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Cannabis e rischio sindrome bipolare nei giovani

Torniamo sul tema cannabis con uno studio pubblicato dalla università di Warwick (UK) che evidenzia una correlazione tra il suo utilizzo nella fase adolescenziale e l'aumentato rischio di sviluppare sintomi bipolari dopo alcuni anni.
credit: Bogdan via wikipedia
Tra i sintomi sviluppati vi è la ipomania, un disturbo dell'umore caratterizzato da fasi di esaltazione e riduzione del bisogno di sonno privo però della componente psicotica tipica del disturbo bipolare vero e proprio. Non di meno l'ipomania può avere un significativo impatto nella vita quotidiana specialmente in una fase della vita (sia che si stiano completando gli studi che si sia all'inizio della carriera lavorativa) in cui è importante l'autocontrollo e la capacità di pianificare.

credit: bristol.ac.uk
La correlazione è emersa dall'analisi dei dati forniti da un imponente studio epidemiologico noto come "Avon Longitudinal Study of Parents and Children" (in breve "Children of the 90s") focalizzato su 14500 famiglie nell'area di Briston. La raccolta dati, iniziata nel biennio 1990-91 su 14 mila donne  gravide, è continuata negli anni seguendo il nucleo familiare sia attraverso esami sanitari periodici che con questionari anonimizzati compilati da ciascun individuo partecipante.
Studi del genere sono una miniera di informazioni "nascoste" (sanitarie e sociali), che aspettano di essere scoperte dalle analisi retroattive alla ricerca di eventi causa-effetto.
Il lavoro del team coordinato da Daniel Smith si è focalizzato sulla ricerca di (eventuali) effetti sul medio lungo periodo dell'utilizzo di sostanze psicotrope come quelle contenute nella cannabis. Si è così scoperto che l'assunzione di cannabis 2-3 volte alla settimana durante l'adolescenza si correla alla comparsa dei sintomi dell'ipomania negli anni successivi. Non solo. I dati indicano anche l'esistenza di una relazione dose-risposta, per cui un maggiore utilizzo aumentava il rischio, anche se in misura meno marcata di quello associato alla "semplice" assunzione.

La cannabis è una delle sostanze illegali più utilizzate nei paesi occidentali, catalogata spesso come "sostanza di uso ricreativo" e ampiamente celebrata al cinema (a mia memoria praticamente ogni film di Salvatores ha personaggi che la utilizzano) e nella musica.

Se a questo si somma che circa il 9,5% della popolazione USA e il 2,6% di quella UK afferma di farne un uso abituale (un ragazzo italiano su cinque afferma di averla usata almeno una volta nell'ultimo anno) si capisce l'importanza del monitoraggio degli effetti sul medio periodo.

Il tema è alquanto complesso e non permette risposte univoche come insegna l'utilizzo "legale" della cannabis per alleviare i sintomi di alcune particolari forme di sindromi bipolari (vedi healthline.com e referenze annesse) per non parlare del suo utilizzo, anche qui legale (in molti paesi) ed etico, come sostituto degli oppiacei in alcune patologie croniche o terminali.
Il punto centrale sollevato dallo studio inglese è diverso ed è l'effetto predisponente ad alterazioni comportamentali in soggetti sani che l'abbiano assunta in modo continuativo in una fase critica dello sviluppo quale è l'adolescenza.
Articoli precedenti sul tema --> "Cannabis"

Fonte
- Cannabis Use and Hypomania in Young People: A Prospective Analysis.
Marwaha S et al, (2017) Schizophr Bull. 

Combattere le allucinazioni con gli avatar

La schizofrenia, con una prevalenza pari a circa 1 persona su 100, è una malattia più comune di quanto non si pensi. Tali numeri implicano che in media ciascuno di noi conosce, magari senza saperlo, una persona che ne soffre.
Uno dei motivi per cui potremmo non essercene mai accorti è che sotto questo "ombrello" diagnostico sono racchiuse molte "varianti" di diversa gravità che vanno dalla episodicità e modesta entità dei sintomi alle forme gravi che rendono praticamente impossibile alle persone affette il condurre una vita normale, sia da un punto di vista lavorativo che sociale.
Tra i sintomi che possono (il condizionale è d'obbligo) comparire, uno dei più problematici come impatto nella qualità della vita è quello delle allucinazioni sensoriali (visive e/o uditive).

Come per tutte le malattie, il percorso terapeutico deve essere pianificato da un medico specializzato nel campo che individuerà gli aspetti più critici su cui agire. Si tratta di un percorso complicato data la complessità della malattia e la scarsa conoscenza dei meccanismi causali, non imputabile ad una mancanza di studi ma alla eterogeneità delle cause anche quando le manifestazioni sintomatiche appaiono simili. La prima conseguenza di tale eterogeneità è la difficoltà nella scelta delle terapie che potranno funzionare molto bene in un sottogruppo di pazienti ma essere del tutto inefficaci in altri; il risultato sarà un approccio a volte frustrante fatto di tentativi.
Da qui la diversità degli approcci che vanno da quelli prettamente farmacologici basati sugli antipsicotici (ad esempio la clozapina) alle terapie comportamentali con le quali si "istruisce" il paziente a identificare e a "negare" i segnali sensoriali fallaci.
Nessuno dei due è come detto univocamente efficace o privo di effetti collaterali (la clozapina può indurre la agranulocitosi), quindi è alto l'interesse per ogni trattamento che aiuti in qualche modo a normalizzare la vita travagliata dei pazienti.
In questo ambito rientra lo studio pubblicato su The Lancet Psychiatry, che mostra i vantaggi di un approccio che sfrutta le immagini (avatar) create al computer nella gestione degli episodi allucinatori. Lo studio randomizzato, condotto al King's College di Londra, ha messo a confronto l'approccio classico centrato sull'interazione con una persona di supporto con quella integrata da un avatar che riproducesse "la fonte" delle voci percepite dal paziente ma neutralizzate nel suo contenuto.
Il risultato netto è una riduzione nell'impatto causato dalle allucinazioni uditive, che si mantiene a fino ad almeno 6 mesi dall'inizio dei test.

Vale la pena precisare che durante i test i pazienti non hanno mai interrotto la terapia "classica" ma l'hanno integrata o meno (nel caso facessero parte del gruppo di controllo) con quella basata sugli avatar.
I pazienti sono stati reclutati nello studio su base volontaria, purché fossero affetti da schizofrenia caratterizzata da allucinazioni uditive persistenti e angoscianti da almeno un anno, nonostante le terapie usate.
Ho scritto "angoscianti" in quanto il 60-70% dei malati di schizofrenia vanno incontro ad allucinazioni uditive il cui contenuto è generalmente offensivo e minaccioso, con conseguente disagio e angoscia del paziente. Nella maggior parte dei casi i trattamenti farmacologici sono capaci di ridurre l'entità e/o la frequenza di questi sintomi, ma in media una persona su quattro continuerà a "sentire" voci inesistenti. La terapia cognitivo comportamentale è un utile aiuto nella gestione degli attacchi psicotici ma si tratta di un approccio lungo e di efficacia molto variabile.
Lo studio ha coinvolto 150 pazienti affetti da schizofrenia (in media malati da circa 20 anni) che sentivano 3-4 voci; una metà dei soggetti ha seguito la "terapia avatar" mentre l'altra metà ha goduto dell'ausilio di una terapia comportamentale. In entrambi i casi il trattamento farmacologico è rimasto lo stesso che usavano prima dell'inizio dello studio.
La "terapia avatar" si è svolta in sei sessioni della durata di 50 minuti ogni settimana. Prima di iniziare il trattamento, i pazienti hanno lavorato insieme al medico terapeuta per creare una simulazione computerizzata video (avatar) della voce a cui attribuivano maggior peso nei loro episodi allucinatori.
Alcuni degli avatar creati su indicazione dei pazienti
(credit: kcl.ac.uk)
 La terapia consisteva in una conversazione a tre tra paziente, terapeuta e avatar (la voce dell'avatar è quella del terapeuta e riproduce inizialmente il contenuto delle frasi che il paziente "sente"). Ciascuna sessione iniziava con la discussione degli obbiettivi di quel giorno e proseguiva con il paziente che interagiva per circa un quarto d'ora da solo con l'avatar alternando una fase di difesa dalle affermazioni dell'avatar ad una azione di contrasto e correzione di tali affermazioni. L'idea portante era quella di fare sì che il paziente prendesse il controllo della conversazione e che l'avatar (la cui voce ricordo essere quella del terapeuta) riconoscesse le ragioni e i punti di forza della difesa del paziente. Ciascuna sessione veniva registrata e l'audio veniva poi dato al paziente di modo che la riascoltasse a casa ogni qualvolta gli episodi auditivo allucinatori comparivano.
I pazienti del gruppo di controllo hanno seguito una routine simile (ma solo con il terapeuta) e anche loro hanno ricevuto la registrazione audio contenente un "messaggio rinforzante positivo" prodotto dal paziente stesso da riascoltare a casa in caso di bisogno.

Di seguito il video del disegno sperimentale
Se non vedi il video clicca su --> youtube

La valutazione dell'efficacia di ciascuna terapia è stata redatta nelle settimane successive da ricercatori che non sapevano quale terapia avesse seguito ciascun paziente. Dopo 12 settimane, i sintomi dei pazienti del gruppo avatar sono stati giudicati meno gravi di quelli che avevano ricevuto la consulenza "semplice".  Un riscontro simile è venuto anche dagli stessi pazienti del gruppo avatar che hanno descritto le loro allucinazioni come meno dolorose e potenti rispetto a prima, e con una riduzione più marcata rispetto a quanto dichiarato dai pazienti del gruppo di controllo (che ovviamente non sapeva di essere un gruppo di controllo).
In particolare dopo 12 settimane, 7 persone del gruppo avatar e 2 del gruppo di controllo hanno riferito che le loro allucinazioni erano completamente scomparse.

La terapia Avatar potrebbe essere un valido aiuto nella terapia di almeno alcuni pazienti. I risultati dovranno chiaramente essere confermati in studi più ampi ma la speranza di ottenere effettivi miglioramenti è alta

Fonte
- AVATAR therapy for auditory verbal hallucinations in people with psychosis: a single-blind, randomised controlled trial 
Craig, T et al. (2017) The Lancet Psychiatry, Volume 5, No. 1, p31–40

- Avatar therapy may help to reduce auditory hallucinations for people with schizophrenia
King's College London / news


Le mosche preferiscono le mucche scure

Spulciando tra gli archivi degli IgNobel, la mai troppo apprezzata manifestazione che premia annualmente le ricerche, all'apparenza, più strampalate mi sono imbattuto nel premio dato l'anno scorso ai ricercatori impegnati nel capire perché le mosche preferiscono le mucche con il mantello scuro.
Image credit: Photo: Susanne Åkesson at Lund University 
La domanda che attanagliava le menti dei ricercatori magiaro-svedesi era semplice quanto misteriosamente elusiva: perché le mosche succhiasangue della famiglia Tabanidae preferiscono un certo tipo di mucche piuttosto che un altro? La preferenza cromatica non poteva infatti essere spiegata né solo con il colore scuro in quanto le mosche non sono hanno alcuna particolare preferenza per una superficie nera in quanto tale né (solo) con la emissione di "segnali biologici" dall'oggetto scuro come infrarossi, CO2 o molecole "dal sapore ematico" (altrimenti perché le mucche chiare sarebbero risparmiate?).

Il primo studio sull'argomento, pubblicato nel 2010 e premiato l'anno scorso con l'Ig-Nobel, spiegò tale predilezione con il fatto che il manto chiaro riflette la luce in modo non polarizzato e a quanto sembra le mosche prediligono la luce polarizzata.
Non soddisfatti di questo primo risultato i ricercatori si hanno cercato di capire come facessero le mosche a "vedere" una mucca scura anche se mimetizzata tra gli arbusti o su sfondo ugualmente scuro.
Ebbene, la luce riflessa dalle foglie e dalla mucca appare nel primo caso più opaca (meno brillante) della seconda per ragioni legate a caratteristiche strutturali della superficie. I peli del manto, orientati nella stessa direzione, sono alla base dell'effetto polarizzante della luce incidente il cui riflesso è prontamente rilevato dagli occhi della mosca femmina.
Che gli insetti siano capaci di vedere la luce polarizzata non è un mistero --> Quora
Non fatevi fuorviare dalla mia descrizione sintetica. Tutti i lavori premiati hanno dietro di loro un approccio rigoroso e qualitativamente solido nei dati raccolti (come si evince se date uno sguardo all'articolo) anche se "nascosti" dietro la apparente stranezza dello studio. 
Non a caso la premiazione degli Ig-Nobel avviene ad Harvard in una  cerimonia  che unisce goliardia alla scienza (quanto siamo lontani dalla seriosità accademica di alcuni nostri tromboni).
Articolo precedente sul tema Ig-Nobel --> qui.

Fonte
- Why do horseflies need polarization vision for host detection? Polarization helps tabanid flies to select sunlit dark host animals from the dark patches of the visual environment
Horváth G et al. (2017) R Soc Open Sci. 4(11):170735

- An unexpected advantage of whiteness in horses: the most horsefly-proof horse has a depolarizing white coat. 
Horváth G et al. (2010) Proc. R. Soc. B 277, 1643–1650



Il lancio del Falcon Heavy e la prima Tesla nello spazio

A distanza di qualche mese dall'ultimo articolo sulla missione Marte non poteva esserci occasione migliore per tornare sull'argomento del lancio del Falcon Heavy operato da SpaceX.
Falcon Heavy (credit: SpaceX via NASAspaceflight.com)
Nell'ultima puntata eravamo rimasti a temi quali la scelta del luogo migliore dove atterrare, le problematiche fisiologiche legate ai lunghi viaggi e chi fossero i principali competitors nella corsa allo spazio vicino (viaggi orbitali) e lontano (Luna e Marte). Mentre la NASA e l'ESA hanno concentrato i loro sforzi nelle missioni di più ampio respiro ("accometaggio", Plutone e le missioni operative su Marte previste per la fine del prossimo decennio), alcune aziende private hanno occupato la nicchia dei voli turistici e legati ai rifornimenti, forti di una maggiore agilità operativa e dell'entusiasmo dei loro fondatori. I risultati, innegabili nonostante alcuni fallimenti, sono utili anche alla NASA che in questa fase si pone come punto di riferimento fornendo loro il supporto tecnico-logistico-esperienziale.
SpaceX è l'azienda di punta in questo settore e questo non sorprende dato il profilo del suo principale finanziatore, Elon Musk, il fondatore di Paypal prima e poi visionario imprenditore che ha creduto da subito nel motore elettrico costringendo di fatto l'azienda automobilistica mondiale ad uscire dal loro scetticismo (interessato) sul tema e a investire miliardi di dollari su quella che oramai è una realtà dietro l'angolo.
Poteva Elon Musk fallire l'obbiettivo di rivoluzionare il mondo aerospaziale ibernatosi dopo lo sconsiderato pensionamento dello Shuttle da parte della NASA (o meglio dei governi USA che hanno tagliato i finanziamenti a partire dall'inizio del millennio)? Certamente no.
Il punto chiave per una azienda tutto sommato piccola se confrontata con la governativa NASA era  abbattere i costi di struttura; facile per quanto riguarda la struttura organizzativa, molto meno quando si  parla di costi operativi che non possono prescindere da tecnologie all'avanguardia e materiali costruttivi di qualità. Abbattere i costi implicava in primis eliminare gli sprechi di materiale e quale spreco maggiore se non quello finora inaffrontabile dei razzi che venivano persi ad ogni lancio? Vero che lo Shuttle aveva fatto passi da gigante in questo settore essendo stata concepita come una navetta riutilizzabile capace di tornare a  terra come un aereo, ma anche qui i razzi una volta raggiunta l'alta atmosfera venivano sganciati finendo bruciati nell'atmosfera o da recuperare in qualche parte dell'oceano. Se si considera che i razzi rappresentano gran parte di massa e volume al momento del lancio, si capisce quanto pesasse economicamente il doverli ricostruire ad ogni lancio.
L'idea di Musk è stata quella di sviluppare non solo un razzo riciclabile ma anche capace di rientrare autonomamente alla base dopo avere accompagnato la navetta in orbita. Un lavoro non semplice ma che tentativo dopo tentativo ha raggiunto un livello di affidabilità accettabile e con precisione tale da permettere al razzo di adagiarsi anche su una piattaforma mobile nell'oceano.
Il costo del Falcon Heavy è di circa 90 milioni di dollari. Sebbene sia di circa 30 milioni più caro del modello precedente (Falcon 9) è molto più potente, grazie ai 27 motori, e costa incredibilmente meno rispetto al vettore classico prodotto dalla United Launch Alliance, il cui costo supera i 400 milioni di dollari.

Ed eccoci quindi arrivati al lancio della navetta Falcon Heavy il cui fine principale, è bene ricordarlo dopo le tante inesattezze lette sulla stampa, era un test di affidabilità. La sua "stiva" infatti pur essendo a pieno carico non conteneva nessuna strumentazione scientifica o materiale utilizzabile per le future missioni. Era quello che in gergo viene chiamato dummy payload cioè una massa equivalente a quella trasportabile in modo da mimare in tutto la sua capacità operativa, ivi compreso il posizionamento su un orbita simile a quella di Marte. Una prova per dire "ok, siamo in grado di farlo".
Se volete avere maggiori informazioni sulla struttura del razzo vi rimando alla pagina dedicata su SpaceX --> www.spacex.com/falcon-heavy
Di seguito una video simulazione di tutte le fasi del lancio del Falcon Heavy e rientro dei razzi a Terra (all credit to SpaceX).
Se non vedi il video clicca su --> youtube
Per il video completo (34') della preparazione del razzo e il lancio vi rimando all'originale su youtube
 --> youtube / Falcon Heavy Test Flight 
Il razzo "trimodulare" è decollato il 6 febbraio alle 21:45 italiche dalla base di Cape Canaveral, Florida.
... 3, 2, 1, 0, ignition! (credit: SpaceX via The Verge)
Dopo essersi sganciati dal modulo centrale all'altezza prestabilita, i due razzi laterali sono rientrati alla base senza problemi. E qui c'è stata una strizzatina d'occhio ai media e all'aspetto social (di cui Musk è un geniale interprete) con la decisione di fare rientrare i due razzi in contemporanea; una scelta solo coreografica in quanto non dettata da alcuna ragione tecnica. Ma tant'è, male non fa visto che è andato tutto bene.
(credit: SpaceX via The Verge)
Di seguito il video del rientro
Se non vedi il video clicca su --> youtube

E il terzo razzo, quello centrale posto proprio sotto la navicella? 
Questo ha accompagnato la navetta fino al punto prestabilito e poi le loro strade si sono separate; la navetta ha iniziato il suo viaggio verso l'orbita marziana mentre il razzo è tornato sulla Terra, o meglio sull'oceano dove c'era una nave drone ad attenderlo e su cui avrebbe dovuto atterrare. In effetti il razzo ha quasi centrato l'obbiettivo, ma a causa di un scarsa propulsione frenante (cioè i retrorazzi) ha mancato la nave di circa 90 metri abbattendosi sull'oceano ad una velocità di 300 km/h. Poco male, a parte per le tasche di Musk che tuttavia si è contentato del successo della parte principale dell'operazione.
Credit: SpaceX
Nota. La piattaforma è di fatto una nave drone senza equipaggio, progettata appunto per prevenire il rischio danni collaterali in caso di malfunzionamenti. Una preoccupazione non particolarmente sentita dalla agenzia spaziale cinese se consideriamo la scelta delle loro aree di lancio (vedi nota a fondo pagina "La caduta del razzo cinese"). L'atterraggio sulla piattaforma era stato provato in precedenza e con successo. (Vedi il video su youtube --> "SpaceX lands rocket at sea, makes history"). Se volete invece un resoconto particolareggiato delle diverse fasi del lancio, corredato da bellissime foto andate alla pagina dedicata sul sito --> The Verge oppure l'eccellente servizio sul sito del --> Dailymail
Di seguito il video del fallito atterraggio con il messaggio finale "We lost the center core"
Se non vedi il video --> youtube

Anche considerando l'impatto malriuscito, per usare un eufemismo, di uno degli stadi del razzo, la missione può essere etichetta come un successo, sia mediatico (non secondario) che operativo per il lancio della navetta e il recupero di 2 dei 3 razzi.

Due aspetti che meritano un approfondimento: 1) dove è diretta esattamente la navetta e 2) quale è la particolarità del carico a bordo.
1) Il primo obbiettivo è stato il superamento della magnetosfera terrestre, la cosiddetta fascia di van Allen, al cui interno sono intrappolate particelle instabili che avrebbero potuto destabilizzare il carburante ancora presente.
La fascia di Van Allen è caratterizzata dal possedere livelli di radiazione superiori a quelli associati ai soli raggi cosmici. Si tratta infatti di radiazioni di origine terrestre dovute a particelle cariche ad alta energia distribuite in modo toroidale (come una ciambella) intorno alla Terra grazie al suo campo magnetico. La parte interna della "ciambella" è costituita principalmente da protoni mentre la parte esterna da elettroni. Nella porzione più esterna si aggiungono le particelle solari intrappolate dalla magnetosfera. Si tratta di un'area pericolosa capace di danneggiare i satelliti transitati accidentalmente in essa. Per questa ragiona la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) è posta in un orbita ben inferiore a quella della fascia di Van Allen.
(credit: NASA)
In aggiunta ai danni da radiazioni che la Falcon avrebbe potuto incontrare durante il transito in questa area aggiungiamo il congelamento del carburante, la fuoriuscita dell'ossigeno o altre amenità che nel migliore dei casi ne avrebbero impedito la "fuga" dalla Terra con conseguente intrappolamento nell'orbita e/o dissolvimento nella fase di discesa al contatto con l'atmosfera.
Superata la prima fase critica la navetta si è diretta in direzione dell'orbita marziana (cosa diversa dal dire Marte!) dove vagherà solitaria seguendo un orbita eliocentrica per un tempo indefinito. La precisazione è doverosa visto che alcuni media avevano fatto intendere che la navetta, o meglio il curioso oggetto caricato che vedremo poi, aveva come destinazione il pianeta Marte .
Il viaggio di Falcon Heavy non prevede l'incontro con Marte ma solo con la sua orbita (credit: JPL)

Il tweet di un Musk felice  ci ha informato che la navetta ha superato l'orbita di Marte e si dirige ora verso la fascia degli asteroidi prima di curvare assestarsi sull'orbita finale.

La traiettoria attualmente prevista (clicca l'immagine per ingrandire).
Credit: twitter/Musk


2) Oltre alla "prova sul campo" che ha dimostrato la capacità di SpaceX di gestire le complicate fasi di lancio, volo e recupero dei razzi, quel geniaccio di Musk ha saputo creare l'evento attraverso alcune trovate mediaticamente vincenti.
Visto che bisognava riempire con qualche cosa la navetta per fare peso, si è pensato di unire i due core business dell'auto elettrica e del volo spaziale caricando una Tesla (la macchina elettrica)

La Tesla è posta proprio sopra la navetta e protetta dagli scudi durante il lancio  (credit: teslarati.com)
Una volta eliminati gli scudi ecco come apparirebbe la navetta nel suo viaggio
Un ulteriore strizzatina d'occhio viene dall'avere montato un manichino di astronauta seduto alla guida della macchina mentre ascolta Life on Mars di David Bowie (una musica all'interno del casco ovviamente visto che come diceva la locandina del film Alien "Nello spazio nessuno può sentirti urlare", cioè l'autoradio in una decapottabile serve a poco)

(credit: SpaceX)
Di seguito il video "Live Views of Starman" prodotto da SpaceX
Notare il messaggio "Don't Panic!" sul cruscotto, ispirato al libro cult "Guida galattica per autostoppisti” di Douglas Adams
(se non vedi il video --> youtube)


La "Tesla" vista da Terra. La serie  di immagini è stata catturata dal Virual Telescope Project a cui vi rimando per tutte le info del caso (--> www.virtualtelescope.eu). Tutti i diritti dell'immagine a virtualtelescope.eu


In sintesi un buon risultato condito da una ottima capacità di marketing.

Piani per il futuro? Il Falcon Heavy è stata una prova di fattibilità che apre le porte allo sviluppo di vettori più potenti, necessari per un razzo in grado di ospitare decentemente persone e sistemi di sussistenza per un viaggio della durata di molti mesi.
Il nome scelto per questo nuovo razzo annunciato nel 2017 è tutto un programma: BFR. Ufficialmente BFR è l'acronimo per Big Falcon Rocket, ma in realtà le parole vere rimandano a qualcosa che posso tradurre in modo soft con "razzo dannatamente grande".


Se volete seguire la posizione di Starman --> https://www.whereisroadster.com



Aggiornamento ottobre 2020 --> La navicella effettua il primo Fly-By con Marte.


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*** Notizie correlate ***

La caduta del razzo cinese
Se gli americani si sono preoccupati di minimizzare il rischio danni in caso di avarie durante il lancio, il governo cinese (che gestisce "in esclusiva" i propri i lanci spaziali nazionali) sembra meno preoccupato di tali eventualità. Il 12 gennaio il razzo Long March 3B si è infatti schiantato poco dopo il lancio vicino alla città di Xiangdu nel sud ovest della Cina. Nel filmato sotto allegato ripreso con lo smartphone da un abitante si può osservare il razzo fuori controllo che passa appena sopra il centro abitato per poi esplodere all'impatto con il suolo, fortunatamente senza causare vittime. Quello che colpisce del filmato sono in realtà le voci di sottofondo degli spettatori che sembrano più incuriosite che spaventate per poi tramutarsi in esclamazioni di eccitazione subito dopo lo scoppio quasi come stessero osservando dei fuochi d'artificio invece di un "mancato disastro".

Per approfondimenti vedere l'articolo pubblicato su --> The Verge.
Il video dell'impatto
 (se non vedi il video clicca  --> youtube . Altra versione ma di minore qualità (-->@CNSpaceFlight via Twitter)
Gli audaci abitanti invece di scappare sono andati a fotografare l'inatteso visitatore da cui emanava una preoccupante nuvola arancione.
Credit: @Cosmic_Penguin / Twitter
Il messaggio calato dall'alto è che i vapori liberati non sono nulla di cui preoccuparsi visto che si tratta di idrazina (uno dei combustibili usati nei razzi). Sarà pure così ma da quanto capisco di chimica so che l'idrazina è incolore oltre che tossica. Molto più probabile che il colorito orange sia dovuto ad altri ossidi di azoto e acido nitrico (che alle temperature si decompone formando ossidi); tra l'altro questi ossidi sono ben più tossici dell'idrazina che almeno alle alte temperature si decompone in acqua e azoto.
Insomma, il consiglio spassionato che bisognerebbe dare agli abitanti del luogo è che se si dovesse verificare qualcosa di simile nel futuro sarebbe opportuno correre in direzione opposta a quella dell'impatto e magari di non farsi selfie (come avrebbero fatto sicuramente tanti nostri connazionali).

La goccia di latte che galleggia sul caffè

In quali condizioni è possibile tenere in sospensione una goccia di latte sulla superficie del caffè e cosa ci insegna questo sulla dinamica dei fluidi?

Chiunque abbia un minimo di velleità culinarie conosce il trucchetto per capire se la temperatura dell'olio nella padella è adatta per iniziare la frittura. E' sufficiente lasciare cadere una goccia di acqua e se questa scorrerà lungo la superficie come fosse il dischetto di hockey sul ghiaccio, allora le condizioni minime di temperatura saranno soddisfatte.
Niente di sorprendente da un punto di vista fisico essendo frutto di una serie di peculiarità che vanno dalla idrofobicità alla densità dell'olio.
La goccia d'acqua tenderebbe ad affondare sotto lo strato d'olio ma a causa del calore di questo le molecole d'acqua tendono a vaporizzare, evento impedito inizialmente dalla tensione superficiale dell'acqua e poi dall'impossibilità di interagire con l'olio. Mai usare però più di una goccia d'acqua perché l'effetto sarebbe esplosivo; la massa d'acqua precipitando sotto la superficie dell'olio caldo si trasformerebbe subito in una bolla di gas "incapace" di interagire con le molecole idrofobe circostanti e da qui gli schizzi anche molto violenti del liquido.
Mancava invece una chiara (nel senso di matematicamente definita) spiegazione del perché, in determinate condizioni, le gocce di latte versate sul caffè non si miscelassero.

Per giungere alla spiegazione, che come vedremo ha ricadute che vanno ben oltre il semplice rimirare il comportamento del caffè mattutino, ci sono voluti i ricercatori del MIT di Boston che sono riusciti a visualizzare il fenomeno della goccia sospesa appena sopra "il mare" del caffè.

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Journal of Fluid Mechanics, offrono una comprensione matematica dettagliata della coalescenza di gocce, che può verificarsi oltre che con il caffelatte anche con le gocce della pioggia, con quelle emesse da spruzzatori fino a quelle delle unità microfluidiche comuni in molti laboratori di ricerca. Comprendere la matematica sottostante permetterà, ad esempio, di prevedere la modalità di diffusione delle sostanze chimiche prodotte dagli spray e quindi di progettarle in modo accurato. La prima applicazione che mi viene in mente è disegnare chip microfluidici in cui le microgocce emesse (ciascuna delle quali veicola particolari molecole) si fondano solo "a comando" cioè in particolari condizioni di temperatura e di "angolo di collisione".

Ma andiamo con ordine, riassumendo prima l'approccio usato e quindi i dati ottenuti.
Punto di partenza è stata la costruzione di una piccola scatola, delle dimensioni di una tazzina da caffè, fatta di pareti di materiale acrilico e un fondo di metallo. La "tazzina" è stata quindi posizionata su una lastrina di metallo a temperatura controllata e poi riempita con olio di silicone. Appena sopra la superficie del liquido una specie di siringa da cui fare emergere goccioline di olio a viscosità e temperatura variabili.

La coalescenza della goccia di creamer  (il latte usato per macchiare il caffè) con il caffè
(all credit to M. Geri / MIT via inverse.com)

Da qui in avanti i test, condotti variando uno o più dei parametri sottesi (la temperatura del supporto metallico o le caratteristiche termo-viscose della goccia), avevano come obbiettivo misurare il comportamento della goccia al contatto con il liquido sottostante. Il comportamento della goccia è stato monitorato mediante una telecamera ad alta velocità (2 mila fotogrammi al secondo).

 Video. Come fare levitare una goccia su un liquido
(all credit: Michela Geri/youtube)

Dai dati ottenuti si è così scoperto che aumentando il differenziale di temperatura tra goccia e liquido era possibile fare levitare per un certo periodo di tempo le goccioline appena sopra la superficie. Un delta di 30 gradi era capace di bloccare la fusione tra goccia e fluido sottostante per almeno 10 secondi; un intervallo di temperatura che se applicato al latte e al caffè permette di ottenere "a comando" il fenomeno ricercato (vedi video).
Pur rimanendo sulla superficie dei dati sperimentali, vale la pena citare che è possibile prevedere il tempo di permanenza della gocciolina sulla superficie in funzione della differenza di temperatura iniziale tra i due fluidi elevata alla potenza di due terzi. Estrapolando il dato è possibile ricavare il delta critico raggiunto il quale una gocciolina avente una certa viscosità non si mescolerà ma rimarrà "appoggiata" sul liquido.
Attraverso l'utilizzo di traccianti fluorescenti e di un laser è possibile visualizzare il ricircolo delle particelle nella goccia causato dal differenziale di temperatura
(all credit to M. Geri / MIT)

I ricercatori hanno poi cercato di capire cosa avviene nello strato d'aria che separa la goccia dal liquido. L'idea guida era che al crearsi di un certo differenziale di temperatura a distanza ravvicinata, si venisse a creare una "forza" sull'aria intrappolata tra i due. Anche qui è la matematica a risolvere il dilemma con la dimostrazione che il delta di temperatura è sufficiente a creare correnti di convezione che di fatto fungono da cuscino per la goccia. Maggiore la differenza di temperatura, più forti sono le correnti d'aria e maggiore è la pressione che si oppone al peso della goccia, impedendole di affondare e di entrare in contatto con il liquido.

Credit: M. Geri, B. Keshavarz, G. McKinley, and J. Bush/MIT via vox.com


Per inciso il fattore E^2/3 riproduce esattamente la variazione di temperatura in funzione del tempo all'interno della goccia fino al momento in cui il delta non è più in grado di creare le correnti di convezione e quindi la goccia precipita e si fonde con il liquido.

Predire il comportamento di una goccia sarà molto utile per controllare se e quando due fluidi dovranno miscelarsi.

Fonte
- Thermal delay of drop coalescence
Michela Geri et al, (2017) J, Fluid Mech. (833)R3


Vaccino influenzale e diabete. Nessun legame

La propensione alla variabilità del virus dell'influenza è la prima causa della sua diffusione e della provvisorietà annuale dei migliori strumenti preventivi che abbiamo, i vaccini (vedi articolo precedente --> "La biologia del picco influenzale 2018").
Se a questo associamo il fatto che tali strumenti preventivi sono sostanzialmente disattesi anche dalle categorie più a rischio per un misto di rassegnata accettazione di contrarre l'influenza e di timore per i vaccini (mentre non si lesina sull'utilizzo di pillole), ecco allora spiegato il picco di casi in questi mesi. Certamente nel caso dell'influenza la minimizzazione della percezione del rischio malattia è legata al suo essere, nella maggior parte dei casi, un malessere temporaneo il cui costo principale sarà la perdita di ore di produttività e come tale scaricato su terzi (datori di lavoro, sanità, ... ).

Il timore dei vaccini, e in generale dei farmaci, è allo stato attuale infondato ma comprensibile  se si considera il solo eventuale malessere legato al medicamento, rimuovendo in toto il rischio legato alla loro non assunzione. Come tutte le terapie, la decisione di utilizzare un vaccino (o quella di renderlo obbligatorio per motivi di salute pubblica) deriva dal rapporto rischio-beneficio, la cui entità "accettabile" è funzione della gravità del rischio e dove il rischio da pesare è sia quello legato al non utilizzo (quindi il rischio di malattia e la gravità della stessa) che quello associato al suo utilizzo. Quest'ultimo è un punto importante in quanto ogni terapia agisce modificando in qualche modo l'organismo e come tale porta un rischio intrinseco (pensiamo ad esempio alla sonnolenza indotta dagli antistaminici).
La campagna contro le false news riguardo ai vaccini della nfid 
Questo concetto è fondamentale e dovrebbe mettere in guardia dai venditori di cure spacciate come "naturali e in quanto tali privi di ogni effetto collaterale". Terapie del genere che vanno dalla omeopatia ad altri rimedi venduti come risolutivi contro ogni male hanno la stessa "attività" terapeutica dell'acqua fresca. Nessuno si stupirebbe dell'assenza di problemi derivanti dal bere un bicchiere di acqua fresca, ma ragionevolmente nessuno si aspetterebbe (o dovrebbe aspettarsi) una sua azione curativa anche solo di un eritema. Da qui la gravità di chi nel recente passato prometteva terapie antitumorali risolutive e prive di effetti collaterali rispetto a quelle ufficiali. Il che in un certo senso era vero ma non perché fossero terapeutiche ma perché un mix privo di principi attivi (o sottodosati) è per definizione privo della capacità di indurre un effetto farmacologico e quindi anche alcun effetto collaterale. "Acqua fresca" nel migliore dei casi ma con conseguenze anche letali per avere rinunciato alla terapia (il caso della ragazza diabetica morta per avere scelto l'omeopatia invece dell'insulina è emblematico).
I vaccini, nella loro varietà, hanno tutti la caratteristica operativa di dovere indurre (altrimenti non funzionano) una risposta immunitaria diretta contro uno o più antigeni caratteristici del microbo di turno; una difesa preventiva che "fornisce l'identikit" del potenziale invasore e l'addestramento alla sua neutralizzazione alle pattuglie immunitarie.
Come prima anticipato ogni "arma" ha la potenzialità di danneggiare l'ospite se mal calibrata, per il verificarsi di reazioni impreviste o se malfunzionante. Il rischio maggiore nel caso dei vaccini è quello legato all'utilizzo di microbi "attenuati o difettivi" (vale a dire vivi ma poco virulenti) ed è conseguente al rischio che riacquistino la loro piena funzionalità in seguito a mutazioni o per lo scambio di materiale genetico con altri microbi. Eventi rari ma possibili e come tali preventivati (da qui la necessità di riferire reazioni avverse nelle 24 ore successive alla vaccinazione); per quanto raro come evento la percezione generale di una reazione avversa seria (che richiede ospedalizzazione) in un caso su centomila è maggiore di quella standard, cioè l'assenza di problemi nei restanti 99999.
Il caso tipico è quello del vaccino antipolio orale (OPV), un virus attenuato, che a differenza di quello iniettato presentava un rischio raro ma intrinseco di provocare lui stesso la poliomielite. Fintanto che il rischio di malattia da virus della polio "ambientale" rimase rilevante, il rischio aggiuntivo legato all'utilizzo del OPV era irrilevante e non è un modo di dire: il numero di casi a lui attribuiti rispetto a quelli evitati per averlo utilizzato (e che se si sarebbero manifestati con certezza in una popolazione non vaccinata) non solo deponeva totalmente a favore del suo utilizzo ma decidere di non usarlo sarebbe stato criminale in quanto avrebbe condannato migliaia di persone ad una malattia invalidante. Nel momento stesso in cui l'endemicità del virus della poliomielite calò drasticamente e con esso il rischio "reale" della malattia anche il profilo di rischio del OPV cambiò e da qui il passaggio alla nuova formulazione iniettabile (meno efficace ma meno pericolosa).
Tale problema non sussiste usando microbi inattivati (alias uccisi anche se tale termine nel caso di un virus è etimologicamente fuorviante --> "Virus come quasi-organismi") o solo parti di essi, tipicamente proteine. I problemi che potrebbero (condizionale) emergere con questo approccio sono legati all'eventuale somiglianza del vaccino con nostre strutture/proteine, con il risultato della attivazione di una azione aspecifica "di difesa" diretta contro noi stessi; in altre parole una reazione autoimmune. In linea generale il sistema immunitario è calibrato per evitare rischi simili (intrinseci nella versatilità adattativa del sistema immunitario) attraverso un processo su due livelli. Durante la fase di differenziazione dal precursore emopoietico, il linfocita T passa attraverso due fasi di controllo; prima una selezione positiva (che rimuove le cellule incapaci di riconoscere le "bandierine proteiche", complesso MHC, che identificano le proprie cellule, il cosiddetto self) e poi una massiccia selezione negativa (che rimuove tutti i linfociti reattivi con cellule o parti del proprio organismo). Le malattie autoimmuni sono la conseguenza di una "pulizia" incompleta in questa fase; il rischio può essere "innato" oppure indotto dall'essere venuti in contatto con un microbo o materiale che presenta sulla superficie molecole simili a quelle self. Se il sistema di selezione è inefficiente nel rimuovere quella parte dei linfociti autoreattivi, il risultato sarà un sistema immunitario che "spara contro sé stesso). Non a caso la genetica (leggasi predisposizione) gioca un ruolo importante in molte patologie a base autoimmune. 
A tal proposito vedi il precedente articolo --> "I batteri causa del diabete?"
Questo ci porta al tema odierno cioè i timori di effetti collaterali di natura autoimmune, sorti negli anni successivi al lancio del Pandemrix, un particolare vaccino antinfluenzale sviluppato per minimizzare il rischio dell'influenza suina negli umani. L'influenza suina è una forma influenzale endemica nei suini causata dagli orthomyxovirus, la famiglia di virus a cui appartengono anche i ceppi che causano la nostra influenza. Come nel caso dell'influenza aviaria il problema sorge quando il virus, in seguito a mutazioni spontanee, diviene capace di infettare gli esseri umani causando una forma influenzale più grave del solito. Eventi del genere sono del tutto naturali, sebbene rari ma facilitati dal contatto costante tra specie portatrice e noi.
Le conseguenze del salto inter-specie non sono prevedibili a priori ma i due eventi più probabili sono o una malattia molto leggera a causa della sostanziale incapacità del virus di replicarsi nel nuovo ospite (fenomeno sfruttato da Edward Jenner per proteggere gli umani dal vaiolo usando il virus vaccino, cioè il virus del vaiolo bovino) o una virulenza nettamente maggiore (vedi la patogenicità del HIV, un discendente recente del SIV che nelle scimmie non è letale, oppure il virus Ebola che nel serbatoio naturale, i pipistrelli della frutta, non causa problemi). In questo secondo caso è proprio "l'inadeguatezza" funzionale del "nuovo" virus a determinare la letalità: un virus ben adattato e quindi di successo, è quello che non uccide il proprio ospite ma che lo sfrutta a tempo indeterminato per produrre progenie infettiva (ad esempio il virus dell'herpes).

Se il nome virus dell'influenza suina non vi dice molto pensate al ceppo H1N1, responsabile della pandemia del 2009, ampiamente discussa nell'articolo Epidemiology of pandemic H1N1 influenza ('swine influenza'), per intuire il perché della necessità di sviluppare strumenti per prevenire future epidemie.
Il vaccino Pandemrix ricevette l'autorizzazione al commercio in Europa e a distanza di qualche anno in Svezia e Finlandia cominciarono ad accumularsi indizi sul rischio narcolessia (Vedi nota a fondo pagina. ) negli adolescenti (ma non negli adulti) vaccinati. Importante precisare che "indizio" nel campo della farmacovigilanza indica una deviazione statisticamente significativa di episodi "anomali" nei soggetti trattati rispetto alla popolazione non trattata. Un elemento non probatorio ma che impone la necessità di approfondimenti.
Nel caso dei farmaci e, soprattutto, dei vaccini, gli studi di sicurezza (prima ancora che di efficacia), sono obbligatori per ricevere l'autorizzazione all'entrata sul mercato, e sono solo il primo passo del monitoraggio. Una volta entrato in commercio il monitoraggio sarà finalizzato a rilevare eventuali rischi sul medio-lungo periodo legati ad esempio al background genetico del paziente oppure alla presenza di malattie concomitanti che non potevano essere valutate durante la sperimentazione clinica. Questa fase è denominata fase IV e può richiedere  anni perché emergano (o sperabilmente non emergano) controindicazioni specifiche all'utilizzo di un dato farmaco nella popolazione in generale o, cosa molto più probabile, in alcuni sottogruppi di pazienti (evidente nel foglietto illustrativo quando leggete cose del tipo "non utilizzare se si soffre di ...., se si assumono farmaci contenenti la molecola ..."). E' solo in questa fase che potranno emergere casi impossibili da rilevare durante la sperimentazione clinica.
In seguito ai dubbi scandinavi, anche l'americana CDC attivò una sua analisi indipendente (sebbene quel particolare vaccino non fosse commercializzato in USA) basata sulla meta-analisi dei dati ricavati dal Vaccine Adverse Event Reporting System (VAERS) e dal Vaccine Safety Datalink (VSD); in tutto più di 1,5 milioni di persone vaccinatesi durante le epidemie 2009 e 2011. I risultati, pubblicati nel 2014 sulla rivista Neurology, hanno escluso ogni nesso causale tra rischio narcolessia e utilizzo di vaccini basati su H1N1. A posteriori si può ipotizzare che l'anomalo scostamento nella incidenza di narcolessia sia conseguenza o del tipo di adiuvante usato nella formulazione usata nei due paesi scandinavi (il Pandemrix venduto in Cina, privo di adiuvanti e usato su milioni di persone, non ha evidenziato problemi) oppure che si sia trattato di un falso allarme causato da una metodologia statistica non corretta (ipotesi discussa in --> Thomas Verstraeten et al, (2016) Hum Vaccin Immunother.).

In contemporanea all'indagine sul rischio narcolessia, i due paesi cominciarono a monitorare eventuali scostamenti nel rischio diabete di tipo 1 (insulino-dipendente) a causa della comune natura autoimmune delle due patologie; nella narcolessia la causa è da ricercarsi nella distruzione delle cellule cerebrali che producono la ipocretina, mentre nel diabete di tipo 1 sono le cellule beta del pancreas ad essere colpite.
Anche qui si trattava di indizi evidenziati solo perché la Finlandia ha, per una somma di ragioni (genetiche, alimentari, ambientali), uno dei più alti tassi di diabete nella popolazione giovanile, per cui il monitoraggio dei segnali pre-diabetici (comparsa di anticorpi autoimmuni) è di routine. Anche qui si trattava di indizi che sembravano indicare un maggior rischio di diabete nei bambini vaccinati se portatori di una data variante genetica. Poteva trattarsi di un rischio reale o una deviazione statistica casuale (magari legata a concause ambientali) oppure essere un rischio reale seppure minimo in quanto a penetranza. 
L'indagine del rischio diabete in questi paesi si attua all'interno di un progetto internazionale denominato TEDDY con il quale i bambini vengono monitorati dalla nascita fino al quindicesimo anno d'età.
Anche in questo caso l'indagine ha avuto esito negativo. Lo studio retrospettivo condotto su bambini vaccinati in Svezia e Finlandia negli ultimi anni ha dimostrato che non esiste alcun nesso tra utilizzo del vaccino e il rischio di sviluppare autoanticorpi contro le cellule beta produttrici di insulina e più in generale con il rischio cumulativo di sviluppare diabete di tipo 1.
Anzi, sebbene per motivi non chiari, il rischio di diabete nei bambini finlandesi vaccinati era inferiore rispetto ai controlli.

Caso chiuso quindi ma reitera la differenza tra metodo scientifico (che si basa sui dati e analizza le anomalie) rispetto ad un allarmismo veicolato dai social.

***
Non posso non segnalare l'eccellente editoriale di Aldo Grasso sul Corriere dal titolo "Quando l'incompetenza diventa merito" in cui si cita l'esemplare risposta del prof. Burioni ad un candidato pentastellato (--> articolo).  Se vi sembra troppo duro, bene, perché è così che deve essere se si vuole mettere uno stop ad una deriva molto pericolosa in quanto guidata da totale ignoranza (e competenze in merito) sui temi in esame.


Fonti
-  The risk of type 1 diabetes not increased by swine flu vaccine Pandemrix
Lund University, news


- Pandemrix® vaccination is not associated with increased risk of islet autoimmunity or type 1 diabetes in the TEDDY study children
Helena Elding Larsson et al, (2018) Diabetologia 61(1):193-202


Nota
La narcolessia è una patologia neurologica, caratterizzata da eccessiva sonnolenza diurna, spesso vissuta come ricorrenti attacchi di sonno incoercibili. La frequenza dei casi è di circa 1 ogni 2000 persone. L'origine della malattia è una legata alla perdita dei neuroni ipotalamici che producono la ipocretina, un neurotrasmettitore essenziale per il ciclo sonno-veglia. Si tratta di una patologia di tipo autoimmune, per cui è un "errore di bersaglio" del nostro sistema immunitario a identificare come "estranei" le cellule ipotalamiche, con conseguente loro distruzione.


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