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Il pesce ghiaccio vive bene dove per altri pesci è impossibile

Il pesce ghiaccio vive in un ambiente che è mortale per un qualunque altro vertebrato … eppure non sembra turbarsene più di tanto.
(credit: Hyun Park / uni-wuerzburg.de/)
Nell'Oceano Artico attorno al Polo Sud, la temperatura dell'acqua è di poco inferiore a meno due gradi (-2°C) per cui il sangue dovrebbe ghiacciare o almeno contenere cristalli di ghiaccio il cui effetto immediato sarebbe la rottura dei globuli rossi.
I pesci che lì prosperano (appartenenti alle famiglie Nototheniidae e Chaenocephalus) non hanno evidentemente di questi problemi; un mistero biologico che ha spinto alcuni ricercatori tedeschi ad occuparsi del caso studiando il DNA di un membro di queste famiglie, il Chaenocephalus aceratus.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Nature Ecology & Evolution.

In breve, la storia evolutiva di questi pesci risale ad almeno la fine del Pliocene (circa 3 milioni di anni fa) quando la temperatura superficiale antartica raggiunse valori non troppo lontani dagli attuali, ben lontani da un passato in cui il clima antartico era tale da permettere la vita di piante e grossi animali come i dinosauri.
In verità bisogna fare un salto ancora più indietro nel tempo fino alla fine del Cretaceo, circa 77 milioni di anni, per arrivare al punto di biforcazione tra questi pesci e l'antenato dei "cugini" spinarelli.

I pesci ghiaccio attuali hanno due caratteristiche: hanno sangue trasparente e sono privi di vescica natatoria.
I nototheniidi ancestrali avevano, come tutti i pesci, il sangue rosso (quindi dotato di proteine contenenti ferro necessario per il trasporto dell'ossigeno) ma i loro muscoli erano già privi delle mioglobine il cui ruolo (anche nei nostri tessuti) è quello di "strappare" l'ossigeno veicolato dalla emoglobina dal circolo sanguigno grazie alla maggiore affinità).
Erano privi di vescica natatoria, necessaria ai teleostei (pesci moderni) per variare la profondità di nuoto, "inutile" per animali che vivevano stabilmente sul fondale marino.

Quando, in un periodo intorno ai 10 milioni di anni fa la temperatura antartica si abbassò fino a poco sopra lo zero la selezione cominciò ad operare favorendo i pesci capaci di  occupare le nicchie ecologiche lasciate libere dagli altri pesci (per temperature non più compatibili con la sopravvivenza) e quindi ricche di cibo (crostacei e plancton sono abbondanti anche nelle zone perennemente buie sotto la banchisa antartica).

Tra i fattori che risultarono decisivi per vivere in questo ambiente vi fu la perdita dei globuli rossi (e con essi dell'emoglobina) con il risultato di un sangue virtualmente trasparente e "immune" alla emolisi causata dalla presenza di cristalli di ghiaccio. Chiaramente la selezione naturale non è portatrice di soluzioni miracolose, quindi in qualche modo la perdita del veicolo di trasporto dell'ossigeno poteva avvenire solo per l'esistenza di una soluzione alternativa (l'anossia non è una opzione fisiologicamente possibile per un vertebrato, data l'energia richiesta per sostenere il metabolismo sottostante).
Gli eritrociti non servivano più semplicemente perché a causa della maggiore solubilità dell'ossigeno nei liquidi alle basse temperature; in queste condizioni la saturazione di ossigeno dell'acqua marina (e quindi anche anche nei fluidi corporei) è così alta da non necessitare più di un trasportatore come l'emoglobina, e quindi dei globuli rossi, ma è sufficiente l'ossigeno disciolto nel sangue.
Per massimizzare l'efficienza del trasporto il volume del sangue nel pesce ghiaccio divenne due volte maggiore di quello presente in specie ittiche di dimensioni comparabili che vivono in ambienti meno estremi. Stessa spiegazione per l'aumento dimensionale del cuore e dei vasi sanguigni. A livello cellulare la soluzione fu l'aumento del numero delle "centraline energetiche", i mitocondri.

Ma un conto è cancellare il rischio di emolisi legato alla presenza dei cristalli di ghiaccio e un altro è il congelamento del sangue tout court. Un problema evitato grazie a speciali proteine glicosilate​​ che funzionano come un antigelo. Se da una parte le glicoproteine presenti sia nelle larve che nei pesci adulti impediscono la formazione del ghiaccio, altra innovazione decisiva si ebbe nella comparsa di un corion dell'uovo e delle proteine ​​della zona pellucida (entrambi circondano gli embrioni) resistenti al congelamento.
Tutti questi cambiamenti sono registrati nel DNA e sono evidenti nell'aumento nel numero di copie dei geni operanti nella protezione dei danni da congelamento e da quelli risultanti all'esposizione alla maggiore presenza di ossigeno circolante (più ossigeno nel sangue, maggiore presenza dei radicali liberi).
Mancano inoltre alcuni geni che regolano il ritmo circardiano (fondamentali negli altri vertebrati) per un semplice e duplice motivo: a quelle latitudini l'alternanza delle stagioni porta da giorni che durano settimane a notti altrettanto "infinite"; sotto i ghiacci perenni l'ambiente è praticamente sempre al buio, quindi alcune specie di pesci non hanno nemmeno la percezione del cambio della durata del giorno. Su quest'ultimo punto sarà necessario tuttavia fare approfondito sul comportamento dei pesci antartici.

Oltre all'interesse prettamente biologico per le soluzioni escogitate dalla natura per rispondere alle sfide ambientali (una frase che in effetti suona come lamarckiana ma che non è), i dati ottenuti dallo studio del pesce ghiaccio forniscono importanti spunti anche in campo biomedico. Alcune delle loro caratteristiche fanno pensare a situazioni presenti in malattie umane come nel caso di anemia completa o della osteoporosi
La ridotta calcificazione ossea è utile al pesce ghiaccio per ridurre la densità corporea, così da essere capace, pur in assenza della vescica natatoria a staccarsi dal fondo del mare e a nuotare.
 Comprenderne la biologia aiuterà così anche la clinica.


Fonti
- Antarctic blackfin icefish genome reveals adaptations to extreme environments
Bo-Mi Kim et al, Nature Ecology & Evolution (2019), 3, pp. 469–478

- Cool adaptations to the cold
Universität Würzburg / news / 2019

- How the Antarctic Icefish Lost Its Red Blood Cells But Survived Anyway
blogs.scientificamerican.com (2012)


https://www.uni-wuerzburg.de/en/news-and-events/news/detail/news/cool-adaptations-to-the-cold/
https://blogs.scientificamerican.com/brainwaves/how-the-antarctic-icefish-lost-its-red-blood-cells-but-survived-anyway/

Un colpo al torace può ucciderti o salvarti. Ma il meccanismo è ancora poco compreso

La spiegazione meccanica per cui ricevere una colpo al petto può avere effetti diametralmente opposti è ancora oggi poco compresa.
Un colpo, quindi una compressione che dallo sterno si propaga al muscolo cardiaco, può infatti sia indurre un arresto cardiaco (come capitato ad alcuni giocatori di baseball colpiti al petto dalla palla) che fare ripartire il cuore in arresto o durante tachiaritmie cardiache (in genere fatali come capitato al calciatore Astori), grazie a compressioni ripetute.
L'ipotesi finora ritenuta più verosimile era che tali colpi provocassero improvvise tensioni sul tessuto cardiaco, ma poco chiaro era il perché potessero avere esiti così diversi.

Il battito del cuore è il risultato di un processo di accoppiamento elettromeccanico. Più specificamente, gli impulsi elettrici cardiaci sono generati dalle cellule pacemaker (site nei nodi senoatriale, in primis, e atrioventricolare) il cui nome deriva dal fatto che sviluppano spontaneamente la depolarizzazione che sfocia poi nel potenziale d'azione trasmesso ai muscoli per indurre la contrazione del cuore. Il sistema nervoso autonomo agisce poi da regolatore (positivo o negativo) sul ritmo e potenza mediante il nervo vago e il nervo cardiaco, ma l'innesco è assolutamente indipendente da centri di controllo esterni al cuore.
La depolarizzazione inizia in una regione di tessuto specializzato dell'atrio destro detta nodo seno atriale (SA). L'onda    di depolarizzazione si propaga, poi, alle circostanti fibre muscolari atriali. Dopo un certo tempo (0,12-0,2 secondi)  l'onda di depolarizzazione raggiunge una seconda zona specializzata nell'atrio destro (nodo atrio ventricolare - AV) e da lì lungo il fascio di His prima e le fibre di Purkinje poi, si propaga alle altre zone. Importante sottolineare che esistono altre aree sede di cellule pacemaker che intervengono in casi di malfunzionamenti del SA in modo da fare "partire" il battito. Le prime tuttavia sono dominanti (image credit: A. Cork via gfycat)
Ad ogni contrazione, il sangue viene espulso in modo ordinato (contraendo prima l'atrio fino al riempimento del ventricolo e da lì alle arterie) garantendo in tal modo una circolazione unidirezionale.
L'accoppiamento dell'impulso elettrico alla contrazione muscolare è il punto cruciale perché è questo che fa battere il cuore ad un ritmo regolare.

L'ipotesi più accreditata è che l'effetto potenzialmente fatale di un colpo al petto sia la conseguenza  di subitanee alterazioni tensorie del muscolo che interferiscono con la propagazione dell'impulso elettrico, causando quindi l'interruzione del battito cardiaco (o all'opposto un reset nel caso di una aritmia, che è una contrazione anomala del tessuto cardiaco) .

Ipotesi rimasta tale finora per la mancanza di dispositivi capaci di riprodurre in test di laboratorio tensioni indotte sul cuore e quantificarne poi l'effetto.
Una mancanza colmata da ricercatori dell'università di Berna e della EPFL che hanno sviluppato un dispositivo che consente agli scienziati di lavorare su sezioni di cellule cardiaco prelevate da ratti modificati, osservandone la risposta elettrofisiologica ad una serie di alterazioni/deformazioni dinamiche.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications.

Il dispositivo consta di una sottile membrana elastica in silicone, in cui sono integrati elettrodi in oro e carbonio, capace di indurre sezioni di tessuto cardiaco in coltura ad alterazioni che mimano quelle successive ad un impatto sul torace. Gli elettrodi di carbonio producono la tensione nel tessuto cardiaco mentre quelli  d'oro misurano la risposta elettrofisiologica cellulare.

Contrariamente a quanto si pensava, i ricercatori hanno scoperto che l'induzione di tensioni tissutali anche molto rapide non avevano un effetto rilevante sulla propagazione degli impulsi elettrici. Un dato che fa sorgere la possibilità che l'effetto letale di un colpo al cuore NON sia a carico della componente muscolare ma delle adiacenti cellule del tessuto connettivo (--> QUI per approfondire la parte istologica). Il che impone di ricalibrare gli approcci diagnostici su un bersaglio diverso da quello finora preso a riferimento.

Il lavoro è un esempio di come in ambito scientifico un risultato apparentemente negativo è nondimeno importante perché permette di rimodulare la teoria e così avanzare nella conoscenza.

Fonte
- High-speed mechano-active multielectrode array for investigating rapid stretch effects on cardiac tissue
N. Imboden et al, Nature Communication (2019) 10, Article number: 834




Il disgelo si sente anche in Antartide. Una nave va ad esplorare ecosistemi nascosti

I misteri di un ecosistema antartico rimasto "al buio" per centomila anni.

Torniamo in Antartide per raccontare di una missione di esplorazione biologica appena conclusa.
La missione, denominata Polarstern e iniziata alla fine di febbraio, era finalizzata ad esplorare un ecosistema marino rimasto nascosto dal sole, sotto la coltre dei ghiacci, per oltre 100 mila anni.

Il progetto nasce nel luglio 2017 dopo il distacco di un gigantesco iceberg dalla banchisa presso Larsen C, parte della Terra di Graham nel nord-est dell'Antartide, e la conseguente comparsa di una vasta area dell'oceano pericontinentale rimasta per millenni nell'oscurità sotto il ghiaccio.
video

Una opportunità molto interessante per i biologi in quanto apre una finestra sulle strategie  evolutive.
L'ecosistema che ha prosperato nel buio per secoli potrebbe infatti cambiare in modo significativo nel giro di pochi anni quando le nuove specie colonizzeranno l'area. Uno dei modi per rilevare se e quali cambiamenti siano già occorsi nei mesi successivi al distacco è quello della analisi isotopica nei tessuti di gasteropodi e bivalvi. Ma per farlo bisogna andare sul luogo e, paradossalmente, è molto più semplice raggiungere il polo (o fare l'attraversamento a piedi di cui ho parlato settimane fa) che raggiungere una zona periferica ma altamente dinamica come quella in cui è avvenuto il distacco dell'iceberg.
Il mega-iceberg qualche settimana dopo il distacco (credit: earthobservatory.nasa.gov)

Il tentativo più recente è stato fatto dalla rompighiaccio tedesca Polarstern, partita a febbraio dalle coste cilene.
Prima della Polarstern altre due navi hanno tentato di raggiungere il sito. Il primo tentativo, britannico, fallì a causa dell'impossibilità di procedere dopo avere incontrato lastre di ghiaccio di 5 metri di spessore. All'inizio anno (quindi in piena "estate" australe) il secondo tentativo a bordo di una nave sudafricana che decise prudentemente di ancorarsi a circa 200 chilometri a nord dal bersaglio e di iniziare lì le misurazioni dei fondali man mano che ci cercava di avvicinarsi al bersaglio. Le condizioni del mare ghiacciato e la decisione di dare priorità ad altri obiettivi hanno fatto abortire anche questo tentativo.
(credit: Stefanie Arndt, AWI, via dlr.de)
Si arriva quindi alla missione del Polarstern che possiamo oggi suddividere in tre fasi.
Il mega-iceberg (credit: express.co.uk) 

Nella prima prima parte ci fu il tentativo di raggiungere l'area in cui si era staccato l'iceberg. Tentativo interrotto il 3 marzo per l'impossibilità di procedere anche per vie alternative (come il procedere "sul" ghiaccio) a causa dell'alternanza di aree di fanghiglia ghiacciata a giganteschi blocchi di ghiaccio. Da quel momento iniziò la seconda  opzione reimpostando la rotta verso nord per eseguire campionamenti nel Mare di Weddell. Missione conclusa dopo avere raggiunto e superato l'isola di Rosamel, uscendo così dal mare di Weddell. La terza fase ha visto la raccolta di campioni e lo scandaglio dei fondali (grazie ad un veicolo subacqueo teleguidato) nel bacino di Powell, completata nella prima settimana di aprile quando la nave ha iniziato il viaggio di ritorno verso Punta Arenas.
La missione Polarstern da Punta Arenas alle coste Antartiche
(credit:Alfred-Wegener-Institut)

Una missione solo parzialmente riuscita ma che ben evidenzia i problemi dell'esplorazione antartica ancora oggi presenti.

Fonte


Uva nel microonde e lampi al plasma

Il bagliore degli acini d'uva nel microonde

Non siamo nella rubrica "strano ma vero" ma poco ci manca se consideriamo il dilemma teorico affrontato da alcuni ricercatori.

La sfida che si erano posti era di dare una risposta corretta, da un punto di vista fisico, al fenomeno per cui due acini d'uva nel microonde emettono un gas brillante durante l'irraggiamento.
(credit: HK. Khattak --> foto originale)

Non chiedetemi per quale ragione qualcuno abbia pensato di cuocere dell'uva al microonde, un trucchetto magari lanciato da qualche seguace di trasmissioni come MasterChef. Comunque sia, sembra che in rete molte persone si siano "divertite" a riprodurre il fenomeno dando poi spiegazioni più o meno sensate.
AVVERTENZA. Un esperimento da NON fare a casa perché danneggia le pareti del forno a microonde
Il fenomeno si presenta sia con due acini fianco a fianco che quando un acino viene diviso quasi completamente in due parti. Una volta acceso il microonde si creerà un getto di gas brillante (verosimilmente plasma, cioè gas ionizzato) nel punto di contatto.

(se non vedi il video --> youtube). Se preferite un video più dettagliato, eccone uno da un nerd di cose scientifiche --> youtube/veritasium

La spiegazione finora accreditata era che i due acini (o le due metà) fungessero da antenna capace di intercettare la frequenza delle microonde. Poiché la cuticola umida è altamente conduttiva,  si ha passaggio di corrente lungo la superficie e tra le due "antenne", come un ponte.

Una spiegazione non condivisa da Aaron Slepkov della Trent University in Canada che si è messo a studiare il fenomeno in diverse condizioni, tra cui quella in cui ha rimosso l'ipotetica superficie conduttiva, cioè la cuticola dell'acino. Grazie a rilevazioni termiche (termografia) e a simulazioni al computer la causa del fenomeno è stata attribuita non all'effetto antenna ma alla formazione di una cavità che assorbe e focalizza la radiazione a microonde, concentrandola in un hotspot nel punto in cui le metà si toccano o sono molto vicine (entro 3 mm).

In queste condizioni le microonde rimbalzano avanti e indietro nel piccolo spazio separatore, creando un campo elettromagnetico sempre più potente. Questo continua fino a quando il campo diventa così potente da ionizzare gli atomi di potassio e sodio presenti, da cui il getto di plasma infuocato.

Gli autori affermano che con i giusti materiali la tecnica potrebbe un giorno essere usata per intrappolare e concentrare le lunghezze d'onda della luce visibile così da usarla per una microscopia (futuribile) ottica su scala nanometrica.

Il lavoro è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).


Fonte
- Linking plasma formation in grapes to microwave resonances of aqueous dimers.
HK. Khattak et al, PNAS March 5, 2019 116 (10) 4000-4005






"Pannelli solari" sui lieviti per aumentarne la produttività

Microorganismi geneticamente modificati sono da tempo usati come fabbriche viventi per produrre farmaci e prodotti chimici di qualità. 
Tra le innovazioni metodologiche degli ultimi anni, di particolare interesse è quella che ha visto l'unione tra la capacità produttiva dei batteri e la tecnologia dei semiconduttori. L'obiettivo ultimo era quello di mutuare la funzione dei pannelli solari sul tetto di una casa, cioè la cattura dell'energia della luce, per alimentare la "fabbrica-batterio".
La trasformazione dell'energia elettromagnetica (luce) in energia chimica non è ovviamente una invenzione umana. Il "brevetto" appartiene agli organismi fotosintetici (dalle alghe verdi unicellulari alle piante) che usano l'energia luminosa per avviare un processo di riduzione (cioè il trasferimento di elettroni verso una molecola) che fornisce l'energia chimica per l'assemblaggio dei mattoni di carbonio (disponibili come CO2) e dell'acqua in molecole complesse come gli zuccheri (dal glucosio alla lignina) e molto altro. 
I primi sistemi ibridi biologici-inorganici (bioibridi), focalizzati sulla fissazione della CO2 atmosferica e la produzione di energie alternative, sebbene promettenti, presentavano punti critici che tuttavia sono stati il punto di partenza per altre innovazioni. Ad esempio nel processo di fissazione della CO2 mediata da semiconduttori, emergeva sia il problema della tossicità da metalli per la cellula batterica, che la gamma tutto sommato ridotta di prodotti sintetizzabili. Per sfruttare al meglio la tecnologia si doveva passare a microorganismi resistenti e con un metabolismo più complesso (utilizzabile per sintetizzare una gamma di composti più ampia) e che fossero allo stesso tempo facili da maneggiare in laboratorio e crescere in un bioreattore.

Una "evoluzione" che ha dato ora i primi risultati, frutto di un lavoro di un team di Harvard pubblicato sulla rivista Science
I ricercatori hanno scelto come microbo-fabbrica il lievito - un organismo già ampiamente usato su scala industriale e che è geneticamente facile da manipolare - "montando" sulle sue cellule dei semiconduttori capaci di fornire energia biochimica alla macchina metabolica del lievito senza però essere tossico.

Scopo della ricerca era massimizzare la capacità dei lieviti di produrre acido shikimico, un precursore di vari farmaci (tra cui l'antivirale Tamiflu).
Acido shikimico (credit: wikiwand)

Il lievito (Saccharomyces cerevisiae) ha una capacità intrinseca di produrre acido shikimico che usa come punto di partenza per la sintesi di elementi essenziali come proteine e altre biomolecole. In una prima fase i ricercatori hanno reso più efficiente il processo, aumentando il "rifornimento" di atomi di carbonio (derivanti dal metabolismo degli zuccheri) nel processo di sintesi della molecola, dirottati da altre vie metaboliche parallele.
Il procedimento funzionava ma presentava un problema tecnico importante. L'effetto positivo dello storno del flusso di carbonio dalle "altre" vie metaboliche andava a scapito dei processi che fornivano l'energia necessaria alla parte finale del processo di sintesi. Quindi il processo era si più efficiente nella gestione del carbonio ma creava un collo di bottiglia nell'energia disponibile (sotto forma di NADPH, molecola "depositaria" di energia chimica, essenziale per i processi anabolici) per portare a termine il processo.

La soluzione è venuta sfruttando l'approccio biobrido, basato sui semiconduttori, precedentemente testato sui batteri. In pratica è come se sulla parte esterna della cellula del lievito fossero state montati dei "pannelli solari", capaci di convertire la luce in un flusso di elettroni che veniva infine "scaricato" nella produzione di NADPH. 

La scelta del semiconduttore è caduta sul fosfuro di indio assemblato perché divenisse modulare (quindi scalabile) e soprattutto non tossico per il lievito. Per farlo i ricercatori hanno rivestito le nanoparticelle di fosfuro di indio con una "colla" naturale a base di polifenoli, cosa che ha permesso da una parte di "attaccare" le nanoparticelle alla parete cellulare e dall'altra di schermare le cellule dalla tossicità del metallo.
Quando vengono esposte alla luce, le nanoparticelle raccolgono gli elettroni indotti dai fotoni e li girano nel citoplasma delle cellule di lievito, dove vengono incamerati come energia chimica in NADPH, utilizzabili nella biosintesi dell'acido shikimico, processo ora non più bloccato dal collo di bottiglia a valle.
L'immagine in falsi colori al microscopio elettronico di una cellula di lievito modificata. In viola sono le nanoparticelle di semiconduttore (Credit: Wyss Institute at Harvard University)

Al buio le cellule del bioibrido di lievito hanno un metabolismo standard con la produzione di molecole organiche semplici come glicerolo ed etanolo. Una volta esposte alla luce il surplus di energia le fa passare in automatico e rapidamente alla produzione dell'acido shikimico con un aumento di 11 volte nella produzione.


L'approccio è scalabile e crea uno spazio di design completamente nuovo per le future tecnologie bioibride.

Video con la descrizione del lavoro
Light-driven fine chemical production in yeast biohybrids from Wyss Institute on Vimeo.



Fonte
- Light-driven fine chemical production in yeast biohybrids
J. Guo et al, Science  (11/2018): 362(6416), pp. 813-816

-Solar panels for yeast cell biofactories
wyss.harvard.edu / news

I Bajau e la genetica dell'apnea

Gli umani sono gli unici mammiferi ad aver colonizzato tutti gli ambienti della Terra, compresi quelli più estremi. Dalle catene montuose ai deserti, dalle zone dove il ghiaccio regno sovrano fino alle remote isole del Pacifico, nulla è rimasto disabitato.
Vero che i sapiens a differenza di altri animali hanno evoluto la capacità cognitiva di escogitare soluzioni alle sfide ambientali (vestiario, strumenti di caccia, abitazioni, ...) ma la proattività umana si innesta sulla biologia cioè sulla selezione operata dall'evoluzione da cui emergono (nell'arco di centinaia di generazioni)  gli individui con le varianti genetiche più adatte ad un dato ambiente. Esempi oramai classici sono quelli degli Inuit le cui ghiandole sudoripare si concentrano sul volto o i tibetani in grado di vivere senza problemi ad alta quota (vedi articolo precedente --> "Tibetani e geni denisovani").
Gli adattamenti ad ambienti estremi sono da tempo oggetto di ricerche sia per le informazioni che possono dare sulla fisiologia che per le implicazioni terapeutiche.
Gli effetti dell'ipossia ipossica (carenza di ossigeno nel sangue) e della depressione barometrica (che rende più difficile lo scambio dei gas a livello alveoare) sono di particolare interesse in campo medico per la terapia intensiva e la tumorigenesi, giusto per citare due campi di immediato impatto.
Se nel caso dei tibetani (o degli abitanti delle Ande) l'adattamento è legato alla vita in un ambiente naturalmente ipobarico, nel caso del popolo Bajau l'adattamento è una conseguenza di un particolare stile di vita.
I Bajau (noti anche come nomadi del mare) vivono da quasi 1000 anni una vita "sulle onde" dei mari del sud est asiatico grazie alle loro case galleggianti. Sono un popolo di cacciatori-raccoglitori marini che per trovare il cibo passa gran parte della giornata in acqua (di cui cumulativamente circa 5 ore al giorno sott'acqua) con immersioni in apnea fino a 70 metri! Attività che svolgono con null'altro che una serie di pesi per facilitare le immersioni e degli occhialini di legno.

Lo stile di vita unico del Bajau è un mix di adattamenti culturali e di innovazioni tecniche (ma preindustriali) su un substrato di adattamenti fisiologici alla ripetuta ipossia da immersione.
Foto: James Morgan via matadornetwork.com
La risposta fisiologica all'ipossia negli umani non è diversa da quella di altri mammiferi acquatici. Due le componenti principali: una risposta indotta dall'apnea e una dal contatto della faccia con l'acqua fredda. Gli effetti fisiologici includono la bradicardia (che riduce il consumo di ossigeno), la vasocostrizione periferica (che ridistribuisce selettivamente il flusso di sangue agli organi più sensibili all'ipossia) e la contrazione della milza, che inietta un surplus di globuli rossi ossigenati nel sistema circolatorio. Il coinvolgimento della milza quando, sotto sforzo, si va in carenza di ossigeno, fu studiata la prima volta negli Ama, i pescatori di perle giapponesi; uno studio che evidenziò l coinvolgimento adattativo di un recettore adrenergico.
Una singola contrazione splenica mette in circolo 160 ml di globuli rossi, e con essi l'emoglobina. Il risultato è un aumento dell'ossigeno trasportato tra il 3 e il 9%. La contrazione permette così di prolungare il tempo di apnea. Una conferma indiretta viene dalle foche in cui è nota una correlazione positiva tra il tempo di immersione massimo e la massa della milza.
Quello che mancava negli studi precedenti era la parte genetica cioè la identificazione delle varianti alleliche in grado di fornire un legame tra dimensione della milza e resistenza all'apnea. 
L'unico studio che conosco in materia è quello su una variante del gene BDKRB2 capace di influenzare direttamente la risposta all'immersione agendo sulla vasocostrizione periferica. 

Il gap informativo è stato riempito alcune settimane fa con la pubblicazione sulla importante rivista Cell, di uno studio genetico sul popolo Bajau. 
In estrema sintesi tra i molti geni analizzati,  quello ad avere un ruolo centrale (attraverso le sue varianti) nell'adattamento alle immersioni in apnea è PDE10A. Tecnicamente il gene codifica per un enzima con attività fosfodiesterasica, in concreto la variante diffusa tra i Bajau produce un effetto a cascata che ha ripercussioni sulla dimensione della milza e sulla funzione tiroidea.
La tiroide è un attore importante in quanto i suoi ormoni regolano la normale eritropoiesi (la produzione di globuli rossi).
Il maggior volume splenico osservato nei Bajau potrebbe anche essere un epifenomeno legato alla maggior produzione di cellule eritrocitarie. 
Riassumendo, il particolare genotipo selezionato nei Bajau potrebbe dare il vantaggio di una maggior quantità di cellule ossigenate e di un "serbatoio" (la milza) più grande in cui stoccarle. In alternativa il maggior volume della milza sarebbe solo un effetto secondario del maggior volume cellulare.
Indipendentemente da quale sia la relazione causale il cambiamento fisiologico ha fornito un adattamento funzionale alle condizioni di ipossia acuta.
Una selezione che si potrebbe definire "quasi" lamarckiana, se mi passate il termine, se vista come risposta adattativa ad uno stile di vita continuativo. In realtà è vero l'opposto cioè solo i soggetti "adatti" hanno potuto "perseverare" in uno stile di vita che aveva nella caccia subacquea l'unico sostentamento; quindi i non adatti sono stati semplicemente contro-selezionati.
Vale la pena sottolineare che gli alleli "identificati" nei Bajau non sono specifici per quella popolazione ma sono presenti, con diversa frequenza, in altre popolazioni (come è il caso degli alleli per PDE10A e BDKRB2). Solo la variante del gene FAM178B (un gene che agisce sulla regolazione del livello ematico della CO2) sembra avere una ascendenza nei denisovani come visto in altri geni nel caso dei tibetani. 
I Bajau hanno semplicemente "raccolto" le varianti genetiche preesistenti che meglio conferivano un adattamento al loro stile di vita. 
L'importanza di questi studi è oggi ancora più importante e urgente, in un mondo sempre più omogeneizzato che porta con sé la perdita delle connotazioni genetiche di popolazioni rimaste a lungo "isolate".
Una ricchezza sia umana che scientifica spazzata via dalla globalizzazione.

Fonte
- Physiological and Genetic Adaptations to Diving in Sea Nomads
Melissa A. Ilardo et al, (2019) Cell 173, 569-580




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