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Batterio con mini genoma o quasi-virus?

In un precedente articolo si è discusso del motivo per cui i virus sono catalogati come quasi-organismi, senza però fare ipotesi sulla loro origine.
Tre le ipotesi principale, non mutualmente esclusive: 
  • stringhe di informazione prebiotica comparse al tempo del mondo a RNA, capaci di parassitare le cellule;
  • regressione massima di una cellula che parassitava altre cellule (endoparassita) adattatasi talmente bene da essersi ridotta a mera informazione genetica veicolata da involucro proteico;
  • sul modello del gene egoista proposta da Dawkins, una stringa di informazione comparsa in un genoma diventata indipendente e capace, una volta ricoperta da un involucro proteico, di  infettare altre cellule.
A supporto della seconda ipotesi un articolo apparso su BioRxiv in cui si descrive il batterio Sukunaarchaeum adattatosi a tal punto al ruolo di parassita cellulare da essere rimasto (quasi) solo il suo genoma.
Dati ancora indiziari in verità considerando che ad oggi di questo organismo è noto solo il DNA scoperto all’interno del dinoflagellato Citharistes regius (eucarioti unicellulari Regno Protozoa).
Citharistes regius
Molto interessante, ed indicativo di una evoluzione finalizzata al totale parassitismo, il fatto che la maggior parte dei 189 geni che compongono del piccolo genoma sono attinenti a funzioni legate alla sua replicazione senza quasi geni codificanti per vie metaboliche
I virus propriamente detti sono avanti di un passo avendo eliminato gran parte dei geni "replicativi" (tranne nel caso della trascrittasi inverse necessaria ai retrovirus) demandando il compito della copiatura al macchinario replicativo della cellula, dirottato ad uso esclusivo del virus per generare la progenie.
A rendere ancora più curiosa la scoperta, l’analisi genomica del microbo-quasi-virus lo collaca nel regno degli Archea (batteri antichi diversi dai batteri moderni tanto quanto lo sono dagli eucarioti, con cui tuttavia hanno punti in comune).

La scoperta del Sukunaarchaeum è stata, come spesso accade, casuale.
I ricercatori erano intenti al sequenziamento del DNA nelle cellule di C. regius perché era nota la presenza all'interno del dinoflagellato di cianobatteri simbiotici. Sorpresa fu il ritrovamento, accanto al DNA del dinoflagellato e dei cianobatteri, di una sequenza genica diversa consistente in DNA circolare di sole 238.000 paia di basi, appena il 5% della lunghezza del genoma del batterio Escherichia coli, mai identificato al di fuori di questa cellula ad indicare un ciclo vitale strettamente da endoparassita. 

Per quanto piccolo, la metà del Nanoarchaeum equitans, anch'esso un archeobatterio parassita endocellulare, il record di "essenzialità" spetta alle 160k paia di basi di un batterio che vive in simbiosi nelle cellule di alcuni insetti, a cui fornisce molecole utili.
Nanoarchaeum equitans (ingranditi) e la cellula da loro colonizzata
Credit: alchetron
Sukunaarchaeum è privo di praticamente tutte le vie metaboliche riconoscibili, il che suggerisce che il microbo abbia solo una relazione parassitaria (sfruttamento unilaterale) con il dinoflagellato. Come anticipato, quasi tutti i geni di Sukunaarchaeum sono coinvolti nella replicazione, trascrizione e traduzione del DNA cosa che lo mette a metà strada tra un virus (che delega alla cellula il lavoro) e un classico endoparassita dotato di proprie vie metaboliche.

Manca ancora la fotografia al microscopio del Sukunaarchaeum, cosa non facile considerando che le sue dimensioni sono verosimilmente inferiori al micrometro (le dimensioni di N. equitans, il cui genoma è 2 volte più grande, sono di soli 0,4 micrometri). Ideale sarebbe trovare un “parente” che vive libero così da determinare esattamente la funzione delle proteine del microbo, comprese diverse proteine di grandi dimensioni associate alla membrana che potrebbero essere correlate al modo in cui interagisce. con il suo ospite.

Sukunaarchaeum è con ogni probabilità solo il primo di una lunga lista se si considera che dall'analisi dei database contenenti sequenze di DNA trovate da prelievi in mare in diverse parti del globo, sono state trovate sequenze simili.

Fonti
Microbe with bizarrely tiny genome may be evolving into a virus
Science (06/2025)
A cellular entity retaining only its replicative core: Hidden archaeal lineage with an ultra-reduced genome
Ryo Harada et al. (2025) bioXriv
The genome of Nanoarchaeum equitans: Insights into early archaeal evolution and derived parasitism


***
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Nuovi indizi sul legame tra Asgard e proto-eucarioti

In un precedente articolo si era parlato degli Asgard, sottogruppo di Archea, come gli organismi più simili alle cellule che avrebbero originato gli eucarioti.
In estrema sintesi l'albero della vita consta di 3 Domini (Archea, Bacteria e Eucarya), il più recente dei quali il nostro (cioè Eucarya) sarebbe originato dalla "fusione" simbiontica tra un Archea e un batterio. 
Maggiori dettagli negli articoli––> "Asgard" e "Alla ricerca di LUCA". 
Da un ramo degli Archea e una "preda" batterica, l'origine degli eucarioti
Graphic: Florian Wollweber / ETH Zurich
Di particolare interesse sul tema la recente caratterizzazione di un membro degli Asgard, Lokiarchaeum ossiferum, la cui analisi proteica ha permesso di identificare proteine analoghe (funzionalmente omologhe) alle "nostre" actina e tubulina così da fare luce su alcuni dei passaggi evolutivi che hanno accompagnato la transizione tra questi Archea e gli eucarioti.
Lokiarchaeum ossiferum
Image T. Rodrigues-Oliveira, University of Wien

Nella prima dello studio, pubblicato 2 anni fa su Nature, i ricercatori descrissero la struttura cellulare del L. ossiferum, scoperto in Slovenia nei sedimenti di un canale di acqua salmastra, evidenziando la presenza di alcune strutture tipiche degli eucarioti, basate su una proteina molto simile alla actina degli eucarioti.
Questa proteina, chiamata Lokiactin (poi trovata in gran parte degli Asgard), forma strutture filamentose abbondanti nelle protrusioni simili a tentacoli che emanano dal corpo cellulare di questi Archea, che sembrano svolgere un ruolo chiave nel mantenere la architettura cellulare (quello che negli eucarioti chiameremmo citoscheletro).
Il citoscheletro degli eucarioti però è basato (anche) sui microtubuli, polimeri lineari in perenne rimaneggiamento il cui mattone fondante è la tubulina. Questi minuscoli tubi sono importanti per i processi di trasporto all'interno di una cellula e la segregazione dei cromosomi durante la divisione cellulare. L'origine (evolutiva) dei microtubuli è ancora oggi poco compresa essendo (apparentemente) assente negli altri Domini. 
Un recente articolo apparso su Cell pare viene in aiuto a questo mistero riportando la scoperta di proteine (funzionalmente) simili alla tubulina negli Asgard. capaci di assemblarsi a formare microtubuli, sebbene più piccoli di quelli presenti negli eucarioti.
Dato curioso, solo poche cellule di Lokiarchaeum producono i microtubuli. Inoltre, a differenza dell'actina, tali proteine (i geni) sono presenti solo in pochissime specie degli Asgard e non sono state rilevate negli altri Archea.
Graphic: Margot Riggi, Max Planck Institute of Biochemistry
Domanda a cui bisognerà rispondere è perché solo alcuni microbi di Lokiarchaea producono queste strutture e che ruolo rivestono nella funzione cellulare. Come prima anticipato, negli eucarioti i microtubuli sono responsabili dei processi di trasporto all'interno della cellula e vi sono delle proteine ​​motrici che "camminano lungo" questi tubi (chinesina e dineina ad esempio), proteine però mai identificate negli Asgard.
Il fatto che anche nei Lokiarchaea tali strutture siano dinamiche (i monomeri di tubulina si aggiungono ad una delle estremità) rafforzan l'idea che queste svolgano (anche) funzioni di trasporto simili ai microtubuli negli eucarioti.

L'opinione comune attuale è che la comparsa di un citoscheletro sia stato uno dei passaggi più importanti tra quelli che hanno portato agli eucarioti. Possibile quindi che i progenitori di questi Asgard abbiano compiuto, sviluppando queste strutture, il primo passo verso la pluricellularità e la differenziazione funzionale, proprio quando hanno sviluppato strumenti come le "appendici" (protrusioni) cellulari guidate da proteine actiniche con le quali avrebbero catturato e inglobato il batterio dalla cui mancata digestione si sarebbe evoluto un profondo rapporto simbiontico di cui i mitocondri e i plastidi sono testimoni.
Nel tempo, la comparsa del nucleo e dei compartimenti cellulari avrebbe sancito la nascita del Dominio Eukarya.

In sintesi, l'identificazione di proteine e strutture tipo il citoscheletro degli eucarioti (assenti sia nei Bacteria che, in parte, negli altri Archea) rafforza l'ipotesi che tra gli antenati degli Asgard ve ne siano stati alcuni che, dotati della capacità di catturare prede mediante estroflessioni cellulari, abbiano infine dato il via alla fusione simbionte con una preda batterica non digerita. 

Vantaggio ulteriore di queste scoperte è che l'isolamento di queste proto-actine/tubuline permetterà di generare anticorpi specifici utili per scandagliare acquitrini o colture microbiche complesse alla ricerca di nuovi Archea.


Fonte
- Microtubules in Asgard archaea
Wollweber F. et al. (2025) Cell 

- Actin cytoskeleton and complex cell architecture in an Asgard archaeon.




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La cooperazione funziona meglio tra le formiche che tra gli umani

Chiunque abbia avuto a che fare con le formiche in cucina o durante un picnic sa che le formiche sono creature altamente sociali: non le vedrete mai da sole. Anche gli umani sono creature sociali (con tutte le eccezioni del caso). 
Le formiche e gli umani sono le uniche creature in natura che cooperano durante il trasporto di grandi carichi le cui dimensioni superano di molto quella dei singoli membri.
Un team di ricerca israeliano del Weizmann Institute of Science ha sfruttato questa comune tendenza per condurre un'affascinante gara su chi fosse più bravo a manovrare un carico voluminoso lungo un percorso non lineare in cui la "muta" intelligenza collettiva (da intendersi come cooperazione muta per risolvere il problema) era la chiave per riuscire nell'impresa.

I risultati dell'esperimento comportamentale, pubblicati sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), permettono di chiarire alcune dinamiche dei processi decisionali di gruppo.
Chiaramente umani e formiche per quanto sociali siano non hanno molto in comune per cui era necessario ideare un confronto interspecie non viziato dalle dotazioni fisiche e di comunicazione. A tale scopo i ricercatori hanno creato una versione reale del "rompicapo dei traslocatori di pianoforti", che non è il titolo della celebre scenetta sulla scalinata di Laurel&Hardy ma un classico problema computazionale nel campo della pianificazione del movimento nella robotica, sui possibili modi di spostare un oggetto dalla forma insolita (ad esempio un pianoforte) dal punto A al punto B in un ambiente complesso. Nello specifico i due sfidanti dovevano spostare non un (mini)pianoforte ma un oggetto a forma di T, di dimensione tale che potesse essere spostato da un singolo membro del team solo spingendo/tirando, lungo un percorso diviso in tre camere collegate da due strette fessure. 
Reclutare i partecipanti allo studio è stato più facile nel caso degli umani, che si sono offerti volontari semplicemente perché era stata offerta loro questa possibilità e probabilmente perché gli piaceva l'idea di una competizione.
Le formiche, d'altra parte, sono tutt'altro che competitive. Si sono unite perché sono state indotte a pensare che il carico pesante fosse un boccone succulento da trasportare a casa. Le formiche scelte per competere con l'Homo sapiens sono le Paratrechina longicorni, una specie molto comune a volte definite "formiche pazze" per il movimento  caratteristico restio dal seguire percorsi lineari come invece fanno altre formiche.

Formiche vs. umani (credit: Weizmann)
Sia il team umano che quello formica sono stati suddivisi in sottogruppi composti da un numero diverso di individui in modo da valutare quale fosse la situazione in cui l'intelligenza di gruppo dava il suo meglio.
  • Il team formiche ha affrontato la sfida del labirinto in 3 combinazioni: singola formica; gruppo di 7; gruppo di 80. 
  • Gli umani hanno gestito il compito in 3 modalità: singolo; gruppo di 6 o 9 individui; gruppo di 26. 
Per rendere il confronto il più significativo possibile, in alcuni casi ai gruppi di umani fu chiesto di evitare di comunicare tramite parole o gesti, in alcuni casi indossando maschere chirurgiche e occhiali da sole per nascondere bocca e occhi. Inoltre, ai partecipanti umani fu detto di tenere il carico usando solo le maniglie che simulavano il modo in cui viene le formiche trasportano i pesi. Le maniglie contenevano misuratori che misuravano la forza di trazione applicata da ciascuna persona durante il tentativo.
Ogni combinazione è stata ripetuta varie volte in modo da avere significatività statistica e i vari tentativi sono stati catturati via video e analizzati al computer.

Non sorprenderà sapere che le capacità cognitive (pianificazione e strategia) degli umani siano state determinanti nel fare vincere la prova al team umano nella sfida individuale.
Nella sfida di gruppo, tuttavia, il quadro era completamente diverso, soprattutto per i gruppi più grandi. Non solo i gruppi di formiche hanno ottenuto risultati migliori delle singole formiche, ma in alcuni casi hanno ottenuto risultati migliori degli umani.

I gruppi di formiche agivano insieme in modo calcolato e strategico, esibendo una memoria collettiva che le aiutava sia a persistere in una particolare direzione di movimento che ad evitare di ripetere gli errori. Una sinergia e miglioramento delle prestazioni che pareva mancare agli umani specie nei gruppi più numerosi, in particolare quando la possibilità di comunicazione verbale e "espressiva" tra i membri del gruppo veniva impedita (qui le prestazioni essere inferiori perfino a quelle del singolo individuo a riprova del vecchio detto "meglio soli che male accompagnati").
Il gruppo umano pareva andare sempre verso la soluzione attraenti a breve termine che però si rivelava fallata sul percorso complessivo.

Tra le ragioni biologiche che spiegano la miglior resa di gruppo delle formiche è senza dubbio il loro strettissimo grado di parentela (sono tutte sorelle) con interessi comuni (sopravvivenza del nido e trasmissione dei geni) tanto da avere fatto coniare al celebre biologo Edward O. Wilson il termine superorganismo per descrivere le colonie di formiche (e non solo) come una sorta di corpo vivente composto da più "cellule" che cooperano tra loro; il gruppo è ben superiore alla somma delle singole "parti" che sono sacrificabili esattamente come le cellule della epidermide attivano un programma di differenziamento che le porta alla morte in modo da formare un rivestimento impermeabile per il corpo.
Nel libro "Il gene egoista" Richard Dawkins spiega in termini genetici per quale motivo le api operaie trovino più vantaggioso (in termini genetici) lavorare perché la loro sorella "regina" si occupi della produzione della progenie invece di farlo esse stesse. 
Le formiche che agiscono in gruppo sono più intelligenti, perché per loro il gruppo è maggiore della somma delle sue parti. Al contrario, la formazione di gruppi non ha ampliato le capacità cognitive degli esseri umani. La famosa "saggezza della folla" che è diventata così popolare nell'era dei social network ha dimostrato la sua fallacia in questi esperimenti e la cosa non mi sorprende specie guardando al comportamento degli influencers e degli "influenzati"



Fonte
Comparing cooperative geometric puzzle solving in ants versus humans.





Dal mondo prebiotico alla vita sulla Terra primordiale

Ricostruire i passaggi che hanno portato da un mondo abiotico alle primissime forme di vita, dando il via all’evoluzione degli organismi unicellulari, è un compito improbo a cui gli scienziati si dedicano fin dai tempi del “brodo di Miller”.
Non solo domande sul "come" ma anche il “dove” sia avvenuto sono oggetto di indagini che negli anni hanno portato alla rimodulazione dalle ipotesi classiche (camini idrotermali sottomarini) alle calme acque in prossimità delle isole (vedi il precedente articolo sul tema e il tag "paleobiologia").
Sul "quando" le stime sono un poco meno nebulose.
Le primissime evidenze della vita sulla Terra risalgono a circa 3,7 miliardi di anni fa (dati basati su rocce verdi trovate in Groenlandia) anche se si stima che la vita fosse già presente 3,9 miliardi di anni fa, quando la Terra iniziò a raffreddarsi fino a una temperatura alla quale esisteva allo stato liquido. La comparsa delle prime cellule (procarioti) è datata intorno a 3,5 miliardi di anni fa mentre per gli eucarioti bisogna bisogna aspettare 1,8-2 miliardi di anni fa (vedi l'articolo "Alla ricerca del LUCA").
Piacevole la sorpresa di trovare un articolo (breve ma adeguato) su un quotidiano che per sua natura, aggravata a volte da faciloneria senza revisione, non è un luogo ideale in cui trovare temi scientifici trattati adeguatamente. Il Foglio ospita una sezione curata da Enrico Bucci che è invece la dimostrazione di come, volendo, sia possibile trattare temi specialistici in modo adeguato.
In questo ultimo Bucci riassume gli studi più recenti centrati sulla dimostrazione della possibilità, nella Terra primordiale, di reazioni spontanee capaci di produrre i "mattoni" della vita e la capacità di questi mattoni di autoassemblarsi in strutture sempre più complesse.
Scopo non è dimostrare COME la vita abbia avuto inizio (impossibile a meno di avere una macchina del tempo) ma che certi eventi siano potuti avvenire.

Prendo spunto dalla bella idea di Bucci per approfondire un poco il tema aggiungendo alcune informazioni e referenze 

Possiamo iniziare il viaggio dalla accertata presenza di molecole organiche complesse come i ribonucleosidi (i mattoni del RNA) durante il primo periodo Adeano. Presenza confermata (anche) dal ritrovamento di queste molecole sui meteoriti, rocce vecchie come il Sistema Solare.
Si ipotizza che i ribonucleosidi possano formarsi anche nello spazio attraverso una serie di reazioni chimiche che coinvolgono semplici molecole organiche come la formaldeide, l'acido cianidrico e l'acqua, tutte molecole presenti sia nelle nubi interstellari che nelle comete. In presenza di radiazione (cosmica o ultravioletta) tali molecole possono essere indotte a reagire formando ribosio, il precursore dei ribonucleotidi.
La scoperta dell'aminoacido glicina in una cometa nostra vecchia conoscenza (vedi qui) ha evidenziato come anche gli aminoacidi possano formarsi nel mezzo interstellare (Ioppolo et al, e S. A. Krasnokutski et al).
Sulla Terra primordiale, condizioni simili potrebbero essere esistite nelle bocche idrotermali grazie alle alte temperature e alla presenza di vari gas e minerali.

Altra ipotesi sulla formazione dei ribonucleotidi è quella sottesa alla ipotesi del mondo a IPA, secondo cui gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) avrebbero svolto un ruolo importante nell’origine della vita, fungendo, nell'ipotetico stadio del "mondo a RNA", da precursori della sintesi di acido ribonucleico. A conferma dell'ipotesi la recente scoperta che tali composti sono estremamente abbondanti nelle nubi molecolari presenti nello spazio (vedi "Un mega idrocarburo nella nube del Toro").

La disponibilità di ribonucleosidi non sarebbe stata però sufficiente. Era necessario che fossero presenti le forme "attive", i ribonucleotidi trifosfato (rNTP) cioè le forme a cui l’aggiunta di tre gruppi fosfato li rende reattivi e idonei per la polimerizzazione. Nella cellula questo processo è mediato da processi che sfruttano l’energia prelevata dal “cibo” (molecole organiche scisse nei componenti base usati per la generazione di energia, conservata sotto forma chimica in molecole reattive come ad esempio ATP). Una volta usato per alimentare una reazione chimica l'ATP perde un gruppo fosfato diventando ADP e deve essere ricaricato usando l'energia chimica accumulata. Stesso discorso per attivare i "mattoni", rNTP e NTP, necessari alla sintesi di RNA e DNA, rispettivamente.
Chiaramente tali reazioni catalizzate da enzimi non potevano esistere nel mondo prebiotico per cui la “attivazione” doveva essere mediata da processi spontanei conseguenti all’interazione tra molecole preesistenti.
Kim e Benner nel 2021 dimostrarono che in condizioni simili a quelli esistenti nell’Adeano, tra cui la presenza di borato, nichel e di un donatore di gruppi fosfato, la sintesi abiotica di rNTP era possibile.
Il ruolo di nichel e borato è catalizzatore e stabilizzatore, rispettivamente. 
Una volta "comparsi" i rNTP  il passo successivo è stato verosimilmente la loro polimerizzazione a formare filamenti di RNA sufficientemente lunghi dal possedere una qualche attività catalitica (vedi in tale proposito il concetto di ribozima). 
Nel 2022 lo studio di Jerome e collaboratori provò che in presenza di materiale vetroso di origine vulcanica (come diabasebasalto e gabbro prodotti in seguito al rapido raffreddamento della lava) i rNTP potevano polimerizzare spontaneamente in catene di RNA di lunghezza fino a 300 nucleotidi.
Processo che, detto per inciso, avrebbe potuto avvenire anche su Marte, un tempo pianeta vulcanicamente attivo.
A questa nozione aggiungiamo i risultati presentati nel 2020 da Tjhung e colleghi che dimostrano che (alcune delle) molecole di RNA prodotte, rientranti nelle dimensioni di cui sopra, erano in grado di sintetizzare copie funzionanti di sé stesse. Il lavoro successivo di Jerome et al. evidenziò attività catalitiche paragonabili ad una ribozima polimerasi e a ribozima ligasi di classe I capaci nel complesso (polimerizzazione e ligazione) di autoreplicarsi
La ligasi è un enzima (o ribozima in questo caso essendo fatto di RNA) capace di catalizzare la formazione di un legame chimico. La polimerasi catalizza la polimerizzazione dei singoli mattoni (monomeri).
La bassa fedeltà di copiatura delle ribozima polimerasi (e in generale delle RNA polimerasi) è un volano di mutazioni che ha conseguenze evolutivamente importanti. Se da una parte i ribozimi "figli" prodotti avranno una certa probabilità di non funzionare (o male) dall'altra l'alta frequenza di mutazioni faciliterà il processo di autoselezione (leggasi evoluzione) di ribozimi più affidabili.  
Punto questo indagato in un lavoro del 2021 (Portillo et al) in cui si sono impiegate tecniche di evoluzione diretta (riproducono in laboratorio la selezione naturale). I ricercatori dimostrarono che erano sufficienti 52 generazioni per ottenere, spontaneamente, ribozimi polimerasi migliorati in efficienza e fedeltà, capaci di generare sequenze di RNA più lunghe. 
Pesiamo questo dato ottenuto in poche generazioni con le decine o centinaia di milioni di anni a disposizione nella Terra primitiva per formare molecole di RNA più complesse ed efficienti nella replicazione (vedi concetto di fitness genetica)
Un articolo del 2022 (Mizuuchi et al) mostra che oltre all’evoluzione verso forme più efficienti si è andata via via affinando la cooperazione tra molecole di RNA che ha portato a ribozimi interdipendenti e a reti di replicatori: l’interazione porta ad un aumento della stabilità complessiva del sistema, favorendo i replicatori coinvolti (vantaggio evolutivo).

Cooperazione che, come mostrato nell’articolo di Müller et al. (2022), avrebbe coinvolto non solo molecole di RNA ma anche corti polimeri di aminoacidi (peptidi), a loro volta capaci di interagire tra loro.
Le molecole ibride RNA-peptide appaiono più stabili e attive rispetto ai singoli RNA o peptidi e come tali avrebbero rappresentato una fase intermedia cruciale nella transizione dal mondo a RNA a un mondo dominato da ribosomi (macromolecole ribonucleoproteiche in cui avviene avviene la sintesi di proteine partendo dall’informazione contenuta nell’RNA) primitivi. 
Un evento chiave per l'emergere del codice genetico e del flusso di informazione RNA-proteine.

I processi ora delineati avvenivano però in un ambiente liquido privo di “barriere”, con il risultato di rendere le interazioni rare e limitate all’instaurarsi di condizioni locali permissive (in una nicchia nella roccia sul fondo dell’oceano o una pozza di acqua calma in una laguna). Riproducibilità e frequenza su tempi non su scala di eoni erano possibili solo se gli ingredienti si fossero trovati all’interno di una struttura protetta; dovevano in altre parole formarsi delle protocellule, ambienti sufficientemente stabili da separarsi dall'instabilità esterna dell’Adeano.
Nulla a che vedere, sia chiaro, con le attuali cellule che anche nella forma batterica hanno un buon grado di complessità. Queste protocellule dovevano essere strutture sferiche delimitate da molecole lipidiche anfipatiche capaci di autorganizzarsi in uno stato energicamente favorevole mediante una  membrana a due strati, delimitante l'interno acquoso in cui erano intrappolati ribozimi e peptidi. Vantaggio della formazione di compartimenti interni era l’aumento di concentrazione locale che rendeva possibile reazioni chimiche anche senza l’ausilio di catalizzatori biologici (enzimi).
Proof of concept verificato nel 2021 nell’articolo di Köksal et al. Fosfolipidi e acidi grassi che dovevano essere presenti nel mondo prebiotico hanno mostrato capacità di auto-organizzarsi come protocellule in presenza di superfici minerali.
Ultimo studio sul tema quello di Saha et al. (2024) in cui si dimostra come l’inglobamento dell’RNA all’interno delle protocellule, oltre a migliorare stabilità e attività catalitiche, accelera l’evoluzione.
Nel dettaglio si è visto che ribozimi incapsulati in vescicole (micelle, liposomi, etc) evolvono più velocemente rispetto a quelli non incapsulati, selezionando forme sempre più attive. Il fenomeno descritto, noto come effetto di Matthew
Effetto di Matthew. Chiunque sia in una situazione di vantaggio (in questo caso, i ribozimi più efficienti) tende ad acquisire più vantaggi rispetto alla concorrenza aumentando così la fitness. Le protocellule come sinonimi di acceleratori/incubatori di impresa o se vogliamo metterla in sociologia "chi più ha, più avrà".

Una ultima notazione riguarda i lipidi che compongono le membrane cellulari. A differenza degli altri "mattoni" della vita che abbiamo dimostrato potere essere sintetizzati anche nello spazio, i lipidi devono essere prodotti. Un importante tassello che manca nel quadro oggi delineato. La soluzione a questo dilemma viene dai cosiddetti condensati biomolecolari, cioè aggregati spontanei e non delimitati da membrane presenti all'interno delle cellule sia nei procarioti che negli eucarioti, e che svolgono ruoli chiave (ribosomi, etc). Questi aggregati avrebbero potuto formarsi nella Terra primordiale creando una sorta di proto-cellule in cui le reazioni di sintesi (anche dei lipidi) diventavano possibili.


***
Alcuni libri sul tema
E. Smith & H.J. Morowitz

D.W. Deamer


Vivere senza mitocondri

Caratteristica condivisa tra tutti gli eucarioti la presenza dei mitocondri, conseguenza (ne ho scritto nell'articolo "Alla ricerca di LUCA" che vi consiglio di leggere prima di questo) di un processo endosimbiotico avvenuto eoni fa tra una cellula proto-eucariotica ed un batterio. 
Evento simile, ma presente solo nel regno vegetale, ha portato alla “unione” tra il proto-eucariote (probabilmente già in possesso dei mitocondri) con un cianobatterio (fotosintetico) ad originare i cloroplasti
Notizia sorprendente quindi la scoperta di eucarioti privi di mitocondri, la centralina energetica con la duplice funzione di utilizzo e neutralizzazione (essendo tossico) dell’ossigeno molecolare per ricavare energia chimica.
Monocercomonoides
(credit: Naoji Yubuki)
Il dato si riferisce ad un genere di protisti che vive nell’intestino di molti animali (dalle termiti ai ruminanti), in cui l'assenza dei mitocondri è quasi sicuramente un evento secondario (evolutivamente).
I protisti sono un (ex) raggruppamento/regno del vivente che comprende organismi molto diversi tra loro, oggi usato solo come termine ombrello per indicare quegli organismi (unicamente) unicellulari che non sono catalogabili come vegetali, animali o funghi (vedi concetto di parafilia).
Lo studio, pubblicato sulla rivista PLOS Genetics, è stato condotto sui Monocercomonoides (protisti dell'ordine Ossimonade) che vivono nelle viscere di animali, organismi quindi evolutisi in un ambiente in cui l’ossigeno è praticamente assente. Vero che precedenti studi avevano mostrato che diversi gruppi di protisti possiedono mitocondri più semplici della versione classica ma si riteneva che fosse impossibile per una specie perderli completamente.
La scoperta che Monocercomonoides exilis (phylum: Preaxostyla - classe: Metamonada) erano privi di mitocondri ha spinto i ricercatori a fare una analisi comparativa del genoma di varie specie di ossimonade allo scopo di comprendere quali siano stati gli adattamenti biochimici che hanno permesso a queste cellule di compensare la perdita dei mitocondri.
L’analisi ha permesso di datare la perdita dei mitocondri ad antenati vissuti circa 100 milioni di anni fa (in piena era dei dinosauri), tempo che coincide con il processo di speciazione delle ossimonadi oggi diffuse.

La "scelta" di fare a meno dei mitocondri, in un organismo evolutosi insieme ad essi, è stata possibile grazie alla rimodulazione della biochimica cellulare con il trasferimento (ovviamente precedente la "perdita") di alcune funzionalità chiave dal mitocondrio al citosol. Lo studio ha dimostrato che questo evento ha coinvolto il trasferimento di reazioni come la sintesi del FeS cluster**, evidente in "cugini" ossimonadi originati da un antenato comune al clade, a dimostrare un preadattamento che ha reso possibile, in alcune specie, la perdita dei mitocondri (il che dimostra anche che tale "modifica" non è stata un adattamento alla perdita dei mitocondri ma la condizione che ha reso possibile tale perdita)

Lo studio di più specie di ossimonadi ha fornito la prova che la profonda riorganizzazione della sintesi del cluster FeS è stata avviata da un trasferimento genico orizzontale della via batterica SUF e da una perdita della via mitocondriale ISC già prima dell'ultimo antenato comune di questo clade (vedi Mitochondrial iron-sulfur clusters: Structure, function, and an emerging role in vascular biology).

Come molti protisti anaerobi, M. exilis non è in grado di sintetizzare ATP mediante fosforilazione ossidativa; l'ATP viene invece sintetizzato tramite glicolisi nel citosol (Karnkowska et al. 2016). Insieme alla perdita di fosforilazione ossidativa, M. exilis non codifica per nessuno degli enzimi del ciclo dell'acido tricarbossilico
M. exilis possiede una via completa dell'arginina deiminasi che gli consente di produrre ATP mediante conversione di arginina in ornitina, NH3 e CO2 (Novák et al. 2016). Dall'analisi del genoma si evince che il protista può generare ATP metabolizzando anche altri amminoacidi, tra cui triptofano, cisteina, serina, treonina e metionina

Fonte
Characterization of the SUF FeS cluster synthesis machinery in the amitochondriate eukaryote Monocercomonoides exilis
Priscila Peña-Diaz et al, (2024) Current Biology

The Oxymonad Genome Displays Canonical Eukaryotic Complexity in the Absence of a Mitochondrion
Anna Karnkowska et al, (2019) Mol Biol Evol.

- Genomics of Preaxostyla Flagellates Illuminates the Path Towards the Loss of Mitochondria
Lukáš V. F. Novák et al, (2023) PLOS Genetics


Note

** I cluster ferro-zolfo (Fe-S) sono cofattori il cui ruolo più noto è mediare il trasferimento di elettroni all'interno della catena respiratoria mitocondriale attraverso i complessi I, II e III al citocromo c, prima del successivo trasferimento all'ossigeno molecolare.. I percorsi dei cluster Fe-S che funzionano all'interno dei complessi respiratori sono altamente conservati tra batteri e mitocondri delle cellule eucariotiche. 
Nei batteri questi cluster sono localizzati in varie sedi cellulari e sono coinvolti in numerosi processi biologici essenziali, tra cui:
Citosol.
  • via metabolica degli amminoacidi e delle purine, e la replicazione e la riparazione del DNA. Sebbene prodotti direttamente nel citosol, non fluttuano “a caso” ma sono subito incorporati in proteine/enzimi specifici, liberi o associati alla membrana, dove partecipano alle reazioni redox. 
  • Nei casi in cui siano utilizzati come mediatori nel trasporto di elettroni (ad esempio nei batteri aerobi) , i cluster Fe-S sono componenti della catena respiratoria, in modo simile a quanto avviene nei mitocondri.
Membrana
  • Nei batteri fotosintetici, come i cianobatteri, i cluster Fe-S sono componenti integrali dei complessi proteici fotosintetici legati alla membrana e dei trasportatori di elettroni.
  • Sistemi di cluster ferro-zolfo (ISC) e fattore di utilizzazione dello zolfo (SUF): questi sistemi sono responsabili dell'assemblaggio e del mantenimento dei cluster Fe-S. Il sistema ISC funziona in condizioni normali, mentre il sistema SUF viene attivato in condizioni di stress come stress ossidativo e carenza di ferro.
  • Batteri fissatori di azoto: nei batteri fissatori di azoto, i cluster Fe-S fanno parte del complesso enzimatico nitrogenasi, che è essenziale per la fissazione dell'azoto.


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Dalla "Pompei" dei trilobiti immagini dettagliate di fossili vecchi 500 milioni di anni

Tra i fossili non “dinosaureschi” più iconici, impossibile non citare i trilobili, alias artropodi marini vissuti nel Paleozoico ed estintisi una decina di milioni di anni prima che i dinosauri (nel Triassico) iniziassero la loro conquista del mondo. 
Nello specifico i trilobiti prosperano in un arco di tempo tra il Cambriano inferiore (530 milioni anni fa) fino al tardo Permiano (250 M anni fa), passando quasi indenni attraverso due estinzioni di massa (Ordoviciano-Siluriano e tardo-Devoniano) per sparire durante la transizione Permiano-Triassico.
Walliserops trifurcatus, una delle tante specie di trilobiti fossili trovati in Marocco
(Jebel Oufatene / Kevin Walsh )
Il nome trilobita indica la ripartizione del corpo “a tre lobi”, uno dei tratti comuni di artropodi peraltro con buon grado di diversificazione, verosimilmente conseguenza dell'occupazione di specifiche nicchie ecologiche. La ragione della loro abbondanza tra i reperti fossili dell’epoca è conseguenza certo della loro ampia diffusione (seppur sempre acquatica) ma soprattutto del loro esoscheletro mineralizzato costituito da materiale chitinoso, un ottimo viatico nel processo di fossilizzazione.

Un recente studio pubblicato sulla rivista Science descrive in modo estremamente dettagliato la struttura di questi antichi organismi grazie all’analisi di alcuni resti sepolti dalla cenere di un'eruzione vulcanica datata circa 515 M anni fa nella regione che oggi corrisponde al Marocco, all’epoca parte del Gondwana, nota per essere ricca di fossili di Trilobiti.

I paleobiologi descrivono l’eccezionale stato di conservazione di questi fossili (che a tutti gli effetti paiono come la “Pompei dei trilobi” per i resti pietrificati dalla cenere) proprio a causa della cenere vulcanica, fine come talco, riuscita a penetrare fino alla parti anatomiche più microscopiche. Perfino il tratto digestivo di alcuni di questi fossili è pieno di questi sedimenti, ingeriti prima della morte. Con il tempo la cenere si è indurita generando calchi 3D giunti intatti fino ad oggi.
Varie le posizioni congelate dalla morte, alcuni raggomitolati a palla, altri in posizione normale e perfino uno ricorperto di bivalvi che usavano i trilobiti per farsi scarrozzare. 

I fossili sono stati analizzati mediante radiografie e versioni miniaturizzate della TAC così da ottenere immagini ad alta risoluzione anche di strutture minuscole e delicate come le antenne e le setole che ne ricoprivano le zampe.

Disponibile anche sul sito CNN


Fonte
Rapid volcanic ash entombment reveals the 3D anatomy of Cambrian trilobites
Abderrazak El Albani et al, (2024) Science, 384(6703) pp. 1429-1435

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Individuato il meccanismo che provoca emicrania dopo la fase con aura

L'emicrania colpisce poco più del 10% della popolazione italiana con un impatto sociale ed economico rilevante legato sia alla perdita di produttività che al costo dei farmaci per una condizione che è, nella maggioranza dei casi, cronica.
emicrania
(immagine creata con IA)
Le manifestazioni della malattia sono varie sia come gravità che come tipologia dei sintomi quali aura, emiplegia, cefalea, confusione mentale, etc.
Il fenomeno noto come aura** riguarda circa un quarto di tutti i pazienti affetti da emicrania, ovvero disturbi visivi o sensoriali di carattere temporaneo e che precedono l'attacco di emicrania di 5-60 minuti.
Come per altre malattie i maggior progressi nella comprensione dei meccanismi causali vengono dalle forme familiari della malattia. Rispetto alla popolazione generale, i parenti di primo grado di pazienti emicranici hanno un rischio 1,9 volte più elevato di presentare emicrania senza aura; il rischio è 1,4 volte più elevato nei familiari di pazienti affetti da emicrania con aura.  I geni responsabili della predisposizione sono stati individuati solo in una particolare forma di emicrania (emicrania emiplegica familiare, con prevalenza 1 ogni 10000), caratterizzata da sintomi prolungati che in alcuni casi si associano a perdita di conoscenza e convulsioni. 
Sebbene sappiamo con una certa certezza perché i pazienti soffrano di aura, è sempre stato un mistero il motivo per cui sia seguito da mal di testa, quasi sempre unilaterale (ricordo che il cervello è privo di recettori coinvolti nella via del dolore).

Uno studio recente ha fatto luce sulle ragioni alla base sia della unilateralità della sintomatologia che sulle modalità dell'innesco della cefalea, la fase dolorosa della emicrania. Il lavoro, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science, ha dimostrato nei topi che le proteine ​​rilasciate dal cervello durante l'emicrania con aura vengono trasportate dal liquido cerebrospinale ai corpi delle cellule nervose sensoriali alla base del cranio, il cosiddetto ganglio trigemino, causando così mal di testa. La ragione è che alla radice del ganglio trigemino, la barriera che altrove impedisce alle sostanze di entrare nei nervi periferici è permeabile.
Il sistema nervoso periferico è costituito da tutte le fibre nervose responsabili della comunicazione tra il sistema nervoso centrale, il cervello e il midollo spinale (e il corpo). Il sistema nervoso sensoriale, che fa parte del sistema nervoso periferico, è responsabile della consegna al cervello di informazioni come tatto, prurito e dolore.
Le ragioni della unilateralità sono da ricercare nel cablaggio nervoso e nel fatto che le sostanze che vengono rilasciate non diffondono in modo uniforme nel cervello.

Il dato del trasporto delle proteine "dolorifiche" mediato dal liquido cerebrospinale, ottenuto nei topi, ha trovato conferme anche negli umani grazie alle analisi effettuate mediante risonanza magnetica sul ganglio trigemino.
L'analisi del cocktail di sostanze presenti nel liquido cerebrospinale durante la fase dell'aura di un attacco di emicrania ha mostrato una variazione nella concentrazione di circa il 10% delle 1425 proteine ​​identificate. Di queste, 12 sono le proteine capaci di agire come attivatori dei nervi sensoriali; tutte queste proteine aumentavano di concentrazione durante la fase di aura.
Tra le proteine identificate cito il CGRP, proteina già associata all'emicrania e per questo  scelta come bersaglio di terapie mirate, basate sull'utilizzo di anticorpi monoclonali.



** Il meccanismo principale da cui scaturisce l’aura emicranica è la propagazione della depressione corticale (CSD) riassumibile come una specie di onda di attività elettrica che si propaga attraverso la corteccia cerebrale. La CSD inizia con una fase di intensa eccitazione neuronale, seguita da una prolungata depressione dell’attività elettrica. Durante questa fase di depressione, i neuroni rimangono in uno stato di “quiete”, che può durare diversi minuti. 
L'aura comparirebbe durante la fase di prolungata depolarizzazione a cui segue, quando l'onda raggiunge le fibre del trigemino, la fase di cefalea.

Rappresentazione del fenomeno della depressione corticali
(image: Chawla et al, 2018).


Le cause precise che scatenano la CSD non sono ancora completamente comprese, ma si ipotizza che possano essere coinvolti fattori sia nervosi che vascolari. Alterazioni a livello sottocorticale, come variazioni nel tono vascolare influenzate da neurotrasmettitori come la serotonina, potrebbero giocare un ruolo cruciale (Andrew C. Charles et al)



Fonte
- Trigeminal ganglion neurons are directly activated by influx of CSF solutes in a migraine model

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Consigli di lettura sotto l'ombrellone
"Emicrania" di Oliver Sacks 





Il rospo del deserto di Sonora non è l'unico animale che può provocare allucinazioni

Del rospo "psichedelico", e dei problemi che sta vivendo dopo l'articolo del NYTimes, ne ho scritto in precedenza e lì vi rimando per una trattazione completa.
Oggi amplio un poco il tema trattando di altri animali che, se maneggiati incautamente, danno gli stessi effetti collaterali.

Rana scimmia gigante (Phyllomedusa bicolor)
Habitat: bacino amazzonico; Sud America.
credit: TimVickers
Superfluo ricordare che, essendo un anfibio, il suo nome nulla ha a che fare con i noti animali marini (Cnidaria). Il nome deriva dal greco “phyllo” (foglia o fogliame) e “medousa” (regina o protettrice), quindi significa “regina/guardiana del fogliame”.
La cute produce una secrezione che nella forma essiccata, nota come kambô, e applicata su tagli o bruciature pelle, viene usata da alcune tribù come medicina e/o rituali sciamanici; negli anni si è diffusa anche nelle città fino ad essere proibita non tanto per i suoi minimi (e poco caratterizzati) effetti allucinogeni ma per l'elevato rischio di tossicità.
I dubbi sulla reale azione psichedelica vengono dal fatto che il kambô non attiva il recettore 5-HT2A, una proteina che rileva il messaggero chimico serotonina, come invece fanno le sostanze psichedeliche.
Le secrezioni avrebbero la finalità "rituale" di aumentare la resistenza dei cacciatori mentre la funzione originale (quella evolutasi nella rana) è di provocare nei predatori rigurgito, convulsioni e un cambiamento nella funzione cardiaca.
La composizione della secrezione è ancora poco caratterizzata per quanto riguarda quale fra le varie molecole (circa 200 peptidi) presenti siano i veri effettori

Spugna bucherellata (Verongula rigida)
La spugna bucherellata (traduzione letterale visto che non ho trovato il suo nome in italiano) e alcune altre spugne tra cui Smenospongia aura e Smenospongia echina producono 5-bromo-DMT e 5,6-dibromo-DMT e in quanto tali (la dimetiltriptamina o DMT è un allucinogeno) sono potenzialmente in grado di produrre effetti allucinogeni.
È noto che la spugna bucherellata concentra nei suoi tessuti sostanze chimiche chiamate monoammine dotate di azione neuromodulatrice. Questi composti non solo danno il sapore amarognolo alla spugna (già di suo un dissuasore per i predatori) ma possono anche alterare il comportamento nei pesci cocciuti limitando così il danno per la spugna a piccoli morsi prima di indurre il malcapitato a cambiare dieta.
Uno studio del 2008 sui ratti ha evidenziato una azione antidepressiva per il  5,6-dibromo-DMT mentre il 5-bromo-DMT mostrava proprietà sedative. 
Dato l'attuale interesse per la riscoperta di droghe modificate per uso terapeutico (su tutte l'approvazione della ketamina), non mi stupirebbe scoprire che alcune aziende stanno attivamente lavorando per selezionare prodotti da usare come antidepressivi, ansiolitici o antidolorifici.

Formica mietitrice californiana (Pogonomyrmex californicus)
Credit: Matt Reala
Il veleno della formica mietitrice californiana è costituito da enzimi non noti per indurre allucinazioni ma associati ad essi per come gli indigeni locali le usavano durante i loro rituali. Resoconti etnografici del secolo scorso riportano che le persone inghiottivano centinaia di formiche vive avvolte come palline all'interno di piume d'aquila, cosa che rende più che probabile che venissero morse dall'interno del tratto orofaringeo/esofago (dubito che fossero ancora vive nello stomaco).
Secondo gli studiosi, il dolore associato ad un tal numero di morsi di formiche, associato al freddo, al digiuno e alla privazione del sonno che caratterizzavano quei rituali, innescava allucinazioni e/o visioni mistiche insieme ad intorpidimento nella zona del morso. Uno stato che durava dalle 4 alle 8 ore.
Un morso di una di queste formiche è sufficiente ad uccidere un topo.
Il loro veleno serve come difesa dai grossi predatori, come piccoli mammiferi e lucertole.

Salpa (Sarpa salpa)
Varie sono le specie di pesci che possono causare allucinazioni uditive e visive se mangiati. Tra questi alcuni cavedani, i pesci pagliaccio e la salpa che userò qui come esempio essendo presente nel Mediterraneo.
Credit: Brian Gratwicke
Noto anche agli antichi romani come "pesce dei sogni", fatto che suggerisce i suoi potenziali effetti collaterali dopo averlo mangiato (ittioalleinotossismo). Sebbene rari sono stati documentati casi di intossicazione (Clinical Toxicology, 2006). Tra questi il caso di un quarantenne che dopo avere mangiato la salpa al forno ha in seguito avuto allucinazioni di animali urlanti e di artropodi giganti che circondavano la sua auto; sintomi durati 36 ore con cure mediche.
Non è noto quale sia il (o i) composto responsabile e alcuni ricercatori ipotizzano che si tratti di sottoprodotti derivati dalla dieta del pesce.
Importante sottolineare che questo fenomeno è diverso da altre forme di avvelenamento da pesce, i cui esempi classici sono quello del pesce palla e della ciguatera, entrambi causati da tossine prodotte da microbi simbionti nel pesce o dall'anisakis cioè pesce mangiato crudo e infetto da nematodi. 
All'interno del pesce palla sono ospitati batteri simbionti  che producono la tetrodotossina (TTX), neurotossina che può causare paralisi e morte. La ciguatera invece è causata dall'ingestione di alimenti di origine marina contaminati da una tossina, di origine non batterica, nota come ciguatossina, presente in molti microrganismi (in particolare il dinoflagellato Gambierdiscus toxicus). Può causare diarrea, vomito e debolezza, nonché un disturbo sensoriale inverso, in cui le cose calde sembrano fredde e viceversa. In entrambi i casi non si hanno allucinazioni. 
Rimane da capire se questi allucinogeni presenti nella salpa siano incidentali (dovuti alla sua dieta) oppure fungano da deterrente per i predatori.

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DEPLOY. L'intelligenza artificiale in aiuto per la classificazione dei tumori cerebrali

Un nuovo strumento di intelligenza artificiale classifica i tumori al cervello analizzando i vetrini delle biopsie, inferendo lo stato lo stato di metilazione dei geni (indice del loro stato attivo/inattivo) così da dedurre il sottotipo di tumore e indirizzare il trattamento migliore a disposizione.
La notizia è stata pubblicata su Nature Medicine.
I tumori al cervello possono essere particolarmente difficili da trattare e comprendere il sottotipo molecolare dei singoli tumori aiuta nella scelta di un trattamento personalizzato e più efficace.
Oggi il test e l'analisi dello stato di metilazione del DNA sono disponibili solo nei migliori ospedali e pertanto non è sempre possibile selezionare la terapia più appropriata.
Per aggirare questo limite, i ricercatori hanno deciso di creare un modello di intelligenza artificiale in grado di analizzare le immagini prese dai vetrini del tumore per prevedere il sottotipo di tumore dei tumori cerebrali.
A tale scopo hanno prima creato un modello che classifica i sottotipi di tumore al cervello direttamente dalle immagini disponibili e refertate, seguito da un secondo modello che genera indirettamente previsioni per la metilazione del DNA basate su quelle stesse immagini. Un terzo modello serviva per classificare la tipologia del tumore in base ai dati demografici del paziente (età, sesso). Infine, i ricercatori hanno combinato tutti e tre questi modelli per creare il nuovo strumento denominato DEPLOY (DEep learning from histoPathoLOgy and methYlation).

L'analisi ha sfruttato i vetrini contenenti le biopsie tumorali di più di 1700 pazienti per costruire il modello di intelligenza artificiale. Il "prototipo" è stato poi testato (ed istruito) usando altri 2100 pazienti. I risultati ottenuti hanno mostrano che DEPLOY è in grado di prevedere il sottotipo di tumore, con una precisione del 95%.
Come plus si è poi analizzano un gruppo di 309 campioni di tumore di difficile classificazione: la diagnosi ottenuta è stata più accurata di quella fornita inizialmente dall'anatomopatologo.
DEPLOY è pensato per aiutare a confermare l'intuizione iniziale e la diagnosi del patologo, il che fornirebbe una certa fiducia nella propria diagnosi iniziale, o potrebbe fornire una diagnosi diversa che il patologo potrebbe quindi testare come possibilità aggiuntiva.

È importante sottolineare che modelli di classificazione dei tumori basati sull’intelligenza artificiale simili a DEPLOY possono essere sviluppati anche per altri tipi di tumore rendendo la diagnosi disponibile anche negli ospedali meno attrezzati.

Fonte
Prediction of DNA methylation-based tumor types from histopathology in central nervous system tumors with deep learning.
Danh-Tai Hoang et al. (2024) Nature Medicine




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Virus giganti contro alcuni amebe patogene

Il virus gigante che infetta un nostro patogeno nostro nemico mortale

Su queste pagine ho già scritto di virus giganti (––> Dal permafrost un virus vecchio 30 mila anni) e di batteri giganti (––> "microbi giganti che non potrebbero esistere"). Torno sull'argomento per riportare la scoperta nelle acque di scarico austriache di un nuovo virus gigante che ha la peculiare (ed apprezzabile) caratteristica di infettare e distruggere microbi patogeni come le amebe.
Le amebiasi rappresentano un serio problema terapeutico a causa del limitato numero di farmaci disponibili, difficili da sviluppare per la semplice ragione che le amebe non sono batteri ma eucarioti. Le molecole candidate devono quindi evitare ogni possibile azione sulle nostre cellule (problema che non si pone con gli antibiotici data la grande differenza nel macchinario cellulare tra eucarioti e procarioti)
L'organismo unicellulare Naegleria fowleri, nota anche come ameba mangia-cervello, è uno dei parassiti umani più temibili. In un recente studio pubblicato su Nature Communications, i ricercatori dell'Università di Vienna hanno scoperto nelle acque reflue un virus (Naegleriavirus) che infetta in modo selettivo questo microbo. Il virus appartiene ad una classe di virus giganti (scientificamente noti come Nucleocytoviricota) e dal genoma complesso che hanno in comune la loro predilezione per alcuni protisti. Questi virus rivaleggiano in dimensioni con i batteri, vantando strutture uniche e tratti genetici precedentemente ritenuti esclusivi della vita cellulare.
Illustrazione del Naegleriavirus. In primo piano la struttura a forma di stella (stargate) da cui fuoriesce il DNA virale quando viene iniettato nella ameba
Credit: S. Pommer
Le Naegleria sono amebe unicellulari, presenti nei bacini idrici di tutto il mondo. La Naegleria fowleri prospera in acque calde superiori a 30°C ed è causa di meningoencefalite amebica primaria, un'infezione cerebrale rara ma dal decorso invariabilmente fatale.
I Naegleriavirus isolati da un impianto di trattamento delle acque reflue sono membri del gruppo chiamato Klosneuviruses, che conta solo altri 3 membri.
L'ameba si infetta quando scambia il virus come fonte di cibo e lo ingloba.
Ameba infettata dal virus. I puntini sono le nuove particelle virali. La massa blu in alto è la "fabbrica virale" che si sviluppa intorno al DNA virale che ha infettato la cellula
Credit: Patrick Arthofer und Florian Panhölzl
Una volta dentro, il virus prende il controllo della cellula attivando il suo processo di replicazione (e bloccando il suicidio della cellula) che dopo poche ore porterà al rilascio di un centinaio di particelle virali e alla morte per lisi della cellula.

L'interesse (a parte quello intrinseco della biologia di questi virus) della scoperta è il loro potenziale utilizzo per bonificare le acque reflue senza rischio (ed inquinamento) alcuno per altri organismi. Nonostante le potenzialità dei virus come "antibiotici viventi" (ne ho scritto ––> "I batteriofagi contro i superbatteri")  non è invece ipotizzabile un loro utilizzo terapeutico nelle amebiasi cerebrali.


Fonte
A giant virus infecting the amoeboflagellate Naegleria
P. Arthofer et al, (2024) Nature Communications




Libro di testo consigliato


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"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
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"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper