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Ricambio annuale alla base Concordia in Antartide. Nuova linfa per nuovi test

Aggiornamento  novembre 2021 (articolo originale del 2015)
Nell'ambito del progetto finanziato dall'Ente Spaziale Europeo (ESA) mirante a studiare il comportamento e la fisiologia in condizioni di isolamento prolungato in posti estremi, sono ora aperte le candidature per il ruolo di medico ricercatore presso la stazione di ricerca Concordia in Antartide per l'inverno 2023. 
 Un breve riassunto di quanto scritto sotto e nel precedente articolo
La base italo-francese Concordia sita a 3233 metri sull'altopiano montuoso noto come Dome C in uno dei punti più remoti dell'Antartide. È una delle tre basi nel continente abitata tutto l'anno da un ristretto team di ricercatori. L'altitudine scelta è "utile" in quanto crea una ipossia ipobarica cronica e lo stesso dicasi per i 4 mesi di buio totale (ovviamente all'esterno della base) con temperature che possono arrivare a -80 °C. Per questo motivo, ogni anno l'ESA sponsorizza un medico per supervisionare gli esperimenti biomedici alla base. 
Attualmente (oramai siamo nell'estate australe) il medico dell'inverno 2021 è Nick Smith (UK) a cui subentra ora Hannes Hagson (Swe) insieme al nuovo team di 12 persone. Lo studio in corso verte su come l'isolamento cambia l'attività cerebrale, il sonno e il sistema immunitario. 
Nella stagione "estiva" si ha il momento di affollamento con circa 60 ricercatori intenti a fare manutenzione delle apparecchiature e dei sensori. Da febbraio si entra  invece nella fase invernale durante la quale rimarranno, per nove mesi, 13 persone.
 

 ***
(Articolo originale di aprile 2015)
E' da poco terminata la lunga notte australe, e con essa il forzato periodo di isolamento semestrale dell'equipe scientifica che lì risiede. Con l'aumento della visibilità e temperature meno proibitive (relativamente parlando) ecco che la base diventa preda di un brulichio di attività coincidenti con il ricambio del personale, la cui ultima tornata in ordine di tempo è appena atterrata.
Dopo 9 mesi ecco i rifornimenti! (credit: m.esa.int)
Se uno pensa ad una base posizionata nel bel mezzo dell'Antartide la prima cosa che immagina è che le ricerche siano di tipo glaciologico, minerario o meteorologico. In realtà questo avamposto franco-italiano è uno dei luoghi prediletti dalla ESA (Agenzia Spaziale Europea) per alcuni test fondamentali per le missioni future nello spazio.
Cosa c'entra la ESA con gli scienziati spersi nel mezzo dell'Antartide?
Di questo ne avevo parlato nel precedente articolo sintetizzabile nel fatto che la base Concordia è sita in un posto ideale sia per lo studio della volta celeste (umidità nulla e quindi cielo limpidissimo) che per studiare le reazioni dell'essere umano alle condizioni estreme, tipiche dei futuri viaggi spaziali.
Gli elementi di stress per chi risiede alla base in inverno sono molti: altitudine (3200 metri, quindi una bassa pressione parziale di ossigeno); isolamento (la base più vicina è la russa Vostok 600 km a nord ed è impossibile per qualunque aereo portare soccorso nei mesi invernali); personale limitato a circa 15 persone costretto all'interno degli edifici a causa di una temperatura media esterna di -80 °C; interazioni forzate che mettono a dura prova la tenuta psicologica degli individui.
L'effetto dello stress sulla fisiologia e sulla psicologia dei residenti è il fulcro delle analisi condotte sia localmente dal medico della base che da remoto in Europa. Beth Healey, il medico attuale, ha ricevuto l'agognato (immagino) ricambio da Floris van den Berg che non solo continuerà i test ma ne aggiungerà altri utili per valutare la stabilità emotiva e la resistenza allo stress.
In ambito fisiologico i parametri monitorati riguardano le variazioni quali-quantitative del sonno, della capacità di movimento ed equilibrio, l'umore, la funzionalità cardio-vascolare, la densità ossea (in assenza di luce solare ci si deve basare o sui lettini a ultravioletti o sulle pillole di vitamina D) e le modificazioni dell'attività cerebrale visualizzate mediante risonanza magnetica, confrontando i tracciati pre- e post- soggiorno.
credit: ESA/IPEV/PNRA–B. Healey.
Tra i nuovi test implementati da quest'anno vi è quello al simulatore della navicella spaziale Soyuz. Il test è particolarmente utile in quanto finalizzato a quantificare il modificarsi della reattività del pilota dopo molti mesi di isolamento e "inattività". Nel caso del viaggio su Marte parliamo di almeno 18 mesi nello spazio; alla base Concordia i test verranno fatti a intervalli di 12 mesi di distanza con o senza allenamento al simulatore.

In attesa dell'inverno australe distante ancora parecchi mesi, sono più di 60 gli scienziati e i tecnici arrivati per svolgere le più disparate mansioni: dalla ricerca glaciologica ai lavori di manutenzione fino alla essenziale opera di rifornimento. Da febbraio in poi la maggior parte di essi lascerà la base dando inizio ad una nuova sessione della fase di isolamento.



Fonti
- ESA/news
- Blog della base Concordia
- Programma Nazionale di Ricerche in Antartide
- domande e risposte su Reddit dal team della base (consigliatissimo)

Nanotecnologie antivirali

La nanotecnologia può offrire idee per lo sviluppo di antivirali alternativi a quelli classici, utili nella lotta contro l'attuale (e le future) pandemia.
Image credit: Nature Nanotechnology

A riprova dell’interesse sul tema, oltre ad articoli tematici sulle principali riviste scientifiche, l’ingente flusso di investimenti (3 milardi di dollari nei soli USA) che si riversa su gruppi di ricerca e start up impegnate nello sviluppo di nanomateriali.
Rispetto alle piccole molecole che costituiscono il principio attivo degli antivirali classici o agli anticorpi che inibiscono la replicazione o l'ingresso del virus nella cellula, la nanotecnologia offre molte più possibilità "creative" a chi progetta antivirali che possono agire da soli o in sinergia con i trattamenti classici.

Ad onor del vero i nanomateriali sono già tra noi in questa pandemia.
I vaccini a RNA devono la loro stessa esistenza alla disponibilità di nanoparticelle lipidiche adatte al trasporto del mRNA alle cellule, stabili a sufficienza da raggiungere il bersaglio e privi di sostanziale tossicità rispetto ai cationi lipidici loro antenati. Un decennio di ricerche culminato con l’accelerazione durante il primo semestre pandemico.
La funzione di cargo non si limita però al trasporto di acidi nucleici; le nanoparticelle sono promettenti anche per il trasporto di piccole (farmaci classici) e grosse (proteine tipo Spike con cui indurre l’immunizzazione) molecole.

Il prossimo passo dei nanomateriali è passare da mere funzioni di trasporto a terapeutici (azione diretta sui virus).

Uno degli aspetti più interessanti dei nanomateriali è l’essere meno vincolati, rispetto ai farmaci classici, ad un particolare tipo di virus bersaglio (con il rischio intrinseco di perdere di efficacia alla comparsa di varianti). Un antivirale basato su nanomateriali potrebbe agire sulle proprietà chimico-fisiche comuni a molti tipi di virus e come tale essere resiliente a virus mutanti.
Tra i test condotti la dimostrazione che nanostrutture basate sul DNA erano capaci di intrappolare virus, agire come esche o distruggere la membrana virale, rendendo la particella risultante incapace di fondersi con la cellula anche dopo che si è agganciata al recettore.
Punto interessante è che tali nanostrutture possono essere prodotte in modo semplice, economico e rimodulabile al cambiare del bersaglio.

Tra le aziende impegnate abbiamo Cellics Therapeutics (spin off della UCSD) che lavora a qualcosa definibile come una “nanospugna”. 
Image credit: Qiangzhe Zhang et al (2020) Nano Lett.
Partendo da cellule umane a cui viene rimosso tutto il contenuto lasciando intatto il suo involucro membranoso, si procede alla sua frammentazione così da ottenere migliaia di minuscole vescicole di diametro intorno ai 100 nanometri. Alle vescicole vengono aggiunte nanoparticelle di un polimero biocompatibile e biodegradabile fatto di PLGA (acido poli(lattico-co-glicolico)) con il risultato che ciascuna nanoparticella appare rivestita da una membrana cellulare “umana”. Il prodotto è un’esca perfetta che impedisce (catturandolo) al virus di interagire con le cellule vere.
L’approccio è ugualmente utilizzabile (previo utilizzo di membrane derivate da eritrociti) contro batteri problematici, a causa della loro resistenza agli antibiotici, come lo Staphylococcus aureus meticillino-resistente (MRSA). 
Altra osservazione degna di nota è che una nanospugna cellulare rivestita di membrane derivate da cellule epiteliali polmonari di tipo II o da macrofagi umani (utili per la presenza di ACE2 e CD147) era in grado di intrappolare il SARS-CoV-2 nei test in colture cellulari. Da un punto di vista della sicurezza, test effettuati sui topi non hanno rilevato tossicità.


Starpharma lavora a polimeri sintetici a struttura ramificata (dendrimeri), grandi circa 3 nanometri. La superficie esterna di ciascun dendrimero è ricoperta da molecole simili ai proteoglicani dell'eparan solfato (presenti sulle membrane delle cellule) che molti virus usano come punto di aggancio aggiuntivo per stabilizzare il contatto. Tra i prodotti in fase di sviluppo uno spray nasale (Viraleze), utilizzabile prima o dopo la presunta esposizione al SARS-CoV-2, rivelatosi in grado di ridurre del 99% la carica virale nel sangue, polmoni e trachea degli animali trattati. Tra i suoi punti di forza il non essere assorbito dalle mucose, minimizzando così ogni rischio di effetti collaterali significativi (saranno i test clinici a dirci se negli umani c’è rischio di qualche reazione allergica).
Screenshot dal sito dell'azienda produttrice (Starpharma)

Ricercatori tedeschi dell'università di Berlino si sono invece concentrati sullo sviluppo di nanomateriali modellati con precisione per intrappolare i virus. Il tutto grazie a nanoparticelle ricoperte di silice appuntita, alte 5-10 nm, in grado di insinuarsi tra le glicoproteine di superficie di un virus; le punte possono essere decorate con derivati dell'acido sialico per facilitare il legame oppure direttamente con antivirali tipo lo zanamivir (usato contro il virus dell'influenza A) così da portare la molecola attiva direttamente a destinazione. Esperimenti in vitro hanno dimostrato che le particelle prevengono l'infezione delle cellule con il virus dell'influenza A e questo ha spinto i ricercatori a progettarne una versione adatta al SARS-CoV-2 su cui sono in corso test su animali.
Chuanxiong Nie et al (2020) Nano Lett.

Altre molecole interessanti sono gli “scheletri” stellati basati sul DNA sviluppati all’università dell’Illinois. Il loro vantaggio è che sono una sorta di esche multi braccia, su ciascuna delle quali si trovano aptameri a DNA in grado di legarsi al virus (test in vitro fatti sul virus Dengue) in più punti. Le dimensioni della “stella a DNA” e la sua carica negativa sono sufficienti ad impedire il distacco del virus, rimuovendolo così dal circolo.
Image credit: Xing Wan via news.illinois.edu


Una nostra vecchia conoscenza (ne avevo scritto anni fa per tutt’altro scopo) sono i DNA origami su cui ricercatori tedeschi della TUM hanno lavorato per creare "gusci di DNA" abbastanza grandi da inghiottire un intero virus (mi piace pensarli come fossero dei pac-man vaganti).
Credit: Elena-Marie Willner / Dietz Lab / TUM
L'interno dei gusci icosaedrici autoassemblanti può essere rivestito con leganti, come gli anticorpi, per trattenere i virus intrappolati. I ricercatori hanno progettato strutture di DNA triangolari che si assemblano in gusci di varie forme e dimensioni, da 90 a 300 nm di larghezza, più che sufficiente per gran parte dei virus (se fossimo amebe avremmo qualche problema con alcuni loro virus giganti). Modificando la sequenza del DNA dei “mattoni” triangolari, è possibile creare “porte” delle dimensioni di un virus in un lato del guscio, sufficiente a permetterne senza ritorno.
Esperimenti in vitro hanno dimostrato la capacità di questi “pacman” di inglobare virus come l'AAV. 

Come anticipato in apertura di articolo alcuni nanomateriali vanno oltre il semplice legame ai virus, essendo capaci di distruggere la membrana virale 
(Dove presente. Non tutti i virus hanno il capside proteico rivestito da una membrana, originata dalla cellule da cui sono stati emessi, o la necessitano).

L'azienda americana NanoViricides persegue questo obiettivo mediante tensioattivi polimerici solubili che formano micelle sferiche. Queste strutture nanoviricide sono decorate con un migliaio di ligandi peptidici che legano le glicoproteine ​​virali permettendo così alle micelle di fondersi con (e distruggerla) la membrana virale. Sebbene focalizzata sul trattamento dell'Herpes Zooster l'azienda ha riposizionato la sua R&D per il covid19.
Immagine tratta da una presentazione di una decina di anni fa utile per rendere l'idea dell'approccio (credit: Boston University)

Approccio un poco diverso quello seguito da un team di una università coreana (BICS).
Image credit: Bo Kyeong Yoon et al, (2021) ACS Nano
Qui si utilizzano peptidi antivirali che una volta in posizione sul virus si autoassemblano creando pori (qualcosa di simile a quanto fa il sistema del complemento una volta attivato). In passato tale metodo è stato usato contro il virus Zika.


L'utilizzo dei nanomateriali è ancora prematuro specie nell'utilizzo sistemico. Tra gli studi che dovranno essere condotti nell'immediato futuro l'analisi degli effetti di un eventuale bioaccumulo delle nanoparticelle in circolo al netto della biodegradazione (in fondo è lo stesso problema che si ha con farmaci e vitamine liposolubili che, dopo trattamenti prolungati, si accumulano a livelli pericolosi nel tessuto adiposo).


Nota. Le fonti bibliografiche principali sono, come al solito, associate al testo mediante hyperlink.


Articoli su temi correlati apparsi in precedenza su questo blog



Pfizer ha iniziato (concluso) studi di fase 2/3 su un trattamento anti-covid basato su pillole

Aggiornamento. La sperimentazione è terminata con un analisi ad interim i cui risultati sono stati comunicati il 5/11/21 (pfizer.com/news/...). Il farmaco, se assunto per tempo, riduce l'ospedalizzazione del 85%.

***

Non si tratta di un vaccino, come il tanto atteso vaccino mucosale, ma di una pillola da prendere al manifestarsi dei primi sintomi.

La notizia, trapelata già la scorsa primavera con gli studi di fase 1, è stata ufficialmente rilanciata dagli stessi dirigenti di Pfizer nel corso di una conferenza organizza da Morgan Stanley sui temi sanitari.

Domanda spontanea attiene al suo funzionamento.
Si tratta di un inibitore proteasico (PF-07321332), derivato da una molecola sviluppata nel 2003 (vedi nota fondo pagina) da affiancare al ritonavir, usato nella terapia del HIV come “facilitatore metabolico” di altre molecole terapeutiche (blocca la CYP3A4), ma a dosaggio inferiore. 

Alla sperimentazione parteciperanno 1140 adulti che hanno contratto il Covid-19 ma non mostrano sintomi tali da richiedere un ricovero in ospedale. Il ciclo di trattamento per questi pazienti durerà 5 giorni a partire dai primi sintomi di infezione e in ogni caso prima dell’eventuale ricovero in ospedale.
Lo studio potrà fornire anche informazioni sulla sua valenza profilattica dato che includerà soggetti rimasti a stretto contatto con pazienti positivi. Attraverso cicli di prevenzione post-esposizione da 5 o da 10 giorni si potranno ottenere informazioni sulla eventuale azione protettiva e non solo terapeutica, utile per tutte le persone a rischio e con sistema immunitario non idoneo per il vaccino. 
L'etichetta “utile anche a scopo preventivo” potrebbe essere fuorviante dato che in assenza di sintomi si può continuare ad essere (involontariamente) infettivi. Solo i vaccini mucosali, grazie alla produzione di s-IgA potrebbero fornire la chiave di volta per impedire ogni di tipo di infezione. Per approfondire il tema vi rimando a due articoli The role of IgA in COVID-19 e Nasal vaccination against SARS-CoV-2: Synergistic or alternative to intramuscular vaccines?

Nei giorni scorsi alcuni post su vari social avevano associato il nuovo farmaco alla ivermectina, un antiparassitario che era "di moda" la scorsa primavera (vedi sezione dedicata nel precedente articolo "Le terapie farmacologiche in uso per il covid19").
In alto uno dei due omologhi della ivermectina. In basso la nuova molecola di Pfizer


In realtà le due molecole sono strutturalmente molto diverse (dimensioni, catene laterali, polarità, anelli aromatici, ...) il che non sorprende da un punto di vista biochimico: puoi ottenere un effetto "simile" (inibitore proteasi) in modo meccanicisticamente molto diverso. In sintesi avere lo stesso "effetto" non è sinonimo di equivalenza perché il meccanismo di azione (e i potenziali effetti collaterali) può essere totalmente non correlato.



Nota. Come si è giunti a questa molecola?
L'impalcatura dell'attuale molecola risale al 2003. Per arrivare alla formulazione attuale i ricercatori hanno dovuto introdurre molte modifiche strutturali per renderla adatta a contrastare il SARS-CoV-2.
A differenza di farmaci come remdesivir e molnupiravir, frutto del drug repurposing (originariamente destinate al trattamento di Ebola) PF-07321332 è a tutti gli effetti un farmaco "originale" riprogettato ad hoc per SARS-CoV-2.
In precedenza Pfizer ha pubblicato le informazioni sulla libreria di inibitori di proteasi 3CL dei coronavirus sviluppata 20 anni fa.
Inibitori proteasi (image credit:R.L. Hoffman et al J. Med. Chem. (2020))

In questa libreria di molecole era presente il rupintrivir, da cui avrebbero poi creato una serie di derivati tra cui PF-00835231, pensato all'inizio per la SARS (virus SARS-CoV-1) e poi ripescato e ulteriormente modificato l'attuale virus.
Tuttavia, come per il remdesivir, la farmacocinetica del PF-00835231 non era esente da gravi difetti, per cui nel 2020 i chimici dell'azienda dovettero trovare il modo di migliorarlo: traguardo raggiunto con lo sviluppo di un pro-farmaco il cui nome è PF-07304814 (di fatto ha un gruppo fosfato che viene rimosso dalla fosfatasi alcalina cellulare e che lo ritrasforma in PF-00835231, la molecola attiva. 
Image credit: Britton Boras et al. Nat. Commun. 2021

Il PF-07321332 condivide lo stesso "scheletro" ma con modifiche "esterne" sostanziali.
In sintesi, PF-07321332 deriva da un farmaco sviluppato ai tempi della SARS (PF-00835231) che a sua volta deriva dal rupintrivir. Ma alla fine dei lavori di maquillage funzionale le molecole risultati sono alquanto diverse.




Pensare scientifico vs ... il resto

In cosa consiste il pensiero scientifico? 
Non sono un filosofo e di libri scritti a tal scopo ne troverete a volontà (più o meno riusciti).
Sarò un minimalista ma l'essenza stessa del pensare scientifico (ma anche di come rapportarsi ad ogni informazione nel mondo reale) è egregiamente riassunta da poche frasi, che trascrivo di seguito.
Ho deciso di lasciare anche la versione originale in quei casi in cui essa avesse un significato intrinseco più forte rispetto a quello della mia traduzione.


***
La filosofia è come essere in una stanza buia e cercare un gatto nero.
La metafisica è come essere in una stanza buia e cercare un gatto nero che non c’è.
La teologia è come essere in una stanza buia, cercare un gatto nero che non c’è e gridare “l’ho trovato!”.
La scienza è come essere in una stanza buia e cercare un gatto nero usando una torcia elettrica. 
(The Black Cat analogy - anonimo) 

***

“Il fisico è il mezzo che l’atomo ha trovato per comprendere se stesso".
Carlos Fiolhais

***


“Sono riuscito a vedere lontano perché ero sulle spalle di giganti”
Albert Einstein 

***


“First you guess. 
Don't laugh, this is the most important step.
Then you compare the consequences to experience.
If it disagrees with experience, the guess is wrong.
In that simple statement is the key to science.
It doesn't matter how beautiful your guess is or how smart you are or what your name is.
If it disagrees with experience, it's wrong.
That's all there is to it”.
Richard Feynman 
("Per prima cosa fai una ipotesi. Non ridere perché questo è il passaggio critico. Solo dopo aver fatto questo compara il risultato consequenziale della tua ipotesi con i dati esperienziali. Se non c'è accordo, allora l'ipotesi è errata. In questa semplice frase c'è tutta l'essenza della scienza. Non importa quanto bella sia l'ipotesi o quanto intelligente tu sia o chi tu sia. Se l'ipotesi non si accorda con i dati empirici allora è sbagliata. Questo è tutto a riguardo")

***


“A hypothesis, or theory is clear, decisive, and positive, but it is believed by no one but the person who created it. 
Experimental findings, on the other hand, are messy, inexact things, which are believed by everyone except the person who did the work”.
Harlow Shapley
("Una ipotesi, o teoria, può anche apparire chiara, senza contraddizioni e risolutiva ma viene creduta dogmaticamente solo da chi la ha proposta. Al contrario, i dati sperimentali sono spesso confusi, ridondanti e con una certa variabilità interna; tuttavia sono per questo motivo creduti maggiormente da tutti gli altri fuorché da chi li ha ottenuti (in quanto si aspetta sempre risultati perfettamente in accordo con la sua teoria NdB")

***


The fact that there are unsolved problems within the framework of an existing theory does not of itself imply that the theory must be thrown away, or replaced by another; unsolved problems are the essence of science, the means by which theories are refined”
John Maddox
("L'esistenza stessa di punti irrisolti all'interno di una data teoria non implica che la teoria sia da buttare. I problemi irrisolti sono l'essenza stessa della scienza grazie ai quali le teorie evolvono")
 *** 

“The use of our intelligence quite properly gives us pleasure. In this respect the brain is like a muscle. When we think well, we feel good. Understanding is a kind of ecstasy".
Carl Sagan
("Sfruttare la nostra intelligenza ci da un piacere quasi fisico. In questo senso il cervello è come un muscolo. Quando pensiamo bene, stiamo bene. Comprendere è una sorta di estasi")
***

 Ma prima di tutto ricordiamo sempre che
"il mondo non perirà per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meravigliarsi".
J.B.S. Haldane

e, come disse saggiamente, Albert Einstein
"L’immaginazione è più importante della conoscenza".
"Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso"
"I want to know God's thoughts ... the rest are details" 


Indizi sul primo pianeta extragalattico

Uno studio appena pubblicato riporta la (probabile) scoperta del primo pianeta al di fuori della Via Lattea.
Image credit: NASA/CXC/A.Jubett via bigthink.com

L’importanza della notizia non è nella scoperta dell'esistenza di pianeti in altre galassie (fatto dato per scontato dopo averne trovati migliaia nelle nostre "vicinanze") ma nell’essere riusciti a sviluppare un sistema per poterli individuare.

Negli ultimi 20 anni la ricerca di esopianeti è passata da mera ipotesi accademica a pratica che potremmo definire routinaria (ad oggi il numero di esopianeti confermati è 4551).
All’inizio ad essere rilevati erano i pianeti più grossi e prossimi alla stella analizzata. Da qui l’abbondanza nei cataloghi dei cosiddetti pianeti gioviani caldi (Hot Jupiters) rispetto ai pianeti rocciosi; un rapporto totalmente opposto a quello nel sistema solare dove i pianeti gassosi sono la minoranza e localizzati verso la periferia del sistema. Uno sbilanciamento che aveva fatto sorgere la domanda se era il nostro sistema ad essere un caso particolare oppure se il catalogo non poteva essere rappresentativo in quanto viziato dai limiti intrinseci dei metodi analitici in uso che "selezionava" gli esopianeti più facili da vedere, per l’appunto quelli grandi e vicini alla stella.
Oggi che i metodi si sono affinati (vedi la ➡️ postilla metodologica per una descrizione sommaria delle tecniche in uso) il rapporto ha cominciato ad equilibrarsi grazie all'osservazione dei pianeti rocciosi, sebbene del tipo Super-Terra, alcuni dei quali in orbite coerenti con la zona di abitabilità.

La ricerca si è invero focalizzata alla nostra galassia, meglio se nelle nostre vicinanze e in aree "guidate" a seconda della tecnica utilizzata.
Image credit: NASA
La precedente immagine schematizza la posizione in cui sono stati mappati gli esopianeti della nostra galassia. Il cono rosso indica la posizione di quelli (e sono la gran parte) identificati mediante il metodo dei transiti, mentre in giallo sono riportati alcuni di quelli trovati con il più raffinato, ma non sempre utilizzabile, metodo del microlensing. Il più lontano è il gigante gassoso OGLE-2014-BLG-0124L, a circa 13 mila anni luce (kyl) da noi; OGLE-2016-BLG-1190Lb, distante ben 25 kyl (“quasi” al centro galattico) ha in verità una identità incerta; per alcuni potrebbe essere una nana bruna.

Date le premesse se qualcuno mi avesse detto che stava cercando di identificare pianeti in altre galassie, avrei pensato alla trama di un fantasioso libro di SF, dato che le mini galassie appartenenti al gruppo locale, sono a 100 kyl mentre Andromeda si trova già a 2 milioni yl.
Eppure, è notizia di poche settimane fa, grazie ai dati ottenuti con il telescopio Chandra X-ray, si è rilevato un pianeta nella galassia Messier 51, distante 28 milioni di anni luce.
Image credit: NASA

Il risultato è frutto di una modifica della tecnica (standard) dei transiti in cui invece del visibile sono state usate le lunghezze d’onda dei raggi X per cercare il periodico “oscuramento” del segnale stellare, indice di un corpo transitato di fronte alla sorgente luminosa.
Un approccio non utilizzabile per le stelle classiche in quanto, come ci insegna la fisica della radiazione del corpo nero, la componente a raggi X emessa dalle stelle è meno che minimale rispetto alle lunghezze d'onda del visibile e ultravioletto.
Quindi non vanno bene né le stelle solari o di massa inferiore né le stelle supergiganti. Per trovare fonti di radiazione X degne di nota bisogna cercare sistemi binari ultra massicci, in cui almeno un membro è una stella di neutroni o un buco nero e la compagna una stella "normale" di massa (e temperatura) sufficiente ad emettere radiazione nel visibile. Il sistema studiato è M51-ULS-1, rilevabile sia con telescopi ottici che a raggi X.
Image credit: NASA
aa
(Credit: NASA/CXC/M. Weiss)
La presenza di entrambi i segnali indica infatti che una delle due stelle è ancora "viva" (non collassata) e sta cedendo parte della propria materia al compagno “invisibile” ma di massa molto maggiore, provocando così il surriscaldamento del gas e con questo l’emissione di raggi X.
Poiché la regione che produce i raggi X brillanti è piccola, un ipotetico pianeta associato a questo sistema binario che transitasse tra la sorgente e noi, causerebbe un calo nel segnale rilevato dal telescopio. Il suo transito di fronte alla stella “normale” non sarebbe invece rilevabile a quelle distanze sia per la maggior dimensione relativa della stella (una stella di neutroni ha un diametro anche solo di 20 km) che per la scarsa risoluzione (e facilità alle interferenze) della luce visibile.
Pur non avendo informazioni chiare sulla natura della stella invisibile (neutroni o buco nero) l’altro membro del sistema binario è stato identificato in una stella di massa circa 20 volte quella del Sole.
Il calo del segnale, durante il quale l'emissione di raggi X (cioè quella giunta a noi) si è azzerata è durato circa 3 ore Sulla base di questa e di altre informazioni, gli astronomi stimano che il pianeta candidato avrebbe dimensioni simili a quelle di Saturno con una orbita distante dalla stella collassata circa il doppio a quella Saturno-Sole.
Il che pone un problema nella validazione dei dati: a tale distanza il prossimo transito avverrà tra circa 70 anni, escludendo così nuove misure su questo sistema (a meno che nel frattempo non si scopra un altro pianeta in quel sistema).
 
Video credit: sciencedaily

Esistono altre spiegazioni del fenomeno? Gli stessi ricercatori dicono che da un punto di vista teorico il calo del segnale potrebbe essere stato prodotto dal passaggio di una “nuvola” di gas e polvere proprio di fronte alla sorgente a raggi X. Una ipotesi scartata perché i dati raccolti non sono coerenti con tale possibilità.

Forse superfluo sottolineare che gli stessi ricercatori avvertono che dovranno essere raccolti molti altri dati per avere conferme indirette della loro interpretazione (vedi anche la cautela espressa nell'articolo di Ethan Siegel).
Nessuno dei nuovi telescopi (tra cui il James Webb Space Telescope, il cui lancio è previsto per il prossimo 21 dicembre) non saranno di aiuto in tale ricerca perché costruiti per rilevare infrarossi e visibile. 

Lo studio ha doppia valenza di interesse.
In primis è il primo nel suo genere riguardo l'esplorazione extragalattica. In subordine, essendo questi sistemi binari alquanto comuni (su scala galattica), lo strumento potrà essere utilizzato per mappare esopianeti altrove..
Alcuni di questi sistemi sono, tra l’altro così brillanti ai raggi X, da permettere di misurare le loro curve di luce.

***

Ben poche possibilità di rilevare segnali "intelligenti" in quella zona.
Pur ammettendo la presenza anche di pianeti rocciosi a noi invisibili, la zona non è un posto ideale in cui trovarsi data la quantità di radiazioni emesse durante il "pasto" del buco nero/stella di neutroni.
La suggestione con il pianeta Gargantua del film Interstellar rimane, ma per renderlo plausibile il Nobel Kip Thorne (indimenticabile ospite anche in The Big Bang Theory) dovette all'epoca suggerire al regista di usare un buco nero supermassiccio quiescente: quiescente perché non intento a ingurgitare stelle troppo vicine; supermassiccio perché come la fisica insegna questi sono gli unici buchi neri in cui non si rischia una spaghettificazione, data l’enorme superficie, anche approssimandosi all'orizzonte degli eventi). Per qualche dettaglio in più sul perché il buco nero sia rappresentato in questo modo vi rimando al precedente articolo sul tema o al libro The Science of Interstellar.
Rivisitazione grafica della clip dal film Interstellar, ad opera di BlackRainbow
(All credit to the author)





Fonte
- A possible planet candidate in an external galaxy detected through X-ray transit
Rosanne Di Stefano et al, (2021) Nature Astronomy



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