultati positivi al test del COVID avevano un rischio quasi doppio di morire di cancro rispetto ai pazienti con cancro risultati negativi.
Restringendo il periodo di follow-up al 2021 l'odd ratio (OR) saliva a 8, indicando che l'aumento del rischio di mortalità per cancro è maggiore nei primi mesi dopo l'infezione da SARS-CoV-2.
Secondo tassello l'analisi di 36.845 donne con tumore al seno con il fine di determinare se avessero un rischio aumentato di progressione verso la malattia metastatica nei polmoni dopo l'infezione da COVID. In effetti le sopravvissute che avevano contratto il COVID dopo la diagnosi iniziale di tumore mostravano un hazard ratio  (HR) aggiustato per età, razza ed etnia di 1,44 per la successiva diagnosi di metastasi nei polmoni.
In sintesi i risultati indicano che le persone con una storia di cancro sono tra i primi beneficiari di qualunque precauzione (leggasi vaccinazione) che contrasti l'infezione da virus respiratori. O in parole ancora più semplici sempre meglio evitare le infezioni se possibile.
Questo vale per i virus influenzali e il Sars-CoV-2 (compresi i coronavirus prossimi venturi)
Non una sorpresa se si considerano le precedenti evidenze che suggerivano come lo stato infiammatorio in generale sia in grado di risvegliare le cellule tumorali disseminate (DCC), cellule che si staccano da un tumore primario e si diffondono in organi distanti. E i virus respiratori sono un ottimo esempio di qualcosa in grado di indurre infiammazione.
Evidenze confermate dal terzo e ultimo tassello consistente in test per verificare se le infezioni da virus respiratori possano portare al risveglio di queste cellule tumorali, con conseguente progressione metastatica della malattia. 
Test condotti su un modello murino di carcinoma mammario metastatico, che includeva DCC dormienti nei polmoni e topi successivamente esposti a virus come SARS-CoV-2 o influenza. I risultati sono stati chiarissimi: dopo l'infezione virale si è rilevato un aumento da 100 a 1.000 volte del numero di queste cellule tumorali nell'arco di alcune settimane.
Per comprendere il meccanismo alla base di questo processo i ricercatori hanno condotto un'analisi molecolare che ha dimostrato che il risveglio delle DCC dormienti era guidato (e dipendente) dall'interleuchina-6, una proteina che le cellule immunitarie rilasciano in risposta a lesioni o infezioni.
Il team ha anche scoperto che questo processo è seguito da un ritorno a quiescenza e creazione di nicchie cellulari CD4+ che inibiscono l'eliminazione del DCC, in parte attraverso la soppressione delle cellule CD8+. 
In altre parole, una volta che queste cellule si sono espanse, risultano protette dal sistema immunitario. Invece di eliminare attivamente le cellule tumorali, il sistema immunitario le protegge dall'eliminazione immunitaria.

Pur riconoscendo che le differenze di specie giustificano cautela nell'interpretazione dei dati sui topi, i dati basati sulla popolazione "mostrano che il infezioni polmonari aumentano il rischio di metastasi polmonari nelle pazienti con tumore al seno.

Fonte
Respiratory viral infections awaken metastatic breast cancer cells in lungs
Shi B. Chia et al, (2025) Nature




Il bambino morto di morbillo in Texas era "prevedibile" (calo di vaccinazioni) e prevenibile

Sono passati quasi 10 anni dall'articolo in cui stigmatizzavo il trend novax (e siamo ben prima del Covid) che aveva portato alla (ri)comparsa di estesi focolai di morbillo a causa del calo delle vaccinazioni. Ridotta protezione che nel caso di infezioni come quella di un virus altamente infettivo come il Paramyxovirus, basta che scenda sotto 85% della popolazione perché rimangano focolai pronti a colpire i più deboli (infanti, anziani o persone con sistema immunitario compromesso).
La soglia di "protetti" (vaccinati o immuni post malattia) necessaria perché non si abbia diffusione in ambienti frequentati da bambini in età prescolare è del 95%
È notizia di pochi giorni che in Texas si è verificato il primo caso (da anni) di un bambino in età scolastica morto per le conseguenze del morbillo, o meglio per le infezioni respiratorie opportuniste che il morbillo facilita spegnendo le difese immunitarie dell'infetto. Delle 124 persone malate (su 9 contee in zone scarsamente popolate), 16 hanno dovuto essere ospedalizzate. Nel 2019 il numero di persone che avevano contratto il morbillo in Texas era di 22.
Il calo del numero di vaccinati in Texas (2025)


Di seguito l'articolo del 2015 che preannunciava il rischio ora verificatosi (per gli articoli successivi usate il tag "morbillo" a fondo pagina)


*** Articolo di febbraio 2015***

Il ritorno del morbillo. La stupidità si paga

Non servivano capacità divinatorie o abilità analitiche degne dei migliori think-tank per prevedere l'epidemia di morbillo che sta imperversando da qualche mese negli USA. Tanto è vero che l'allarme era stato da me rilanciato quasi un anno fa  in articoli tematici (vedi "Vaccinazione morbillo" e "Non abbassare la guardia sul calo delle vaccinazioni").
(wikipedia)
Il punto centrale dell'articolo odierno sottolinea l'impresa (in senso negativo) dell'essere riusciti a trasformare il morbillo, una malattia sotto controllo (in USA e Europa) da più di 15 anni con un numero di casi annuali meno che esiziale, a malattia che si riaffaccia in comunità immunologicamente impreparate  ad affrontarla. 
E questo non perché nel frattempo sia comparso un nuovo ceppo virale particolarmente insidioso o sufficientemente diverso a livello epitopico da rendere meno efficaci le difese immunitarie. La causa è molto più semplice e va ricercata nella sensibile diminuzione delle persone vaccinate (in alcune aree con numeri percentuali a doppia cifra), che si traduce in più persone sensibili all'infezione; maggiore il bacino di infettabili, più probabile è la diffusione dell'epidemia al di fuori del focolaio iniziale. Dato che la vaccinazione contro il morbillo conferisce una protezione pluriennale, ne deriva che i soggetti sensibili per definizione sono i giovani in età scolare o pre-scolare, una età già di suo a maggior rischio a causa della promiscuità sociale a scuola e nei campi gioco.

Paradossalmente il virus del morbillo potrebbe ben figurare come l'esempio da copertina di un virus contro cui il vaccino manifesta una massimizzazione di utilità (durata e grado di protezione) ed efficacia (rapporto rischio-beneficio) proprio per le caratteristiche del virus:
  •  altamente infettivo (valore dell'indice R0 maggiore di 10, tre volte quello dell'influenza). Il virus rimane attivo e contagioso nell'aria o su superfici contaminate per circa due ore dopo che è uscito dal corpo e il periodo infettivo copre l'intervallo compreso tra 4 giorni antecedenti e successivi la comparsa delle macchie cutanee. Sommando questi dati si evince quanto sia facile per un bambino sensibile (cioè privo di anticorpi specifici) essere infettato. Per altre informazioni vedi i dati OMS.
    Malattie infettive a confronto. Morbillo (measles) batte Ebola in quanto a numero di persone infettate da singolo individuo malato
  •  La bassa variabilità virale permette di avere una immunità pluridecennale post-esposizione, dato che il virus è sempre "lo stesso". Confrontate questa "staticità" con l'estrema variabilità del virus influenzale (per cui è necessario ogni anno una nuova vaccinazione); solo questo fatto dovrebbe togliere ogni dubbio sull'importanza del vaccino contro il morbillo
  • Uno dei concetti chiave per comprendere come il rapporto tra soggetti immuni (vaccinati o precedentemente esposti) e sensibili in una data popolazione sia determinante per bloccare sul nascere la nascita di una epidemia, è quello della Herd Immunity (immunità di gregge) Ad ogni malattia infettiva corrisponde un valore diverso di "soglia di immuni" al di sopra della quale il patogeno non riesce a innescare l'epidemia. Come evidenziato dalla figura sotto, il morbillo è tra le malattie infettive comuni quello che è in grado di automantenersi in una popolazione quando la soglia di immuni (vedi sopra) scenda sotto il 90%. Bastano quindi relativamente poche persone (tra quelle sensibili) che decidono di non vaccinarsi per trasformare una popolazione immune in un focolaio epidemico; un fenomeno che, per definizione, favorisce l'insorgere di ceppi virali più aggressivi

    La Comparazione tra l'infettività di malattie comuni (a sinistra) e la copertura sulla popolazione conferita dal vaccino. Per ulteriori dettagli su R0 e concetto di "Herd Immunity" vi invito a rileggere l'articolo precedente sul blog (QUI) e le referenze a fondo pagina. Per una descrizione più semplice di Herd Immunity -->QUI.
     

E qui veniamo al punto dolente. Mai come stavolta si può affermare che più che la ragione potè la credulità popolare, nell'impresa di ridare fiato ad una malattia prevenibile, grazie alle dicerie sul presunto connubio tra vaccinazione e autismo. Un legame totalmente infondato, per vari motivi:
  • eziopatogenesi. L'autismo oltre ad essere una malattia eterogenea e quindi non correlabile ad un singolo e ben identificabile evento (quindi dire che si conosce il nesso causale è un falso), non è nemmeno una malattia che insorge nell'infanzia ma è conseguente a problemi di sviluppo neurologico nella fase embrionale (vedi "Autismo: una patologia geneticamente eterogenea" e articoli successivi per altri dettagli). Un dettaglio non secondario in quanto rende di fatto impossibile teoricamente anche il solo postulare una associazione tra problemi di sviluppo embrionale e vaccinazione infantile: come possa un vaccino avere un effetto retroattivo è un mistero che nessuno dei seguaci di tale ipotesi sembra considerare.
  • Lo studio responsabile di questa credenza venne pubblicato da un medico inglese negli anni '90. Peccato che la teoria formulata, in cui si ipotizzava il legame vaccino/autismo, non solo NON ha mai trovato riscontro in tanti altri studi condotti da allora ma nasce da dati falsi che hanno portato alla ritrattazione dell'articolo da parte dello stesso autore e alla successiva espulsione dello stesso dall'ordine dei medici. ATTENZIONE: non si tratta di un errore di analisi o di dati poi corretti in seguito a migliori tecniche sperimentali (questo è normale e accettabile nella scienza) ma di dati falsificati come appurato da una indagine successiva. Per altri dettagli vedi QUI.
Nonostante queste evidenze, il rifiuto del vaccino è diventato sempre una più una bandiera sotto la quale sono confluite persone e idee anche molto diverse tra loro, in particolare nei paesi anglosassoni. Ne riparlerò in chiusura di articolo.

Non sorprende quindi che dal rischio di epidemie si sia passati alla realtà di epidemie in pochi mesi, come egregiamente riassunto nei due articoli pubblicati oggi sul New York Times (vedi link a fondo pagina).
La conta dei casi di morbillo negli USA secondo i dati ufficiali diffusi dal Center for Disease Control (CDC). Articolo originale QUI.

Risultato simile prendendo in esame il trend in Australia. La freccia rossa indica l'inizio delle vaccinazioni di massa sui bambini
La figura parla chiaro. I casi di morbillo sono saliti l'anno scorso a 644, quasi quanto la somma di casi nell'ultimo decennio. E le prospettive sono negative se si pensa che il numero di casi confermati nel solo gennaio 2015 è già a quota 84, concentrati in solo 14 dei 48 stati continentali degli USA, ad indicare una diffusione ancora nelle prime fasi. Non è nemmeno casuale che uno dei focolai dell'infezione sia stato il parco divertimenti di Disneyland, un luogo "ovvio" in quanto concentra in un'area ristretta e molto affollata quelli che sono i soggetti sensibili per definizione (se non vaccinati): i bambini. Soggetti che al loro rientro a casa e prima della comparsa dei segni rivelatori del morbillo avranno tutte le occasioni per diffondere il virus a scuola o durante le attività ricreative.
Nota. Sebbene possa sembrare ovvio, vale la pena sottolineare che il motivo per cui negli anni passati la frequentazione degli stessi luoghi non abbia alterato sensibilmente il numero di casi di morbillo, a parità di soggetti portatori sempre presenti nella popolazione, era legato al superamento della soglia minima di individui resistenti che rendevano molto difficile al virus trovare "terreni di coltura" adatti. E qui torniamo al concetto di herd immunity che nel caso del morbillo (vedi figura sopra) deve essere superiore al 85-90% dei membri della popolazione in esame. Se prendiamo la popolazione complessiva è probabile che il valore sia (di poco) ancora superiore; se prendiamo però la sottopopolazione degli under-15 (quelli che compongono scuole e campi gioco) tale valore cala drasticamente arrivando al 60%. Una vera "manna" per il virus del morbillo.
Contrarre una malattia così contagiosa come il morbillo ha immediate ripercussioni sulle comunità colpite e i racconti forniti dal New York Times sono emblematici; ne citerò di seguito alcuni.
Le scuole hanno ad esempio cominciato con il vietare la frequentazione ai soggetti non vaccinati (sia perché "a rischio" che per rallentare la diffusione dell'epidemia). Stessa cosa per feste di compleanno e attività sportiva dei ragazzi (attività molto più comuni che da noi).
Un caso emblematico lo si è avuto nella contea di Riverside (a est di Los Angeles), dove in seguito alla malattia di un dipendente della scuola si è deciso per sicurezza di lasciare a casa 40 studenti non vaccinati
A questo si aggiunge una crescente stigmatizzazione verso coloro ora additati come "irresponsabili egoisti" che per una idea personale hanno di fatto messo a rischio l'intera comunità; ricordiamoci infatti che la vaccinazione è SOPRATTUTTO utile per tutelare coloro che per motivi sanitari (anziani, immunodepressi, bambini pre-vaccinazione) non sono o non possono essere vaccinati. Si è quindi passati da una filosofia permissiva nelle piccole comunità basata sul "se non credi nella vaccinazione, sei libero di non farla" ad esplicite accuse ai vicini per "comportamento negligente e criminale che lede la mia sicurezza e non solo la tua".
Molti negozi hanno cominciato ad affiggere avvisi sulle vetrine con inviti alle persone con famigliari malati a indossare mascherine prima di entrare.
Nota. Il problema principale associato al morbillo non è la "malattia in se" ma le complicanze che ad essa possono associarsi. Il fattore rischio aggiuntivo deriva da una capacità peculiare del virus del morbillo che è quella di essere un efficiente immunosoppressore. Minore attività del sistema immunitario si traduce in un aumentato rischio di sviluppare malattie causate da patogeni opportunisti. I numeri sono ancora una volta chiari: 1 bambino su 20 con morbillo contrarrà anche una polmonite (causa principale di decesso nei più giovani); 1 su 1000 si ammalerà di encefalite (causa di convulsioni e potenziale induttore di danni permanenti come sordità o ritardo mentale); ogni 1000 bambini che si ammalano di morbillo, 1-2  ne moriranno.
Numeri assolutamente inconcepibili e inaccettabili essendo il morbillo una malattia prevenibile.
Di fronte al tradursi del morbillo da una minaccia ipotetica ad un evento reale gli stessi attivisti del movimento anti-vaccino americano sono passati da una posizione "militante" compatta ad una divisione tra irriducibili ("preferisco che i miei figli perdano anche un semestre a scuola piuttosto che consentire l'iniezione delle tossine del vaccino" [parole testuali]) e dubbiosi corsi dal medico per una vaccinazione last minute dopo aver soppesato i rischi teorici al morbillo reale. Tendenza in aumento dopo che nuovi focolai di morbillo sono apparsi in Nebraska, Minnesota, New York e in varie contee californiane.
Nota. La corsa dell'ultimo minuto al vaccino è di suo indicativa di una certa ignoranza sui meccanismi di immunizzazione. Una volta ricevuta la vaccinazione sono necessarie circa 3 settimane perché la copertura immunitaria sia evidente (i primi anticorpi cominciano a circolare circa 8 giorni dopo l'esposizione). Non si tratta di una pozione magica o di una medicina che inizia ad esercitare l'effetto subito dopo l'assunzione
La Casa Bianca ha esortato i genitori ad ascoltare la scienza e non le dicerie prive di fondamento. Un simile appello viene dai funzionari della sanità dello stato dell'Arizona che hanno stimato in almeno un migliaio le persone ad immediato rischio di morbillo, esortando chiunque mostrasse i sintomi a contattare il proprio medico e a minimizzare i contatti con altre persone. Un timore sostanziato dal fatto che domenica sera a Phoenix (Arizona) ci sarà l'evento clou della stagione sportiva americana, il Super Bowl; si vuole evitare che l'evento sportivo (aggregatore di pubblico) diventi un nuovo trampolino di lancio per la diffusione del virus in aree ancora non colpite.
Le autorità del New Mexico, stato ancora "libero" da focolai, sono consapevoli di essere a rischio sia per la vicinanza con California e Arizona che per l'alto tasso di bambini non vaccinati, aumentati del 17 per cento nell'ultimo biennio.

Due parole sulle caratteristiche degli appartenenti al movimento anti-vaccino. Si tratta di una compagine alquanto eterogenea per censo, istruzione e motivazioni: andiamo da persone che ancora credono alla validità dell'articolo incriminato di cui sopra a movimenti religiosi che rifiutano pratiche mediche moderne (ad esempio gli Amish) fino alla sottocultura che incorpora idee post-new age e di salutismo assoluto. Una sottocultura molto in voga tra famiglie benestanti e istruite che vivono in quartieri esclusivi di Los Angeles e San Francisco che fanno del motto "all-natural" un modus vivendi per se e i propri figli (le interviste a divi hollywoodiani come Gwyneth Paltrow et similia sono molto indicative).
Una compagine sempre più estesa che lascia sconfortati molti pediatri di base che lamentano di "sentirsi proiettati indietro negli anni '50" data la percentuale di bambini non vaccinati negli asili che oscilla tra il 20 e il 40 per cento. "Le motivazioni addotte dai genitori per non farli vaccinare sono sempre legate a convinzioni personali" continua il medico intervistato "E' molto frustrante vedere un bambino ammalarsi e soffrire per qualcosa del tutto evitabile".
Nota. La protezione fornita dal vaccino trivalente è circa del 95%. Fate voi due calcoli tra la certezza di infezione tra un non vaccinato esposto e un vaccinato. Una differenza molto superiore a 95 volte dato che se nella comunità la soglia dei "resistenti" è superiore al 90% (Herd Immunity) la probabilità di "incontrare il virus" diventa meno che decimale.
Paradossalmente la percentuale di bambini vaccinati è inversamente proporzionale al reddito medio della contea: la classe medio-bassa è più propensa a seguire i consigli dei medici di quelli a reddito elevato. Un caso che mostra come il quoziente intellettivo non va di pari passo con il reddito ...


Un esempio pratico di Herd Immunity. All'aumentare della percentuale di vaccinati nella popolazione varia la velocità di diffusione di un virus. Alcuni valori corrispondono alle percentuali di vaccinati "reali" in alcune contee USA. Facile notare quanto la variazione al di pochi punti percentuali (sotto il valore soglia) abbia un profondo impatto sulla epidemia. La foto è una istantanea di un video flash disponibile sul sito del giornale inglese The Guardian. Clicca --> QUI per vedere la simulazione interattiva.
Se avete dubbi su quanto sia contagioso e pericoloso il morbillo, questo grafico ne evidenzia molto bene le caratteristiche (Credit:NYT)

***

Il problema però non riguarda solo il morbillo (ne ho discusso QUI) che pur con le complicazioni associate è meno distruttivo di altre malattie per cui esistono dei vaccini. Un esempio eclatante viene  dal caso della contea di San Geronimo, California, una bella area rurale sita 30 miglia a nord di San Francisco. Qui il 40 per cento degli studenti della locale scuola elementare non sono vaccinati per il morbillo e il 25 per cento non è stato nemmeno vaccinato contro il virus della polio. In totale il 58% dei bambini è carente per almeno una delle vaccinazioni standard.

Chiudo con il citare una chicca tratta sempre dall'articolo del New York Times che esemplifica al massimo il modo di pensare di alcuni che permangono nelle loro convinzioni anti-vaccino.
La signora McMenimen, una delle mamme che si trova con un bambino con il morbillo, risponde così al giornalista che chiede il perché della scelta di non vaccinare il figlio: "Tobias ha sopportato molto bene sia la varicella che la pertosse, e quest'ultima è stata come un comune raffreddore. Ho solo avuto la tentazione di fargli fare una antitetanica dopo che il bambino si era tagliato con il filo di un recinto ma poi ci ho ripensato. Ha un sistema immunitario così forte"
Credo non servano altri commenti

***

E l'Italia?
L'Italia è stata richiamata ufficialmente dall'OMS a causa del calo del tasso delle vaccinazioni obbligatorie. Sarebbe interessante confrontare i dati e pesarli in base ad aree geografiche, censo, livello di istruzione e origine delle famiglie inadempienti. Dati essenziali per capire come correggere un trend inammissibile.
Casi per milioni di abitanti: <1 (giallo); <10 (arancione); pois (>20)



(Articolo precedente su morbillo qui)


Fonti ulteriori oltre a quelle già citate nell'articolo
- Dal New York Times

  • Vaccine critics turn defensive over measles (31/1/2015)
  • As Measle Cases Spread in US, So Does Anxiety (31/1/2015)
  • Reckless Rejection of the Measles Vaccine (3/2/2015)
- Istituto Superiore di Sanità e Ministero della Salute
- Centers for Disease Control
- Mayo Clinic
- National Institutes of Health

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Se volete affrontare l'argomento "quanto sono importanti i vaccini e perché" vi consiglio la lettura del libro scritto da Alberto Mantovani, uno che si occupa di scienza 365 giorni all'anno e che rappresenta un fiore all'occhiello della ricerca italiana in ambito internazionale. Il libro è scritto in modo semplice ma rigoroso, pensato apposta per informare e spiegare senza dogmatismi o dietro false ideologie




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Virus: non solo agenti infettivi ma anche cibo per protozoi

Virus. Non solo distruttori (di cellule) ma anche "integratore alimentare" per alcuni microrganismi.

Pensiamo alle placide acque di uno stagno in cui abbondano insetti e qualche pesce. Nelle sue acque, generalmente poco invitanti dato l'aspetto non cristallino, è in atto una invisibile ma continua disfida tra i virus e gli organismi unicellulari (batteri e protozoi) dove i primi cercano di trovare l'ospite adatto da usare per riprodursi e i secondi, vittime potenziali, a volte si trasformano da preda in predatori usando gli intrusi come fonte di cibo (una scena che evoca la trasformazione di Pac-man e dei fantasmini).
Per correttezza ricordo che i virus sono in genere altamente selettivi nella definizione di ospite "utile" (permissivo). La cellula bersaglio deve possedere sia recettori adeguati che un macchinario replicativo compatibile con le necessità riproduttive del virus. Ecco perché ad esempio un virus dell'influenza non è in grado di infettare le cellule muscolari dello stesso ospite (quindi geneticamente identiche) o cellule di organismi diversi da quelli abituali. Un batteriofago (virus dei batteri) non potrà fare nulla contro una cellula eucariote e sarà per questa inerte come un granello di sabbia.
Indizi di questa possibile alternanza di ruoli preda-predatore sono stati forniti da John DeLong, ricercatore presso l'università del Nebraska, a cui si deve la scoperta che alcune specie di Halteria, microorganismi ciliati che popolano le acque dolci in tutto il mondo, si nutrono dei clorovirus (virus che infettano le alghe verdi) che condividono il loro habitat acquatico. Una dieta questa per cui è stato coniato il nome virovoria/virivoria, rivelatasi sufficiente, in test di laboratorio, non solo a sostentare il microbo in assenza di altro cibo ma anche a permettergli di riprodursi.
Halteria (credit: Don Loarie)
L'utilizzo del virus come fonte di cibo può essere visto come una soluzione ecologica per rimettere in circolo parte del carbonio "intrappolato" nelle molecole organiche perse dalle cellule infettate quando "esplodono" durante la fase di rilascio della progenie virale.
Un riciclo non indifferente se si pensa a quanti virus ci sono nelle acque (circa 10 milioni in ogni goccia di acqua marina) e a quanti microbi tipo l'Halteria  esistono, senza contare quelli con simili capacità non ancora rilevati. Un tassello nel ciclo del carbonio fino ad oggi misconosciuto.

Non pura serendipità la scoperta di DeLong ma il proseguimento di studi iniziati nel 2016 per cercare di comprendere come riuscissero i clorovirus ad entrare in contatto ed infettare le zooclorelle (alghe verdi) che vivono a centinaia in perfetta simbiosi dentro protozoi ciliati come i parameci.
La relazione simbiontica tra un paramecio e le zooclorelle (alghe verdi)
(Credit: wikipedia)
La spiegazione più semplice era che l'infezione delle zooclorelle avvenisse prima del loro ingresso nei parameci oppure durante l'ingestione del cibo (in genere funghi unicellulari) da parte del protozoo.
In alternativa c'erano indizi in letteratura scientifica che indicavano la capacità di alcuni protozoi di rimuovere i virus dalle acque reflue, indicativi di una cattura diretta per quanto mai osservata.

Nessuna informazione era però disponibile sulla ragione di questa attività di cattura di virus e tanto meno sul ruolo negli ecosistemi microbici.
I virus sono fatti di cose buone come gli acidi nucleici, ovvero molto azoto e fosforo. Difficile credere che una sì preziosa fonte di materiale fosse stata dimenticata durante l'evoluzione. "Qualcosa" avrebbe usato questa nicchia dimenticata come fonte di cibo a buon mercato (altamente disponibile).
L'idea venne messa alla prova raccogliendo campioni da uno stagno in modo che ciascuna goccia campione contenesse almeno uno dei tanti microrganismi, fino a rappresentarli in modo più ampio possibile. A ciascun campione vennero poi aggiunte generose "porzioni" di clorovirus (come detto, questi virus sono in grado di infettare solo le alghe verdi e sono innocue per tutti gli altri microbi).
Dopo una incubazione di 24/48 ore si cercarono indizi nelle gocce se (e quali) specie microbi si fossero avvantaggiati della presenza dei virus come degli utile snack: ad esempio monitorando il loro stato vitale e riproduttivi.
Indizio trovato nelle gocce in cui era presente l'Halteria. Qui il numero di clorovirus era diminuito di 100 volte in soli due giorni e le cellule di Halteria (prive di ogni altra fonte di cibo) era cresciuta di 15 volte. Le Halteria nelle gocce di controllo (a cui non erano stati forniti clorovirus) non mostravano alcun aumento.
Indizi suggestivi ma serviva una prova definitiva che indicasse che il virus veniva usato come cibo dai protozoi. A questo scopo il DNA del clorovirus venne marcato con un colorante verde fluorescente prima di essere aggiunto al liquido contenente l'Halteria; poche ore dopo l'aggiunta il vacuolo (l'equivalente ciliato di uno stomaco) divenne verde brillante.
Il dato era ora inequivocabile: non solo i ciliati stavano mangiando il virus ma questi erano una fonte nutritiva sufficiente a sostentarli. 
L'analisi della dinamica predatore-preda (declino del clorovirus rispetto alla crescita di Halteria) mostrava che Halteria convertiva il 17% della massa di clorovirus consumata in nuova massa propria; percentuali simili  a quelle osservate quando i Parameci si nutrono di batteri o i piccoli crostacei mangiano le alghe.

Quanto sia diffusa la virovoria in natura o se sia essa un escamotage nutritivo da usare in tempi grami è una risposta ancora inevasa ma di importanza fondamentale per comprendere la resilienza delle reti alimentari.

Fonte
- The consumption of viruses returns energy to food chains
JP DeLong, (2022) Proceedings of the National Academy of Sciences 



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(Il libro dell'ecologia - Amazon)



Una chicca finché dura: The Hobbit illustrated by the author (Tolkien) a 30€

Virus giganti contro alcuni amebe patogene

Il virus gigante che infetta un nostro patogeno nostro nemico mortale

Su queste pagine ho già scritto di virus giganti (––> Dal permafrost un virus vecchio 30 mila anni) e di batteri giganti (––> "microbi giganti che non potrebbero esistere"). Torno sull'argomento per riportare la scoperta nelle acque di scarico austriache di un nuovo virus gigante che ha la peculiare (ed apprezzabile) caratteristica di infettare e distruggere microbi patogeni come le amebe.
Le amebiasi rappresentano un serio problema terapeutico a causa del limitato numero di farmaci disponibili, difficili da sviluppare per la semplice ragione che le amebe non sono batteri ma eucarioti. Le molecole candidate devono quindi evitare ogni possibile azione sulle nostre cellule (problema che non si pone con gli antibiotici data la grande differenza nel macchinario cellulare tra eucarioti e procarioti)
L'organismo unicellulare Naegleria fowleri, nota anche come ameba mangia-cervello, è uno dei parassiti umani più temibili. In un recente studio pubblicato su Nature Communications, i ricercatori dell'Università di Vienna hanno scoperto nelle acque reflue un virus (Naegleriavirus) che infetta in modo selettivo questo microbo. Il virus appartiene ad una classe di virus giganti (scientificamente noti come Nucleocytoviricota) e dal genoma complesso che hanno in comune la loro predilezione per alcuni protisti. Questi virus rivaleggiano in dimensioni con i batteri, vantando strutture uniche e tratti genetici precedentemente ritenuti esclusivi della vita cellulare.
Illustrazione del Naegleriavirus. In primo piano la struttura a forma di stella (stargate) da cui fuoriesce il DNA virale quando viene iniettato nella ameba
Credit: S. Pommer
Le Naegleria sono amebe unicellulari, presenti nei bacini idrici di tutto il mondo. La Naegleria fowleri prospera in acque calde superiori a 30°C ed è causa di meningoencefalite amebica primaria, un'infezione cerebrale rara ma dal decorso invariabilmente fatale.
I Naegleriavirus isolati da un impianto di trattamento delle acque reflue sono membri del gruppo chiamato Klosneuviruses, che conta solo altri 3 membri.
L'ameba si infetta quando scambia il virus come fonte di cibo e lo ingloba.
Ameba infettata dal virus. I puntini sono le nuove particelle virali. La massa blu in alto è la "fabbrica virale" che si sviluppa intorno al DNA virale che ha infettato la cellula
Credit: Patrick Arthofer und Florian Panhölzl
Una volta dentro, il virus prende il controllo della cellula attivando il suo processo di replicazione (e bloccando il suicidio della cellula) che dopo poche ore porterà al rilascio di un centinaio di particelle virali e alla morte per lisi della cellula.

L'interesse (a parte quello intrinseco della biologia di questi virus) della scoperta è il loro potenziale utilizzo per bonificare le acque reflue senza rischio (ed inquinamento) alcuno per altri organismi. Nonostante le potenzialità dei virus come "antibiotici viventi" (ne ho scritto ––> "I batteriofagi contro i superbatteri")  non è invece ipotizzabile un loro utilizzo terapeutico nelle amebiasi cerebrali.


Fonte
A giant virus infecting the amoeboflagellate Naegleria
P. Arthofer et al, (2024) Nature Communications




Libro di testo consigliato


Un virus abissale, direttamente dalla Fossa delle Marianne

Scoperto un nuovo virus abissale ... da NON confondere (almeno speriamo) con il famigerato virus T-Abyss presente nella serie Resident Evil. 

Il virus è stato identificato dai sedimenti fangosi prelevati a 8900 metri di profondità.
Una scoperta utile per far luce sugli ecosistemi microbici esistenti in queste aree remote ed estreme (per temperatura e pressione giusto per citare le principali), note come zone adopelagiche, la cui importanza arriva "fino alla superficie" dato l'importante ruolo svolto nel ciclo del carbonio e quindi nel clima globale.

Tecnicamente, il virus appartiene alla (nuova) famiglia dei Suviridae, che come tutti i batteriofagi sono capaci di infettare solo i batteri, quindi totalmente innocui per gli eucarioti. I batteriofagi, intesi come categoria ombrello, sono presenti praticamente in ogni ecosistema sul nostro pianeta e possono essere incredibilmente abbondanti con concentrazioni marine che possono arrivare a 10^7/ml.
In verità non è il primo ritrovamento del genere con il precedente ottenuto su fondali quasi 1000 metri più in alto, 8000 metri sotto la superficie oceanica.
I risultati dello studio che hanno portato alla identificazione del nuovo membro, denominato fago vB_HmeY_H4907, sono stati pubblicati la scorsa settimana sulla rivista Microbiology Spectrum.
Il batteriofago vB_HmeY_H4907.
Image credit: Su et al., doi: 10.1128/spectrum.01912-23.
Di particolare interesse la modalità usata per identificarlo. In condizioni normali i virus vengono identificati o dall'analisi al microscopio elettronico delle cellule infettatesi naturalmente o meglio ancora   coltivando le cellule bersaglio in presenza della probabile sorgente del virus, come fluidi (siano essi acque reflue/ambientali o liquidi corporei). Una procedura qui improponibile sia per la difficoltà di coltivare dei batteri capaci di crescere solo in condizioni estreme che della non conoscenza sulla presenza o meno di virus nei campioni prelevati.
Il metodo usato è di tipo induttivo cioè basato sia sugli studi precedenti che dall'analisi genetica dei batteri che vivono in queste aree, da cui ottenere indizi sulla presenza o di virus lisogenici (già integrati nel genoma batterico) e della permissività di tali batteri ad essere infettati da virus di famiglie già note.

Senza troppi altri tecnicismi, i ricercatori sono così riusciti a scovare un nuovo fago in grado di infettare batteri della famiglia Halomonas, noti per essere presenti sia nelle zone adopelagiche che in altri luoghi estremi come le bocche idrotermali delle acque profonde.
Batteri molto studiati sia per come "materiale di lavoro" nel campo della biologia sintetica che per la loro capacità di scomporre gli idrocarburi del petrolio (utili per le geoprospezioni petrolifere) che per il potere proliferare in aree ad alta salinità, in pH alcalino e possedere una alta tolleranza alla contaminazione. La loro abbondanza perfino in zone profonde come la Fossa delle Marianne (10900 metri, pressione di circa 1064 atmosfere) suggerisce un loro ruolo ecologico importante in questi ambienti.
Ad oggi erano due i virus noti per usare usare Halomonas, tre con il nuovo arrivato.
L'analisi genetica del fago ha evidenziato che usa una strategia lisogenica, particolarmente utile in un ambiente dove gli ospiti non abbondano. Con l'aiuto del microscopio elettronico a trasmissione, i ricercatori sono perfino riusciti a vedere la "testa icosaedrica" del fago, grande circa 65 nanometri, e la sua "coda" non contrattile lunga 183 nanometri.
Altri dati ricavati dal genoma indicano che vB_HmeY_H4907 non ha molti parenti prossimi (evolutivamente distante da altri virus di riferimento) ma ha molti tratti genetici in comune con il suo ospite batterico, indicativo di una loro coevoluzione in ambienti così difficili.
Non si può escludere che il fago sia anche portatore di "informazioni" utili per la sopravvivenza del batterio, ma questa ad ora è mera speculazione.

Per concludere, non bisogna sottostimare l'impatto di questi regni microbici, per di più sperduti negli abissi. Vero che sono microscopici ma la biomassa complessiva di questi organismi (e il loro essere altri diretti del ciclo del carbonio e altro) spiega la loro influenza sull'ecologia globale
I batteriofagi hanno anche un ruolo (e prospettive di utilizzo) molto importanti perfino in ambito terapeutico, utilizzabili come antibiotici "viventi" per combattere infezioni batteriche altrimenti incurabili. Sul tema rimando a precedenti articoli "ripristinare la sensibilità batterica agli antibiotici", "la nostra sfida ai superbatteri
Fonte
- Identification and genomic analysis of temperate Halomonas bacteriophage vB_HmeY_H4907 from the surface sediment of the Mariana Trench at a depth of 8,900 m
Yue Su et al, (2023) Microbiology Spectrum

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Dal mondo Resident Evil, ecco alcuni gadget "virali"
A cominciare dalla (finta) fiala virus T-Abyss perfetta per cosplayers
 
e le action figure tematiche


La nostra sfida continua con i microbi: dalla necessità del microbioma al problema della resistenza agli antibiotici

Di questi tempi va molto di moda prendersela con i microbi … e ci sono tutte le ragioni per farlo.
Basterebbe citare il coronavirus e batteri resistenti agli antibiotici per trovarci di fronte ad un bollettino di guerra in cui i caduti sono dell'ordine di decine di migliaia nei soli USA (la stima del CDC per la sola resistenza agli antibiotici è 1 decesso ogni 15').

Noi e i microbi creiamo un ecosistema
Senza i microbi noi non potremmo vivere e non mi riferisco solo al loro ruolo nell'ecosistema, ivi compresi i processi di biotrasformazione e dell'esistenza stessa dell'ossigeno nell'atmosfera (metà della produzione annuale viene dal fitoplancton). Parlo dei microbi che vivono su e dentro di noi,  dove "dentro" si riferisce all'epitelio delle cavità a diretto con l'esterno (ne ho parlato in un precedente articolo).

I numeri del resto parlano chiaro
  • mell'ambiente la biomassa di carbonio riferita ai microbi è pari a 93,2 gigatoni (1 gigatone =109 tonnellate) mentre l'essere umano  è pari allo 0,05% della biomassa dei microbi.
  • Nel corpo umano il rapporto tra il numero di nostre cellule e microbi è di circa 1 a 10 (tuttavia calcoli recenti sono più restrittivi, con un rapporto solo di 1 a 3). Ovviamente in questo caso "size matters", per cui il rapporto di massa si inverte: circa 1-3% della nostra massa corporea è batterico, che equivale a dire che ogni individuo di 90 kg si porta a spasso, principalmente sull'epitelio intestinale, 1 kg di microbi.
I microbi hanno un loro patrimonio genetico per cui possiamo anche pesare la quantità di informazione genetica tra i due "universi" coesistenti. Ebbene il 90% dell'informazione genetica è microbica (e questo senza contare i geni mitocondriali che come ho descritto altrove, hanno una remota origine batterica, essendo il risultato di una simbiosi spinta all'estremo).
Nota. Anche se spesso usato in senso generico il termine microbioma indica in modo specifico la totalità del patrimonio genetico posseduto dal microbiota, la popolazione di microrganismi che colonizza un determinato luogo.
Un calcolo recente stima in 10 mila le specie microbiche che vivono nell'ecosistema "in/su" una persona normale. E non si tratta di una mera contaminazione ambientale con cui dobbiamo convivere. Ne abbiamo bisogno.
Nota. Sebbene il termine microbi riguardi tutto ciò che appartiene al mondo microscopico e unicellulare (termini non sinonimi), quindi batteri, lieviti, virus e protisti, in questo articolo lo userò per indicare principalmente i batteri, seguendo il linguaggio "comune".
La riprova è sperimentale e osservazionale: gli animali nati e cresciuti in un ambiente asettico, sono meno sani e più inclini alle malattie autoimmuni e lo stesso vale per i bambini costretti a vivere in un ambiente sterile a causa del loro sistema immunitario compromesso.
Una conferma indiretta viene dall'osservazione di bambini sani cresciuti in un ambiente eccessivamente sanitizzato, che mostrano un maggior rischio di allergie di coetanei lasciati liberi di "sporcarsi". L'ipotesi sottostante (nota come ipotesi dell'igiene) è che i microbi "tengono in allenamento" il nostro sistema immunitario abituandolo a regolarsi; in loro assenza la risposta ad un allergene ambientale rischia di diventare "eccessiva" in quanto il sistema manca di "autocontrollo"; fenomeno  questo, più che l'inquinamento, alla base dell'aumentata frequenza di allergie rispetto a 50-100 anni fa quando l'aria delle città in piena era industriale era nettamente peggiore.

In linea generale i microbi che ospitiamo svolgono un ruolo riassumibile in tre punti:
  • la concorrenza locale tiene a bada i microbi patogeni, sia con una azione diretta (bloccati chimicamente dai vicini) che indiretta (competizione per nutrienti);
  • producono sostanze nutritive che noi primati non possiamo produrre (vitamine e anti-infiammatori);
  • digeriscono prodotti alimentari per "noi" indigeribili cedendoci, dopo il loro primo "assaggio", sostanze alla nostra portata (esempio classico il rumine degli erbivori che ospita batteri capaci di digerire la cellulosa, senza i quali il ruminante soffrirebbe di inedia anche se allevato su ricchi pascoli).
Quanto detto spiega come mai l'alterazione della nostra flora intestinale possa avere effetti importanti sul nostro benessere fisico (vedi anche la correlazione flora intestinale e obesità) e psichico (vedi articolo sulla serotonina e intestino). Una relazione tanto iimportante che quando decimiamo la popolazione batterica intestinale usando antibiotici ad ampio spettro si ricorre all'ausilio di probiotici per ripopolare l'intestino.

Questo non vuol dire che i microbi sono per definizione buoni. Sono semplicemente organismi con cui condividiamo l'ambiente e con i quali il nostro organismo attua un rapporto di vigilanza attiva: "non invadere spazi che non ti sono propri, non provocare danni e io ti tollero". Se abbassi le difese anche il più innocuo dei batteri cercherà di godere dell'improvvisa abbondanza di nutrienti e inizierà a proliferare dove non dovrebbe. Esempio tipico sono le infezioni fungine di cui soffrono i malati di AIDS, il cui sistema immunitario non è in grado di esercitare una vigilanza attiva.
Esistono poi batteri con cui è "impossibile andare d'accordo" in quanto produttori di tossine e/o particolarmente virulenti. Microbi responsabili di patologie fatali in pochi giorni, se non trattate. In alcuni casi sono pericolosi anche da morti in quanto la azione patologica è mediata da tossine da loro prodotte e non dalla proliferazione batterica nell'organismo (esempio classico è il botulino).

Gli  antibiotici, l'arma definitiva?
Contro questi avversari temibili, capaci di trasformare una semplice ferita in un rischio letale, pensavamo di avere trovare il rimedio definitivo con gli antibiotici.
"Pensavamo", verbo declinato al passato.
C'è stato infatti un tempo in cui il problema pareva risolto. Parliamo di non tanti anni fa, inizio degli anni '50, quando la penicillina divenne IL prodotto presente in ogni casa, simbolo di emancipazione dalle infezioni.
Lo stesso Fleming in verità si avvide che i batteri potevano diventare resistenti all'antibiotico ma si pensò che il problema non fosse di immediata rilevanza e che lo si sarebbe potuto superare con la scoperta di antibiotici sempre nuovi.
Gli antibiotici possono essere di origine naturale (prodotti da altri microbi) o sintetica, ma hanno tutti in comune l'avere come bersaglio le funzioni essenziali di un microbo tale da bloccarne la proliferazione (effetto citostatico) o eliminarlo (effetto citotossico). Alcune di queste molecole hanno un'azione molto specifica (funzionano su un numero limitato di specie batteriche), altri hanno spettro più ampio e come tali colpiscono batteri "buoni" e "cattivi".

Sottolineo un aspetto importante: gli antibiotici esistono da sempre in natura essendo le armi usate da alcuni microbi per attaccare un diretto concorrente, sia per eliminare la competizione che per nutrirsene. E' ovvio che nel momento stesso in cui esiste l'arma inizia la selezione della contromisura che potrà neutralizzarla:
  • mutazioni che rendono il bersaglio (tipicamente una proteina) invisibile/inaccessibile all'arma;
  • la selezione di geni che codificano l'informazione per neutralizzare l'arma. Tipico esempio la  produzione di beta-lattamasi con cui i batteri neutralizzano gli antibiotici della classe beta-lattamici come  la penicillina

In situazioni standard i microbi "resistenti" sono meno di una piccola minoranza (quando pure presenti) della popolazione in quanto la resistenza, in assenza di pressione selettiva, non fornisce alcun vantaggio ai portatori. E la Natura agisce sul principio di parsimonia: assenza di vantaggio equivale a non selezione del carattere che si diluirà nel tempo fino a scomparire o rimarrà confinato in sottogruppi di microbi per pura statistica.
La situazione cambia nel momento stesso in cui entra in azione l'antibiotico: ora solo i microbi resistenti sopravviveranno e prolifereranno, avendo anche il vantaggio di una concorrenza decimata. Il problema si aggrava a causa della capacità dei batteri (anche tra specie molto diverse tra loro) di scambiarsi pezzi di codice genetico, favorendo così la diffusione della resistenza ad un dato antibiotico a batteri mai venuti in contatto con esso.
Parafrasando Joker in Batman:The Dark Knight "Whatever doesn't kill you makes you stranger", esattamente ciò che sta accadendo con i microbi ora.

Un problema globale
È così che la resistenza agli antibiotici è passata in soli 50 anni da mera discussione accademica di eventi in natura a problema clinico su scala mondiale. Un problema che potrebbe riportare l'orologio dello tecnica medica allo stato in cui versava la medicina fino agli anni '30, quando anche banali ferite superficiali erano a rischio infezione (figuriamoci interventi chirurgici complessi).
Se la resistenza ad un antibiotico (o meglio ad una classe di antibiotici, come i lattamati) crea problemi, immaginate di dovere affrontare batteri resistenti a molti se non a tutti gli antibiotici noti (fenomeno etichettato come MDR da multi-drug resistance). Questo è ciò che gli americani chiamano "Super-bug", superbatterio, o con l'acronimo AMR (antimicrobial resistance).
Non si tratta di una mera possibilità ma di dati ottenuti dalla pratica clinica corrente.
Cito alcuni esempi:
  • ceppi di micobatteri (XDR-TB) resistenti anche agli antibiotici di ultima generazione con la conseguenza di lasciare i medici nelle stesse situazioni dei loro colleghi di fine '800 (quando fino a metà anni '60 il consensus era che la TBC fosse una malattia del passato).
  • Enterobacteriaceae resistenti ai carbapenemi (CRE) in grado di uccidere, a causa della refrattarietà ai trattamenti classici, circa la metà dei pazienti  con sepsi. Come nel caso della resistenza ai beta-lattamati anche qui la resistenza acquisita è data da un enzima, NDM-1, il cui coinvolgimento venne osservato la prima volta nella Klebsiella pneumoniae, isolata da un paziente svedese  ammalatosi durante una vacanza in India (ND sta per New Delhi, M-1 sta per "Metallobetalactamase-1")
  • Il Clostridium difficile è un batterio responsabile di diarrea e colite in circa  mezzo milione di persone all'anno nei soli USA. La comparsa di ceppi resistenti agli antibiotici ha causato un aumento del 400% dei casi riportati.
  • Circa il 67% delle persone che si ammalano di febbre tifoide, causata da Salmonella typhi hanno a che fare con ceppi resistenti ad almeno un antibiotico
Il Centers for Disease Control and Prevention (CDC) ha definito gli AMR "batteri da incubo", attivando un sistema di classificazione su 3 livelli (preoccupante, grave e urgente), in base a tre parametri come:
  • gravità della malattia causata; 
  • frequenza con cui si verificano; 
  • velocità con cui si diffondono
Molti sono stati gli studi finalizzati a comprendere le cause della fulminea (pochi decenni) diffusione su scala globale. Queste le cause principali:
  • il basso costo di questi farmaci li ha resi accessibili a tutti e per molti anni acquistabili senza  alcuna prescrizione medica. Ricordo bene quando da bambino ricevevo una spolverata di penicillina sui moltepici graffi frutto delle escursioni in bici o delle interminabili partite a calcio quotidiane. Più sono comuni gli antibiotici, più è probabile la selezione di ceppi resistenti. Se a questo si aggiunge il non rispetto della posologia (molti smettono di assumerli non appena i sintomi diminuiscono o li assumono in modo incostante) il risultato è facilitare la comparsa della resistenza.
  • Allevamenti e fognature. Se negli ultimi 20 anni i paesi occidentali hanno implementato norme sempre più restrittive sull'uso di antibiotici e hanno imposto il trattamento delle acque reflue cittadine e (ancora più importante) dagli allevamenti intensivi, queste norme sono carta bianca in paesi, a parole, sviluppati come India e Cina che pianificano missioni lunari e sono incapaci di gestire norme di igiene basiche. L'India ad esempio ha uno dei più alti tassi di AMR a causa del trattamento inadeguato delle acque reflue, degli scarti ospedalieri, dei fanghi agricoli, del deflusso dall'acquacoltura mentre la Cina (e alcuni paesi est -Europa) lo hanno nel campo dell'allevamento (in cui si fa ampio uso di antibiotici, pratica di fatto obbligata data la densità animale).
Limitandoci agli studi condotti in India, ne cito 3:
  • Uno studio del 2017 ha dimostrato che nelle acque reflue oltre il 70% dei ceppi di Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Acinetobacter baumannii e quasi la metà dei ceppi di Pseudomonas aeruginosa erano resistenti ai fluorochinoloni e alle cefalosporine di terza generazione.
  • In un altro studio, i noti Vibrio cholera e Vibrio parahaemolyticus, isolati dai gamberetti, molluschi e granchi in vendita sui banchetti dei mercati erano tutti resistenti all'ampicillina, mentre la resistenza al ceftazidima variava dal 67 al 96%.
  • Un terzo studio ha dimostrato che le acque sotterranee e superficiali utilizzate per scopi potabili e ricreativi mostravano che il 17% degli E. coli era resistente alla cefalosporina di terza generazione. Un valore che arrivava al 100% su 283 isolati di E. coli da un fiume.
Sebbene (come ho scritto in precedenza) la "bomba" della diffusione dei ceppi AMR si sia innescata con il crollo dell'URSS (e con esso il suo sistema sanitario con conseguente penuria e non ottemperanza ai regimi terapeutici completi fondamentali quando si segue un trattamento antibiotico), in India il problema ha avuto origine diversa frutto del particolare connubio tra società istruita e mezzi inadeguati. Qui il problema è che chi cerca una consulenza medica per infezioni ad un livello superiore a quello di base, si vede prescrivere antimicrobici di ultima generazione ad ampio spettro per la mancanza di una diagnostica adeguata volta ad identificare l'agente patogeno responsabile e la sua suscettibilità ai farmaci. L'attitudine terapeutica diventa quindi "uccidili tutti se non sai qual'è il microbo responsabile" (e magari si tratta di un virus …).
Se a questo aggiungiamo che l'India manca degli obblighi nei controlli sui rifiuti prodotti dalle industrie farmaceutiche locali (non poche e di buon livello) e che tali rifiuti vanno a contaminare la rete idrica, i campi e i fiumi (in cui in tanti si immergono per scopi rituali) il meccanismo di diffusione con moltiplicatore è evidente.

A questo aggiungiamo la comparsa di nuovi meccanismi di resistenza ancora poco studiati ma che contribuiscono alla diffusione dei ceppi resistenti. a livello globale, fenomeno massimizzato dalla rete di trasporti che "non prevede passaporti per i microbi".

Il risultato è l'impossibilità di trattare anche le complicazioni infettive comuni (polmonite) oltre a quelle "di un tempo" come tubercolosi, gonorrea e malattie di origine alimentare. Non solo microbi patogeni diventeranno sempre più difficili da trattare ma, cosa più preoccupante le malattie oggi trattabili o opportunistiche, rischiano di sfuggire dal controllo medico.

Se non si comprende la genetica e la potenza della selezione naturale che guida l'evoluzione saremo destinati a farci male.
I microbi sono in giro da più tempo di noi, circa 3,5 miliardi di anni, e sono sopravvissuti a estinzioni di massa e alla comparsa di sempre nuovi avversari. Non sono ancora qui per caso, evolutosi per resistere alle minacce esterne; per sfidarli (sapendo che ci servono per sopravvivere) dobbiamo agire in modo intelligente e questo vuol dire agire sui punti sopra elencati

In questa lotta potremo avere alleati inattesi, i virus batterici. Organismi perfetti come arme antibatteriche in quanto mirate a ceppi particolari e in grado di coevolvere autonomamente per superare le contromisure di resistenza adottate dai loro bersagli, in una lotta che va avanti dall'inizio dei tempi sulla Terra.
L'anno scorso una chiara dimostrazione di efficacia dei batteriofagi nel trattamento di una infezione da micobatteri MDR in un paziente affetto da fibrosi cistica.
Altro esempio delle potenzialità insite nei batteriofagi, il loro utilizzo sul campo per il trattamento di una infezione intrattabile che aveva colpito il marito di una ricercatrice durante un viaggio in Egitto. Il resoconto delle procedure messe in atto è mirabilmente descritto nel libro "The Perfect Predator" (di Strathdee & Patterson) o se preferite in modo molto più condensato in un articolo su The Verge.



Affascinati dai microbi? Allora, il museo Micropia, sito ad Amsterdam fa al caso vostro. Un luogo totalmente dedicato all'osservazione interattiva con il mondo microbico


Virus contro superbatteri
xxx

***  Virus "antibiotici" ***
(articolo originariamente pubblicato a dicembre 2012)

In un precedente articolo accennavo ai virus batterici (batteriofagi) e al loro potenziale utilizzo in sostituzione e/o in aggiunta alla terapia antibiotica standard.
Un argomento attuale, sebbene l'idea di usare i batteriofagi a scopo terapeutico risalga a diverse decine di anni fa, data la sempre maggiore diffusione di batteri multi-resistenti agli antibiotici; un problema causato dal prolungato errato utilizzo, nei tempi e nei modi, degli antibiotici (senza prescrizione, per tempi inadeguati e perfino per la terapia di malattie virali!!). 
Il fago T4 in una immagine classica (®textbookofbacteriology.net)
I batteriofagi sono virus ampiamente studiati grazie ad i lavori pioneristici di Frederick Towrt nel 1915 e di Félix d'Hérelle nel 1917. Si tratta di virus molto diffusi che svolgono una funzione duplice nell'ecosistema batterico: mantengono sotto controllo la popolazione batterica; favoriscono la trasmissione genica orizzontale (scambio di materiale genetico fra batteri). In effetti è in  parte proprio grazie a quest'ultimo aspetto, e alla presenza di virus lisogeni (infezione non litica), che la resistenza agli antibiotici si propaga fra un ceppo batterico e l'altro.
Simpatica comparazione tra ciclo mitico e ciclo lisogeno indotto da alcuni virus batterici
(credit: amoebasisters.com)


T4 al computer (®cell.com)
Attenzione però a non confondere la modalità della diffusione della resistenza con le cause che hanno permesso l'emergere della resistenza. La diffusione di un qualunque carattere associato ad un vantaggio selettivo è un processo del tutto naturale.
Batteri resistenti agli antibiotici (®USA Today)

Il problema è a monte: per anni le persone hanno utilizzato male (leggi in modo inefficace o, peggio, inutile) gli antibiotici e tale cattivo  utilizzo ha favorito la diffusione di ceppi resistenti; inoltre per sua stessa natura l'ambiente ospedaliero ha "concentrato" in un'area ristretta una massa critica di batteri resistenti che hanno avuto vita facile a scambiarsi le diverse resistenze prima e a diffondersi nei frequentatori dell'ospedale poi.
I virus batterici sono quindi il mezzo e non la causa prima della diffusione della resistenza. Questo loro aspetto neutro li rende all'opposto delle armi micidiali per invertire la diffusione dei batteri resistenti.
Come? Attraverso la diffusione di virus litici in grado di eliminare rapidamente e specificamente i batteri bersaglio; questo approccio permetterebbe di evitare gli effetti collaterali tipici degli antibiotici classici ad ampio raggio. I batteriofagi inoltre sono in grado di contrastare le difese che i batteri attivano mutando, attraverso un identico processo di adattamento.
Mentre scrivevo quest'ultima frase già immagino la domanda fatidica: ".. e se poi il batteriofago muta e diventa capace di infettare l'uomo?".
Capisco l'obiezione ma è totalmente inconsistente per motivi spiegati nei corsi base di biologia (già al liceo):
un virus batterico NON può in alcun modo e qualunque mutazione acquisisca, infettare e tanto meno in una cellula eucariote (cioè funghi, piante, protisti, noi ... insomma tutto ciò che NON è procariote).
Una dimostrazione pratica senza tanti dettagli biomolecolari? Viviamo in un ambiente ricco di virus batterici; di più, ne ospitiamo un numero considerevole nel nostro intestino. Per loro noi "non esistiamo" in quanto non vedono proprio le nostre cellule. L'unico danno che un virus batterico potrebbe farci è essere così "di bocca buona" da fare fuori tutti i batteri intestinali. Il risultato sarebbe identico all'effetto collaterale di quando assumiamo antibiotici, cioè la necessità di assumere fermenti lattici per ricostituire la flora batterica

Torniamo allora all'idea di sfruttare i batteriofagi come nuovi antibiotici.
Una idea non nuova ma studiata negli anni '30 sia in Germania che in Unione Sovietica, poi abbandonata (tranne se non ricordo male in Georgia), perché meno conveniente rispetto agli antibiotici molecolari divenuti comuni alla fine degli anni '40.
Ma come dice Timothy Lu del MIT "ci sono oggi le condizioni per una rinascita dell'approccio fagico grazie alle tecniche di ingegneria genetica ora disponibili [e dalle necessità attuali]".  "Tecniche" aggiunge Mark van Raaij del CNR spagnolo," che permettono di smontare e rimontare il fago a proprio piacimento".

Quali sono allora i problemi principali che frenano lo sviluppo?
  • Il primo è di tipo economico. Le industrie farmaceutiche sono restie ad investire soldi in un'area in cui la possibilità di generare brevetti è limitata a causa della "notorietà" delle conoscenze associate. Ricordo che per depositare un brevetto la tecnologia proposta deve essere "nuova e non nota alle persone del campo". Il che diviene problematico quando le conoscenze del campo si basano su innumerevoli studi  condotti negli ultimi 90 anni. In altre parole no brevetti-no ritorno degli investimenti = investimento in perdita.
  • Il secondo problema è legato alla approvazione degli enti regolatori. Né la FDA (USA) ne la EMA (EU) hanno elaborato un protocollo che consenta alle biotech di affrontare tranquillamente (cioè in modo da essere sicuri di non ricevere contestazioni da parte di tali enti) lo sviluppo di combinazioni fagiche necessarie per affrontare in tempi rapidissimi l'emergere di batteri resistenti (senza aspettare che si evolvano naturalmente).
Alcuni esempi applicativi
  • nel 2009 Lu e Collins crearono un virus in grado di infettare batteri resistenti al quinolone; il virus modificato portava un gene che impediva al batterio di riparare i danni genetici causati dall'antibiotico. Il risultato fu impressionante: il trattamento virus più quinolone aumentò l'efficacia dell'antibiotico di 10.000 volte, di fatto impedendo sul nascere la comparsa di batteri resistenti (--> PNAS).
  • Nel 2012 Udi Qimron della Università di Tel Aviv mostrò che aggiungendo un batteriofago modificato a batteri resistenti alla streptomicina e all'acido nalidixico diversi giorni prima dell'antibiotico, la sensibilità all'antibiotico veniva ripristinata. Grazie a questi dati Qimron sta ora pensando di trattare direttamente i ferri chirugici con i fagi. Questo approccio assicurebbe una efficacia pressochè totale al trattamento antibiotico standard di prassi dopo l'intervento. Oltre al vantaggio di efficacia questo approccio faciliterebbe il percorso di approvazione: non si tratterebbe più di fagi da somministrare ad esseri umani ma di un trattamento per gli strumenti medicali.
    Quest'ultimo approccio si avvale del finanziamento fornito dalla Bill & Melinda Gates Foundation.
E siamo solo all'inizio

Aggiornamenti
2019. Un libro sulle potenzialità dei batteriofagi in clinica è "The Perfect Predator" di Strathdee & Patterson. Il lavoro a cui è ispirato è riportato in un articolo su The Verge.
2020. Un articolo divulgativo interessante sul newyorker

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Articolo sull'argomento
Lauren Gravitz   Nature Medicine 18, 1318–1320 (2012)

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