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Visualizzazione post con etichetta stress. Mostra tutti i post
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I farmaci "psichedelici". Una risorsa di cui però si ignora il meccanismo di azione

Ne ho scritto in passato (a partire dall'approvazione della ketamina come antidepressivo) quindi non dico nulla di nuovo citando gli studi in dirittura d'arrivo su farmaci derivati da molecole con attività non solo psicotropa ma psichedelica (vedi i funghi allucinogeni). Studi mirati a verificare l'efficacia del trattamento (riduzione dei sintomi) senza però che sia compreso a fondo il loro meccanismo d'azione cerebrale.
Illustration by Kasia Bojanowska
Il tutto nasce dall'utilizzo (plurisecolare se non millenario) da parte di alcune culture di droghe naturali a scopi rituali e terapeutici. Esempi in tal senso sono la psilocibina (da funghi allucinogeni), la mescalina (presente nel peyote, una pianta succulenta del Messico), l'ibogaina (estratta dalla corteccia di un arbusto centro-africano). 
Libro in cui si tratta, con piglio giornalistico/antropologico delle 4 principali piante con attività psicotropa (credit: Amazon)


Già alla fine degli anni '50 si iniziarono studi per determinare in modo rigoroso il loro potenziale terapeutico come antidepressivi, che però vennero in gran parte terminati quando queste e altri allucinogeni sintetici (ketamina, LSD, MDMA, ...) quando queste sostanze furono vietate o sottoposte a forte controllo nella maggior parte dei paesi. 
Si è dovuto attendere l’inizio degli anni 2000 per nuovi studi clinici che confermarono sia il potenziale terapeutico che la possibilità di usare versioni modificate di queste molecole, depauperate della loro attività allucinogena così da evitare rischio dipendenze e abusi.

Il 2019 ha segnato un momento importante di queste sperimentazioni quando una variante della ketamina (più sicura e priva di effetti allucinogeni) ha ricevuto il via libera da parte della FDA come  trattamento per il disturbo da stress traumatico (PTSD). Lo scorso maggio (2023) l'Oregon ha aperto il suo primo centro di trattamento per la somministrazione di psilocibina, risultato però di un percorso diverso cioè della decisione dello Stato di legalizzarla (la psilocibina rimane invece illegale negli altri stati). Negli ultimi mesi una organizzazione di ricerca senza scopo di lucro ha chiesto formalmente alla FDA l'approvazione della MDMA (nota anche come ecstasy) per il PTSD in base a due studi che ne hanno evidenziato la capacità, previa somministrazione sotto stretto controllo, di ridurre i sintomi più velocemente di altri trattamenti oggi disponibili.

Ci sono però alcune ombre in questi risultato legati sia ai limiti della sperimentazione animale per farmaci ad uso psichiatrico che (conseguenza del precedente e dei forti vincoli nel loro utilizzo sugli umani) le grandi lacune nella conoscenza del meccanismo d'azione di MDMA e di altre sostanze psichedeliche. Il recente cambiamento normativo che ha reso "più semplice" usare/studiare queste droghe sugli umani aiuterà a fare luce su alcuni meccanismi ma ci vorranno anni per avere un quadro paragonabile a quello dei farmaci non psichiatrici approvati. La comprensione del meccanismo del farmaco è inoltre un passaggio obbligato per disegnare molecole che mantengono la funzione terapeutica ma più sicure e private della loro componente allucinogena.

Alcune informazioni aggiuntive.
Da un punto di vista farmacologico, la parola “psichedelico” si riferisce storicamente a molecole con attività allucinogena (ad es. psilocibina, LSD, etc) che si legano ad uno dei vari recettori della serotonina chiamato 5-HT2A presente sulla superficie dei neuroni. Sebbene tale definizione non includa sostanze come ketamina o l’ibogaina, queste droghe sono spesso raggruppate insieme alle sostanze psichedeliche sia negli articoli di ricerca che sui media. Perfino il tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, è talvolta catalogato come sostanza psichedelica. Va da sé che il permanere di tale definizione vaga, combinata con la mancanza di reagenti e protocolli standardizzati, può rendere difficile per i ricercatori confrontare il loro lavoro con quello pubblicato da altri colleghi.
Aggiungiamo poi il fatto che sostanze "psichedeliche" come ketamina e MDMA, sono funzionalmente "sporchi" perché interagiscono con molti tipi di neuroni e molecole nel cervello. Perfino gli psichedelici classici (LSD e psilocibina) interagiscono, anche, con recettori diversi dal 5-HT2A.

La recente "promozione" della ketamina da anestetico veterinario, (mal)usato come droga da party dagli umani, a farmaco antidepressivo è conseguenza della sua capacità di legare e bloccare il recettore NMDA, recettore ionotropico del glutammato presente sulla membrana dei neuroni e che gioca un ruolo essenziale nella plasticità sinaptica e nel consolidamento della memoria. Con il blocco si innesca una serie di eventi molecolari che, in modo inatteso (vale a dire non previsto dalle conoscenze precedenti), contrastano lo stato depressivo. Alcuni studi hanno ipotizzato che il tutto sia conseguenza dell'azione di un prodotto di degradazione della ketamina che va a legare a un recettore non ancora identificato.
Un recente articolo ha provato che la ketamina può rimanere intrappolata nel recettore NMDA e sopprimere, in alcune regioni del cervello, l’attività del recettore fino a 24 ore, il che potrebbe spiegare la potenza e velocità del suo effetto rispetto ai classici antidepressivi.

Alcuni ipotizzando che tutte le droghe "psichedeliche" potrebbero avere qualcosa in comune, anche se non utilizzano il recettore della serotonina. Una conferma in questa direzione viene da studi che hanno mostrato che tutte queste sostanze si legano (anche) al recettore di un fattore di segnalazione cerebrale noto come fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), coinvolto nella crescita dei neuroni e nel ricablaggio del cervello.
Vero che anche gli antidepressivi classici, come il Prozac (fluoxetina), si legano al recettore, ma il legame è fino a 1000 volte più debole rispetto agli psichedelici, il che spiega perché uno sembri migliorare i sintomi in poche ore, mentre gli altri richiedano molti mesi.
In verità sebbene non tutti i ricercatori concordano con il ruolo prominente del recettore BDNF, vi è accordo sul fatto che le droghe psichedeliche aumentino la plasticità cerebrale, consentendo ai dendriti e agli assoni che formano i circuiti neurali di diversificarsi e creare nuove connessioni. La plasticità potrebbe aiutare una persona depressa a vedere il mondo in un modo diverso, o aiutare una persona con PTSD a disconnettere i propri ricordi traumatici da una risposta di paura. Vero però che la plasticità in sé e per sé non è necessariamente una buona cosa: ci sono buone ragioni per cui il cablaggio del cervello si sviluppa in questo modo e mantiene connessioni tra esperienze ed effetti.
Ad esempio alcune condizioni patologiche come autismo e schizofrenia, potrebbero (talvolta) derivare da un’eccessiva plasticità del cervello. Inoltre, tutti i tipi di droga, comprese la cocaina e le anfetamine, possono indurre una sorta di plasticità e tutto noi conosciamo l'effetto negativo (fisico e psichico) indotto da queste sostanza.
Forse la ketamina induce un particolare tipo di plasticità che consente ai neuroni di regolare la loro attività di fronte a uno stimolo che normalmente li influenzerebbe in un certo modo. A differenza dei meccanismi di plasticità che rafforzano o indeboliscono specifiche connessioni neuronali durante l’apprendimento e la memoria, questa plasticità omeostatica consente ai neuroni di combattere contro fattori che cercano di cambiarli. In questo modo, la ketamina potrebbe fornire al cervello gli strumenti di cui ha bisogno per mantenere uno stato sano. Se questo meccanismo si rivelasse vero, la ketamina potrebbe servire da “Stele di Rosetta” per comprendere come funzionano altre sostanze psichedeliche.
Altri scienziati, tuttavia, non pensano affatto che le sostanze psichedeliche influenzino direttamente la plasticità. Piuttosto, potrebbero sbloccare qualcosa noto come metaplasticità, rendendo i neuroni più suscettibili a uno stimolo che induce plasticità, ad esempio un ormone. Questa teoria darebbe maggiore importanza ad altri fattori – l’interazione sociale, per esempio, o la rivisitazione di un ricordo traumatico – nel rimodellare i neuroni e formare nuove connessioni.
In un esperimento di somministrazione ai topi di queste sostanze (MDMA, ibogaina, LSD, ketamina o psilocibina) si sono osservati risultati comportamentali interessanti. I topi trattati sono diventati più disposti a dormire in uno scompartimento con altri (chiaro segno di riduzione di stress) e l’effetto è durato per settimane. Poiché i topi adulti non tendono a cambiare il loro comportamento sociale, la scoperta suggerisce che i farmaci psichedelici sono stati in grado di riaprire il “periodo critico”, la fase in cui i topi giovani imparano ad associare la socialità a qualcosa di positivo. Nello stesso studio si è  anche scoperto che i neuroni degli animali trattati hanno iniziato a esprimere un insieme di geni coinvolti nel rimodellamento della matrice extracellulare, una zona che che funge da “malta” tra i neuroni: il rimodernamento libera i dendriti e gli assoni dando loro la capacità di formare nuove connessioni.
Ma proprio come la plasticità, troppa metaplasticità potrebbe essere dannosa “fondendo il cervello”: rompendo i circuiti neurali guadagnati con fatica, causando convulsioni e amnesia e distruggendo la capacità di apprendere. 

Questi studi potrebbero portare innovazione anche in aree apparentemente diverse della neurofisiologia. I ricercatori stanno verificando se nei topi queste sostanze riescano ad aprirealtri periodi critici. L’apertura di un periodo critico nella corteccia motoria, ad esempio, potrebbe allungare il periodo di tempo in cui le persone che hanno avuto un ictus possono trarre beneficio dalla terapia fisica. Le sostanze psichedeliche potrebbero aiutare le persone a recuperare i sensi perduti o indeboliti oltre il breve intervallo temporale oggi accettato per iniziare una terapia di recupero.

Se però il contesto è essenziale, l’esperienza allucinogena stessa potrebbe essere necessaria per aprire i periodi critici sopra citati.
Vero anche che l'esketamina, la versione modificata della ketamina approvata per la terapia antidepressiva (necessita di dosaggio molto inferiori e questo evita gli effetti collaterali della droga), non è inferiore alla ketamina per cui è possibile agire sulla riduzione degli effetti allucinogeni.
Non è necessario ingerire un farmaco per avere un cambiamento neurochimico, abbiamo continuamente cambiamenti neurochimici causati dalla nostra esperienza e la psicoterapia stessa funziona (anche) attraverso l'indizione di cambiamenti epigenetici.
Ecco allora che forse il farmaco potrebbe semplicemente migliorare la capacità della terapia di cambiare permanentemente la prospettiva di una persona. Una ipotesi non condivisa da altri ricercatori secondo i quali gli effetti diretti delle sostanze psichedeliche sul cervello sono parte fondamentale della loro efficacia terapeutica.


Tra i problemi della sperimentazione clinica in ambito psichiatrico il ben noto "effetto placebo" che (a differenza delle malattie in altri distretti corporei) può da solo rendere conto dell'80% dell'effetto terapeutico.
L'effetto placebo lo si osserva nei gruppi di controllo in doppio cieco dove sia il medico che il paziente non sanno se la "pillola" è un farmaco o un placebo. Chiaramente il problema diventa ancora più importante se il trattamento farmacologico è associato ad un effetto intenso che palesa immediatamente al paziente cosa ha ricevuto. Per cercare di minimizzare questi condizionamenti la FDA ha approvato un sistema per gli studi sull’MDMA in cui gli psichiatri, che non sono coinvolti nella somministrazione della terapia, valutano il miglioramento dei sintomi di ogni persona senza sapere chi ha ricevuto il farmaco.
Una misurazione del problema placebo viene dai ricercatori di Heifets Labs che hanno sviluppato un modo  per quantificare l’intensità dell’effetto placebo; il team di ricerca ha testato la ketamina su persone sottoposte a intervento chirurgico che erano state messe sotto anestesia e incapaci di sperimentare gli effetti dissociativi del farmaco. Le persone che escono dall’intervento chirurgico spesso sperimentano sintomi di depressione accentuati. Ma i ricercatori hanno scoperto che, indipendentemente dal fatto che un paziente avesse ricevuto ketamina o un placebo, i suoi sintomi miglioravano se pensavano che avrebbero potuto assumere il farmaco: l’aspettativa stessa di ricevere il farmaco stesso avrebbe potuto migliorare il loro umore.

Articolo precedente sul tema "Il farmaco psichedelico che spegne la PTSD"

Una potente droga psichedelica "spegne" i sintomi dello stress post-traumatico

Le droghe psichedeliche come l'MDMA e la psilocibina, il composto allucinogeno presente nei funghi magici, sono da qualche tempo sotto i riflettori per il loro potenziale terapeutico in psichiatria.
Vedi in proposito articoli sul blog come "Rave party, sballo chimico e terapia depressione"
Ora, un piccolo studio condotto su veterani affetti da stress post-traumatico (PTSD) suggerisce che un potente, ma poco studiato, farmaco psichedelico chiamato ibogaina potrebbe trovare impiego per i danni conseguenti a traumi cerebrali (TBI). In estrema sintesi i veterani che si sono sottoposti in autonomia al trattamento hanno mostrato una riduzione dei sintomi di oltre l’80%.

L'articolo, pubblicato su Nature Medicine, ha tuttavia dei forti limiti dovuti sia alle procedure osservazionali che al limitato numero di soggetti coinvolti, oltre alla mancanza di un gruppo di controllo.

L'ibogaina è ricavata dalla corteccia di un arbusto (Tabernanthe iboga) originario dell'Africa centrale, dove viene utilizzato per scopi rituali. Del meccanismo di azione della molecola si sa poco essendo sottoposta a forte controllo in molti paesi e come tale un problema per i ricercatori; a questo si aggiunge il rischio legato a a irregolarità fatali del battito cardiaco. Ad oggi è principalmente usata nella terapia della dipendenza e astinenza da oppioidi.
La mancanza di terapie universali per i pazienti affetti da PTSD ha riportato l'interesse per l’ibogaina.
Uno dei ricercatori coinvolti nello studio aveva sentito parlare di veterani che cercavano l'ibogaina per attenuare i sintomi del trauma cranico (di tipo cognitivo e fisico) seguendone alcuni per monitorare gli effetti da loro sperimentati dopo l'assunzione della droga in una struttura in Messico, dove l'uso del farmaco non era soggetto a restrizioni. Importante sottolineare che i ricercatori non hanno avuto alcun ruolo nella somministrazione del farmaco ma hanno solo registrato i resoconti dei fruitori. A scopo precauzionale i partecipanti hanno ricevuto un integratore di magnesio insieme alla sostanza psichedelica per minimizzare il rischio di effetti collaterali cardiaci.

Un mese dopo il trattamento, i partecipanti mostravano una riduzione media dell’88% dei sintomi di disturbo da stress post-traumatico, dell’87% dei sintomi della depressione e dell’81% dei sintomi dell’ansia. In media, i partecipanti presentavano una disabilità da lieve a moderata prima del trattamento, che scompariva nel mese successivo, come valutato da un sondaggio sulle loro capacità cognitive, mobilità e altre funzioni.

Nessuno dei partecipanti ha manifestato effetti collaterali cardiaci. Lo studio rientra nella tipologia “prova del concetto” sul potenziale del farmaco. Il passo successivo sarà studiare se il farmaco può conferire un beneficio a lungo termine e utilizzare neuroimaging e biomarcatori per valutare come funziona il farmaco.

Gli unici dati in tal senso oggi disponibili vengono da studi sui topi in cui si è dimostrato che l'ibogaina potrebbe riaprire temporaneamente un "periodo critico" (nome dato alle finestre temporali normalmente osservate durante lo sviluppo iniziale in cui il sistema nervoso è particolarmente malleabile). La ibogaina mantiene il periodo critico per almeno quattro settimane, rispetto alle due settimane osservate con una droga simile, psilocibina, ottenuta da funghi allucinogeni.

Dato lo stadio più che preliminare dello studio è verosimile che MDMA e psilocibina, in fase avanzata di sperimentazione, siano candidati migliori nel breve termine mentre l'ibogaina richiederà anni di studio per determinarne l'efficacia e la sicurezza.

Articolo su temi correlati "Farmaci psichedelici e meccanismi ignoti"

Fonte
Magnesium–ibogaine therapy in veterans with traumatic brain injuries
Kirsten N. Cherian et al, (2024) Nature Medicine


Un esame del sangue per predire il rischio suicidio

In alcuni paesi il tasso di suicidi è tale da uscire dal novero della freddezza statistica per entrare tra i principali argomenti di salute pubblica. 
I paesi afflitti da questo problema hanno proprie peculiarità ma il comune denominatore di essere nazioni sviluppate sia sotto il profilo economico che socio-culturale; le variabili chiamate in causa sono molte e possono andare dal lavoro, convenzioni sociali e isolamento "affettivo" (Giappone) fino alle lunghe notti invernali (Scandinavia e Russia). Qualunque sia la specifica locale non esistono ad oggi soluzioni semplici o interventi preventivi (tipo diagnosi del rischio individuale) sufficientemente affidabili.

Forse però qualcosa si sta muovendo in ambito clinico.
L'attuazione del proposito suicida non è quasi mai una scelta estemporanea; viene covata anche in modo inconscio per lungo tempo e come tale, biologicamente, ha un impatto sugli indici metabolici. Il pensiero  è il prodotto dell'attività cerebrale di reti neurali complesse la cui disfunzione è notoriamente causa di varie patologie comportamentali, dalle fobie ai disturbi ossessivo-compulsivi. Per troppo tempo queste anomalie sono state percepite come qualcosa d'altro (di superiore) rispetto alle malattie che affliggono altri distretti corporei e questo ha remato contro l'accettazione che si tratta in grandissima parte di disturbi a base metabolica e come tali (sia come terapia che come prevenzione) possono essere trattati.
Negli ultimi anni i progressi delle neuroscienze sono stati lenti ma costanti e hanno permesso di ricondurre le anomalie del pensiero o dello stato emotivo ad alterazioni della produzione (locale o sistemica) di uno o più neurotrasmettitori. 
Lo stress, uno stato utile per la nostra sopravvivenza in quanto "preparatore" ad affrontare condizioni avverse, ha qui una valenza centrale sia per l'effetto sistemico (comportamentale, intestinale, immunitario, etc) che per la "preparazione" del pensiero suicida. Capiamoci bene,  lo stress non induce al suicidio ma può essere considerato una cartina di tornasole utile per diagnosticare il rischio in soggetti predisposti.

Monitorare lo stato di stress con marcatori "univoci" (vale a dire non basati su sensazioni ma su parametri metabolici misurabili) è quindi un campo di ricerca particolarmente importante.
E' in questo solco che rientra lo studio condotto da ricercatori svedesi delle università di Lund e di Malmö imperniato sulla ricerca di parametri biologici (biomarkers) riconducibili ad uno stress cronico e facilmente misurabili (ad esempio con un semplice prelievo di sangue).
Tra i potenziali candidati quello che sembra avere sufficienza forza statistica per correlare il superamento di certi valori ad un rischio concreto è la presenza di DNA mitocondriale libero nel sangue; una presenza che è indice di stress (mitocondriale) metabolico.
Oltre al DNA nucleare, ne abbiamo un altro di pari importanza, quello mitocondriale. Le
cellule eucariote sono il risultato di una relazionesimbiontica iniziata circa 1,5 miliardi di anni
fa tra un batterio e una proto-cellula eucariote (image: NHGRI)


Se confermato da più estesi studi clinici, questo parametro diventerebbe uno strumento fondamentale nella valutazione di rischio oggettivo in psichiatria.
I ricercatori sottolineano tuttavia che, data la complessità dei comportamenti individuali, il marcatore non avrà una valenza previsionale nel senso comune (e deterministico) del termine ma di un indicatore biologico che indica uno stato di stress critico nelle persone vulnerabili, come chi soffre di ansia e depressione cronica. E' in questi soggetti che il  parametro potrebbe rivelarsi particolarmente utile anche come misuratore dell'efficacia degli interventi farmacologici e psicoterapeutici adottati; un problema particolarmente importante se si pensa che oggi l'efficacia della terapia preventiva è fortemente sbilanciata su marcatori PRO (patient-reported outcome), cioè sulla valutazione "soggettiva" del paziente; autovalutazioni errate (o fuorvianti) inquinano l'affidabilità statistica e questo spiega la discrepanza tra apparente efficacia della terapia e valori ex-post di persone suicidatesi.

Riassumendo in poche righe lo studio svedese, i ricercatori si sono concentrati sull'analisi dei parametri fisiologici di 37 pazienti ricoverati in una clinica psichiatrica dopo che avevano tentato il suicidio. I dati sono stati confrontati con un ugual numero di controlli (persone senza storia di tendenze suicide) pesate per età e sesso (70 per cento di sesso femminile ed età media intorno ai 40 anni). Rispetto ai controlli, i pazienti "suicidi" mostravano livelli sorprendentemente alti di DNA mitocondriale libero nel plasma (vale a dire quello presente nella frazione acellulare del sangue), un dato che si correlava con la presenza di elevati livelli di cortisolo (l'ormone dello stress).
Il dato era non è completamente inatteso essendo già noto che le cellule immunitarie degli individui depressi possiedono un maggior numero di copie di DNA mitocondriale. Il numero di mitocondri varia nelle cellule a seconda del fabbisogno energetico, a sua volta direttamente correlato al metabolismo e allo stress. 
La correlazione tra livello di stress, cortisolo e "titolo" di DNA mitocondriale, confermato da studi su animali di laboratorio, mancava però di conferme univoche sugli esseri umani, quindi non era un marcatore utilizzabile in clinica.

Ma se il livello del cortisolo è indicativo di stress per quale motivo non misurare direttamente il cortisolo invece di cercare il DNA mitocondriale (mtDNA)?
La ragione è che il primo ha una minore valenza indicativa e predittiva di stress grave. Il cortisolo viene rilasciato nel sangue ogni mattina prima di svegliarsi (fondamentale per prepararci al risveglio) e in genere in qualunque situazione in cui sia necessario "prepararsi a reagire" ad eventi esterni; condizioni assolutamente normali che non sono quindi rapportabili ad un aumentato rischio di suicidio. Per stress grave si intende invece uno stato persistente nel tempo, che si attiva e mantiene in assenza di inneschi esterni.
L'aumento del mtDNA nel plasma è verosimilmente un riflesso di uno stato di stress cronico che induce una maggior attività mitocondriale (che ci prepara ad affrontare un evento che ... di fatto non esiste) ed ha quindi una maggiore affidabilità rispetto alla misurazione del solo cortisolo.
La tecnologia odierna (ad esempio qPCR) ci permette di misurare il numero di copie di mtDNA diluite nel plasma in modo semplice, veloce ed automatizzabile. I risultati sono inoltre più facilmente interpretabili rispetto al semplice monitoraggio del livello di cortisolo (che dovrebbe essere fatto lungo l'arco della giornata e per più giorni).
I prossimi studi, oltre alla necessità di trovare conferme mediante un campione più ampio (e vario anche in senso patologico) di pazienti, dovranno focalizzarsi sia sul monitoraggio del titolo di mtDNA nel tempo per valutare l'utilità predittiva della efficacia terapeutica (ben diversa da quella "percepita") che della quantificazione del fattore di rischio, come richiesto ad ogni marcatore usato in clinica.

Fonte
- Increased plasma levels of circulating cell-free mitochondrial DNA in suicide attempters: associations with HPA-axis hyperactivity
D. Lindqvist et al, Translational Psychiatry (2016) 6, e97





Come funziona il laser "freddo" nella terapia

Qualche settimana fa ho parlato della pressione negativa come metodo per accelerare la guarigione delle ferite ad alto rischio infezione.
Un altro approccio egualmente importante è quello basato sul laser, nello specifico la terapia laser a bassa intensità (Low-level laser therapy  - LLLT) o, se vogliamo, laser freddo.
La LLTT sfrutta un raggio laser rosso o nel vicino infrarosso (lunghezza d'onda tra 600 e 1000 nanometri) e potenza da 5 a 500 milliwatt, ed ha come caratteristica principale la non produzione di calore; da non confondere quindi con i laser usati in chirurgia per vaporizzare tessuti o cauterizzare i vasi sanguigni, la cui potenza è intorno ai 300 watt.
Tra i molteplici utilizzi del laser freddo, oltre al trattamento delle ferite, c'è quello di ausilio nel trattamento di tubercolosi, disturbi della articolazione temporo-mandibolare, affezioni muscolo-scheletriche e nella riabilitazione. Secondo alcuni è perfino utile per smettere di fumare.

Nonostante l'ampia gamma di utilizzi, non si tratta di una tecnica particolarmente diffusa e nota al grande pubblico. Due sono le ragioni principali: nonostante i successi manca una completa comprensione del suo meccanismo di azione a livello molecolare, cellulare e tissutale; inoltre l'alto numero di parametri di cui bisogna tenere conto per sviluppare i protocolli di trattamento (lunghezza d'onda, fluenza, tempi e numero di trattamenti, polarizzazione, etc) rende la tecnica difficilmente standardizzabile.
Ad aggiungere variabili vi è poi la progressiva diffusione dei LED come sorgenti luminose per la LLLT, più economici e capaci di emettere lunghezze d'onda simili a quelle dei laser, ma con gamma di emissione più ampia rispetto al "puro" monocromatismo della luce laser. La diffusione della tecnica, sotto il nome di terapia LED, in ambulatori di chiropratica dovrebbe mettere sull'avviso i potenziali utenti ... .
I diversi tipi di laser

Come può la LLLT indurre una risposta biologica?
A differenza dei laser "caldi", centrati sull'effetto termico, la LLLT induce una reazione fotochimica nella cellula, nota come biostimolazione (o anche fotobiomodulazione).
La fotobiologia (vale a dire la capacità dei fotoni di produrre un effetto biologico) si basa sul principio che quando la luce colpisce delle molecole  chiamate cromofori, l'elettrone esterno passa al livello superiore "eccitando" la molecola. Tale effetto è strettamente correlato alla natura quantica della radiazione elettromagnetica, per cui i fotoni sono in grado di trasferire "pacchetti discreti" di energia a molecole "ricettive", vale a dire molecole i cui elettroni necessitano di quel particolare "pacchetto" per passare allo stato eccitato. La radiazione infrarossa, meno energetica rispetto a quella del visibile, ha minor effetto eccitatorio e una maggiore capacità di indurre un effetto noto come transizione vibrazionale.


Il fenomeno è ben evidente nella fotosintesi, dove la luce "eccita" la clorofilla (batterioclorofilla nel caso dei cianobatteri, alias alghe blu-verdi), ma vale anche per le flavoproteine (coinvolte sia nella fotosintesi che nella bioluminescenza) e perfino per l'emoglobina. Il caratteristico colore associato alla presenza di questi cromofori è funzione di quali sono le lunghezze d'onda assorbite, quali riflesse e quali passano "intonse" attraverso il materiale; da qui il colore verde della clorofilla, giallo delle flavoproteine e rosso per l'emoglobina

Ci serve però un altro tassello per capire l'utilità del laser freddo in biologia e per questo bisogna introdurre un fondamentale organello presente in tutte le cellule eucariote, il mitocondrio (--> qui un articolo recente in questo blog).
I mitocondri sono le centrali elettriche della cellula eucariotica, responsabili della completa scomposizione delle molecole organiche a CO2, per produrre energia chimica sotto forma di una molecola nota come ATP. Attraverso il processo di fosforilazione ossidativa (la respirazione cellulare) gli elettroni estratti durante la scissione delle molecole organiche (ossidazione) vengono canalizzati, come un vero e proprio flusso di corrente, sulle creste della membrana interna del mitocondrio dove passano da un "complesso proteico all'altro e usati per "ricaricare" l'ATP dalle sue componenti esauste (ADP e fosfato), e infine scaricati/neutralizzati sull'ossigeno a formare acqua.
L'ATP può essere visto come una sorta "batteria ambulante" in quanto trasportatrice  dell'energia chimica che verrà utilizzata dagli enzimi per catalizzare le innumerevoli reazioni che avvengono nei vari distretti cellulari.
Esperimenti oramai classici hanno mostrato che nei mitocondri esposti ad un raggio laser (del tipo elio-neon) si aveva un aumento della respirazione cellulare (misurabile dal consumo di ossigeno) e con essa la produzione non solo di ATP e NADH, ma anche di proteine e RNA. Un effetto simile lo si ha quando un tessuto è esposto a radiazioni a bassa intensità.
Questo fatto spiega per quale motivo dosi minimali di radiazioni ionizzanti sembrano fare bene alle cellule, fenomeno come vedremo poi spiegabile con l'attivazione di meccanismi di salvaguardia della cellula. Tuttavia è bene ricordare che gli effetti delle radiazioni sono la somma di effetti deterministici (di natura fisica, con effetto proporzionale alla dose ed esistenza di soglia minima di sicurezza) e di effetti stocastici (non esiste una soglia minima in quanto l'effetto è livello genetico), quindi ogni "esposizione" alla radiazione può da un punto di vista probabilistico (di entità variabile a seconda della lunghezza d'onda) causare una mutazione.
Limitandoci alle radiazioni non ionizzanti, la gamma ottimale di onde elettromagnetiche necessarie per ottenere un effetto biologico "sicuro" è quella con lunghezze d'onda comprese tra la luce visibile e l'infrarosso vicino.

Sebbene queste osservazioni avessero fornito un utile tassello per capire il meccanismo d'azione della LLLT sui mitocondri, rimaneva da capire quale fosse al loro interno la struttura molecolare che fungeva da cromoforo, il "sensore" della luce. Il "responsabile" fu in seguito trovato nel complesso IV (alias citocromo-c ossidasi / CCO), il punto terminale della catena di trasporto degli elettroni nel mitocondrio, quello in cui avviene "l'incontro" tra elettroni ed ossigeno e protoni a formare acqua (--> figura).
Ottimo, ma questo pone una nuova domanda: cosa avviene nel CCO, e poi a valle, una volta assorbita l'energia luminosa?

A livello cellulare, la LLLT è in grado di indurre la fotodissociazione dell'ossido nitrico (NO) dal complesso CCO. Il fenomeno è interessante in quanto le cellule sotto stress producono alti livelli di NO (grazie all'enzima NO sintasi) che va a spiazzare l'ossigeno normalmente "ospitato" dal CCO provocando così un calo nella sintesi dei prodotti chiave (ed energicamente fondamentali) della respirazione cellulare, come l'ATP.

Sommando tutti questi elementi si può capire come un trattamento laser capace di favorire la fotodissociazione del NO dal CCO, possa controbilanciare gli effetti dello stress cellulare che sono evidenti con l'accumulo di NO, ripristinando la funzionalità della centralina energetica e a cascata la produzione sia dell'ATP che di un regolatore chiave da esso derivato come l'AMP ciclico.

Tutto risolto?
No, in quanto bisogna sempre ricordare che la respirazione cellulare produce spontaneamente (a causa della "perdita" di alcuni elettroni che non vengono debitamente neutralizzati con la formazione di acqua dall'ossigeno) specie chimiche reattive note come radicali liberi, che la cellula cerca di tenere sotto controllo mediante processi di detossificazione. Sebbene l'azione continuativa dei radicali liberi sia alla base dell'invecchiamento cellulare, queste molecole sono funzionalmente utili, ad esempio nella difesa antimicrobica e per l'eliminazione delle cellule danneggiate, grazie anche all'attivazione di fattori proteici redox sensibili (che rilevano la variazioni dello stato di ossidazione) come NF-kB e AP-1, che a loro volta attivano a cascata geni con funzioni protettive.


Riassumendo il tutto, il laser freddo agisce stimolando i naturali processi di guarigione grazie alla compensazione dello stato di stress cellulare e alla attivazione di fattori di trascrizione che coordinano la risposta genica anti stress (tra cui quelli coinvolti nel processo di guarigione tissutale).


I batteri come strumento per prevenire lo stress post traumatico (PTSD)?

Per quanto possa suonare strano alcuni dati recenti sembrano indicare che, almeno nei topi, è possibile aumentare la resilienza agli effetti dello stress mediante i batteri.
 
La ricerca, pubblicata su PNAS (Proceedings of National Academy of Sciences) da ricercatori della università del Colorado, mostra che è possibile aumentare la resistenza allo stress nei topi maschi (come evidenzia il calo di paura e ansia nell'affrontare situazioni difficili) iniettando loro un particolare tipo di batteri in forma inerte (uccisi dal calore). 
Da un punto di vista neurochimico tali effetti appaiono correlati alla variazione del livello di serotonina nel cervello in modo non troppo diverso da quanto indotto dagli antidepressivi o da rimedi naturali come una costante attività sportiva (fenomeno ben noto a chi fa jogging tutte le mattine). Non si tratta solo di effetti positivi sull'umore ma soprattutto di una maggiore protezione alla colite indotta da stress (anche questa ben nota) causata da un cronico stato infiammatorio intestinale.

Il batterio usato, Mycobacterium vaccae, è un batterio innocuo (almeno nei soggetti immunocompetenti) molto diffuso nell'ambiente. 
Una piastra con colture di M. vaccae
(courtesy: exploringtheinvisible.com)
Sebbene possa sembrare inverosimile che un batterio abitante nel suolo abbia una azione benefica per la salute mentale, bisogna sempre ricordare che la nostra salute fisica è strettamente correlata con il microbiota, la massa di microorganismi che noi ospitiamo sia sulla cute che nell'apparato gastrointestinale (maggiori dettagli --> QUI). Uno squilibrio (o una perdita come avviene dopo la terapia antibiotica) in queste popolazioni produce effetti su più livelli sia per la diminuita competizione tra microbi che favorisce la diffusione dei ceppi patogeni che per la nostra ridotta capacità di metabolizzare le sostanze ingerite. Non da ultima l'azione da "sparring partner" che il microbiota ha con il nostro sistema immunitario, che viene tenuto "allenato" e "calibrato", prevenendone eccessi reattivi: è noto infatti che i bambini cresciuti in un ambiente "iper-sanitizzato" hanno una maggiore probabilità di sviluppare allergie e asma, entrambe manifestazioni di una eccessiva e poco regolata attività immunitaria.
Se il possedere un sistema immunitario "allenato" è importante per l'efficacia delle nostre difese e per diminuire la possibilità di reazioni autoimmuni, non deve nemmeno sorprendere che problemi nella sua regolazione, come avviene in uno stato infiammatorio cronico, siano forieri di disturbi a livello centrale come quelli psichiatrici.
Un tema questo ben descritto nel testo oramai classico di Michael Gershon sull'intestino come "secondo cervello". I microbi intestinali sono, cosa importantissima ma poco nota, i principali produttori della serotonina, il nostro neurotrasmettitore "dell'umore" (--> Caltech). Per maggiori informazioni vi invito ad ascoltare l'intervista al prof. Piero Cortelli andata in onda a Moebius su Radio24 (--> mp3).
I disturbi psichiatrici causati da stress (cronico o acuto) sono un problema particolarmente importante nei veterani di guerra e in generale nelle persone traumatizzate da eventi violenti. Queste sindromi (post-traumatic stress disorder - PTSD) sono associate ad uno stato infiammatorio cronico causato dallo stress.
Torniamo al M. vaccae e ai suoi effetti terapeutici nei topi di laboratorio.
Il batterio si è rivelato capace di normalizzare colite e alcuni sintomi psichiatrici proprio grazie alla sua azione sul sistema immunitario, forzato a spegnere le attività ridondanti causa del permanere dello stato infiammatorio.
Nello specifico, i ricercatori hanno confrontato la risposta comportamentale in due gruppi di topi maschi, uno iniettato con un placebo e l'altro con una miscela di batteri uccisi dal calore, in grado però di attivare la risposta immunitaria. Dopo l'immunizzazione i topi sono stati fatti coabitare per 19 giorni con un maschio dominante, una situazione che induce nel maschio "ospite" un comportamento remissivo e uno stato di stress esattamente come avviene negli esseri umani quando sono forzati a rimanere in una situazione non voluta.
I topi immunizzati con i batteri presentavano livelli di stress alla vista del maschio dominante inferiori del 50% rispetto ai controlli trattati con placebo.
E' bene precisare che tale stato non era configurabile come un "minor rispetto verso il dominante", situazione che avrebbe innescato confronti fisici tra i due; il topo ospite continuava a mostrarsi cauto verso ogni situazione di pericolo e sottomesso al "capo", senza però lo stato di panico evidente nel gruppo di controllo. Un esempio diametralmente opposto che mostra il caso in cui la riduzione di paura è "patologica" lo si ha nei topi affetti da toxoplasmosi che ... smettono di avere paura dei gatti, con conseguenze facilmente immaginabili (--> articolo).
Stesse conclusioni dalla osservazione di una delle attività più comuni nei roditori, quella dell'esplorazione dell'ambiente, ed una delle prime a venire meno nei topi stressati; i topi trattati mantenevano una curiosità inalterata durante le loro passeggiate esplorative.
Lo stato "non stressato" si protraeva per almeno due settimane dopo il trattamento ed era associato ad un miglioramento dei parametri fisiologici del topo. In altre parole i topi trattati stavano meglio e mostravano un atteggiamento pro-attivo e un maggiore controllo della situazione.

L'iniezione di M. vaccae, a differenza di un vaccino classico NON è finalizzata a presentare al sistema immunitario un particolare antigene (e quindi ad innescare una risposta verso esso o come avviene nella cura delle allergie ad indurre una tolleranza), ma serve per attivare le risposte immunomodulanti che sono alla base del corretto funzionamento (autoregolazione) della risposta immunitaria.

Se il dato venisse confermato in essere umano, si aprirebbero interessanti prospettive terapeutiche nel trattamento delle patologie da stress.

Articoli precedenti sul tema PTSD: "Cancellare gli incubi"; "Stress post-traumatico ..."

Fonte
- Immunization with Bacteria Promotes Stress Resilience, Coping Behaviors in Mice
University of California San Diego, news

- Bacterial immunization prevents PTSD-like symptoms in mice
University College London, news



Il cervello cancella la percezione del proprio battito non per "abitudine" ma per il nostro bene

Vi è mai capitato di sentire il cuore battere così forte da pensare che la persona vicino a voi potesse sentirlo?
E come mai, nonostante il battito sia facilmente udibile avvicinando l'orecchio al torace, tale suono non giunge di solito all'orecchio del portatore nonostante i tessuti e le cavità interne siano degli ottimi trasmettitori?

I ricercatori svizzeri dell'EPFL hanno cercato di dare una risposta dettagliata in un articolo pubblicato su The Journal of Neuroscience in cui si osserva che il cervello opera una noise reduction ("cancellazione del rumore" come fanno alcuni auricolari attivi) eliminando così la percezione del suono. Secondo gli autori non si tratta semplicemente di una "abitudine al suono" ma di un meccanismo evolutosi già nelle prime fasi dell'evoluzione dei cordati per impedire l'interferenza tra le "sensazioni interne" e la percezione del mondo esterno.
Nulla di strano in tale capacità di filtraggio dal momento che il cuore comincia a battere quando ancora il cervello è solo un abbozzo di cellule ed è quindi da subito esposto al suo "rumore".
Cosa ancora più interessante, le anomalie nel sistema di cancellazione potrebbero facilitare l'insorgenza di disturbi come l'ansia e diminuire la qualità visiva, specie quando lo stimolo visivo si sovrappone temporalmente al battito cardiaco.
La ragione di questa commistione sensoriale è che il nostro apparato visivo (occhi e cervello) funziona in modo concettualmente diverso da quello di una videocamera il cui scopo è catturare ogni immagine (e i dettagli in essa contenute). Nella vista è il cervello a decidere quale delle informazioni catturate passivamente (e non elaborate) a livello retinico siano meritevoli di passare al livello superiore, quello della consapevolezza. Quindi una sovrapposizione sensoriale può pregiudicare la qualità percettiva.

I test condotti su più 150 volontari hanno mostrato che la loro capacità di percepire una forma ottagonale lampeggiante su uno schermo variava a seconda che il "flash visivo" fosse in sincrono o meno con il battito cardiaco; in altre parole se l'apparire dell'immagine era in sincrono con il battito, i soggetti avevano più difficoltà a percepire cosa avevano visto.
Un momento del test (credit: EPFL)
Per analizzare il fenomeno il test fu ripetuto durante la scansione dell'attività cerebrale mediata risonanza magnetica (MRI), dimostrando il coinvolgimento della corteccia insulare. Quando gli stimoli visivi non erano in sincronia con il battito cardiaco del soggetto, la corteccia insulare funzionava normalmente e il soggetto percepiva facilmente l'ottagono lampeggiante. Tuttavia non appena si cambiava fase sovrapponendo i due "stimoli", l'attività dell'insula diminuiva drasticamente ad  indicare che il soggetto era meno (o per nulla)) consapevole dell'input visivo.

Tornando alla correlazione tra diminuito filtraggio e ansia, la consapevolezza del proprio battito cardiaco è frequente nei soggetti con problemi neurologici e in particolare in chi soffre d'ansia. Nelle altre persone la consapevolezza del battito cardiaco si manifesta invece nei momenti di intensa emozione e/o di stress acuto (come la paura ad esempio) quando si ha una iperattivazione sensoriale.
Niente di più probabile allora che una perdita di funzionalità del "filtro" agisca come fattore aggravante o addirittura innescante di alcuni disturbi.

Fonte
- The Insula Mediates Access to Awareness of Visual Stimuli Presented Synchronously to the Heartbeat
Roy Salomon et al, Journal of Neuroscience (2016) 36(18)

- Your brain suppresses perception of heartbeat, for your own good Your brain suppresses perception of heartbeat, for your own good
EPFL / News




I gemelli vivono più a lungo grazie ad una maggiore capacità di condividere

I gemelli sono il campione ideale di studio quando il fine è caratterizzare il peso della componente genetica rispetto a quella ambientale nella predisposizione a malattie o in generale al comportamento (in tutte le sue sfaccettature, non solo e non necessariamente di tipo patologico).
Tra le peculiarità osservate (anche se finora su base aneddotica) vi è il fatto  che i gemelli "veri" (intesi come gemelli monozigoti) abbiano una vita media più lunga sia rispetto ai controlli "singoli" che ai gemelli dizigoti, al netto ovviamente dei casi in cui di soggetti con genetica predisponente a qualche malattia. 
A fare luce su questa ipotesi arriva ora uno studio condotto dall'università di Washington che dopo avere valutato la fondatezza statistica di questa ipotesi ne ha ricercato una possibile spiegazione identificandola nel legame "speciale" che unisce i gemelli per tutta la vita. In pratica sarebbe la loro naturale condivisione esperienziale ed emotiva a fornire la marcia in più per ridurre lo "stress esistenziale" (e quindi lo stress tout court).

 Lo studio, pubblicato sulla rivista PLoS ONE, è partito misurando attraverso una analisi retrospettiva l'aspettativa di vita dei gemelli rispetto a quelli di controlli vissuti nella stessa area in modo da minimizzare la componente genetica e ambientale. I dati sono stati ricavati da un database danese (--> The Danish Twin Registry) il più antico e meglio fornito registro sui gemelli a livello mondiale.
 I risultati hanno mostrato che in effetti i gemelli (qualunque fosse il sesso della  coppia) avevano tassi di mortalità più bassi qualunque fosse l'età anagrafica di riferimento (per capirci valori misurati rispetto ai controlli di pari età); non tassi straordinariamente inferiori ma statisticamente significativi.

L'analisi ha preso in esame 2932 coppie di gemelli monozigoti nati in Danimarca tra il 1870 e il 1900, e sopravvissuti oltre i 10 anni (ricordiamoci che i tassi di mortalità infantile nell'Europa di fine '800 erano molto elevati); si sono quindi incrociati i dati sul loro decesso con quelli della popolazione danese (geneticamente omogenea) pesati per età.
Nel caso dei gemelli di sesso maschile si è osservato che il vantaggio massimo in termini di minor tasso di mortalità si aveva intorno ai 40 anni ed era pari a circa il 6 per cento; in altre parole se per 100 ragazzi danesi di partenza quelli ancora vivi a 45 anni era 84, questo numero diventava 90 nel caso dei gemelli. Per le donne il vantaggio massimo lo si aveva poco dopo i 60 anni con un incremento relativo di 10 punti percentuali.

Nella discussione dell'articolo gli autori avanzano l'ipotesi che il vantaggio di sopravvivenza sia una diretta conseguenza di un maggiore sostegno reciproco che si protrae per tutta la vita (e che infatti viene meno nei casi di gemelli separati prima della maturità). 
L'idea che la rete di sicurezza sociale fornita da rapporti stabili fornisca anche vantaggi psicologici e di salute sul lungo periodo non è nuova in quanto già proposta per le coppie sposate (e stabili) da almeno un decennio. Il problema di tale ipotesi è che era difficile capire se fosse veramente il matrimonio a stabilizzare le persone (riducendo i fattori di stress sociale) oppure se non fosse vero il contrario, cioè che le persone sane hanno maggiore probabilità di sposarsi (e di godere dei  benefici di una rete sociale allargata) rispetto a persone meno "appetibili" o meno "stabili" per il matrimonio.
Lo studio sui gemelli permette di superare questo ostacolo teorico per il semplice motivo che le persone non possono scegliere se avere o meno un gemello. 
Il maggior peso protettivo riscontrato nei gemelli maschi fa pensare che la mutua vigilanza e supporto tra i due fratelli funzioni come minimizzatore dei fattori di rischio (alias maggiore "tendenza a cacciarsi nei guai" tipica nei maschi sotto i 30 anni).

Il fatto che i dati confermino l'esistenza di un vantaggio di sopravvivenza dimostra che le relazioni sociali sono benefiche nel minimizzare i rischi della salute
Un risultato che va oltre la casistica sui gemelli.

Fonte
University of Washington, news
- A Twin Protection Effect? Explaining Twin Survival Advantages with a Two-Process Mortality Model
David J. Sharrow & James J. Anderson, (2016) PLoS One, 11(5)



Dormire poco aumenta la voglia di cibo spazzatura. La neurochimica spiega perché

E' noto da tempo che dormire poco fa male alla linea, oltre che all'efficienza cognitiva.

Qualunque sia il motivo che porta ad una riduzione continuativa delle ore di sonno quotidiane, la conseguenza sarà il cambiamento in peggio delle abitudini alimentari ed una tendenza ad ingrassare.
Niente di nuovo in questa frase essendo ben noto il legame tra mancanza di riposo, stress, aumento del livello di cortisolo e iperattivazione dei circuiti neurali preposti al " reward" che a sua volta porta a cercare "il piacere" associato a cibi gustosi (alias ipercalorici).

La novità è che ora, grazie ad uno studio pubblicato sulla rivista Sleep, si sta cominciando a capire nel dettaglio la biochimica di tale risposta. Una comprensione utile per ricercare soluzioni terapeutiche adeguate, particolarmente importanti in quei casi in cui la carenza di sonno non sia una conseguenza di una propensione ad una attiva vita notturna ma a chi per qualunque motivo sia costretto ad una vita che porta ad una riduzione del sonno.

Lo studio ha coinvolto 14 ventenni sani selezionati per la loro capacità di "resistere alle tentazioni" di cibi in genere altamente appetibili (come merendine, biscotti, patatine, caramelle, ...) dopo mangiato. Potrà sembrare un controsenso il voler mangiare cibi ipercalorici dopo un pranzo ma i dati sulla popolazione dicono il contrario: la maggior parte del cibo "inutile" e ipercalorico viene ingerito a stomaco pieno o in generale quando il corpo non ne avrebbe necessità.
Un campione ideale, quello dei giovani "non sensibili" alle lusinghe inutili del cibo, per lo studio del comportamento alimentare indotto dalla carenza di sonno (4,5 ore contro le 7,5 ore standard). Effetti dimostratisi particolarmente potenti nel tardo pomeriggio e nella prima serata, guarda caso quei momenti in cui l'assunzione di spuntini calorici si traduce più facilmente in un aumento di peso.
Durante il periodo del test i volontari hanno ricevuto tre pasti al giorno (9am, 2pm e 7pm) tali di modo che non ci fosse alcuna "necessità" fisiologica a cercare cibo negli altri momenti della giornata. 
Alla base di questa alterazione comportamentale ci sarebbe il sistema endocannabinoide (nello specifico il 2-arachidonoilglicerolo, alias 2-AG) bersaglio tra l'altro del principio attivo della marijuana che non a caso induce una fame incontrollabile.
Sia il 2-AG che il THC (principio attivo della cannabis) legano il recettore CB1-R con l'effetto di attivare i circuiti "della fame" lungo l'asse ipotalamico ipofisario. In generale la presenza di leptina (l'ormone della sazietà) limita fortemente la attivabilità di questo recettore; tuttavia in presenza di stress continuato si ha un aumento di 2-AG che supera il blocco della leptina. Risultato è la "voglia di cibo" anche quando si è sazi.
I livelli ematici di 2-AG sono in genere bassi durante la notte e tendono a salire con la veglia raggiungendo un picco nel primo pomeriggio. Un ritmo che però viene alterato nei soggetti privati del sonno in cui il livello di endocannabinoidi aumenta del 33 per cento, raggiunge il picco intorno alle 2 pm e rimane a quei livelli fino alle 9 pm! Una variazione che si associa da un punto di vista comportamentale ad un aumento del senso di fame e al desiderio di cibi calorici. Al quarto giorno di riduzione (attenzione NON privazione) delle ore di sonno rispetto alle 8 ore standard della prima parte del test, la resistenza intrinseca al cibo ipercalorico offerto loro a due ore di distanza dall'ultimo pasto è praticamente scomparsa.
Risultato è una assunzione preferenziale di circa il 50 per cento in più di calorie giornaliere. Un aumento che non è spiegabile con l'aumentato costo energetico di poche ore di veglia al giorno in più, che i ricercatori stimano in circa 17 calorie per ogni ora di veglia aggiuntiva fino al massimo cumulativo di 70 calorie nel caso del passaggio delle ore di sonno da 8 a 4. L'energia contenuta in 2-3 biscotti da colazione e quindi ben inferiore a quella realmente assunta dai volontari "stressati" pari a circa 300 calorie in più al giorno.
Più che sufficienti sul medio periodo per causare un aumento di peso evidente.

Nonostante i limiti intrinseci di uno studio di piccole dimensioni (e di breve durata) i risultati sono statisticamente significativi.
Morale? Più di tante diete spesso di dubbia efficacia, è meglio iniziare ripristinando nel proprio stile di vita le ore di sonno fisiologicamente necessarie.

Articolo successivo sul tema -->  "Come dormivano i veri Flintstones"

Fonte
-  Sleep Restriction Enhances the Daily Rhythm of Circulating Levels of Endocannabinoid 2-Arachidonoylglycerol
Erin C. Hanlon et al, Sleep (2016) 39(3), 653–664



Studiare il cervello degli astronauti per capire le malattie sulla Terra

Gli astronauti sono una fonte continua di conoscenze: attive in quanto risultato del loro lavoro; "passive" in quanto dipendenti dal semplice fatto di essere rimasti per un certo periodo di tempo in orbita. Proprio grazie al costante monitoraggio dei loro parametri fisiologici in assenza di gravità è stato possibile ricavare informazioni  difficilmente ottenibili altrimenti sulla Terra.
Sopra e sotto pari sono in orbita (credit: ESA)
Il tempo passa in fretta sulla navicella dato il carico di lavoro a cui sono sottoposti gli astronauti; oltre al lavoro direttamente connesso alla manutenzione, gran parte del tempo viene dedicato ad eseguire esperimenti in campi diversi come botanica, metallurgia, biomedicina, psicologia, etc.

Tra i test in corso vale la pena ricordarne alcuni le cui osservazioni preliminari sono state recentemente pubblicate (sebbene come dati preliminari visto che proseguiranno fino al 2018) centrate sulla "memoria" del corpo alla assenza di gravità.
Per il cervello trovarsi in assenza di gravità è una situazione molto stressante in quanto associata alla elaborazione di dati percepiti come contraddittori dai diversi sensi. Alcuni esempi:
  • trovarsi in assenza di gravità (o anche in microgravità) equivale ad essere in caduta libera e questo è il segnale che viene inviato dall'orecchio interno al cervello. Al contrario il sistema visivo manda informazioni di "nulla si muove in modo anomalo rispetto a me".  
  • Altro fenomeno classico legato all'assenza di gravità è lo spostamento dei liquidi verso la testa che viene tradotto dal cervello come trovarsi a testa in giù; ma nella stazione orbitale non c'è un basso o un alto.
  • L'orologio biologico potrebbe inoltre inviare segnali di stanchezza sia legati al ritmo circadiano che ai postumi di una dura giornata di lavoro. Nello stesso tempo però gli astronauti sperimentano 16 albe e altrettanti tramonti nell'arco di 24 ore, tutti input che entrano in conflitto come ben sanno le persone che soffrono di un "banalissimo" jetlag.
Nonostante tutti questi segnali contrastanti il formidabile strumento che è il cervello si adatta nel giro di pochi giorni e gli astronauti si comportano come se fossero nati in orbita. Una adattabilità che non solo permette di affrontare e superare nuove situazioni ma che "usa il passato" come punto di partenza: un astronauta esperto si adatterà alla assenza di gravità molto più velocemente di uno al primo volo, anche se la missione avviene ad anni di distanza dal suo ultimo lancio.

Capire come questo adattamento avvenga è una tra le domande a cui hanno cercato di dare una risposta i ricercatori dell'università di Anversa con lo studio Brain-DT. Il progetto prevede di analizzare 16 astronauti, prima e dopo il volo, mediante una innovativa variante di risonanza magnetica (MRI DTI) in grado di mostrare le reti neuronali del cervello e come i collegamenti cambiano dopo l'esperienza nello spazio. 

 
Video esemplificativo del livello di indagine possibile con la MRI-DTI

Sebbene la raccolta dati sia ancora all'inizio, è possibile già ora osservarne la potenza conoscitiva per comprendere meglio i disturbi neurologici "terrestri". Di fatto vivere nello spazio equivale, per i motivi sopra citati, ad essere sottoposti ad un intenso stato di stress; studiare gli astronauti equivale a studiare le persone colpite sulla Terra da stress sensoriali ma in modo assolutamente etico dato che lo stress non viene indotto appositamente per verificarne la risposta fisiologica.

Molti disturbi neurosensoriali derivano proprio da una errata comunicazione tra diversi centri percettivi e capire come e perché in alcune persone questo "conflitto" cronicizza in patologia è ancora poco chiaro. Alcuni tipi di vertigine ad esempio si sviluppano quando il cervello non si adatta ai segnali contrastanti che arrivano dall'orecchio interno. Gli astronauti rappresentano in questo caso un perfetto esempio di stress continuato che viene tuttavia risolto nel giro di poco tempo.

(articolo precedente sul tema "problemi della vita nello spazio" --> qui)

Fonte
- Astronaut brains as beacons for researchers
ESA, news
- Cortical reorganization in an astronaut’s brain after long-duration spaceflight
Athena Demertzi et al, 2015 Brain Structure and Function pp1-4

Cancellare gli incubi

Avete incubi ricorrenti e vi svegliate in preda all'ansia? 
Sognate di dovere ripetere l'esame di maturità e di non ricordarvi una virgola del programma di filosofia?
Allora forse qualcuno sta lavorando per voi!
Mantenere la situazione sempre sotto controllo, anche quando si sogna, è difatti il fine ultimo di un approccio sperimentale descritto in uno studio pubblicato su Nature Neuroscience da un gruppo della Goethe-Universität di Francoforte.
Nel lavoro si mostra come grazie a una stimolazione elettrica nelle zone frontali e temporali del cervello, sia possibile riuscire a garantire un sonno tranquillo in cui l'attività del sognare è sotto controllo. Una stimolazione, quella elettrica, attivata solo qualora venga rilevata una attività onirica troppo coinvolgente.  
Forse potrà sembrare inquietante e tipico di maniaci del controllo l'idea di volere regolare anche l'attività onirica. In effetti devo confessare che alcuni incubi me li sono proprio goduti come fossi in un film. Ma il motivo è che quando questo è avvenuto ero in qualche modo consapevole di sognare. Il trucco è semplice ed è quello di riprendere a dormire dopo essersi svegliati a causa dell'incubo. Se si evita di alzarsi e rimuginare, il sogno/incubo riprenderà ma a questo punto sarà un incubo "conscio" (il cosiddetto lucid dreaming) e quindi depauperato della componente stressogena. Proprio questo è quello su cui si sono basati i ricercatori tedeschi.
Incubo, di Johann Heinrich Füssli (©wikipedia)
Ma il punto centrale dello studio, chiaramente, non è quello di intervenire sugli eventi sporadici, su cui si può scherzare la mattina successiva davanti ad un caffè.
Tra le finalità descritte dagli studiosi vi è difatti il trattamento clinico del disturbo da stress post-traumatico (PTSD di cui ho trattato in passato, qui), una vera e propria patologia che si manifesta  con incubi ricorrenti, e potenzialmente anche su alcuni casi di schizofrenia refrattaria al trattamento farmacologico.
I test, benché condotti su un piccolo gruppo di persone (circa 30) hanno dato risultati positivi a condizione che la stimolazione fosse effettuata per tempi e con intensità estremamente specifiche: brevi scosse di pochi secondi a 40 Hz, sulla zona fronto-temporale, e subito dopo l'entrata nella fase Rem (rapid eye movement - la fase del sonno in cui si sogna) hanno dato i risultati migliori.
Immagine dall'articolo (©U. Voss / nature.org)

Il risultato ottenuto è molto interessante: i soggetti trattati vengono "spinti" nel sopracitato lucid dreaming, di fatto annullando la sensazione di ansia (derivante dall'assenza di controllo della situazione) associata.

(articolo precedente sul tema --> "Stress post traumatico")

Fonti
-  Real-life Inception: Zap your brain to control dreams
New Scientist, maggio 2014

- Induction of self awareness in dreams through frontal low current stimulation of gamma activity.
 U. Voss et al, Nat Neurosci. 2014 May 1

- Inducing lucid dreams
N. Gray, Nature Reviews Neuroscience (2014) 15, 428


Stress post-traumatico. Predisposizione genetica più stress sono alla base di un disturbo dall'alto costo sociale

Perché alcune persone in seguito ad eventi traumatici sviluppano il cosiddetto post-traumatic stress disorder (PTSD) mentre altre ne sembrano immuni?
Non si tratta di domande di poco conto se si considerano sia i costi sociali che la diversità di eventi scatenanti (o all'origine) di questi disturbi comportamentali. Disturbi che non sono limitati ad i soldati che operano su fronti caldi, ma che colpiscono anche tutori dell'ordine e persone che hanno subito (in modo continuo o episodico) violenze psicofisiche o in generale ogni evento che stressogeno.
Si stima che circa il 7% della popolazione americana ne sia affetto, con percentuali molto maggiori nei reduci. I costi sociali che ne derivano vanno ben al di là del fatto in se, in quanto sono spesso la causa di derive comportamentali che minano non solo la sfera personale ma anche il nucleo familiare e nei casi più gravi la comunità. Troppo spesso si legge di atti sconsiderati compiuti da reduci o da vittime di abusi.
Sintomi classici della PTSD sono improvvisi flashback, intorpidimento emotivo o rabbia ed iper-reattività, fuga da ogni situazione anche solo lontanamente associabile all'evento (ad esempio rumori improvvisi, etc). In molti casi l'evento stesso è rimosso dal soggetto, che sperimenta gli effetti senza riuscire ad associarli alla causa scatenante.
Il fatto che non tutte le persone sottoposte a eventi simili (o apparentemente più gravi) siano soggetti a queste derive psicotiche fa pensare che vi possa essere una qualche base organica predisponente. Una precondizione, forse genetica, che rende taluni individui più sensibili a certi stimoli ansiogeni.
L'interesse è alto soprattutto da parte delle forze armate. La possibilità di identificare a priori i soggetti più sensibili allo stress favorirebbe l'attuazione di terapie psicologiche e/o farmacologiche mirate durante e subito dopo il periodo di arruolamento.
Da un articolo del New York Times di aprile 2012 ricavo questi numeri estremamente inquietanti sul PTSD nei soldati di ritorno da Iraq e Afghanistan.
Mentre la frequenza dei decessi americani sul nelle due zone è cumulativamente di circa 1 ogni 36 ore, i reduci in patria mostrano una frequenza circa 25 volte superiore (!!!) con un morto suicida ogni 80 minuti.  Numeri inquietanti  in quanto non fanno notizia come invece quelli riferiti a reduci violenti verso terzi.

Da qui l'importanza dei lavori sotto riportati.
Ricercatori della UCLA del gruppo di Armen Goenjian hanno analizzato il DNA di 200 persone appartenenti ad ampie famiglie in cui furono registrati casi ripetuti di PTSD dopo essere sopravvissuti al devastante terremoto del 1988 in Armenia. Dalla indagine genetica si scoprì che coloro che possedevano alcune particolari varianti di due geni necessari per la produzione di serotonina, TPH1 e TPH2, erano a rischio di sviluppare la PTSD.
Questi risultati dovranno ora essere confermati su una popolazione più ampia ed eterogenea di quella testata. Non si può infatti escludere la possibilità che l'appartenenza ad un gruppo etnico definito  sottintenda il fatto che tali varianti siano assenti in altre popolazioni caucasiche. 

Sul fatto che la serotonina sia coinvolta in realtà la sorpresa è minore. Questo neurotrasmettitore è coinvolto nella regolazione di aspetti che comprendono l'umore, il sonno, l'appetito ed il sesso. Sostanze stupefacenti come le anfetamine agiscono infatti inibendo il riassorbimento (quindi l'eliminazione) sinaptico di questo fattore, provocando il permanere dell'effetto mediato (benessere ed eccitazione). Tale stimolazione può alla lunga, ed in alcuni soggetti, generare resistenza e quindi a sintomatologie di scarso appagamento, depressione, etc.
Alcuni noti antidepressivi (fluoxetina) seguono lo stesso percorso: inibiscono il riassorbimento della serotonina agendo quindi come antidepressivi.

Sempre alla UCLA il team di Michael Fanselow ha osservato (dati pubblicati sul Journal Biological Psychology.) un significativo aumento del numero di recettori per i neurotrasmettitori eccitatori nella amigdala di ratti che presentavano una lesione cerebrale che li rendeva più "stressati e facilmente spaventabili". In altri termini l'amidgala, sede della emotività, era molto più facilmente attivabile. Un dato questo che dovrà ora essere confrontato con l'essere umano.

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 A distanza di alcuni mesi da questo articolo mi è capitato sott'occhio dell'altro materiale (vi invito a leggere l'articolo nella sua interezza su Nature 12 ottobre) che aggiungo qui come compendio.
L'effetto immediato dello stress da pericolo e le conseguenze cerebrali (®Nature.com)
Nelle persone con PTSD, due aree del cervello sensibili allo stress sono ridotte: l'ippocampo (una regione del sistema limbico importante per la memoria) e la corteccia cingolata anteriore - ACC (una parte della corteccia prefrontale coinvolta nel ragionamento e nel processo decisionale).
Mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI), una tecnica che permette di seguire il flusso di sangue nel cervello, si è scoperto che quando le persone con PTSD ricordano il trauma, tendono ad avere una corteccia prefrontale meno attiva ed una amigdala iperattiva (ricordo ancora che è una regione del cervello che elabora la paura e l'emozione).
Le persone che hanno sofferto un trauma ma che non sviluppano lo PTSD, mostrano al contrario una maggiore attività nella corteccia prefrontale.
Kerry Ressler, un neuroscienziato che lavora presso la Emory University di Atlanta ha dimostrato che questi individui resilienti hanno forti connessioni tra la ACC e l'ippocampo. Questo suggerisce che la resilienza dipende in parte dalla comunicazione tra il circuito preposto al ragionamento nella corteccia e la circuiteria emotiva del sistema limbico. Un meccanismo che previene corto-circuiti emotivi.

(articolo successivo sul tema "terapie future per il PTSD" --> qui)

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(aggiornamento agosto 2015)
Uno dei trattamenti più usati per le persone con PTSD è la somministrazione di antidepressivi come i SSRI (inibitori della ricattura della serotonina dal canale sinaptico). Ma questo potrebbe essere controproducente in base a quanto scoperto da ricercatori del MIT. Se infatti tali trattamenti sono utili nei depressi classici, grazie all'aumento della concentrazione locale di serotonina, nel caso delle persone traumatizzate questo avrebbe l'effetto indesiderato di aumentare il processo di consolidamento della memoria e la facilità con vengono "ripescati" da essa gli eventi che hanno indotto lo stato di stress che si vuole curare.
L'approccio invece dovrebbe essere quello di usare farmaci in grado di diminuire la serotonina dissociando così eventuali inneschi ambientali dalla memoria associativa (clicca QUI per ulteriori dettagli).

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(aggiornamento marzo 2016)
Il protossido d'azoto somministrato dopo un evento traumatico può aiutare a prevenire i ricordi dolorosi di "sedimentare" nella memoria.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Psychological Medicine da un gruppo del UCL (Londra) evidenzia come le persone che hanno respirato questo gas (per circa 30') dopo la visione di spezzoni di film violenti, ne conservavano un ricordo molto più sbiadito (e non stressogeno) rispetto a coloro a cui era stata fornita aria normale.
La ricerca ha coinvolto 50 volontari adulti senza altre problematiche psicologiche a cui sono stati mostrati alcuni spezzoni di un film definito dai critici "così violento e crudele che la maggior parte delle persone lo ritengono inguardabile'. Gli spezzoni sono stati scelti in quanto dimostratisi in grado di creare una forma (seppur blanda) di quei ricordi definiti intrusivi comuni in seguito a traumi.
Nota. Le intrusioni sono ricordi involontari che compaiono spontaneamente e che inducono sensazioni o stati d'animo di estremo disagio se non psicologicamente dolorosi.
Nella settimana successiva alla visione i volontari hanno redatto un diario giornaliero per registrare la frequenza di 'intrusioni' riconducibili al film. Il gruppo a cui era stato fatta respirare la miscela protossido di azoto e ossigeno dichiarava un numero di intrusioni inferiore alla metà rispetto ai controlli.
L'ipotesi più accreditata è che il gas interferisca nel processo di consolidamento della memoria esperienziale (basata sui recettori NMDA) che avviene generalmente durante il sonno; è noto infatti che il protossido blocca tali recettori.
Un'altra osservazione interessante è che i soggetti più "portati" a sperimentare ricordi intrusivi erano colo che avevano dichiarato un certo grado di dissociazione dopo avere visto il film. La dissociazione è una misura di quanto qualcuno sperimenti una sensazione di estraneità ad una certa esperienza come se non la stesse vivendo; tra i sintomi dissociativi vi è un'esperienza distorta del tempo, la sensazione che le cose siano irreali/onirici e la sensazione di distacco dal proprio corpo. Quando questo avviene, è il campanello d'allarme per la comparsa del PTSD.
Vale la pena indagare se questo trattamento sia utile per prevenire l'insorgenza di tale trauma, fornendolo subito dopo che il trauma si è verificato (cosa in parte già in uso dato che il protossido è uno degli antidolorifici più usati dai paramedici nei primo soccorso).
(Fonte: RK Das et al, Psychol Med. 2016 Mar 4:1-11)


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