CC

Licenza Creative Commons
Questo opera di above the cloud è concesso sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.
Based on a work at scienceabovetheclouds.blogspot.com.

The Copyright Laws of the United States recognizes a “fair use” of copyrighted content. Section 107 of the U.S. Copyright Act states: “Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work (...) for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching, scholarship, or research, is not an infringement of copyright.”
Any image or video posted is used according to the fair use policy
Ogni news è tratta da articoli peer reviewed ed è contestualizzata e collegata a fonti di approfondimento. Ben difficilmente troverete quindi notizie il cui contenuto sia datato.
QUALUNQUE link in questa pagina rimanda a siti sicuri!! SEMPRE.
Volete aiutare questo blog? Cliccate sugli annnunci/prodotti Amazon (se non li vedete, disattivate l'Adblocker mettendo questo sito nella whitelist. NON ci sono pop up o script strani, SOLO Amazon). Visibili in modalità desktop! Se poi decidete di comprare libri o servizi da Amazon, meglio ;-)
Dimenticavo. Questo blog NON contiene olio di palma (è così di moda specificarlo per ogni cosa...)

Quello che il covid potrebbe insegnarci sulle malattie autoimmuni

Sebbene sia ancora prematuro trarre conclusioni, alcuni indizi sembrano indicare l’esistenza di un collegamento tra il rischio malattie autoimmuni e il virus che causa COVID-19. Un problema molto importante da considerare ora che (forse) siamo usciti dalla fase acuta della pandemia e ci affacciamo incerti in una nuova fase endemica, meno aggressiva, ma da monitorare.
Ricordo per inciso che anche se il peggio sembra essere alle spalle, rimane il punto interrogativo sugli effetti a lungo termine in chi si è infettato e, pur essendo guarito, manifesta una serie di disturbi che vanno sotto il nome di Long Covid syndrome.  Tra i sintomi principali stanchezza persistente, difficoltà di concentrazione e mancanza di respiro. Interessante notare che tali sintomi hanno una forte somiglianza con l'encefalomielite mialgica (ME), nota anche come sindrome da stanchezza cronica (patologia ad eziologia ignota). Uno studio su PNAS del 2021 ha suggerito che in entrambe le malattie i sintomi potrebbero essere la conseguenza di autoanticorpi.
Alle incertezze sul Long Covid, si aggiunge la presenza, in un numero basso ma non trascurabile di individui, di sintomi riconducibili alle patologie autoimmuni, come infiammazione dei vasi sanguigni, eruzioni cutanee e danni agli organi. Alcuni di questi pazienti sviluppano malattie autoimmuni conclamate, come il diabete di tipo 1, il  LES o l'artrite psoriasica.
Image credit: L. Calabrese et al, (2021) An. Rheum. Disease

Partiamo da un concetto base cioè cosa significa autoimmunità.
È un fenomeno clinico che si innesca quando il sistema immunitario attacca i tessuti sani in modo "voluto" e non come effetto collaterale dello stato infiammatorio. Si tratta di vero e proprio fuoco amico con l'aggravante che il sistema è "convinto" che il bersaglio individuato sia veramente il nemico.
Image credit: niehs.nih.gov


Le cause sono varie e risiedono sia nella predisposizione genetica (ad esempio avere particolari alleli del gene MHC-II) che nel comportamento di alcuni patogeni (spesso virus) che dopo essersi accasati in un tessuto richiamano l'attenzione delle pattuglie immunitarie la cui risposta può andare "fuori bersaglio" per varie ragioni: la somiglianza strutturale di alcune porzioni virali con quelle dell’ospite; la lisi cellulare che libera (e rende disponibili alle cellule spazzino che poi recluteranno i linfociti adatti) antigeni intracellulari “legittimi” che non vengono riconosciuti come tali dal sistema (complice la presenza di linfociti autoreattivi che avrebbero dovuto essere distrutti alla nascita).
Alcuni studi mediante modellistica al computer hanno evidenziato la somiglianza strutturale di alcune parti del virus con quelle dello streptococco (da qui il dato che il vaccino contro lo streptococco pare fornire una certa protezione dal virus). Ciò potrebbe innescare una risposta potente da parte del sistema innato che riconosce (per errore) un nemico di vecchia data.
Altri studi hanno evidenziato la somiglianza di altre parti del virus con porzioni di proteine ​​umane, come i fattori della coagulazione. In alcune persone (vuoi per la genetica vuoi per motivi ancora poco noti), il sistema immunitario risponde dando la caccia a dei fantasmi sulla base di una foto segnaletica che somiglia pericolosamente a proteine self. Tra le conseguenze la comparsa di sintomi riferibili a coaguli di sangue e a cascata danni multiorgano.
Tra le malattie autoimmuni più comuni abbiamo il diabete di tipo 1, l'artrite reumatoide, la sclerosi multipla e LSE (lupus eritematoso sistemico) che si differenzia dalle precedenti perché il sistema immunitario attacca più di un tessuto. Le terapie in sviluppo (e quelle futuribili) anelano a “rieducare” il sistema immunitario, attivando i meccanismi regolatori che solitamente disattivano l’attacco linfocitario prima che faccia danni ai tessuti normali (leggasi contenere l’infiammazione una volta iniziata e, prima ancora, eradicare ogni tipo di linfocita che sia autoreattivo).
Nota. Uno studio del 2019 su pazienti con diabete di tipo 1 ha rilevato la presenza di alcuni virus gastrointestinali che potrebbero avere innescato la risposta autoimmune. Studi simili hanno suggerito il coinvolgimento del virus di Epstein-Barr nella comparsa (in soggetti geneticamente predisposti) della sclerosi multipla e del lupus.
Fatta la premessa, torniamo al Covid19.
In modo quasi paradossale la recente pandemia potrebbe perfino aiutare lo sviluppo di terapie contro le patologie autoimmuni grazie a quanto appreso sui sintomi prima menzionati rilevati in alcuni pazienti.
Per capire come, è necessario considerare la prima linea di difesa (barriere fisiche escluse) contro i patogeni intracellulari (in primis i virus), parte della cosiddetta immunità innata. L'interferone gioca un ruolo di primo piano in questo ambito, grazie al suo essere sia un regolatore di specifici geni (e a valle di pathways di regolazione) che come segnale di allarme ad altre cellule.
Una volta che specifici complessi proteici intracellulari rilevano la presenza di entità di natura chiaramente "aliena" (molecole di RNA a doppio filamento, etc) si attiva la risposta che porta in ultima istanza alla produzione di vari tipi di interferone, che fungeranno da segnale di allarme alle cellule vicine mentre nel contempo la cellula colpita attiverà il processo di autodistruzione così da eliminare anche il virus al suo interno.

Come si suol dire "fatta la legge, trovato l'inganno" ecco che i virus hanno evoluto delle contromisure per almeno ritardare il lancio del segnale d'allarme. Tra questi abbiamo il SARS-CoV-2 che mediante le proteine NSP1 e NSP13 spegne l'allarme bloccando l'attivazione dell'interferone. Questo meccanismo è stato osservato nei pazienti con forma grave della malattia, il che pare indicare che nella maggior parte dei soggetti a decorso non grave, si siano attivati dei meccanismi alternativi di rilevamento e contenimento  virale.

Mentre questo trucchetto implementato dal virus è noto dai primi mesi della pandemia, più recente è l'osservazione della presenza (sempre nei pazienti gravi) di anticorpi diretti contro l’interferone, il che spegne del tutto il sistema d'allarme. In quest'ultimo caso si tratta di una risposta anomala dell'organismo che produce anticorpi che non dovrebbe produrre.
Nota. Gli anticorpi "spontanei" contro l’interferone sono noti fin dagli anni ’80 quando furono rilevati in un paziente oncologico trattato con gli interferoni. Negli stessi anni furono scoperti anche in un paziente con lupus (qui sembra che parte degli effetti dannosi fossero dovuti al complesso anticorpo-interferone, rispetto all'attesa azione neutralizzante la risposta immunitaria dell'anticorpo).
Poiché gli anticorpi appartengono alla risposta immunitaria adattativa, che necessita di almeno 2 settimane per diventare efficace, un tale fenomeno può essersi sviluppato solo nei soggetti rimasti infetti per un periodo prolungato di tempo (in genere le persone nelle ICU).
Non c'è una spiegazione semplice sul perché questi anticorpi siano stati prodotti (e selezionati); verosimilmente si tratta di una somma di ragioni genetiche e ambientali tra cui la cattura di molecole sul luogo dell’infezione da parte delle cellule spazzino, che poi trovano  nella "nursery" dei linfociti (midollo osseo) una controparte linfocitaria che avrebbe dovuto essere stata eliminata (tutti i linfociti potenzialmente reattivi contro molecole self vengono eliminati nelle fase iniziali del loro differenziamento).

La domanda che ora vi sorgerà spontanea è dove sia l'aiuto che questi "effetti collaterali" del Covid19, potrebbe fornire allo sviluppo di nuove terapie contro le patologie autoimmuni.
Il tutto si basa sul fatto che in alcuni pazienti il sistema difesa basato sull'interferone agisce come una lama a doppio taglio, nel senso che o smette di funzionare (il virus si diffonde) oppure funziona troppo (con rischio di malattie autoimmuni).
Varie sono le informazioni che si possono ricavare da questi pazienti.
  • Comprendere il legame tra la molecola virale che assomiglia a strutture self, permetterà di disegnare terapie per colpire in modo preciso i linfociti autoreattivi (ad esempio mediante anticorpi monoclonali).
  • I soggetti in cui si è rilevata la presenza di anticorpi anti-interferone potrebbero ugualmente essere i destinatari di terapie mirate alla eliminazione delle cellule produttrici degli anticorpi indesiderati. Nello stesso tempo questi pazienti permettono di comprendere cosa ha portato alla produzione di anticorpi non desiderati
  • Gli anticorpi anti-interferone potrebbero diventare un utile strumento terapeutico per spegnere l'eccesso di attività immunitaria auto-diretta. A riprova dell'utilità di tale approccio, uno studio del 2021 in cui si utilizzano anticorpi monoclonali anti-interferone nel trattamento delle patologie reumatiche autoimmuni. Un esempio è il loro utilizzo nei pazienti con LES.

Dall'analisi di tutti questi punti si potrà avere una maggiore comprensione delle dinamiche alla base dell'eccesso di attività immunitaria e di come prevenire (prima che compaiano i sintomi) patologie dovute a tale eccesso (o errato bersaglio).


Lo studio dei batteri nel Rio Tinto ci porta fino a Marte

Microbi terrestri estremofili utili (forse) per spiegare rocce marziane
Alla foce del Rio Tinto, nel sud-ovest della Spagna, l'acqua acida del fiume - tale sia per condizioni naturali che in quanto inquinata da residui di metalli pesanti derivanti dall'estrazione di minerali - si mescola con l'acqua salata dell'Oceano Atlantico.
Il Rio Tinto (image credit: mybestplace.com)
In queste condizioni uniche trovano casa e condizioni ideali dei microorganismi genericamente catalogati come estremofili: prosperano in condizioni di acidità pari a quelle dell’aceto, sono resistenti all'elevata salinità e alcuni di questi sfruttano anche gli alti livelli di metalli, tossici per ogni altro organismo. Questo mix biologico, noto come biocenosi è stato descritto in un recente articolo sulla rivista Applied and Environmental Microbiology, in cui i ricercatori hanno investigato la fonte di energia chimica usata da questi microrganismi, e il loro impatto sui metalli pesanti che arrivano all'estuario del Rio Tinto.

Il Rio Tinto deve il nome alla sua colorazione che in alcuni punti del breve (circa 100 km) percorso raggiunge tonalità da arancione a rosso sangue. 
L’inquinamento qui iniziò molto presto, circa 5.000 anni fa (periodo Calcolitico o età del rame), a causa dell’estrazione mineraria  in quella che oggi è nota come cintura di pirite iberica, un’area ricca di oro, argento, rame, stagno, piombo e ferro (sotto forma di solfuro di ferro). Durante l'estrazione del minerale, il solfuro di ferro entra in contatto l'ossigeno atmosferico e permette ad alcuni microrganismi di ricavare energia ossidando ferro e zolfo. Da qui la formazione di acqua con colore rosso sangue, la cui estrema acidità a cascata favorisce la solubilizzazione dalle rocce circostanti di metalli tossici come manganese, cobalto, nichel e cadmio, dilavandoli poi verso l’estuario.
Durante il processo di ossidazione del ferro, parte di questo si deposita, insieme ad altri minerali, sulla parete cellulare batterica. Quando questi aggregati bio-minerali (cellule e minerali) arrivano all’estuario, l'elevata concentrazione di cloruro dell’acqua marina uccide buona parte dei microbi responsabili di tale trasformazione, il cui posto è presto preso da altri batteri ferro-ossidanti la cui azione provoca la formazione dei minerali di ferro presenti nell’estuario favorendo la precipitazione dei metalli tossici come arsenico e cromo. Alcuni di questi minerali sono infine trasportati al mare vero e proprio.

I batteri che ossidano il ferro nel Rio Tinto sono i veri “produttori” di minerali colorati come goethite, ematite rossa, schwertmannite e jarosite, che abbondano nei sedimenti del fiume. 
Una nota curiosa (e di potenziale interesse in ambito esobiologia tanto da attrarre studiosi nella zona) è che questi stessi minerali sono stati scoperti su Marte dal rover Curiosity, in sedimenti presenti nel cratere Gale.
Il cratere Gale e il punto di atterraggio di Curiosity (credit: NASA)
L’ipotesi formulata è che tali minerali si siano formati in un periodo tra 4,1 e 3,7 miliardi di anni fa grazie a microrganismi simili a quelli presenti nel Rio Tinto, che vivevano in un sistema fluviale (allora molto abbondante).

Per ulteriori letture sul possibile sistema biologico esistito su Marte vi rimando all'articolo da cui è tratta la seguente figura.
Credit: Front. Microbiol.(2018) 



Fonte
- Biogeochemical Niches of Fe-Cycling Communities Influencing Heavy Metal Transport along the Rio Tinto, Spain
Sergey M. Abramov et al, (2022) Applied and Environmental Microbiology


Da Tenerife un raggio laser per mappare i detriti orbitali

Sulla vetta di una montagna delle Tenerife (Spagna) c'è l'osservatorio Izaña-1 (IZN-1) dell'ESA, che grazie a metodi di rilevamento laser servirà a mappare le migliaia di detriti in orbita.
Gli ultimi test di funzionamento sono da poco conclusi con una promozione a pieni voti e con questo si è avuto il passaggio ufficiale dalla azienda produttrice alla ESA.
Image credit: ESA


https://geoxc-apps2.bd.esri.com/Visualization/sat2/index.html

Il problema dei detriti spaziali non è nuovo ma in questi ultimi anni, complice il lancio di migliaia di nuovi satelliti, si è acuito. I metodi radar oggi disponibili per tracciarli ed evitare così il rischio di collisioni sono costosi e meno accurati. 
Screenshot dal sito che mappa tutti satelliti. Credit: esri.com

All'alba della era del turismo spaziale e con le attuali e nuove stazioni spaziali orbitali (oltre che per lanciare in sicurezza nuovi satelliti) il rilevamento laser dovrebbe facilitare il compito.
Credit: ESA
Il laser (come ben sanno le vittime dell'autovelox) fornisce una misurazione precisa e rapida di posizione e velocità anche a centinaia di km di distanza (l'orbita media dei detriti è intorno a 2 mila km dalla superficie terrestre)

I test con il laser sono partiti a luglio 2021 usando una lunghezza d'onda corrispondente al verde e una potenza di circa 150 mW. Ad oggi la capacità di "vedere" i satelliti è vincolata alla presenza su essi di catadiottri il che è un limite importante in quanto solo una parte dei satelliti li possiede.
Nell'immediato futuro si passerà a potenze superiori (circa 50 W) e con lunghezze d'onda agli infrarossi, capaci di rilevare sia satelliti "non cooperanti" (cioè mancanti dei catadiottri) che di veri e propri detriti.

Le stazioni localizzazione basati sul laser non sono in verità una novità sul suolo europeo (c'è ne sono decine). A fare la differenza è la possibilità di usare IZN-1 anche per le comunicazioni ottiche e la dotazione robotica all'avanguardia.
Una volta adattato allo scopo, il sistema di comunicazione ottica permetterà di scambiare le informazioni con i satelliti nella bassa orbita terrestre (a circa 400 km) con una velocità di trasmissione dati molto elevata di 10 gigabit.
Una delle domande più ovvie è se il laser possa causare rischi a qualsiasi altra cosa transiti attraverso essa (uccelli, aerei, astronauti). I numeri paiono rassicuranti sia perché utilizzerà una potenza inferiore a 100 W (pari grosso modo a quelle di un bollitore elettrico) che per l'emissione di impulsi intermittenti di breve durata. Quindi sebbene non siano in grado di tagliare o spostare gli oggetti intercettati, c'è sempre la possibilità di un danno ai delicati strumenti ottici montati sugli aerei; per questa ragione sono stati implementati sensori che scansionano il cielo alla ricerca di velivoli così da garantire che il laser non intersechi mai la loro traiettoria.

Il passaggio alle frequenze all'infrarosso eliminerà anche il rischio di disturbare la scansione del cielo notturno da parte di altri osservatori. 

L'idea è di implementare con il tempo nuove funzioni come quella di spostare i detriti intercettati (grazie al trasferimento della quantità di moto fornita dal laser), su nuove orbite, fuori da quelle più trafficate.


Di seguito un breve video riassuntivo
Credit: scitechdaily.com



E a proposito del rischio incidenti a causa dei detriti orbitali ...

La via tortuosa dei nuovi farmaci contro l'Alzheimer

[Articolo aggiornato e ampliato]
L'innalzamento dell'età media della popolazione pone il problema, tra i tanti legati alla non sostenibilità del welfare e di riduzione del PIL, l'aumento percentuale delle patologie di tipo cognitivo e neurodegenerativo tra cui spicca il morbo di Alzheimer, una delle forme di demenza progressiva e incurabile più note, anche se non necessariamente la più frequente.

Alla domanda crescente di trattamenti, ad oggi solo sintomatici e non terapeutici, la risposta delle aziende farmaceutiche è stata pronta, non fosse altro per l'enorme mercato potenziale che vedrà nei prossimi anni nuovi "clienti" dai popolosi, e sempre più longevi, paesi come Cina e India.

Negli ultimi decenni molti farmaci sviluppati allo scopo si sono persi per strada, nella stragrande maggioranza senza nemmeno essere arrivati alla richiesta di approvazione, per assenza di efficacia. Non si tratta però di fallimenti legati ad una ricerca fatta male ma di limiti intrinseci alle malattie che si vorrebbe curare. Il nostro cervello ha una enorme plasticità neuronale ed è in grado di adattarsi in caso di "corto-circuiti" locali finché non è troppo tardi e questo fa sì che quando il sintomo compare è già troppo tardi.
Un esempio può meglio rendere l'idea: i sintomi legati al morbo di Parkinson compaiono quando oramai più del 80% dei neuroni dopaminergici in alcune aree chiave del cervello sono morti. Perché una terapia possa funzionare deve avere un substrato su cui agire, cosa assente in questi pazienti in cui, al più si può ambire, ad un trattamento che rallenti la perdita dei neuroni rimanenti ma di sicuro NON ad un miglioramento e tanto meno alla cura.
La sperimentazione clinica per farmaci veramente preventivi dovrebbe avvenire su soggetti pre-sintomatici ma "malati", cosa questa molto difficile ancora oggi. Fino a non molti anni fa anche i soggetti con chiare manifestazioni della malattia ricevevano la diagnosi - nel senso QUALE tipo di demenza fosse la causa - solo dopo il decesso.
Prendiamo il caso del compianto Robin Williams.
I medici, e lui stesso ne era molto consapevole, avevano rilevato una patologia neurodegenerativa in atto e l'ipotesi più probabile era che si trattasse di Parkinson. Solo dopo il suo decesso l'autopsia rivelò la causa nella ben più devastante demenza a corpi di Lewy arrivata ad un punto talmente avanzato che solo l'incredibile plasticità neuronale di un artista improvvisatore come Williams era riuscita a compensare.
Quanto scritto permette di riassumere le cause per cui farmaci che apparivano promettenti nelle prime fasi dello sviluppo naufragano non appena si arriva alla clinica: i soggetti sintomatici hanno danni neuronali troppo avanzati perché sia possibile una cura; anche in caso di diagnosi perfetta del tipo di malattia, le cause sottese sono spesso molteplici a causa della eterogeneità della malattia. In assenza di un campione omogeneo e "curabile" (alias con danni non estesi) di soggetti reclutati durante i test clinici, anche il miglior farmaco non supererebbe i test di efficacia.
A volte si ha la "fortuna" di avere soggetti con la forma familiare della malattia (trasmissione ereditaria) e questo consente di attivare studi clinici su soggetti a rischio (per età e genetica) ma ancora asintomatici. La familiarità è nota in alcune forme di Parkinson e Alzheimer ma si tratta sempre di un numero esiguo rispetto al totale dei pazienti e i risultati ottenuti su questi sono spesso non esportabili su altri pazienti in quanto la eziopatogenesi della malattia può differire nei punti chiave rispetto al mare magnum delle forme sporadiche.
C'è poi un secondo problema, propriamente legato alla eziopatogenesi del morbo di Alzheimer. Tra le caratteristiche istologiche classiche (note da anni) rilevate durante l'autopsia vi è l'accumulo extracellulare di ammassi proteici noti come placche amiloidi che portarono alla formulazione della cosiddetta ipotesi amiloide. In questo contesto il tutto nasce da una anomalia della proteina costituente che per varie ragioni (genetiche o ambientali) assume una conformazione anomale che la predispone alla "precipitazione" formando ammassi non funzionali e tossici. Negli ultimi anni alcuni ricercatori hanno sollevato dubbi, ipotizzando che questo evento sia in realtà un epifenomeno che può contribuire alla malattia ma non la causa prima. In effetti in alcuni casi il declino cognitivo precede la formazione delle placche amiloidi.
Alcune delle ipotesi causali formulate nel tempo sono: Tau; vascolare; variazioni isoprenoidi; infiammatoria; etc.
Per una riassunto delle probabili cause che hanno fatto fallire gli studi clinici di farmaci disegnati in accordo con l'ipotesi amiloide vi rimando ad una review pubblicata nel 2019 sulla rivista Biomedicines. Vedi nota a fondo pagina per altre criticità riguardo questa ipotesi.
Arriviamo dunque ai nuovi farmaci la cui sperimentazione, influenzata dai precedenti fallimenti, potrebbe ricevere un semaforo verde dopo il controverso caso aducanumab prodotto dall'azienda Biogen.
Lo scorso giugno la FDA ha preso una decisione che ha sollevato parecchie controversie tra i ricercatori biomedici. Tutto nasce dall'avere dato il semaforo verde alla procedura accelerata dell'anticorpo aducanumab nonostante il voto negativo quasi unanime da parte di un comitato consultivo indipendente (a cui la FDA non è vincolata ma che rispetta quasi sempre) che riteneva i risultati della sperimentazione clinica troppo deboli e controversi.
Secondo alcuni questa decisione ha il merito di dare una spinta allo sviluppo di nuovi farmaci in un'area terapeutica che fatica a trovare farmaci innovativi, mentre altri vedono questa decisione come una macchia sull'integrità della FDA più prona ai desiderata di Big Pharma che al rigore scientifico, e come tale un ostacolo al progresso. La FDA ha concesso l'approvazione temporanea a patto che Biogen conducesse uno studio di conferma (non ancora partito), i cui risultati dovranno essere presentati entro i prossimi 9 anni. Tempo troppo alto secondo molti anche considerando il costo del trattamento per chi volesse usufruirne ora. 
Altro problema che l'applicazione di queste nuove linee guida comporta è l'esposizione dei soggetti trattati agli effetti collaterali (intrinseci in qualunque farmaco) per poche o nessuna possibilità di beneficio. Tra questi il rischio di "gonfiore cerebrale" pur asintomatico nelle conseguenze ma che impone scansioni cerebrali periodiche (costo aggiuntivo) per monitorare possibili complicazioni. 

La FDA, affermano gli scienziati, dovrebbe garantire che l'utilizzo nel mondo reale di qualsiasi farmaco sottoposto ad approvazione accelerata (diverso è il discorso nel caso di pandemie dove il rischio in assenza di terapie è immediato) rimanga allineato ai classici criteri selettivi della sperimentazione clinica.
Il caso si ripropone ora con l'azienda Eli Lilly in procinto di richiedere la valutazione del suo farmaco (donanemab, anche questo un anticorpo) mediante la procedura accelerata.
Il donanemab ha meccanismo di azione simile all'anticorpo della Biogen e una capacità di abbassare i livelli della proteina β-amiloide (il maggior costituente delle placche amiloidi) di quasi l'80%.
La decisione della FDA è  prevista prima della metà del 2022.
In casa Biogen si sta nel frattempo premendo sull'acceleratore per attivare la procedura di approvazione per un altro anticipo, noto come lecanemab.
Il vero problema, come scritto sopra, è se l'ipotesi amiloide come agente causale del morbo di Alzheimer sia il vero motore della malattia e non solo una componente o peggio ancora un epifenomeno. In questi ultimi due casi qualunque farmaco che abbia passato con successo il processo di selezione (ogni studio clinico deve avere un obiettivo predefinito che in molti casi non è la malattia in sé - troppo complicata da misurare - ma un suo biomarcatore predittivo) sarebbe funzionalmente perfetto ma con efficacia terapeutica irrilevante.
Gran parte, se non tutti, gli studi clinici condotti finora miranti a ridurre le placche amiloidi non hanno mostrato significativi miglioramenti nel declino mnemonico e cognitivo. Ma il problema potrebbe essere a monte, cioè in un vizio di partenza del campione usato (soggetti sintomatici), in cui la malattia era -  a causa dei danni accumulati - di fatto irreversibile.
Il che pone due problemi: "cestinare" un trattamento che magari funzionerebbe se solo fosse utilizzato sui soggetti presintomatici (difficili da identificare); caricare il sistema sanitario di un costo per trattamenti "inutili" pari a circa 56 mila USD all'anno (costo del trattamento per l'aducanumab).

La speranza è che il nuovo trattamento della Ely-Lilly riesca a dare prove di benefici tangibili anche grazie alla migliore selezione dei soggetti reclutati per lo studio. Uno di questi studi di fase II durato 18  mesi ha mostrato che le capacità cognitive delle persone trattate diminuivano più lentamente di quelle trattate con il placebo (3,20 punti su una scala di 144 punti).
Non sono così convinti in tal senso altri ricercatori per i quali questo trattamento è battuto da un molto più economico farmaco generico, donepezil (in giro da 25 anni), che agisce sui sintomi senza "toccare" le placche amiloidi.
Lo studio di fase III (su soggetti nella primissima fase sintomatica) è previsto per la prima metà del 2023, quindi DOPO l'eventuale approvazione dell'anticorpo basata "solo" sui risultati nella riduzione delle placche amiloidi.

Alla fine del 2021 la FDA ha dato il semaforo verde anche agli anticorpi gantenerumab (Genentech–Roche), lecanemab (Biogen–Eisai) e donanemab (Eli Lilly)

Fonte
Nature 599, 544-545 (2021)

La formazione delle placche amiloidi, i punti critici e i farmaci in fase di test
(image credit: Nature)

***

Aggiornamento 03/2022
In base a quanto prima scritto la via maestra per comprendere se i farmaci (anticorpi inclusi) anti-amiloide sono utili a scopo preventivo, impone che gli studi clinici siano fatti su soggetti a rischio (per familiarità) malattia ma ancora asintomatici. Il ché vuol dire fare studi prospettici della durata di anni su quarantenni.
La notizia è che questi test sono iniziati su una persona a cui verrà iniettato ogni 2 settimane l'anticorpo gantenerumab. A questo si associano visite mensili per eseguire scansioni cerebrali per monitorare (eventuale) sanguinamento e, una volta all'anno, 4 giorni di test clinici e cognitivi per tenere traccia del suo stato di salute. Se questo vi sembra tanto da chiedere ad un volontario, va ricordato in primis che si tratta di un volontario di 43 anni e che, dato il suo quadro genetico, ha una certezza quasi assoluta di sviluppare l'AD nel giro di pochi anni; questo spiega la sua determinazione a contribuire alla ricerca e magari trarne i benefici se non per lui per i suoi figli.

Nei prossimi mesi, il consorzio DIAN (Dominantly Inherited Alzheimer Network) prevede di iniziare a reclutare 160 portatori di mutazioni, alcuni di appena 18 anni, che non dovrebbero sviluppare sintomi per altri 11-25 anni. Lo studio clinico prevede un gruppo trattato con il farmaco e un gruppo di controllo (trattato con placebo) e durerà quattro anni; in questo periodo verrò monitorato il carico amiloide a intervalli regolari. Passata questa fase i due gruppi verranno uniti e si passerà ad uno studio "aperto"m vale a dire in cui tutti i partecipanti riceveranno il farmaco e si cominceranno a misurare anche altri parametri, tra cui quelli cognitivi.
Nota. La ragione della prima fase è duplice. Monitorare la presenza di eventi avversi legati al farmaco e nel contempo verificare la sua efficacia nelle primissime fasi del trattamento.
È chiaro che non sarebbe pratico condurre lo studio per i decenni necessari affinché tutti i soggetti (a rischio reale) sviluppino i sintomi. Molto meglio monitorare il cambiamento dei biomarcatori che per definizione sono dei parametri legati alla malattia ma che la quantificano in anticipo. Tipico esempio di questi marcatori sono la proteina β-amiloide e la proteina tau.

Il consorzio DIAN non è l'unico impegnato in quesi studi per l'Alzheimer ad esordio precoce. Ad esempio coinvolgendo persone i cui esami hanno rilevato già la presenza di placche amiloidi pur in assenza di sintomi. Ad esempio il farmaco crenezumab della Genentech-Roche è n fase di test sugli individui di una numerosa famiglia colombiana, metà dei quali è portatore di una mutazione nel gene che codifica uno degli enzimi (noti come secretasi) responsabili del taglio della APP. Si stanno anche approntando test sulle persone con sindrome di Down che come noto vanno incontro ad un rapido deterioramento cognitivo (e altro) intorno ai 40 anni (ricordo che il gene APP si trova sul cromosoma 21 e la loro trisomia 21 spiega la loro suscettibilità a questi deterioramenti).

Un altro approccio da citare riguarda l'identificazione nella popolazione generale di coloro che sono ad alto rischio di sviluppare l'Alzheimer "normale" (quello negli anziani). Tra i vari studi cito quello dell'International Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative (presso la UCSF) il cui scopo è registrare la variazione dei biomarcatori dell'Alzheimer tra le centinaia di persone che hanno aderito e seguirne le variazioni durante il normale processo di invecchiamento e (nel caso) in tutte le fasi della malattia. I dati mostrano che circa un terzo delle persone cognitivamente normali di età superiore ai 65 anni ha placche amiloidi nel cervello e che oltre l'85% di loro svilupperà sintomi di Alzheimer entro 10 anni. All'interno di questa iniziativa vi sono almeno tre grandi studi clinici (ciascuno centrato su diverso farmaco/anticorpo e gruppo placebo) ciascuno dei quali coinvolge più di 1000 persone, cognitivamente normali ma con placche cerebrali rilevate mediante PET. In questo caso lo studio durerà 4 anni, periodo sufficiente perché le persone con placche amiloidi comincino a manifestare i sintomi; se i farmaci funzionano si spera di osservare un rallentamento della progressione della malattia.


 
Articoli precedenti sul tema -->Alzheimer 



Aggiornamento Agosto 2022
Oltre ai dubbi sopra esposti circa la validità (nel senso causa-effetto vs. epifenomeno) della teoria amiloide, arriva ora uno studio che mette in dubbio la validità scientifica di alcuni pilastri di questa teoria. I
Il caso è deflagrato poche settimane fa (luglio 2021) con un articolo su Science che riporta pesanti livelli di manipolazione dei dati su uno studio su Nature del 2006 che ha indirizzato il campo versa la suddetta teoria.
L’articolo indicava Aβ*56, oligomero tossico della beta-amiloide, come uno dei mattoni responsabili della formazione nel cervello delle placche amiloidi, tipiche della malattia di Alzheimer (e non solo).

Ad aumentare la gravità del caso, ad essere coinvolti in questa opera di manipolazione non ci sarebbe solo Sylvain Lesné, principale autore, ma la pharma Cassava, che aveva investito nello sviluppo di farmaci contro la formazione delle placche,

Nell’articolo di Science non si parla in modo esplicito di manipolazione ma di dubbi (“expression of concern”) sulla validità dei dati sperimentali. Lo studio si basava sull’iniezione intracerebrale in giovani topi di grosse quantità del suddetto oligomero e nella successiva constazione di deterioramento delle loro capacità mnemoniche. Un test che per loro (e per gli editori) era la prova che la beta amiloide non era una conseguenza della malattia ma la causa.
Fu quello il momento in cui tale ipotesi prevalse sulle altre e la ricerca si spostò verso la prevenzione della formazione delle placche. Approcci che nel corso degli anni si rivelarono infruttuosi se non controproducenti (alcuni farmaci capaci di contrastare la loro formazione sembravano peggiorare la malattia, rafforzando l’idea opposta che le placche fossero invece un modo con cui l’organismo cercava di rimuovere l’eccesso di proteine alterate, neutralizzandole).

L’articolo su Nature è ora sotto riesame

Maggiori informazioni su retractionwatch.



"Size matters" almeno riguardo la resistenza agli antibiotici in popolazioni batteriche

Un team olandese-tedesco ha dimostrato che la dimensione della popolazione batterica influenza qualitativamente il percorso evolutivo che porta alla selezione di tratti come la resistenza agli antibiotici.
Le conclusioni dello studio, pubblicato sulla rivista Nature Ecology & Evolution, possono essere riassunte come maggiori le dimensioni, più forte la resistenza a causa del tipo di mutazioni acquisite.
Nello studio i ricercatori hanno monitorato l'evoluzione spontanea di 96 popolazioni del batterio Escherichia coli, ciascuna suddivisa in gruppi costituiti da 2 milioni o 200 milioni di batteri, esposte a dosi incrementali dell'antibiotico cefotaxime
Nota. Sottodosaggio o trattamento intermittente sono la strada maestra per selezionare batteri  (o virus) resistenti. Questo spiega perché il cattivo (alias, diverso da quanto prescritto) utilizzo degli antibiotici tipico degli ultimi 50 anni, ha favorito la comparsa dei superbatteri, un problema oggi globale.
L'analisi condotta dopo 500 generazioni (ricordo che il tempo di divisione in E. coli è circa 20') ha mostrato che non solo le popolazioni più grandi sviluppavano una maggiore resistenza all'antibiotico di quelle piccole, ma che il genoma dei due gruppi mostrava differenze qualitative nel tipo di mutazioni acquisite per ottenere la resistenza al farmaco: nelle popolazioni grandi erano le mutazioni puntiformi le più frequenti, mentre nelle piccole abbondavano duplicazioni e delezioni.
I dati raccolti sono stati dati "in pasto" a computer e analizzati mediante IA e deep learning per ricavare il significato funzionale delle mutazioni: le mutazioni puntiformi erano più rare ma avevano un maggior impatto funzionale sulla neonata resistenza, di quello conferito da delezioni e duplicazioni. Poiché il numero di mutazioni che compaiono ad ogni generazione è proporzionale al numero di batteri, le popolazioni più piccole "prediligono" le alterazioni più frequenti anche se meno efficaci; i gruppi in cui il numero di batteri di partenza era maggiore avevano invece "una massa critica" sufficiente per aspettare e poi selezionare le mutazioni "migliori" cioè quelle puntiformi.
I ceppi batterici ad alta resistenza evolvono in più fasi, in ciascuna delle quali una mutazione compare in modo casuale e si fissa nella popolazione a seconda del vantaggio selettivo conferito
La resistenza agli antibiotici è oggi un problema di salute globale, ma fornisce allo stesso tempo un esempio da manuale dell'evoluzione darwiniana. 


Fonte
- Population size mediates the contribution of high-rate and large-benefit mutations to parallel evolution 
Martijn F. Schenk et al, Nature Ecology & Evolution (2022)



Powered By Blogger
"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
Clive S. Lewis

"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper
Controllate le pagine delle offerte su questo blog




















Zerbini fantastici