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Da chi vede Elvis in una patatina a chi scorge occhi su un pallone

[aggiornato 13-02-22]
Esempio di pareidolia su una roccia delle Coast Mountains (BC, CA)


Tempo fa scrissi sul blog l'articolo "C'è chi vede Elvis in una patatina e chi Gesù in un toast", un titolo curioso molto apprezzato dai lettori (magari rileggetelo prima di andare avanti).

Chi vuole vedere un gigante
nella roccia, lo vedrà.
Lungi dall'essere la descrizione di novelli mistici (in fondo Elvis è considerato un Messia da un folto numero di fan) il tema centrale che si voleva sottolineare era la tendenza del cervello umano ad operare, "catalogando" gli input sensoriali; un processo questo che velocizza enormemente il processamento sensoriale ma che può portare a svarioni percettivi (come appunto la pareidolia).
Nella stragrande maggioranza dei casi questi errori di catalogazione sono immediatamente percepiti come tali dalla nostra attività corticale, che rielabora la precedente  percezione "un drago nel cielo" in "che strana quella nuvola. Sembra quasi un drago".
Le infinite forme assunte dalle nuvole
Ci sono tuttavia molti casi in cui tale "modulazione" non avviene.
Al netto dei casi patologici dove la errata percezione è frutto di allucinazioni visivo-uditive, è sufficiente il retroterra culturale e religioso perché la percezione "distorta" compaia e si auto-rafforzi nelle persone. Pensare in termini "quella nuvola mi sembra un drago e come tale è un segno di sventura" non sarebbe stato insolito per un cristiano del medioevo mentre il suo contemporaneo cinese dell'era Ming, avrebbe pensato all'opposto in un segno benaugurante.
Esempi come questi sono disponibili in infinite varianti a seconda della declinazione culturale del divino nella persona in esame.

Vedere un segno divino, un drago o la propria amata in una nuvola non dipende ovviamente né dalla nuvola né dalla nostra retina ma dal processamento cerebrale post sensoriale, particolarmente importante negli umani grazie alla presenza della neocorteccia.
Un cane non "vede" un fiore o una nuvola, sebbene sia perfettamente in grado di osservarli e metterli a fuoco; si tratta di realtà "viste ma non percepite consciamente" in quanto non appartenenti a cataloghi sensoriali in grado di attivare la loro attenzione. Se non sono "visti" di fatto "non esistono" nel loro mondo percettivo.
Oltre ai casi "faceti" (Elvis) e a quelli "condizionati" dal retroterra culturale, entrambi accomunati dalla "volontà" di vedere forme familiari, ci sono purtroppo situazioni in cui questa percezione anomala è cronica ed è causa del deterioramento della qualità della vita di chi ne soffre. Pensiamo ad esempio a chi soffre di schizofrenia, una patologia che può associarsi ad una visione distorta della realtà percepita con volti minacciosi o "voci" persistenti.
Un particolare caso (sebbene benigno nelle conseguenze) di un corto circuito tra la visione di un volto e il suo riconoscimento è la prosopagnosia, una patologia percettiva di cui soffriva lo stesso Oliver Sacks. Il compianto neurologo scoprì di soffrirne solo in età adulta; si era reso infatti conto che fino ad allora il suo cervello era riuscito ad eludere il problema di associare un volto ad una persona grazie a trucchetti automatici inconsci come la voce, odori, situazioni, etc. Ricordo che la prosopagnosia colpisce unicamente il passaggio tra visione di un volto e il suo riconoscimento; tutto il resto (qualità visiva, riconoscimento ambientale, di oggetti o degli elementi costituenti il volto come naso, occhi,...) è assolutamente normale.
Credit to the original poster
Sono tornato con il pensiero a questi temi dopo avere letto pochi giorni fa un report in cui si descriveva la capacità di modificare sperimentalmente la percezione visiva di un soggetto, grazie alla stimolazione di particolari aree del cervello. L'individuo "stimolato" vedeva comparire "volti" su oggetti inanimati oppure volti reali distorcersi come immagini di un "cartone animato".

L'articolo, pubblicato sulla rivista PNAS da Gerwin Schalk del MIT,  è centrato su test condotti su un giapponese di 26 anni affetto da epilessia refrattaria ai trattamenti farmacologici standard (una malattia che in altri tempi, nemmeno tanto lontani, avrebbero portato all'aura di misticismo o all'accusa di essere indemoniato). Il soggetto, consapevole della malattia e soprattutto della importanza di indagare le aree cerebrali coinvolte per disegnare nuove terapie, accettò di sottoporsi ad un mappaggio dell'attività cerebrale allo scopo di identificare le aree a funzionalità anomala. Durante i test si accorse di avere strane allucinazioni consistenti nella comparsa di parti di un volto su oggetti di uso quotidiano, quali un pallone da calcio o una scatola.
Per descrivere il fenomeno della visione di volti laddove non esistono i ricercatori hanno coniato la parola "facephenes".
Nota. La traduzione in italiano potrebbe essere visusfeni, basata su "visus", per indicare le caratteristiche identificative di un volto, e -feni (da ϕαίνομαι, "sembrare" in greco); allo stesso modo acufene è il termine comunemente usato per indicare false percezioni uditive. Userò per semplicità la versione originale facephene.
Mappare l'attività cerebrale mediante elettrodi (capaci di rilevare e/o di stimolare l'attività neuronale) posizionati sulla cute del cuoio capelluto è pratica comune nel processo di identificazione di anomalie "elettriche" cerebrali. Nel caso in esame i ricercatori decisero di includere nello studio la circonvoluzione fusiforme, e in particolare una sua sotto-regione nota come fusiform face area
Le due FFA negli esseri umani
(credit:CC BY-SA 2.1 jp)
(FFA), che si ritiene svolga un ruolo chiave nella percezione dei volti (ipotesi fondata sia su dati clinici che su studi su primati).

Durante la stimolazione di alcune aree all'interno della FFA sinistra il paziente dichiarò di vedere comparire immagini fugaci di volti (o parti di volti) su oggetti preesistenti, privi per il resto di alcuna caratteristica facilitante l'associazione ad un volto.
Il fenomeno si verificava unicamente quando il paziente fissava attentamente un oggetto; per converso la stimolazione del FFA non era mai in grado di fare comparire un volto dal nulla ma solo sulla "tavolozza" rappresentata da un oggetto.
La trascrizione dei commenti del paziente durante i test condensa bene quando detto ed evidenzia anche l'importanza del retroterra culturale data la sua tendenza ad associare quanto percepito ai fumetti/anime, molto in voga in Giappone
Test 1. Stimolazione quando il soggetto guarda una scatola.
     Paziente: "Non cambia molto. Ma per un istante, all'inizio, ho visto un occhio, un occhio e una bocca un poco aperta. Ho iniziato a pensare che cos'è questa cosa? Subito dopo mi sono accorto che stavo solo guardando una scatola"

Test 2. Stimolazione guardando una palla
     Paziente: "Come posso spiegarlo? ... Proprio come il precedente, vedo un occhio, un occhio e una bocca, di lato".
     Sperimentatore: "Che tipo di espressione aveva?"
    Paziente: "Proprio ora? Qual'è quel personaggio dei cartoni animati? ... Non so quale esattamente ma una sorta di personaggio dei cartoni animati."

Test 3. Stimolazione guardando lo sperimentatore
     Paziente: "la tua espressione facciale è cambiata!"
     Sperimentatore: "in che cosa?"
    Paziente: "qualcosa tra i tuoi occhi e la tua bocca. La la tua faccia mi sembra quella di un personaggio degli anime".
Credit: Schalke et al. (2017) via discovermagazine.com
Ad oggi gli unici dati che avevano fornito informazioni sulla localizzazione dei circuiti neuronali coinvolti nel riconoscimento dei volti erano di tipo clinico, basati sulla correlazione tra presenza di aree lesionate (a causa di traumi o patologie) e sintomatologia. I dati attuali sono importanti in quanto indicano in modo diretto che non solo la FFA è importante ma che è di per sé sufficiente ad evocare la percezione di un volto. Si passa dalla nozione che la FFA è necessaria a quella che è sufficiente perché la percezione di un volto avvenga.
Quindi il nesso causale sulla FFA sede del processo (e non un punto di passaggio) ne esce rafforzato.
Certamente si tratta di uno studio estremamente limitato che dovrà essere ripetuto includendo volontari sani.

Ci sono però da considerare alcuni dettagli.
  • Uno studio precedente del 2012 (Parvizi et al.) è solo parzialmente in accordo con quanto ora osservato; si menzionava infatti l'effetto sulla percezione dei volti dopo la stimolazione del FFA mentre non si faceva alcuna menzione del fenomeno facephenes. La discrepanza potrebbe essere di natura procedurale (posizionamento elettrodi non identico) o potrebbe fare pensare che solo alcuni soggetti sono predisposti alle facephenes.
  • Dalla lettura dell'articolo mi rimane il dubbio se il paziente vede il facephene "dentro" gli oggetti (che diventerebbero quindi oggetti con facce) oppure "sopra" gli oggetti. La descrizione vaga riportata dai pazienti non aiuta anche perché potrebbe esserci un problema di traduzione. Ovviamente il paziente parla con il medico in giapponese e le sue parole sono poi tradotte in inglese. Nell'espressione originale potrebbero esserci sfumature semantiche poi perse con una traduzione da parte del medico poco accurata.

*** Aggiornamento febbraio 2022 ***
Strano ma vero.
Uno studio recente ha mostrato che c'è una tendenza marcata (indipendentemente dal sesso dell'osservatore) a vedere facce maschili negli oggetti

Lo studio, apparso su PNAS e condotto da un team australiano, ha analizzato come le facce (di per sé totalmente neutre in quanto non create appositamente) possano veicolare sensazioni emotive e perfino "anagrafiche" (età, sesso e status) di ciò che viene visto.
L'esperimento, condotto online, ha coinvolto 3815 persone a cui sono state mostrate 200 foto di oggetti capaci di innescare la pareidolia. Ai partecipanti è stato chiesto di assegnare alle immagini una valutazione da 0 a 10 circa la presenza di un volto e altri parametri come la presenza di emozione sul volto, l'età percepita e il sesso (maschio, femmina o neutro).
Nella maggior parte dei casi i volti sono stati percepiti come giovanili (bambini o al più adolescenti) mentre la parte "emotiva" è stata più variegata con il 34% delle immagini percepite come felici, il 19% sorprese, il 19% neutre e il 14% arrabbiate. Percentuali inferiori indicavano nei volti segni di tristezza, paura o disgusto.
Ma il risultato che che ha catturato l'attenzione dei ricercatori è stato che la massiccia associazione (90%) dei volti con il genere maschile (9% femminile e 1% neutra).
 (Image credit: Wardle et al., PNAS, 2022)


I pregiudizi percettivi sono in verità molto comuni e sono il risultato di come il cervello processa le informazioni, usando scorciatoie per minimizzare e velocizzare l'analisi. Ma se la percezione "analitica" del messaggio veicolato dal volto è facilmente spiegabile, non così facile era spiegare la netta mascolinizzazione dei volti fittizi.
Per capirlo sono stati fatti vari test. In primis si è verificato se il pregiudizio fosse causato da associazioni semantiche di genere, dovute ai nomi degli oggetti o agli oggetti stessi che sembravano visivamente maschili. In seconda battuta sono state riproposte le immagini, ma in scala di grigi, per vedere se erano i colori a veicolare "il genere".
Risposta negativa in entrambi i casi.
Passo successivo la creazione di volti "morfizzati" al computer in modo ambiguo per verificare se la risposta dei partecipanti rimaneva sempre spostata sul genere maschile (a denotare un bias innato). Nemmeno questo era il caso come dimostra la leggera preponderanza di volti percepiti come femminili. 
Infine si passati alla analisi al computer per verificare se la percezione maschile fosse guidata dalla preponderanza di negli oggetti di tratti "spigolosi" invece che smussati. Niente anche qui, sebbene le caratteristiche visive potevano spiegare parte della variabilità nelle risposte (ma non un "voto bulgaro" come il 90% di cui sopra).
Risultato è che ad oggi manca una chiara spiegazione del bias maschile. Rimane, in verità, una possibilità, cioè che derivi da un'origine concettuale o linguistica. La risposta non potrà che venire dall'analisi comparata di test fatti su campioni non anglofoni, la cui lingua sia priva ricca di connotati neutri nella descrizione degli oggetti


Articoli precedentemente apparsi sul blog e attinenti al tema qui trattato:
--> "200 neuroni sono sufficienti per identificare un volto"
--> "Identificata area del cervello che riconosce i bordi
--> "13 msec per catturare un immagine").
 --> "Vedere agli infrarossi


Fonte
-  Facephenes and rainbows: Causal evidence for functional and anatomical specificity of face and color processing in the human brain.
Schalk G. et al, Proc Natl Acad Sci U S A. 2017 Nov 14;114(46):12285-12290

- Electrical stimulation of human fusiform face-selective regions distorts face perception
Parvizi J. et al, J Neurosci. 2012 Oct 24; 32(43): 14915–14920

- Schalk's Lab

- Illusory faces are more likely to be perceived as male than female
Wardle et al., PNAS, 2022

Ripristinare, parzialmente, la vista grazie all'inserimento di proteine fotosensibili nella retina

Un uomo di 58 anni è tornato a vedere (qualcosa) dopo 40 anni di "buio" grazie alla terapia genica.
Non si tratta di una visione completa, limitata per ora al rilevare la presenza di oggetti su una superficie e che necessita di particolari occhiali, ma è un passo avanti sia rispetto alle condizioni di partenza che a alle attuali terapie.
Gli occhiali necessari per la visione insieme ad un "caschetto" per monitorare le aree cerebrali attivate
(Image credit: José-Alain Sahel et al via Nature Medicine)
La malattia causa della cecità acquisita è la retinite pigmentosa, una patologia ereditaria monogenica (anche se il numero di geni mutati causanti la malattia è di 71) che colpisce più di 2 milioni di persone a livello globale, il cui esito è sempre la morte delle cellule fotorecettrici della retina. Ad oggi l'unica terapia disponibile, limitata al caso in cui sia coinvolto il gene RPE65, prevede la sostituzione del gene mutato con la versione normale
 
Il nuovo approccio, portato avanti dalla GenSight Biologics e descritto su Nature Medicine, non "si cura" di quale sia la mutazione responsabile ma va direttamente a "mettere una toppa" al sistema, agendo a valle del difetto (la scomparsa di coni e bastoncelli nella retina) inserendo delle proteine fotosensibili nello strato gangliare (RGC) della retina nella zona della fovea.

I coni e bastoncelli sono le uniche cellule retiniche capaci di catturare la luce, il cui "segnale" viene poi trasferito attraverso una serie di altre cellule (tra cui quelle ganglioniche, che sebbene sia nella parte esterna della retina, quindi più esposte alla luce, non sono capaci di captare il segnale) prima di confluire nel nervo ottico. Per completezza ricordo che la luce provoca una iperpolarizzazione delle classiche cellule fotorecettrici e quindi un "blocco" del segnale; tuttavia essendo queste cellule inibitrici, lo spegnimento causa l'attivazione dei circuiti a valle (in parole semplici la luce toglie il "freno" al segnale che quindi può essere trasmesso).

Il dettaglio della struttura della retina. Le cellule in alto sono quelli che "fronteggiano" la luce e da cui emana il nervo ottico, quelle in basso le cellule interne con i fotorecettori. Evito qui di addentrarmi ulteriormente nella neurofisiologia della visione. Vi rimando ad articoli precedenti sul tema o ad altri siti divulgativi.

Il fine della procedura è rendere cellule per loro natura incapaci di rilevare la luce di farlo fornendo loro i sensori nella forma di proteine foto-eccitabili (ad una specifica lunghezza d'onda). Poiché queste cellule si trovano a valle del "danno" il segnale da esse generato potrà sfruttare le vie di comunicazione standard dell'apparato visivo, dal nervo ottico alle aree cerebrali preposte all'elaborazione del segnale. 

Nella realtà dei fatti il problema è più complesso sia per il numero ridotto delle cellule RGC (vedi sotto) che per il limite del tipo di lunghezza d'onda rilevabile rispetto a quelle presenti nella gamma del visibile. Da qui l'esigenza di usare appositi occhiali capaci di "convertire" la luce in entrata in una luce rilevabile dalle cellule portatrici dei fotorecettori artificiali.
La scelta di usare una proteina sensibile al rosso invece, ad esempio, del blu, è che l'energia associata è inferiore, una opzione più sicura per la cellula.
Il metodo, centrato sulla "consegna" del pacchetto informativo per creare la proteina fotorecettore, sfrutta un virus modificato, incapace di replicarsi, iniettato direttamente nell'occhio. Dopo circa 4 mesi, tempo necessario perché l'espressione della proteina nelle cellule infettate si normalizzi, si inizia la fase di training con gli occhiali che serviranno al paziente (o meglio al cervello del paziente) per imparare ad interpretare questo nuovo segnale che ha due problemi rispetto alla luce normale: è monocromatico e le cellule RGC capaci di rilevarlo sono nel migliore dei casi 100 volte inferiori rispetto a coni e bastoncelli (da qui un limite intrinseco nella risoluzione massima ottenibile).

Gli occhiali utilizzano una fotocamera che rileva i cambiamenti di contrasto e luminosità convertendoli in qualcosa di paragonabile ad una "notte stellata con punti colorati". Quando la luce di questi punti entra nell'occhio, attiva le nuove proteine fotosensibili con un effetto a cascata sulla polarizzazione della membrana che risulta in un segnale inviato al nervo ottico prima e alle aree cerebrali della visione dopo (vedi anche un precedente articolo).
Ci vogliono mesi di allenamenti prima che il cervello impari a "tradurre" i segnali rilevati; alla fine però il primo paziente testato è stato in grado di distinguere immagini ad alto contrasto, inclusi oggetti su un tavolo e le strisce bianche in un passaggio pedonale. Una conferma che si era sulla strada giusta è venuto da test dell'attività cerebrale fatti in contemporanea ai test visivi, che hanno dimostrato che la corteccia visiva reagiva all'immagine proposta nello stesso modo in cui un soggetto normale avrebbe risposto osservando lo stesso oggetto.
image credit: Institut de la vision via modernretina.com


Il recupero visivo (dal buio assoluto) è quindi intrinsecamente associato all'utilizzo degli occhiali. Siamo purtroppo ancora ben lontani dal "miracolo tecnologico" che ci mostrava Geordi La Forge in Star Trek, TNG.


A migliorare una notizia già di per sé positiva il dato che con il tempo le capacità visive continuano a migliorare, complice l'abilità del cervello di "imparare" a gestire i nuovi input sensoriali.

Ad oggi, oltre al soggetto descritto nell'articolo, sono 8 le persone trattate con la stessa tecnica, di cui però non sono ancora disponibili i risultati per ragioni legate alla pandemia. Come spiegato nei precedenti paragrafi il passaggio cruciale è imparare ad usare questi particolari occhiali con un lavoro svolto fianco a fianco degli sperimentatori. Il distanziamento sociale obbligatorio ha ritardato questa interazione posticipando così anche i risultati.

Nota positiva non secondaria è che il trattamento ha carattere permanente e non presenta controindicazioni  o fattori di rischio.

GenSight Biologics non è in verità l'unica azienda che sta sviluppando terapie basate sull'optogenetica per il trattamento di patologie retiniche (vedi anche articolo precedente).
Bionic Sight ha annunciato positivi risultati preliminari (recupero parziale della vista mediante un caschetto simile a quello usato da GenSight) in quattro su cinque persone trattate.
Novartis sta sviluppando una terapia basata su una proteina nettamente più sensibile alla luce da rendere gli occhiali (forse) non necessari.

Fonte
- Partial recovery of visual function in a blind patient after optogenetic therapy
Nature Medicine, maggio 2021



Articoli precedenti su temi correlati

Dopo la vernice "più nera di sempre" ecco il "super-bianco"

Poco più di un anno fa avevo segnalato lo sviluppo del prodotto più nero di sempre, che spruzzato su un oggetto era capace di assorbire il 99,995% dei fotoni incidenti, surclassando così il precedente primato del Vantablack®. Al lavoro portato avanti dai soliti geniacci del MIT hanno risposto, in modo complementare, i ricercatori della Purdue University con una vernice acrilica definita come il "bianco più bianco mai prodotto"  capace di riflettere il 95,5% della luce incidente.
La ricerca è stata pubblicata  qualche settimana fa sulla rivista Cell Reports Physical Science.
Nota. Per comodità del lettore riporto in calce alla presente il precedente articolo sul "super-nero". 
Non si tratta, come ovvio, della solita ricerca accademica utile per soddisfare l'interesse nerd degli scienziati, ma di prodotti che hanno importanti applicazioni pratiche. Nel caso del "super-bianco" il suo utilizzo aiuterebbe anche a combattere il riscaldamento globale.
X. Ruan & J. Peoples testano la capacità schermante
(credit: J. Pike/Purdue Un.)
 


Alcuni dettagli dei test condotti, usando il prodotto e verificando sia la riflessione che il calore assorbito
Credit: ScienceDirect


Obiettivo dichiarato dei ricercatori quello di ottenere una vernice utilizzabile per mantenere gli edifici più freschi e, con questo, minimizzare lo sforzo degli impianti di raffreddamento.
Per inciso ricordo che l'impianto di condizionamento non è (sempre) un vezzo degli umani contemporanei ma lo strumento che ha permesso di abitare tutto l'anno territori altrimenti proibitivi; uno su tutti l'ovest degli USA (vedi il bell'articolo su The Atlantic per gli USA o a livello globale l'articolo e mappa del The Guardian). 
Senza entrare troppo in dettagli chimici, si tratta di un materiale a base di carbonato di calcio, essenziale per le caratteristiche di riflettività, e a cascata di minor assorbimento di calore, assente nelle altre vernici bianche isolanti.
I dati parlano chiaro: le superfici verniciate con il "super-bianco" erano fino a 18 °C più fresche rispetto alle aree circostanti, il che rende perfino ipotizzabile fare a meno dell'area condizionata. La zona più ovvia in cui utilizzarlo sarebbero i tetti, con un risparmio nel consumo di energia stimato in 1 dollaro al giorno (molto di più da noi visto il costo dell'energia), massimizzando così i guadagni dell'utilizzo dei pannelli fotovoltaici, diffusi oramai nelle area ad alta insolazione nonostante la scarsa efficienza energetica.
Confronto tra la temperatura dell'area verniciata con il super-white (sinistra) e la classica vernice bianca
(Image credit: Purdue University image/Joseph Peoples)

L'utilizzo del carbonato di calcio presenta molteplici vantaggi: molecola di facile produzione; molto più economico del biossido di titanio usato nelle vernici in uso oggi (oltre che come additivo alimentare e nelle creme solari).

I ricercatori stanno ora cercando di sfruttare la capacità di "abbattimento del calore assorbito" utilizzando la stessa miscela con altri pigmenti (secondo i tecnici è fattibile anche diminuendo la "bianchezza") per soddisfare le preferenze estetiche di tutti, facilitandone la diffusione e massimizzando così l'impatto positivo sui consumi.

Video riassuntivo 
Se avete problemi di visualizzazione --> youtube



Fonte
- Full Daytime Sub-ambient Radiative Cooling in Commercial-like Paints with High Figure of Merit
X. Ruan & J. Peoples Volume 1, Issue 10, 21 October 2020, 100221
This white paint could reduce the need for air conditioning by keeping surfaces cooler than surroundings  
Purdue University /news

Nota. In natura il record di "bianchezza" va alla scaglie ultrasottili del coleottero Cyphochilus (foto C e D nell'immagine sotto) capaci di riflettere poco meno del 70% della luce incidente
All Credit to the Authors



**

Realizzato in laboratorio il materiale più nero del nero mai visto in natura (buchi neri esclusi).
** copia dell'articolo scritto il 19/09/19)**

Ricordo di avere letto per la prima volta del nero assoluto in un breve racconto di Jack London "L'ombra e il baleno", dove questo pigmento, capace di assorbire ogni radiazione nel visibile, permetteva di ottenere l'invisibilità dell'oggetto o corpo su cui fosse stato spruzzato.

Una teoria alquanto curiosa perché invece dell'invisibilità (per cui serve o il passaggio indisturbato dei fotoni o la loro curvatura attorno all'oggetto) il nero assoluto sarebbe semmai utile per mimetizzarsi in condizioni di scarsa luminosità e non in piena luce dove si apparirebbe come ... buchi neri ambulanti. A proposito di invisibilità potrebbe interessarvi l'articolo "la realtà del mantello dell'invisibilità di Harry Potter".
 Nota. Il buco nero è tale perché ogni cosa, luce compresa, che vi entra scompare nella singolarità. Nella vita quotidiana il colore di un oggetto è funzione della quantità (percentuale) e qualità (lunghezza d'onda) della luce incidente che viene riflessa (per approfondimenti vi rimando all'ottima sezione sul colore della Stanford University).
Ma possiamo perdonare al grande Jack London questo errore scientifico a fini narrativi.
La ricerca del nero assoluto è tuttavia una realtà, per fini che vedremo poi, con miglioramenti continui che sono culminati con quello che si riteneva il top cioè il Vantablack ®.
Non è photoshop ma l'effetto di spruzzare sulla statua il Vantablack. Se non vi basta, la BMW ha un modello, VBX6, con carrozzeria "nero assoluto". (image credit: Surrey NanoSystems via focus.it)

Verbo declinato al passato perché poco tempo fa i ricercatori del MIT hanno annunciato un nuovo materiale, ancora senza nome, che (parodiando il claim di Tim Cook) è "il più scuro di sempre" grazie alla sua capacità di assorbimento della luce superiore al 99,995 per cento contro il 99,96 per cento di Vantablack. Può sembrare un miglioramento esiziale visto che si parla di decimali ma traducendo in linguaggio semplice il nuovo materiale riflette 10 volte meno luce del Vantablack.

La composizione di questo nuovo materiale è, a grandi linee simile a quella del Vantablack (nanotubi di carbonio o CNT) con una particolare struttura e geometria (allineati verticalmente) che appaiono come microscopiche stringhe che svettano dalla superficie come una piccola foresta.
Come spesso avviene nella scienza, la scoperta è frutto del caso nel senso che la si è ottenuta mentre si cercava altro. Proprio qui sta la differenza tra uno scienziato ed uno che "si occupa di cose scientifiche"  cioè nella capacità di vedere oltre un risultato inatteso e comprenderne potenzialità al di fuori della ricerca in corso. Nello specifico i ricercatori stavano testando nuovi approcci per produrre CNT su materiali elettricamente conduttivi come l'alluminio; durante uno di questi esperimenti si resero conto che sul supporto di alluminio pretrattato per la reazione di sintesi (e già scuro di suo) il nero diventava via via "più nero". La conferma a questa sensazione visiva venne da test che mostrarono una assorbanza quasi assoluta.

Non è ben chiaro perché i CNT organizzati in tal modo siano così foto-assorbenti ma il risultato rimane.

Il nuovo nero da record è stato anche oggetto a New York di una installazione artistica, intitolata The Redemption of Vanity,  dell'artista del MIT Diemut Strebe. Un'opera invero già preziosa di suo se si pensa che l'oggetto è un diamante giallo naturale da 16,78 carati (valore 2 milioni di dollari) rivestito con il nuovo materiale: invece di apparire come una gemma brillante, scintillante e altamente riflettente appare come un vuoto senza luce.
Una spruzzata del nuovo materiale e la lucentezza del diamante scompare (immagino dato il costo dello stesso che sia facile da rimuovere ...). Credit: Diemut Strebe via MIT news

Quali applicazioni per il nero assoluto? Ad esempio nella strumentazione ottica (fotocamere, telescopi e perfino nei telescopi spaziali) in cui la rimozione di luce e bagliore ha un valore fondamentale.

La ricerca è stata pubblicata su ACS Applied Materials & Interfaces.

Nota di "colore" La gara per ottenere il prodotto più di nero è uscita dall'alveo accademico coinvolgendo gli artisti. L'artista Anish Kapoor possiede la licenza esclusiva per l'utilizzo di Vantablack; questo ha provocato la "risposta" di un altro artista, Stuart Semple, che ha sviluppato la sua linea di pigmenti e sta cercando di surclassare il collega rivale con una versione beta di Whiteest White che dichiara di riflettere il 99,6% della luce.

Fonti
-  MIT engineers develop “blackest black” material to date
MIT news

- Breakdown of Native Oxide Enables Multifunctional, Free-Form Carbon Nanotube–Metal Hierarchical Architectures
Kehang Cui & Brian L. Wardle, (2019) ACS Applied Materials & Interfaces.





Dal MIT il materiale più nero di sempre ... a parte i buchi neri

Realizzato in laboratorio il materiale più nero del nero mai visto in natura (buchi neri esclusi).

Ricordo di avere letto per la prima volta del nero assoluto in un breve racconto di Jack London "L'ombra e il baleno", dove questo pigmento, capace di assorbire ogni radiazione nel visibile, permetteva di ottenere l'invisibilità dell'oggetto o corpo su cui fosse stato spruzzato.

Una teoria alquanto curiosa perché invece dell'invisibilità (per cui serve o il passaggio indisturbato dei fotoni o la loro curvatura attorno all'oggetto) il nero assoluto sarebbe semmai utile per mimetizzarsi in condizioni di scarsa luminosità e non in piena luce dove si apparirebbe come ... buchi neri ambulanti. A proposito di invisibilità potrebbe interessarvi l'articolo "la realtà del mantello dell'invisibilità di Harry Potter".
Nota. Il buco nero è tale perché ogni cosa, luce compresa, che vi entra scompare nella singolarità. Nella vita quotidiana il colore di un oggetto è funzione della quantità (percentuale) e qualità (lunghezza d'onda) della luce incidente che viene riflessa (per approfondimenti vi rimando all'ottima sezione sul colore della Stanford University).
Ma possiamo perdonare al grande Jack London questo errore scientifico a fini narrativi.
La ricerca del nero assoluto è tuttavia una realtà, per fini che vedremo poi, con miglioramenti continui che sono culminati con quello che si riteneva il top cioè il Vantablack ®.
Non è photoshop ma l'effetto di spruzzare sulla statua il Vantablack. Se non vi basta, la BMW ha un modello, VBX6, con carrozzeria "nero assoluto". (image credit: Surrey NanoSystems via focus.it)

Verbo declinato al passato perché poco tempo fa i ricercatori del MIT hanno annunciato un nuovo materiale, ancora senza nome, che (parodiando il claim di Tim Cook) è "il più scuro di sempre" grazie alla sua capacità di assorbimento della luce superiore al 99,995 per cento contro il 99,96 per cento di Vantablack. Può sembrare un miglioramento esiziale visto che si parla di decimali ma traducendo in linguaggio semplice il nuovo materiale riflette 10 volte meno luce del Vantablack.

La composizione di questo nuovo materiale è, a grandi linee simile a quella del Vantablack (nanotubi di carbonio o CNT) con una particolare struttura e geometria (allineati verticalmente) che appaiono come microscopiche stringhe che svettano dalla superficie come una piccola foresta.
Come spesso avviene nella scienza, la scoperta è frutto del caso nel senso che la si è ottenuta mentre si cercava altro. Proprio qui sta la differenza tra uno scienziato ed uno che "si occupa di cose scientifiche", cioè nella capacità di vedere oltre un risultato inatteso e comprenderne potenzialità al di fuori della ricerca in corso. Nello specifico i ricercatori stavano testando nuovi approcci per produrre CNT su materiali elettricamente conduttivi come l'alluminio; durante uno di questi esperimenti si resero conto che sul supporto di alluminio pretrattato per la reazione di sintesi (e già scuro di suo) il nero diventava via via "più nero". La conferma a questa sensazione visiva venne da test che mostrarono una assorbanza quasi assoluta.

Non è ben chiaro perché i CNT organizzati in tal modo siano così foto-assorbenti ma il risultato rimane.

Il nuovo nero da record è stato anche oggetto a New York di una installazione artistica, intitolata The Redemption of Vanity,  dell'artista del MIT Diemut Strebe. Un'opera invero già preziosa di suo se si pensa che l'oggetto è un diamante giallo naturale da 16,78 carati (valore 2 milioni di dollari) rivestito con il nuovo materiale: invece di apparire come una gemma brillante, scintillante e altamente riflettente appare come un vuoto senza luce.
Una spruzzata del nuovo materiale e la lucentezza del diamante scompare (immagino dato il costo dello stesso che sia facile da rimuovere ...). Credit: Diemut Strebe via MIT news

Quali applicazioni per il nero assoluto? Ad esempio nella strumentazione ottica (fotocamere, telescopi e perfino nei telescopi spaziali) in cui la rimozione di luce e bagliore ha un valore fondamentale.

La ricerca è stata pubblicata su ACS Applied Materials & Interfaces.


Articolo successivo su tema correlato --> "Il super-bianco"



Fonti
-  MIT engineers develop “blackest black” material to date
MIT news

- Breakdown of Native Oxide Enables Multifunctional, Free-Form Carbon Nanotube–Metal Hierarchical Architectures
Kehang Cui & Brian L. Wardle, (2019) ACS Applied Materials & Interfaces.





Studiare la visione cromatica nei pesci con test comportamentali

"Come potete dire quali colori riesce a vedere un animale?"
Questa è una delle domande più frequenti che vengono poste ai ricercatori che abbiano anche solo di sfuggita avuto a che fare con la fisiologia della vista. Non è una domanda peregrina quella di capire come e cosa vedono gli animali, sia in riferimento ai dettagli ambientali che alla percezione cromatica.

La risposta è possibile grazie a due approcci tra loro complementari che potremmo chiamare "meccanicistico" e "comportamentale".
Nell'approccio meccanicistico si parte dalle caratteristiche strutturali (macro e cellulari) dell'occhio per dedurre cosa possa e cosa non possa "vedere" (acutezza visiva e sensibilità cromatica ad esempio) quell'animale.
I test comportamentali analizzano la capacità dell'animale di riconoscere oggetti, forme e colori associandoli ad una ricompensa (il sistema del reward è profondamente innestato nella biologia come guida alla sopravvivenza).
Nota.  Solo limitandoci allo studio della retina si può capire molto osservando l'abbondanza relativa di cellule come i coni e i bastoncelli. Mentre i bastoncelli sono più sensibili alla luce ma incapaci di distinguere diverse lunghezze d'onda, i coni sono la chiave per discriminare i colori a costo di una minore sensibilità. Un dato che spiega per quale motivo con il diminuire della luce i colori percepiti tendano a "scomparire". Inoltre la distribuzione di coni e bastoncelli non è uniforme con i coni che si trovano quasi esclusivamente vicino alla fovea. Anche questo un dato che spiega perché la nostra visione laterale sia sensibile (rilevi qualcosa "con la coda dell'occhio") ma poco dettagliata e "acromatica". Un animale notturno dovrà quindi avere un maggior numero bastoncelli di uno diurno oltre che sistemi per "amplificare" la poca luce disponibile (questa la ragione per cui gli occhi dei gatti, animali notturni, sembrano avere luce propria). Per ragioni simili, nel senso di funzionalmente efficienti, animali che si nutrono di frutta, come i primati, dovranno avere una capacità cromatica nettamente superiore a quella di un erbivoro. I coni si differenziano tra loro per il tipo di fotorecettore che funge da rilevatore della luce. Se noi e un certo numero di primati abbiamo tre tipi di fotorecettori, ciascuno con un picco di sensibilità per il rosso, verde e blu, altri animali ne hanno due (minore necessità di discriminazione cromatica) mentre altri (come molti uccelli) ne hanno quattro. Tra l'altro anche le api hanno una capacità tetracromatica con una sensibilità aggiuntiva per l'ultravioletto, cosa che permette loro di identificare chiaramente alcuni fiori che a noi apparirebbero molto simili ad altri "bluastri".
La sensibilità cromatica negli umani correlata ai tre tipi di coni e al singolo tipo di bastoncelli s
(credit: OpenStax College)
La sensibilità cromatica nelle api. Negli uccelli non è molto diverso --> QUI
La selezione evolutiva che spiega il passaggio da dicromia (maggior parte mammiferi) a tricromia (molti primati) si ritiene sia stata la conseguenza di una dieta più "fruttariana" che vegetariana, da cui la necessità di distinguere visivamente un frutto maturo da uno acerbo. (credit: American Museum of Natural History)
Ma un conto è la previsione (in effetti abbastanza accurata) mediante calcoli basati sulla tipologia, distribuzione e numero dei fotorecettori presenti negli occhi e un altro capire come questa informazione venga poi elaborata nel cervello e, cosa ancora più importante, capire come una registrazione di dati visivi apparentemente caotica venga poi rielaborata per cogliere aspetti come forme e come l'insieme di questi dati venga ricostruito in una immagine capace di "avere un senso" per l'animale (cosa molto diversa dalla nostra elaborazione corticale, alla base del comprendere il mondo), intesa come identificazione di ciò che è utile alla sua vita (dal cibo ad ostacoli sul terreno a predatori).
Per le tematiche attinente a riconoscimento forme e volti vi rimando a due articoli precedenti --> forme e --> volti.
La fisiologia è utile ma le conoscenze non sono ancora tali da permettere previsioni accurate al 100% soprattutto quando oltre ai colori entrano in gioco variabili come la forma, distanza, movimento, ... .

Un esempio di studi comportamentali su animali "difficili" come i pesci, viene dal Brain Institute della università del Queensland in Australia. Qui i ricercatori hanno sviluppato metodi per insegnare ai pesci cosa è utile riconoscere (ad esempio associandolo ad una fonte di cibo) testando in tal modo cosa riescano a vedere nel mondo circostante.
Il nuovo test, basato sul test sul daltonismo di Ishihara e mostrato nel video in calce, è considerato tra i più completi per analizzare nei vertebrati la capacità di percezione cromatica.
Il test classico, volto a capire quali colori l'animale vedesse, si basava su due passaggi. Nel primo si insegnava all'animale a riconoscere il disegno di un quadrato verde in quanto associato al premio (cibo) mettendolo poi di fronte alla scelta tra quadrati rossi e grigi. Il test sarebbe poi continuato diminuendo ad ogni passaggio la differenza cromatica tra i due colori. Due i punti deboli di questo test: c'era sempre la probabilità (50%) che la scelta del pesce fosse stata casuale; per testare un colore diverso bisogna ricominciare da zero l'addestramento di un nuovo pesce.
Il test di Ishihara utilizza numeri o lettere incorporati all'interno di una serie di punti per valutare la capacità delle persone di vedere i colori.
Nel nuovo test i pesci balestra sono stati addestrati (l'incentivo è sempre il cibo) a trovare una particolare macchia di colore all'interno di un campo di macchie.
credit:uq.edu.au
Variando il colore del fondo e del punto target è relativamente semplice testare un'intera gamma di colori nello stesso momento e in condizioni non molto diverse dal loro ambiente naturale.

A che scopo?
Studiare la visione dei colori negli animali ha importanti implicazioni sia per approfondire la correlazione struttura-funzione che per capire l'ampia variabilità cromatica di molte specie di pesci.

Video
Se non vedi il video --> youtube (credit: QldBrainInstitute)

La ricerca, è stata pubblicata sul Journal of Experimental Biology.

Fonte
-  An Ishihara-style test of animal colour vision
Karen L. Cheney et al, Journal of Experimental Biology (2019) 222



***
I maschi hanno una intrinseca (e dimostrata) incapacità di identificare in modo conscio molti colori catalogandoli genericamente. Questo libro è un vero campionario cromatico.



Il colore nella storia e nella comunicazione


La decodifica del volto del cervello: 100 msec e un centinaio di neuroni

E' passato poco più di un anno dall'articolo in cui segnalavo lo studio volto a capire come il cervello decodificasse gli input visivi per il riconoscimento facciale (--> "200 neuroni per riconoscere un volto").
credit: Scientific American
Riconoscere un volto non è una cosa ovvia come ben evidenziano i pazienti affetti da prosopagnosia (lo stesso Oliver Sacks) che devono ricorrere ad altri escamotage (voce, aspetto, situazioni, ...) per associare un volto ad uno specifico interlocutore pur essendo per il resto perfettamente in grado di riconoscere gli oggetti. Il processo richiede una interazione multilivello tra la corteccia (in primis l'area visiva primaria, V1, posta nel lobo occipitale) e aree via via più specializzate (V2, V3, V4) che si interfacciano a loro volta con aree del cervello "profondo" come il sistema ventrale visuale-ippocampale.
E mi limito alla sola decodifica del mondo esterno basata sui "rilevatori" di forma, di movimento, (...), di colore (il cui deficit, acromatopsia, è cosa ben diversa dal daltonismo).
L'importanza di questi studi va oltre il mero interesse neurobiologico in quanto pone le basi per sistemi di riconoscimento automatico mutuati, come sempre avviene, dallo studio delle soluzioni adottate in natura.

Torniamo sullo stesso lavoro per vedere i progressi nel campo.
Il lavoro di mappaggio e decodifica (svolto in primis da Doris Tsao di Harvard ora alla UCLA) è partito dallo studio dei macachi in quanto dotati di un sistema visivo e di una organizzazione del cervello molto simile a quella umana.
Doris Tsao (wikipedia)
La percezione del mondo attraverso gli occhi di ogni primate è mediata, dopo il passaggio sui fotorecettori retinici e il nervo ottico, dalla corteccia visiva che strato dopo strato elaborata l'informazione pur "senza comprenderla" (processo che avviene in altre regioni della corteccia). Possiamo immaginare il percorso iniziale come una decodifica del tipo "pixel accesi o spenti" e "colori scuri o brillanti", forme, (...), per poi arrivare, entro 100 millisecondi, attraverso una successiva elaborazione ad un paesaggio 3D "consapevole e riconosciuto" all'interno del quale si trovano oggetti in movimento .
Lesioni in queste aree possono causare disturbi percettivi come la akinetopsia a causa della quale il paziente "non vede" l'oggetto in movimento ma solo un susseguirsi di "immagini" statiche.
La svolta nella ricerca si ebbe quando Doris Tsao, che era ancora uno studente di PhD nel team di Margaret Livingston ad  Harvard, iniziò una collaborazione con Nancy Kanwisher del vicino MIT, che  fornì la chiave di accesso ai meccanismi cerebrali grazie alla risonanza magnetica funzionale (fMRI). Grazie a questa tecnica non invasiva ed estremamente potente fu possibile identificare "visivamente" le aree del cervello umano che si illuminavano quando veniva mostrata l'immagine di un volto; aree inerti quando invece di un volto venivano mostrati oggetti di varia natura come una casa o un cucchiaio, a dimostrare che il riconoscimento "per sé" dell'oggetto è cosa diversa dalla elaborazione e decodifica dell'immagine di un volto.
Il che ha senso evolutivamente per un genere come l'Homo in cui il riconoscimento olfattivo è residuale rispetto ad  altri animali.
Lo studio in esseri umani poneva ovvi limiti dettati dal doversi basare ad una analisi "esterna".  L'unica speranza era che esistesse qualcosa di simile al riconoscimento facciale nelle scimmie in modo da potere testare con elettrodi ultrasottili quali fossero esattamente i neuroni coinvolti
Nota. Ricordo che il cervello è privo di recettori del dolore, in conseguenza gli elettrodi non solo non provocano disagio nell'animale ma non sono nemmeno percepiti. E questa non è una ipotesi ma un dato confermato da studi in umani.
Gli 8 anni successivi all'inizio della collaborazione furono densi di soddisfazioni per i due team. Si scoprì ad esempio che i macachi erano in grado di riconoscere i volti, quindi mostrando loro una foto dietro l'altra di umani o di scimmie si riuscì ad identificare 6 piccole aree distribuite su ciascun lato del cervello nella corteccia IT (temporale inferiore) che apparivano interconnesse: se una veniva stimolata elettricamente anche le altre si "accendevano".
Le aree coinvolte e la capacità di predire un volto "visto" in base alle cellule attivate
(credit: S. Le Chang & D. Tsao via Nature)

Cosa ancora più interessante queste aree mostravano una certa specializzazione "visiva" nel senso che quando i ricercatori mostravano alle scimmie disegni di facce mancanti di qualche elemento (come il naso, le iridi, i capelli, ...) scoprirono di potere predire quali gruppi di neuroni erano coinvolti nel riconoscimento. All'inverso non solo si poteva predire quali elementi erano presenti dato il gruppo di neuroni attivati ma l'intensità dell'attivazione si correlava a quanto "estremo" fosse il dettaglio.
Alcuni dei punti che il cervello "vede" e computa nel processo di scansione di un volto
(credit: S. Le Chang & D. Tsao via Nature)

Ad esempio un neurone "specializzato" nella distanza tra gli occhi si attivava di più nel caso di occhi ravvicinati rispetto a volti con occhi più distanziati.
Nota. La scelta di usare disegni stilizzati di volti invece di fotografie nasceva dalla necessità di avere un completo controllo delle molteplici variabili che definiscono ciascun volto.  
Conclusioni confermate quando alle scimmie furono mostrate non solo foto di volti reali ma anche volti che guardavano in direzioni diverse (cosa che può apparire banale ma estremamente difficile da ottenere con programmi di riconoscimento facciale).
Nel dettaglio alcuni gruppi di cellule nella zona corticale esterna apparivano riconoscere volti orientati in un certo modo, mentre altre cellule più interne si attivavano quando venivano mostrate alle scimmie solo alcuni volti, qualunque fosse l'orientamento (ovviamente purché i volti fossero visibili).

Riassumendo il tutto, i ricercatori riuscirono a identificare 50 variabili nel volto (25 legate alla forma e 25 nell'aspetto) con i quali costruirono un set di 2 mila immagini di volti che differivano in un solo dettaglio. Mostrando ai macachi questi volti e registrando l'attivazione dei neuroni il codice sottostante cominciò a disvelarsi; in altre parole predire il volto monitorando quali neuroni si erano attivati divenne più di una ipotesi.

I risultati più recenti sembrano indicare che la "costruzione" dell'immagine di una persona parte dagli strati più esterni (dimensioni e poi dettagli specifici) fino ad arrivare agli strati più profondi in cui si può arrivare alla situazione che un neurone si attiva solo in presenza di un ben volto ben definito (che in associazione alle connessioni con la zona ippocampale porta al "riconoscimento").
Attenzione, questa è cosa ben diversa dal dire che un neurone identifica, per sé, una persona: il riconoscimento è mediato da una attivazione che coinvolge più neuroni che poi può "scaricarsi" su un numero molto ristretto di neuroni e solo da qui comparire la correlazione volto-neurone.
Già nel 2005 Rodrigo Quian Quiroga aveva scoperto l'esistenza di neuroni che aveva ribattezzato "le cellule di Jennifer Aniston" sebbene sia ovvio che la natura non ci ha programmati per riconoscere la mitica Rachel di Friends. La scoperta venne durante lo studio di pazienti a cui erano stati impiantati elettrodi nel cervello per cercare di mappare le aree responsabili di attacchi epilettici refrattari ai trattamenti farmacologici. Si scoprì l'esistenza di segnali originati da singoli neuroni che comparivano solo quando al soggetto venivano mostrate foto di persone a lui note, non necessariamente suoi familiari. Non solo immagini del volto di Jennifer Aniston ma anche solo la lettura del suo nome o perfino il titolo di un film in cui lei aveva recitato provocavano l'attivazione di questi neuroni "concettuali", localizzati nell'ippocampo, un'area ben più profonda e antica della corteccia IT.
Studi analoghi hanno identificato neuroni che sembrano rispondere alla "spigolosità" degli oggetti, al loro essere animati, etc etc.

Elementi questi che indicano quanto il processo di riconoscimento sia mediato da un processo di decodifica molto rapido di molti elementi che alla fine vengono "pesati e computati". Questo spiega anche perché a volte si possa confondere una persona con un'altra o magari impiegare qualche secondo per capire perché quel volto apparentemente non riconosciuto ci risulti familiare.

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Fonti
- How the brain’s face code might unlock the mysteries of perception
Nature /news (12/2018)

- Primates Use Simple Code to Recognize Faces
The Scientist (06/2017)

- The Code for Facial Identity in the Primate Brain
LeChang & Doris Y. Tsao,  (2017), Cell, 169(6) pp1013-1028




200 neuroni sono sufficienti per identificare un volto

Amici, familiari, colleghi, conoscenti, ... innumerevoli combinazioni di tratti somatici che definiscono un volto e che devono essere elaborati dal cervello affinché avvenga il processo di riconoscimento. Una elaborazione quasi istantanea presente anche negli infanti (almeno dal momento in cui gli occhi imparano a mettere a fuoco) che non può non sorprendere per la sua efficienza tanto più che funziona anche in assenza di ovvie (inteso come appariscenti) alterazioni del visus rispetto allo "standard".

Credit: Tsao lab
Come faccia il cervello a ricostruire l'informazione giuntagli come dato grezzo dalla retina (completo come "flusso" ma privo di una informazione intrinseca), rappresenta uno degli aspetti più affascinanti delle neuroscienze (vedi articoli precedenti --> "Identificata area del cervello che riconosce i bordi" e "13 msec per catturare un immagine").
Un importante tassello alle nostre conoscenze viene dal lavoro del team di Doris Tsao della UCLA, pubblicato sulla rivista Cell. Volendo condensare i risultati in una frase, si tratta della caratterizzazione di quanto pochi siano i neuroni coinvolti nel processo di riconoscimento facciale; un numero tuttavia sufficiente affinché, grazie alle molteplici combinazioni tra attivazioni differenziali degli stessi, l'infinita gamma di volti "riconoscibili" risulti coperta.
I risultati ci permettono di prefigurare un futuro prossimo in cui sarà possibile ricostruire in esterni il volto percepito da un qualunque soggetto, semplicemente mediante una scansione cerebrale (vedi anche --> "Lettura del pensiero mediante scansione cerebrale").

Andiamo per gradi.
Elemento centrale del lavoro è che, anche se esiste un numero infinito di volti potenziali, il nostro cervello necessita solo di circa 200 neuroni per codificare l'informazione che definisce in modo univoco un volto. Chiaramente non avrebbe senso ipotizzare che questi neuroni riconoscano "una tipologia di volti"; molto più sensato ipotizzare che ciascuno di essi contribuisca al processo decodificando una dimensione specifica o asse di variabilità del viso. Per fare una similitudine con la visualizzazione delle gamma dei colori, così come la luce rossa, blu e verde (e i rispettivi fotorecettori) si combinano per creare ogni possibile colore dello spettro, questi 200 neuroni sommano le rispettive informazioni definendo uno spettro di volti.
Alcuni di questi neuroni rilevano (da intendere con "si attivano in presenza di quel tratto") tratti come la morfologia del viso, ad esempio la distanza tra gli occhi, la forma della linea dei capelli o la larghezza del viso. Altri identificano caratteristiche del volto indipendenti dalla forma, come la carnagione, la muscolatura/tonicità del viso o il colore degli occhi e dei capelli.
La risposta dei neuroni è proporzionale alla "intensità" di queste caratteristiche. Per esempio, un neurone potrebbe attivarsi in modo proporzionale alla distanza interoculare, definendo così una gamma di segnali indicativi di un tratto del viso.
Bisogna però sottolineare come i singoli neuroni di questa popolazione (noti come "face cells") non identificano caratteristiche specifiche facilmente visualizzabili (ad esempio "gobba sul naso") quanto invece una più astratta direzione nella zona del viso che unisce diverse caratteristiche elementari. La somma di queste informazioni permette al cervello di percepire il volto, passaggio preliminare per associazioni superiori come il chi è (legato alla memoria) e cosa suscita in noi quel volto (mediato da corteccia premotoria ventrale, amigdala e dall’insula).
Questo il motivo per cui volti solo vagamente familiari (appartenenti a soggetti sconosciuti) possono indurre in noi, in modo imprevedibile e non conscio, emozioni di vario tipo; si tratta di un "errore" di identificazione, sufficiente però a cortocircuitare associazioni emotive.

Il lavoro di Doris Tsao rappresenta il culmine di quasi vent'anni di studi sul "codice" del riconoscimento dei volti. Passaggio fondamentale in questa ricerca fu nel 2003 la scoperta che alcune regioni del cervello delle scimmie si attivavano in modo specifico durante l'osservazione di un volto (--> Tsao DY et al). Tali regioni furono chiamate face patches e i neuroni al loro interno face cells (cellule del viso). Negli anni successivi si scoprì che ciascuna cellula di questa regione rispondeva a particolari caratteristiche del viso. Sebbene interessanti, i risultati erano però insoddisfacenti in quanto fornivano solo un'ombra di quello che ciascuna cellula stava veramente "catturando".  Ad esempio variando la forma degli occhi in un volto disegnato si potrebbe facilmente osservare quali cellule rispondono a tale modifica; la spiegazione potrebbe però troppo generica in quanto tali cellule potrebbero in realtà rispondere a tratti sottesi alla nuova forma e/o attivarsi anche in seguito ad altre modifiche del visus, apparentemente non correlate.
Un problema risolto con l'elaborazione dei volti generati al computer che permette di controllare nel dettaglio gli "input" e le risposte neuronali.


La comprensione dei meccanismi di decodifica è avvenuta attraverso due passaggi chiave. In primo luogo una volta compreso sperimentalmente quale fosse l'asse rilevato da ciascuna cellula, divenne possibile sviluppare un algoritmo in grado di prevedere quali volti fossero capaci di attivare quella particolare cellula. In altre parole divenne possibile dedurre dalla semplice misurazione della attività elettrica nelle face cells di una scimmia, quale fosse il volto (tra i tanti del campionario) che lei stava osservando in quel momento.
La prova che il codice di interpretazione della Tsao è sperimentalmente corretto. La figura mostra gli otto diversi volti (reali) mostrati ad una scimmia e a fianco l'immagine ricostruita dall'analisi dell'attività elettrica dei 205 neuroni (face cells) mentre la scimmia guardava il monitor (courtesy: Doris Tsao)

Il secondo passaggio fu la formulazione dell'ipotesi che se ogni cellula era effettivamente responsabile della "rilevazione" su un singolo asse dell'area del viso, questa cellula doveva essere capace di rispondere esattamente allo stesso modo ad un numero infinito di volti diversi ma con in comune un pattern assiale compatibile. Una ipotesi confermata sperimentalmente dalla Tsao.

Figura riassuntiva dell'approccio usato da Doris Tsao (®Cell / Doris Tsao)

I risultati smantellano le teorie secondo le quali il ruolo delle face cells è quello di decodificare le identità facciali. Il loro lavoro è molto più semplice e proprio per questo in grado di coprire una gamma pressoché infinita di volti. Potremmo definirle "semplici" macchine in grado di rilevare proiezioni lineari; ogni cellula cattura una parte dell'immagine in arrivo e ne definisce la parte unidimensionale. E' l'integrazione di queste attivazioni unidimensionali a fornire l'informazione per "ricostruire" un volto.


Fonte
- The Code for Facial Identity in the Primate Brain
Chang L & Tsao DY  Cell ( 2017); 169(6) pp1013-1028




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