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La prima eso-luna mai osservata è grande come Nettuno

Gli astronomi hanno individuato quella che potrebbe essere la prima luna conosciuta in orbita attorno a un esopianeta.
L'anno scorso, un team della Columbia University comunicò di avere rilevato una "potenziale" luna in orbita attorno al pianeta Kepler-1625b situato a ben 8000 anni luce da noi. Una distanza limite per gli strumenti (data la sensibilità necessaria a vedere pianeti) sebbene sia nelle "nostre vicinanze"
La Via Lattea ha un diametro di 100 mila anni luce ed uno spessore di circa 1000 nei bracci. Noi ci troviamo "alla periferia" della galassia, per cui la nostra visuale è alquanto limitata.
La visuale del telescopio Keplero copre solo 1/400 della volta celeste (credit: Nature / NASA)
Nelle scorse settimane il completamento dell'analisi dei dati del telescopio spaziale Hubble ha dato linfa alle speranze della scoperta, sebbene ci siano ancora punti da chiarire.

I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances.

Si tratta a tutti gli effetti di una pietra miliare nello studio degli esopianeti; ovviamente non per la scoperta in sé (che un pianeta abbia uno o più satelliti è atteso) ma per la capacità di rilevarli a così grande distanza e, non ultimo, per migliorare le conoscenze sulla genesi dei sistemi planetari, finora limitato al nostro sistema solare.
In effetti già dai primi dati raccolti qualcosa di inatteso è emerso visto che la luna pare avere le dimensioni di Nettuno mentre il pianeta attorno a cui orbita è come Giove. Un connubio che non ha eguali da noi e che pone qualche domanda sulla stabilità orbitale di tali coppie di giganti.

I metodi usati per la ricerca sono quelli classici della ricerca degli esopianeti (vedi dettagli in un articolo precedente, nella sezione --> Postilla Metodoligica). Nello specifico si è monitorata la variazione di luminosità della stella nel tempo; in base al periodo con cui si ripete e alla percentuale di riduzione è possibile calcolare orbita e dimensioni di un ipotetico pianeta che transita nella visuale tra noi e la stella. E' evidente che se cercare un pianeta piccolo che transita davanti alla stella è sicuramente più complesso che rilevarne uno grosso, figuriamoci identificare una luna che dalla nostra posizione sarebbe difficilmente distinguibile dal pianeta.
Sono stati necessari 4 anni di osservazioni basate sul telescopio orbitale Keplero per rilevare 3 transiti del pianeta davanti alla stella. Ad ognuno di questi passaggi si associavano deboli "code" di cali di luminosità ad indicare la presenza di qualcosa d'altro oltre al pianeta.
Nell'ottobre 2017, la conferma finale è arrivata grazie alle osservazioni fatte con il più potente Hubble Space Telescope. Due i dati centrali: in primo luogo, il pianeta compariva con minuti di anticipo rispetto all'orbita attesa, suggerendo che la gravità di un altro corpo celeste stesse trascinando il pianeta accelerandolo temporaneamente; secondo, dopo il passaggio la luce non ricompariva subito nella sua interezza ad indicare che c'era qualcosa che "seguiva" il pianeta.
La variazione della luce rilevata attribuita al passaggio di un pianeta con una luna
(credit: NASA, ESA, D. Kipping & A. Feild via hubblesite.org)

Saranno necessarie altre osservazioni e strumenti più potenti per dare una conferma definitiva di questa e altre, ancora invisibili, lune. Tra le missioni future attese con ansia dai ricercatori c'è quella del James Webb Space Telescope, il cui lancio è previsto per il 2021.
Sfortunatamente, quando verrà lanciato il nuovo telescopio, Keplero non sarà più funzionante. La navetta su cui è collocato ha quasi terminato il carburante, necessario tra le altre cose anche al sistema di puntamento. Per questa ragione lo scorso 26 settembre, i controllori della missione hanno messo Keplero in standby e dal 10 ottobre hanno cominciato a scaricare l'ultimo blocco dei dati raccolti negli ultimi mesi.
Speriamo che non ci siano buchi operativi troppo estesi tra le due missioni.


Fonti
- On the Dearth of Galilean Analogs in Kepler, and the Exomoon Candidate Kepler-1625b
Teachey, A. et al, Astronom. J. 155, 36 (2018).

- Evidence for a large exomoon orbiting Kepler-1625b
Teachey, A. & Kipping, DM. Sci. Adv. 4, eaav1784 (2018)

- The nature of the giant exomoon candidate Kepler-1625 b-i
Heller, R. Astron. Astrophys. 610, A39 (2018).



Scoperta "la casa" di Spock intorno a 40 Eridani

Credit: University of Florida
La scoperta di un pianeta "quasi" terrestre orbitante intorno alla stella 40 Eridani ha fatto sorridere sia gli astrofisici che i fans della serie Star Trek.
Il motivo è semplice: 40 Eridani fu scelta da Gene Roddenberry, l'ideatore della serie, come il sistema attorno al quale orbitava Vulcano, il pianeta di Spock. Una scelta in verità ben posteriore alla creazione della serie (fine anni '60), esplicitata in una intervista del 1991, ma che non toglie il fun factor della scoperta.
Il pianeta, due volte più grande e di massa 8 volte la Terra, orbita intorno ad un sole che è a sua volta parte di un sistema a 3 stelle.
40 Eridani è abbastanza vicino a noi, dati i suoi 16 anni luce di distanza, ed è sufficientemente luminosa da essere vista ad occhio nudo. Ha un periodo orbitale di soli 42 giorni, quindi è notevolmente vicina alla stella; l'effetto vicinanza è parzialmente attenuato dal fatto che la stella è leggermente più fredda e meno massiccia del nostro Sole.
Per il momento mancano informazioni precise sulla sua atmosfera, sempre che non sia stata spazzata via dalla vicinanza alla stella.
Qualche fanboy potrebbe farmi notare che nel reboot cinematografico il pianeta di Spock è stato vaporizzato, quindi ogni aggancio viene a cadere. Vero, ma da vecchio fan della serie originale, l'appunto non sussiste e mi diverte il pensiero di un pianeta caldo (forse un tantino troppo) come Vulcano proprio dove Roddenberry l'aveva ipotizzato.
Tornando seri, la scoperta rientra tra i molteplici dati che emergono dal Exoplanet Search Project, cioè la catalogazione dei pianeti che orbitano intorno ad altre stelle (3793 confermati al momento in cui scrivo --> qui (sito della CalTech) per i dati aggiornati).
screenshot del portale esopianeti alla Caltech


Fonti
- Super-Earth Discovered in (Fictional) Vulcan System

- Newly discovered planet could be Spock's home world, astronomers say

- The exoplanet that could be Spock’s home world
Nature / news

- Exploring Strange New Worlds: “Star Trek” Planet Vulcan Found


Molar Mic. L'auricolare-microfono che si posiziona in bocca

Quando arrivarono sul mercato le cuffie/auricolari a conduzione ossea i non addetti ai lavori provarono un misto di incredulità, circa la modalità del funzionamento, e di sensazione dell'essere giunti all'essere umano interfacciato ai dispositivi tech.
Non era in realtà nulla di sorprendente essendo una tecnologia progettata pensando alla fisiologia dell'apparato uditivo, in particolare quella della parte interna dell'orecchio che si trova oltre la membrana timpanica e i tre ossicini (martello, incudine e staffa). La tecnologia nasce infatti per cercare un rimedio ai casi di sordità dovuti ad una alterata o assente conversione del segnale esterno (il suono cioè la variazione pressoria nell'aria che si accompagna ad una onda sonora) in uno interno (vibrazione del liquido all'interno della coclea grazie al battito degli ossicini) che viene infine "letto" dalle cellule ciliate e convogliato al nervo ottico.
Ogni intervallo di frequenze sonore è letto in una particolare area della coclea (la cosiddetta codifica tonotopica), il che spiega per quale motivo la sordità possa anche riguardare solo certe frequenze.
Poiché le ossa sono un buon conduttore di vibrazioni, l'idea che portò alla realizzazione di apparecchi acustici prima e di auricolari cranici poi fu usare la conduzione ossea come modo per superare gli ostacoli che si frapponevano alla trasformazione del segnale nell'orecchio medio.
E' implicito che tale tecnologia funziona solo se la componente  cocleare e nervosa sono integre, cioè in grado di assorbire le vibrazioni nel liquido cocleare e di veicolarle poi al nervo uditivo.

Nel caso degli apparecchi uditivi si inserisce nell'osso un mini trasduttore del segnale. Il suono esterno viene convertito in vibrazione che attraverso l'osso si propaga fino alla coclea.
Nel caso di auricolari non intesi come strumenti medici ma come alternativi alle cuffie, non c'è bisogno di inserire alcun trasduttore nell'osso ma è sufficiente posizionare il trasmettitore sulla pelle. Il vantaggio di questi strumenti è che non ti isolano dall'ambiente esterno e quindi sono utili per minimizzare il rischio di incidenti a cui vanno incontro le persone che telefonano o ascoltano musica mentre si muovono per strada.

Una novità recente è quella dell'auricolare che si posiziona in bocca, anzi sui denti molari per essere precisi; da qui il nome Molar Mic.
Si tratta di uno strumento pensato per rendere più semplici (e comprensibili) le comunicazioni in condizioni estreme come durante i lanci con paracadute, sott'acqua o in condizioni climatiche fortemente avverse dove ad esempio bisogna indossare maschere protettive. 
In sintesi si tratta di dispositivo wireless che una volta agganciato ai molari posteriori funge sia da microfono che da auricolare a conduzione ossea. Chi lo ha testato afferma che la comunicazione risulta perfetta e priva di interferenze o di rumori di fondi anche se quando ci si trova vicini al motore di un aereo. 
Il dispositivo agganciano sui molari (credit: Sonitus Technologies)
(credit: Sonitus Technologies )

Il prodotto, sviluppato dalla start up americana Sonitus Technologies, ha ricevuto l'approvazione della FDA. Il personale militare dell'aviazione USA sarà tra i primi a testare sul campo la sua efficienza nelle condizioni più varie.


Fonti

-Efficacy and safety of an in-the-mouth bone conduction device for single-sided deafness.
Murray M. et  al. Otol Neurotol. 2011 Apr;32(3):437-43

- SoundBite™ Hearing System Receives FDA Clearance for Treatment of Single Sided Deafness



***
Per chi volesse provare delle cuffie a conduzione ossea classiche, la migliore a livello di recensioni è questa. Come costo siamo nella media delle cuffie. Sarà come avere 4 orecchie e bisogna abituarsi e giocare un po' nel loro posizionamento fino a trovare il miglior confort.
 AfterShokz Trekz Titanium.
Per ogni informazione tecnica vi rimando al sito del venditore
--> Amazon





1000 geni per una funzione sono molti …

… ma anche no.

Quando uno studente si affaccia ai primi esercizi di genetica i casi che affronta sono i più semplici. Si tratta di predire il il fenotipo di alcuni incroci, nota la genetica dei genitori, nel caso di funzionalità monogeniche; vale a dire in quei casi in cui l'allele (una delle varianti di un dato gene) ha azione univoca su un dato aspetto morfologico o funzionale. 
Un allele-una funzione come insegnano gli esercizi mendeliani sulla forma dei piselli (lisci o ruvidi) o negli umani la predizione del gruppo sanguigno AB0 o Rh dei figli in base al genotipo genitoriale.

Ma questi sono i casi più semplici. E' sufficiente passare ad aspetti come la statura per vedere quanto il numero di geni coinvolti aumenta, a cui si deve sommare l'effetto indotto dall'ambiente (ad esempio la dieta), rendendo difficile una previsione accurata avendo a disposizione solo i dati dei genitori.
Quando poi ci addentriamo in ambiti ben più complessi come quelli che riguardano la regolazione omeostatica di un organismo il numero di geni coinvolti aumenta esponenzialmente tali sono le variabili che il corpo deve "monitorare" affinché "pur cambiando molto, nulla cambi all'interno del corpo" (virgolettato perché una parafrasi della celebre frase de "Il Gattopardo").
Esempio classico di regolazione omeostatica è la pressione sanguigna, processo sottostante a numerosi meccanismi (ormonali, nervosi, muscolari, …) attivi h24. E' sufficiente variare la propria posizione da seduta ad eretta perché i sensori del corpo reagiscano alla variazione pressoria attivando contromisure; è sufficiente una minima riduzione nella capacità compensativa perché si sperimentino i noti giramenti di testa quando ci si alza velocemente dopo avere raccolto un oggetto da terra.

Che la regolazione della pressione abbia una forte componente genetica non stupirà nessuno come insegna la familiarità dell'ipertensione; familiarità a cui ovviamente si aggiungono fattori ambientali e non (dieta, attività fisica, età, sesso, …) ma che non annullano il fatto che avere almeno un genitore iperteso è quasi garanzia che anche i figli ne saranno in qualche misura affetti.

Tornando al titolo dell'articolo, da dove viene fuori il valore "1000" come computo del numero di geni coinvolti nella regolazione della pressione sanguigna? Da una fonte autorevole, cioè da un articolo pubblicato poche settimane fa sulla prestigiosa rivista Nature Genetics.
Lo studio, svolto da team inglesi del Imperial College e della Queen Mary University ha cercato una correlazione tra i dati clinici di circa un milione di persone, e il loro genoma.
Un approccio questo impensabile anche meno di un decennio fa a causa dei costi di sequenziamento del DNA. Un problema oggi minimizzato grazie al miglioramento delle tecniche e alle economie di scala che hanno abbassato i costi per sequenziamento di un genoma da milioni di dollari a circa 100 dollari (numeri che caleranno ancora molto nei prossimi anni).
Di per sé questo non sarebbe stato sufficiente, in quanto la mole di dati ottenuta (3 miliardi di nucleotidi per genoma aploide) deve essere in qualche modo processata e le correlazioni scovate all'interno di un mare di falsi positivi. Un problema affrontabile oggi con la capacità di calcolo raggiunta anche dai computer consumer e dallo sviluppo di ad algoritmi di analisi basati sulla IA. Nello specifico del lavoro dei team londinesi non è stato necessario arrivare al sequenziamento completo ma è bastata una analisi nota come GWAS (genome-wide association studies) consistente nella identificazione di co-segregazioni tra varianti genomiche puntiformi note come SNPs (in numero di milioni e distribuite uniformemente sul genoma come tante "bandierine" di posizione)  e il fenotipo ricercato

Dati macinati che hanno portato all'identificazione di 535 geni, le cui varianti presenti nella popolazione hanno un effetto nella determinazione dei valori pressori. Geni che sommati a quelli già noti per il loro coinvolgimento porta il numero complessivo a poco sopra quota 1000.

Ai non addetti ai lavori il nome dei geni coinvolti dirà poco, quindi mi limito a citare quelli attinenti alla via metabolica controllata dalla proteina TGFß (tra le tante funzioni agisce anche sul livello del sodio renale) , la sintesi di aldosterone (ormone fondamentale nella regolazione della pressione arteriosa) e infine una vecchia conoscenza nella regolazione della colesterolemia come il gene per l’apolipoproteina E (APO-E).

 Se a questo aggiungiamo che nella sola Italia 1 persona su 4 soffre di ipertensione e che questo stato predispone a patologie spesso letali (ictus, infarti, danni renali, aterosclerosi, …) si capisce bene quanto sia importante capire nel dettaglio i meccanismi che regolano la pressione, individuando nel contempo i bersagli (genetici a monte e proteici a valle) di future e più risolutive terapie.

 Se 1000 geni vi sembrano tanti per il controllo della pressione considerate che per il solo olfatto negli esseri umani (mammiferi con olfatto molto meno sviluppato di altri) ne servono 800 (--> articolo precedente sul tema). Se a questo aggiungete che il numero di geni negli umani è poco sopra i 20 mila (escludo quindi le aree codificanti per ncRNA) diventa evidente quanto alcune funzioni che noi consideriamo "banali" non lo siano affatto.

Fonte
- Genetic analysis of over 1 million people identifies 535 new loci associated with blood pressure traits
Evangelou E. et al, (2018) Nat Genet.




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