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Gaming. Usare la potenza di calcolo del cervello giocando per fare scienza

Di giochi a sfondo scientifico ne ho già scritto in passato e vanno da modalità meramente passive in cui si “regala” la capacità computazionale del proprio computer per la ricerca di segnali extraterresti (vedi SETI@home) a giochi veri e propri l’utente a programmi come Foldit in cui attraverso la risoluzione di puzzle si aiuta a risolvere la struttura 3D della proteina in esame, restringendo i campo per i ricercatori che da questa partiranno per ricavare la struttura definitiva.
Tutti questi sistema sfruttano il potere di calcolo (macchina o umano) fornito spontaneamente dai partecipanti.
Vi rimando a due articoli precedenti sul tema gaming e scienza: "gaming scientifico"; "Con Niche si gioca a fare i biologi evoluzionisti"
Un esempio recente (ed estremo, per numero di persone coinvolte e modalità di analisi) di quello che potremmo definire indirect-science-gaming ha permesso di ricostruire il genoma di un batterio.
Nello specifico il compito è stato svolto da alcuni milioni di giocatori umani che, in simultanea, si sono uniti, in modalità gaming, per risolvere un problema in ambito genomica batterica difficilmente gestibile anche al top delle risorse computazionali disponibili per la ricerca. A costo (quasi) zero e con divertimento dei giocatori; o meglio hanno affrontato il problema senza saperlo visto che per loro si trattava di un puzzle
L’analisi è stata da poco pubblicata su Nature Biotechnology, il che la dice lunga sul livello qualitativo dei risultati ottenuti.

Uno dei problemi principali associati alla elevata capacità produttiva dei moderni sistemi di sequenziamento del DNA è la quantità di dati che vengono prodotti, i quali a loro volta necessitano di potere computazione perché tutte le “stringhe informative” fornite possano essere assemblate nell’ordine corretto. Se, come nel caso del genoma umano (3 miliardi di basi per genoma aploide), si ha già la sequenza di riferimento a cui rapportare la nuova informazione prodotta (ad es. per vedere le differenze individuali) l’analisi è tutto sommato “semplice” in quanto si confronta il dato con il “registro” e si vede se ci sono differenze.
Qualora invece si stia analizzando un genoma “nuovo” come quello di un organismo poco studiato o, come nel caso in esame, un mix di molti genomi microbici diversi, allora il carico computazionale diventa molto elevato.

Per facilitare il compito usando "scienziati inconsapevoli", i ricercatori hanno integrato all’interno di un classico sparatutto (Borderlands 3) un puzzle simile ad un tetris, dove era necessario allineare in modo appropriato i mattoncini colorati.
Il gioco originale in cui è stata inserito il puzzle giocabile via un Arcade
credit: Amazon
Ogni volta che il puzzle veniva risolto, previo accesso ad una arcade inserita nel gioco, i giocatori acquisivano vantaggi nel gioco principale. 
Questo l'arcade che compariva ai giocatori quando (nel gioco) dovevano affrontare un puzzle per guadagnare punti. 

Il corretto allineamento corrispondeva (anche se in modo non esplicito in quanto “mascherato”) all’allineamento di piccole sequenze di DNA ottenute da milioni di campioni ricavati dalla complessa comunità batterica (microbiota) presente nel nostro intestino (a diversi tempi e in diverse condizioni, tipo prima e dopo una dieta). Ognuna delle quattro basi di cui è composto il DNA era rappresentata da un diverso colore del mattoncino e la distribuzione dei mattoncini equivaleva all’allineamento corretto dei tanti frammenti presenti a dare la sequenza complessiva. 
image credit: Roman Sarrazin-Gendron et al / Nature


In pochi giorni è stato possibile coinvolgere 4,5 milioni di persone che hanno giocato (complessivamente) 135 milioni di volte al puzzle, una potenza di calcolo cumulativa da fare impallidire i supercomputer. Si è così potuto ricostruire il quadro filogenetico rappresentante l’evoluzione di una comunità batterica comunità di batteri che ospitiamo nell’intestino in risposta a cambiamenti di vario tipo.
A differenza di altri giochi, qui si è trattato di utilizzare l’energia computazione nascosta del cervello dei giocatori per risolvere a costo zero compiti che avrebbero richiesto computer molto costosi e tempi lunghi.
Un risultato che dimostra le potenzialità insite nell’affrontare (senza fatica percepita e in modo volontario) un problema complesso unendo milioni di cervelli.

Fonte
Improving microbial phylogeny with citizen science within a mass-market video game
Roman Sarrazin-Gendron et al, Nature Biotechnology (2024)


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Per i nerd nostalgici, ecco un libro che ripropone le immagini degli arcade dell'età dell'oro


Rospi psichedelici ... ma anche no

Il rospo del deserto di Sonora (Incilius alvarius) ha la particolare peculiarità di essere diventato un oggetto del desiderio tra fricchettoni e adepti New Age grazie alla sua capacità, mediata da secrezioni cutanee, di alterare la mente.
Incilius alvarius
In verità tale capacità, ne scriverò a breve, non è del tutto provata se non come avente azione neurologica (cosa diversa dal produrre sensazioni psichedeliche come ad esempio fanno i funghi allucinogeni)
Vi rimando al precedente articolo sul tema (-> "Farmaci psichedelici")
Comunque sia tale proprietà (complice anche un articolo apparso sul New York Times) non sta facendo per nulla bene ai rospi che si sono trovati inseguiti (e a volte sequestrati) da cercatori di esperienze   psicogene tanto che qualche mese fa il National Park Service degli Stati Uniti si è visto costretta ad pubblicare un messaggio sui social media chiedendo ai visitatori del parco di “astenersi dal leccare” il rospo.
Oltre al danno/disturbo per i poveri rospi inseguiti dai novelli hippies, c'è anche il rischio di effetti collaterali gravi per gli umani dato che le secrezioni cutanee possono causare se ingerite (assorbite attraverso le mucose), anche l'arresto cardiaco.
Non solo lo stress da inseguimento ma anche il loro "rapimento" concorre a rendere la vita difficile ai rospi. Trasferiti al di fuori del proprio territorio natale rende loro difficile l'adattamento al nuovo ambiente diminuendone la sopravvivenza. A questo aggiungiamo che raccogliere e stipare in un ambiente limitato un gran numero di rospi aumenta il rischio di trasmissione di malattie come il fungo chitride.
Usare i rospi per farsi un "trip" non è in verità nulla di nuovo ma il numero di persone coinvolte si è impennato dopo l'articolo del NYT. Per decenni, le persone hanno raccolto le secrezioni per poi fumarle una volta essiccate. Il principale effettore dell'effetto psicotropo è il 5-MeO-DMT, che una volta inalato può causare allucinazioni uditive e visive; un effetto che le è valso il soprannome di "molecola di Dio".

Perché i rospi abbiano evoluto (e soprattutto selezionato) una molecola con siffatti (per quanto da dimostrare**) effetti non è del tutto chiaro. Vero che un gran numero di specie di rospi (e alcune rane come quelle appartenenti all'ordine Phyllomedusa) secerne tossine dalla loro pelle ma un conto è una sostanza "repellente" e un altro una sostanza psicotropa. Una ipotesi è che tali secrezioni, i cui composti specifici variano da specie a specie, si sono  probabilmente evolute come un modo per mantenere umido il corpo del rospo. Nel corso del tempo, i composti, che hanno mostrato attività neurologica (e non solo) se ingeriti in sufficienti quantità, hanno fornito un valore aggiunto (quindi selezionati) per la capacità di sopravvivenza rendendosi non appetibili ai predatori.

Il rospo Incilius alvarius sembra aver fatto un ulteriore passo nella sua fabbrica di molecole repellenti grazie ad un enzima, presente nell'essudato, che converte la bufotenina, un composto prodotto anche da altri rospi, in 5-MeO-DMT, una molecola simile alla dimetiltriptamina (DMT), un noto allucinogeno.
Ecco allora che quando uno di questi rospi avverte una minaccia secerne sula il suo cocktail molecolare  sia dalle ghiandole parotoidi (dietro ciascun occhio) che da altre ghiandole sulle zampe. 
Un chiaro messaggio al predatore che suona come "non mangiarmi! Non ho un buon sapore! E forse te lo ricordi". Se ingerite in grandi quantità da un potenziale predatore, le tossine possono causare coma e morte da arresto cardiaco.
In verità non c'è un vero accordo sul fatto che questa secrezione sia da considerarsi psichedelica (per definizione deve avere anche altre proprietà oltre a quelle allucinogene) invece che "solo" psicotropa.
Il termine psichedelico deriva dal greco ed indica “estensione della mente”. Non basta quindi un senso inebriante. Ci sono varie molecole/droghe (siano esse stimolanti o depressivi) che alterano la percezione/attività cerebrale senza però lasciare nel fruitore una sensazione di "avere visto oltre l'immaginazione o avere avuto intuizioni nuove" come invece descrive chi assume sostanze tipo LSD etc.

 Confusione rafforzata anche da uno studio del 2020 pubblicato su Scientific Reports. Studio statisticamente poco affidabile per il basso numero partecipanti, metà dei quali riferì (in base a esperienze precedenti legati all'assunzione della "droga" di aver avuto un'esperienza spirituale e in alcuni casi, visione di "luce" come tipico dei veri allucinogeni.

Lo studio è di tipo osservazionale retrospettivo. Gli autori dell'articolo hanno raccolto le testimonianze dai fruitori che avevano assunto la droga prima dell'inizio dello studio.
La 5-MeO-DMT pare avere una azione agonista sulla via serotoninergica, mediata dall'interazione con il recettore 5-HT2A, proprio come altri allucinogeni. Uno studio condotti sui topi mostra effetti nella plasticità neuronale ma una attività "psicotropa" inferiore rispetto alla psilobicina.

Un dato interessante viene dalla sua attività antidepressiva. La ricerca di varianti molecolari prive della componente allucinogena potrebbe aprire la strada (come è stato fatto con la ketamina) per nuovi farmaci.


Fonti
5-MeO-DMT modifies innate behaviors and promotes structural neural plasticity in mice
Pol Puigseslloses et al,  Mol Psychiatry. 2024 Mar 14

Acute and subacute psychoactive effects of Kambô, the secretion of the Amazonian Giant Maki Frog (Phyllomedusa bicolor): retrospective reports
Timo Torsten Schmidt et al, Scientific Reports volume 10, Article number: 21544 (2020)


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Libro in cui si tratta, con piglio giornalistico/antropologico delle 4 principali piante con attività psicotropa (credit: Amazon)

Nomen omen?




I farmaci "psichedelici". Una risorsa di cui però si ignora il meccanismo di azione

Ne ho scritto in passato (a partire dall'approvazione della ketamina come antidepressivo) quindi non dico nulla di nuovo citando gli studi in dirittura d'arrivo su farmaci derivati da molecole con attività non solo psicotropa ma psichedelica (vedi i funghi allucinogeni). Studi mirati a verificare l'efficacia del trattamento (riduzione dei sintomi) senza però che sia compreso a fondo il loro meccanismo d'azione cerebrale.
Illustration by Kasia Bojanowska
Il tutto nasce dall'utilizzo (plurisecolare se non millenario) da parte di alcune culture di droghe naturali a scopi rituali e terapeutici. Esempi in tal senso sono la psilocibina (da funghi allucinogeni), la mescalina (presente nel peyote, una pianta succulenta del Messico), l'ibogaina (estratta dalla corteccia di un arbusto centro-africano). 
Libro in cui si tratta, con piglio giornalistico/antropologico delle 4 principali piante con attività psicotropa (credit: Amazon)


Già alla fine degli anni '50 si iniziarono studi per determinare in modo rigoroso il loro potenziale terapeutico come antidepressivi, che però vennero in gran parte terminati quando queste e altri allucinogeni sintetici (ketamina, LSD, MDMA, ...) quando queste sostanze furono vietate o sottoposte a forte controllo nella maggior parte dei paesi. 
Si è dovuto attendere l’inizio degli anni 2000 per nuovi studi clinici che confermarono sia il potenziale terapeutico che la possibilità di usare versioni modificate di queste molecole, depauperate della loro attività allucinogena così da evitare rischio dipendenze e abusi.

Il 2019 ha segnato un momento importante di queste sperimentazioni quando una variante della ketamina (più sicura e priva di effetti allucinogeni) ha ricevuto il via libera da parte della FDA come  trattamento per il disturbo da stress traumatico (PTSD). Lo scorso maggio (2023) l'Oregon ha aperto il suo primo centro di trattamento per la somministrazione di psilocibina, risultato però di un percorso diverso cioè della decisione dello Stato di legalizzarla (la psilocibina rimane invece illegale negli altri stati). Negli ultimi mesi una organizzazione di ricerca senza scopo di lucro ha chiesto formalmente alla FDA l'approvazione della MDMA (nota anche come ecstasy) per il PTSD in base a due studi che ne hanno evidenziato la capacità, previa somministrazione sotto stretto controllo, di ridurre i sintomi più velocemente di altri trattamenti oggi disponibili.

Ci sono però alcune ombre in questi risultato legati sia ai limiti della sperimentazione animale per farmaci ad uso psichiatrico che (conseguenza del precedente e dei forti vincoli nel loro utilizzo sugli umani) le grandi lacune nella conoscenza del meccanismo d'azione di MDMA e di altre sostanze psichedeliche. Il recente cambiamento normativo che ha reso "più semplice" usare/studiare queste droghe sugli umani aiuterà a fare luce su alcuni meccanismi ma ci vorranno anni per avere un quadro paragonabile a quello dei farmaci non psichiatrici approvati. La comprensione del meccanismo del farmaco è inoltre un passaggio obbligato per disegnare molecole che mantengono la funzione terapeutica ma più sicure e private della loro componente allucinogena.

Alcune informazioni aggiuntive.
Da un punto di vista farmacologico, la parola “psichedelico” si riferisce storicamente a molecole con attività allucinogena (ad es. psilocibina, LSD, etc) che si legano ad uno dei vari recettori della serotonina chiamato 5-HT2A presente sulla superficie dei neuroni. Sebbene tale definizione non includa sostanze come ketamina o l’ibogaina, queste droghe sono spesso raggruppate insieme alle sostanze psichedeliche sia negli articoli di ricerca che sui media. Perfino il tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, è talvolta catalogato come sostanza psichedelica. Va da sé che il permanere di tale definizione vaga, combinata con la mancanza di reagenti e protocolli standardizzati, può rendere difficile per i ricercatori confrontare il loro lavoro con quello pubblicato da altri colleghi.
Aggiungiamo poi il fatto che sostanze "psichedeliche" come ketamina e MDMA, sono funzionalmente "sporchi" perché interagiscono con molti tipi di neuroni e molecole nel cervello. Perfino gli psichedelici classici (LSD e psilocibina) interagiscono, anche, con recettori diversi dal 5-HT2A.

La recente "promozione" della ketamina da anestetico veterinario, (mal)usato come droga da party dagli umani, a farmaco antidepressivo è conseguenza della sua capacità di legare e bloccare il recettore NMDA, recettore ionotropico del glutammato presente sulla membrana dei neuroni e che gioca un ruolo essenziale nella plasticità sinaptica e nel consolidamento della memoria. Con il blocco si innesca una serie di eventi molecolari che, in modo inatteso (vale a dire non previsto dalle conoscenze precedenti), contrastano lo stato depressivo. Alcuni studi hanno ipotizzato che il tutto sia conseguenza dell'azione di un prodotto di degradazione della ketamina che va a legare a un recettore non ancora identificato.
Un recente articolo ha provato che la ketamina può rimanere intrappolata nel recettore NMDA e sopprimere, in alcune regioni del cervello, l’attività del recettore fino a 24 ore, il che potrebbe spiegare la potenza e velocità del suo effetto rispetto ai classici antidepressivi.

Alcuni ipotizzando che tutte le droghe "psichedeliche" potrebbero avere qualcosa in comune, anche se non utilizzano il recettore della serotonina. Una conferma in questa direzione viene da studi che hanno mostrato che tutte queste sostanze si legano (anche) al recettore di un fattore di segnalazione cerebrale noto come fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), coinvolto nella crescita dei neuroni e nel ricablaggio del cervello.
Vero che anche gli antidepressivi classici, come il Prozac (fluoxetina), si legano al recettore, ma il legame è fino a 1000 volte più debole rispetto agli psichedelici, il che spiega perché uno sembri migliorare i sintomi in poche ore, mentre gli altri richiedano molti mesi.
In verità sebbene non tutti i ricercatori concordano con il ruolo prominente del recettore BDNF, vi è accordo sul fatto che le droghe psichedeliche aumentino la plasticità cerebrale, consentendo ai dendriti e agli assoni che formano i circuiti neurali di diversificarsi e creare nuove connessioni. La plasticità potrebbe aiutare una persona depressa a vedere il mondo in un modo diverso, o aiutare una persona con PTSD a disconnettere i propri ricordi traumatici da una risposta di paura. Vero però che la plasticità in sé e per sé non è necessariamente una buona cosa: ci sono buone ragioni per cui il cablaggio del cervello si sviluppa in questo modo e mantiene connessioni tra esperienze ed effetti.
Ad esempio alcune condizioni patologiche come autismo e schizofrenia, potrebbero (talvolta) derivare da un’eccessiva plasticità del cervello. Inoltre, tutti i tipi di droga, comprese la cocaina e le anfetamine, possono indurre una sorta di plasticità e tutto noi conosciamo l'effetto negativo (fisico e psichico) indotto da queste sostanza.
Forse la ketamina induce un particolare tipo di plasticità che consente ai neuroni di regolare la loro attività di fronte a uno stimolo che normalmente li influenzerebbe in un certo modo. A differenza dei meccanismi di plasticità che rafforzano o indeboliscono specifiche connessioni neuronali durante l’apprendimento e la memoria, questa plasticità omeostatica consente ai neuroni di combattere contro fattori che cercano di cambiarli. In questo modo, la ketamina potrebbe fornire al cervello gli strumenti di cui ha bisogno per mantenere uno stato sano. Se questo meccanismo si rivelasse vero, la ketamina potrebbe servire da “Stele di Rosetta” per comprendere come funzionano altre sostanze psichedeliche.
Altri scienziati, tuttavia, non pensano affatto che le sostanze psichedeliche influenzino direttamente la plasticità. Piuttosto, potrebbero sbloccare qualcosa noto come metaplasticità, rendendo i neuroni più suscettibili a uno stimolo che induce plasticità, ad esempio un ormone. Questa teoria darebbe maggiore importanza ad altri fattori – l’interazione sociale, per esempio, o la rivisitazione di un ricordo traumatico – nel rimodellare i neuroni e formare nuove connessioni.
In un esperimento di somministrazione ai topi di queste sostanze (MDMA, ibogaina, LSD, ketamina o psilocibina) si sono osservati risultati comportamentali interessanti. I topi trattati sono diventati più disposti a dormire in uno scompartimento con altri (chiaro segno di riduzione di stress) e l’effetto è durato per settimane. Poiché i topi adulti non tendono a cambiare il loro comportamento sociale, la scoperta suggerisce che i farmaci psichedelici sono stati in grado di riaprire il “periodo critico”, la fase in cui i topi giovani imparano ad associare la socialità a qualcosa di positivo. Nello stesso studio si è  anche scoperto che i neuroni degli animali trattati hanno iniziato a esprimere un insieme di geni coinvolti nel rimodellamento della matrice extracellulare, una zona che che funge da “malta” tra i neuroni: il rimodernamento libera i dendriti e gli assoni dando loro la capacità di formare nuove connessioni.
Ma proprio come la plasticità, troppa metaplasticità potrebbe essere dannosa “fondendo il cervello”: rompendo i circuiti neurali guadagnati con fatica, causando convulsioni e amnesia e distruggendo la capacità di apprendere. 

Questi studi potrebbero portare innovazione anche in aree apparentemente diverse della neurofisiologia. I ricercatori stanno verificando se nei topi queste sostanze riescano ad aprirealtri periodi critici. L’apertura di un periodo critico nella corteccia motoria, ad esempio, potrebbe allungare il periodo di tempo in cui le persone che hanno avuto un ictus possono trarre beneficio dalla terapia fisica. Le sostanze psichedeliche potrebbero aiutare le persone a recuperare i sensi perduti o indeboliti oltre il breve intervallo temporale oggi accettato per iniziare una terapia di recupero.

Se però il contesto è essenziale, l’esperienza allucinogena stessa potrebbe essere necessaria per aprire i periodi critici sopra citati.
Vero anche che l'esketamina, la versione modificata della ketamina approvata per la terapia antidepressiva (necessita di dosaggio molto inferiori e questo evita gli effetti collaterali della droga), non è inferiore alla ketamina per cui è possibile agire sulla riduzione degli effetti allucinogeni.
Non è necessario ingerire un farmaco per avere un cambiamento neurochimico, abbiamo continuamente cambiamenti neurochimici causati dalla nostra esperienza e la psicoterapia stessa funziona (anche) attraverso l'indizione di cambiamenti epigenetici.
Ecco allora che forse il farmaco potrebbe semplicemente migliorare la capacità della terapia di cambiare permanentemente la prospettiva di una persona. Una ipotesi non condivisa da altri ricercatori secondo i quali gli effetti diretti delle sostanze psichedeliche sul cervello sono parte fondamentale della loro efficacia terapeutica.


Tra i problemi della sperimentazione clinica in ambito psichiatrico il ben noto "effetto placebo" che (a differenza delle malattie in altri distretti corporei) può da solo rendere conto dell'80% dell'effetto terapeutico.
L'effetto placebo lo si osserva nei gruppi di controllo in doppio cieco dove sia il medico che il paziente non sanno se la "pillola" è un farmaco o un placebo. Chiaramente il problema diventa ancora più importante se il trattamento farmacologico è associato ad un effetto intenso che palesa immediatamente al paziente cosa ha ricevuto. Per cercare di minimizzare questi condizionamenti la FDA ha approvato un sistema per gli studi sull’MDMA in cui gli psichiatri, che non sono coinvolti nella somministrazione della terapia, valutano il miglioramento dei sintomi di ogni persona senza sapere chi ha ricevuto il farmaco.
Una misurazione del problema placebo viene dai ricercatori di Heifets Labs che hanno sviluppato un modo  per quantificare l’intensità dell’effetto placebo; il team di ricerca ha testato la ketamina su persone sottoposte a intervento chirurgico che erano state messe sotto anestesia e incapaci di sperimentare gli effetti dissociativi del farmaco. Le persone che escono dall’intervento chirurgico spesso sperimentano sintomi di depressione accentuati. Ma i ricercatori hanno scoperto che, indipendentemente dal fatto che un paziente avesse ricevuto ketamina o un placebo, i suoi sintomi miglioravano se pensavano che avrebbero potuto assumere il farmaco: l’aspettativa stessa di ricevere il farmaco stesso avrebbe potuto migliorare il loro umore.

Articolo precedente sul tema "Il farmaco psichedelico che spegne la PTSD"
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