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Il robot ispirato ai serpenti usa i kirigami per muoversi

"A cosa mai potrebbero servirmi le zampe?", direbbe un serpente dall'alto della sua capacità di muoversi fino a 20 km/h, insinuarsi in spazi ristretti, scalare alberi e nuotare.
Questa loro versatilità ed efficienza locomotoria dipende, oltre che dalla muscolatura, da quelle strutture molto apprezzate dai modaioli su stivali e borsette, cioè le squame.
Durante il movimento le squame interagiscono con il terreno fornendo un "aggancio" al moto in un modo non troppo diverso dall'aiuto che ci forniscono i ramponi durante le escursioni montane sui ghiacciai. Si tratta di locomozione assistita dall'attrito ed è una diretta conseguenza della forma e posizionamento delle squame cutanee.

Una tale efficienza non poteva sfuggire a chi si occupa della progettazione di robot finalizzati alla esplorazione di aree a difficile accesso come edifici crollati. Già in passato avevo accennato ai progressi nel campo (-->  robo-snake) ma quello di oggi è degno di nota in quanto concettualmente semplice e di facile implementazione anche a casa.
Il nuovo prototipo del robo-snake, sviluppato da un team della università di Harvard (a cui appartiene anche il team che ha sviluppato le --> robo-api), è descritto in un articolo pubblicato su Science Robotics. L'obbiettivo dei ricercatori era la produzione di un robot "soffice", cioè capace di muoversi in assenza di una struttura/esoscheletro rigido.
Primo problema fu cosa usare per ricreare le squame necessarie per l'adesione al terreno.
Soluzione all'impasse è venuta dall'antica arte giapponese su carta del kirigami, simile solo in apparenza agli origami. Mentre infatti quest'ultima deriva dalle pieghe create sulla carte per creare originali strutture 3D, nel caso dei kirigami la "forma" viene da tagli fatti sulla superficie che ne modificano le proprietà.
Come l'antica arte del kirigami può essere usata per creare superfici versatili
(all credit to: A. Rafsanjani/Harvard SEA) 


La creazione di squame "soffici" progettate come fossero dei kirigami, fa si che quando il robot si allunga (mimando il moto del serpente) la superficie piatta del kirigami viene trasformata in una superficie tridimensionale, capace di interagire con il terreno proprio come fa la pelle del serpente. Quando invece si ha compressione/accorciamento la superficie diviene liscia perdendo così il "grip".

All credit to: A. Rafsanjani/Harvard SEAS
I materiali necessari non sono difficili da reperire: un semplice foglio di plastica piatto; un laser per fare tagli precisi ed un attuatore cilindrico con proprietà elastiche (vedi video sotto). Una volta creati i tagli voluti (triangolari, trapezoidali, circolari, …) sulla plastica questa è stata avvolta attorno all'attuatore che funziona come un palloncino (si espande e si contrae usando l'aria). Così quando l'attuatore si espande, il kirigami "emerge" formando una superficie ruvida mentre quando si sgonfia, la superficie tagliata torna "piana" permettendo il distacco e l'avanzamento. Il tutto controllato (e alimentato) da una centralina posizionata nella coda.
Alla fine di test molteplici, i ricercatori hanno scoperto che i tagli trapezoidali sono quelli che permettono una locomozione più efficiente; guarda caso si tratta della forma che più somiglia a quella delle squame dei serpenti.

(video credit: Harvard John A. Paulson School of Engineering and Applied Sciences).
Se non vedi il video --> Youtube

Si tratta chiaramente di prototipi utili solo come prove di fattibilità. Le versioni futuribili di questi robo-snake avranno maggiore autonomia e versatilità tale da permetterne l'impiego in ambienti difficili o pericolosi allo scopo di esplorare, monitorare, cercare dispersi all'interno di edifici crollati o perfino (in versioni mini) utilizzabili durante laparoscopiche.

Articolo precedente sul tema -->  robo-snake


Fonte
- Kirigami skins make a simple soft actuator crawl
A. Rafsanjani et al, (2018) Science Robotics  Vol. 3, Issue 15,





Non solo Ebola e Zika. La minaccia del virus Nipah

Il nuovo focolaio di infezione da virus Ebola nella Repubblica Democratica del Congo, non del tutto inatteso per una serie di motivi che vedremo in seguito, ha attivato le procedure di emergenza da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO). Ad oggi sono 25 i decessi accertati (nel senso di morti attribuite con certezza al virus) localizzati in distretti a bassa densità abitativa. L'area è molto lontana da quella della interessata dalla precedente epidemia (Liberia e Guinea) ma  è coerente sia con le precedenti epidemie che per la presenza di "serbatoi" naturali del virus, come i pipistrelli della frutta. Grazie all'impiego di strumenti preventivi e all'utilizzo di vaccini sperimentali, già ad inizio giugno il livello di allerta era rientrato.

Da tutt'altra parte nel mondo (USA), è arrivata nelle scorse settimane la notizia di bambino con sintomatologia riferibile a  peste bubbonica verosimilmente contratta durante un campeggio in una zona disabitata del nord ovest americano.

Sebbene diversi sia per agente patogeno (virale nel caso Ebola e batterico nel caso della peste) che come veicolo di trasmissione (pipistrelli e pulci di roditori, rispettivamente), i due eventi ci ricordano che i patogeni sono sempre in agguato in quanto endemici "abitanti" di alcune aree; finché non avviene il contatto tra "ospite naturale" ed essere umano il problema non sussiste. Tuttavia la progressiva antropizzazione dell'ambiente aumenta le occasioni di contatto e con esse la comparsa di focolai di malattia
In alcuni casi è stato possibile eliminare alla radice il problema con la "cancellazione" totale del patogeno, come ad esempio avvenuto con il virus del vaiolo dichiarato "estinto" in natura nel 1980. Una opzione non sempre percorribile (al netto del costo economico) in quanto dipendente dalle caratteristiche del microbo; il caso del vaiolo è un caso limite essendo questa variante virale un parassita obbligato dell'essere umano, incapace di riprodursi in altri animali (il virus del vaiolo bovino è scarsamente virulento nell'uomo e infatti venne usato da Jenner come come vaccino anti-vaiolo). Quindi una volta vaccinata la popolazione a rischio, il virus non poteva fare altro che estinguersi.

I casi ebola e peste bubbonica sono sono solo un esempio di epidemie potenziali pronte ad emergere qualora le condizioni diventassero favorevoli. Pensiamo alla recente epidemia causate dal virus Zika, oppure alla malaria o ancora alla diffusione di batteri resistenti agli antibiotici che minacciano di rendere nuovamente pericolose infezioni oggi neutralizzate come la tubercolosi. E potremmo andare avanti citando il WNV (West Nile Virus), la dengue, la febbre gialla, febbre da Lassa virus, ... .
La procedura di eradicazione totale del patogeno non è quasi mai percorribile. La malaria è un caso emblematico. Il plasmodio responsabile della malattia ha un ciclo vitale complesso che per una parte avviene all'interno di alcune specie di zanzara e nella parte finale nei mammiferi. Eliminare il patogeno qui imporrebbe l'eliminazione di tutti i "serbatoi" naturali del virus.
Tra i patogeni misconosciuti che stanno prendendo piede in alcune aree del globo e dotati di una biologia capace di favorirne la diffusione su scala globale, c'è il virus Nipah, responsabile di un recente focolaio nel sud dell'India (11 i decessi accertati) ma noto anche in Australia orientale.
Pteropus poliocephalus
(by Chi Liu via WHO)
Il virus Nipah alberga solitamente nei pipistrelli e da questi (attraverso feci o altro materiale organico "depositato" in giro) può passare a maiali o umani. Quando questo avviene la letalità è intorno al 75% sul totale degli infettati umani (non molto inferiore rispetto al rischio morte da infezione di Ebola). 
Per questo microbo non esistono al momento né terapie farmacologiche né vaccini.

Come in molte infezioni che fanno il "salto" interspecie verso l'uomo, il passaggio limitante è la "prima" infezione cioè la comparsa di un virus con una mutazione tale da renderlo "adatto" a colonizzare un nuovo ambiente, l'essere umano. Una volta comparsa la mutazione "adatta", il passaggio da un umano all'altro è più semplice, da qui il rischio di epidemie o pandemie (specialmente se il focolaio si verifica in una zona densamente popolata).

I virologi hanno evidenziato due aspetti chiave per spiegare l'aumento del numero di casi dovuti al virus Nipah:
  • i cambiamenti climatici e "ambientali" hanno favorito lo spostamento dei pipistrelli verso le aree abitate. L'habitat naturale dei Pteropus, i pipistrelli portatori di Nipah, sono le foreste tropicali. Il processo di riconversione delle foreste in aree agricole ha spinto i pipistrelli a cercare altre fonti di cibo. In Bangladesh, la trasmissione del virus avviene principalmente attraverso la linfa della palma da dattero: i pipistrelli leccano la linfa lasciando insieme alla saliva il virus che passerà alle persone che usano la stessa pianta. Problema simile in Australia dove questi pipistrelli hanno cominciato a popolare le periferie delle cittadine lasciando le loro tracce biologiche su frutti o altri oggetti con il risultato di infezioni principalmente a carico di cavalli ed esseri umani. Il cambiamento di habitat ha anche alterato la caratteristica migrazione stagionale dei pipistrelli che tendono ora ad essere più stanziali.
  • La comparsa di un ceppo virale nella popolazione dei pipistrelli capace di maggiore trasmissibilità una volta infettato un umano (ma neutre nei pipistrelli e nella prima infezione pipistrello-umano). La caratteristica chiave sembra essere un maggior tropismo per le cellule delle vie respiratorie rispetto allo standard. Come ben noto, i patogeni che risiedono nelle vie respiratorie sono molto più facili da trasmettere attraverso il respiro (virus nelle goccioline di vapore) rispetto ad un virus epatico per cui è necessaria l'esposizione al sangue.
Aree in cui il virus è naturalmente presente (credit: WHO)

Il miglioramento degli strumenti di monitoraggio e di predizione delle aree a rischio (come fatto con i pipistrelli vampiro, causa della rabbia, in sudamerica) potrà essere lo strumento chiave per contrastare e circoscrivere sul nascere i nuovi casi.

Lo sviluppo dei vaccini richiede invece grandi quantità di denaro. Finora il numero di casi di infezione da Nipah erano troppo esigui per giustificare investimenti finalizzati alla creazione di un vaccino; non vorremmo mai che la situazione divenisse così grave da rendere questi investimenti una necessità assoluta.


Fonti
- Nipah virus control needs more than R&D
 The Lancet (2018) 391(10137):2295

- Enhancing Preparation for Large Nipah Outbreaks Beyond Bangladesh: Preventing a Tragedy like Ebola in West Africa
Donaldson H, Lucey D. (2018) Int J Infect Dis. S1201-9712(18)34425-4

- Nipah virus infection
WHO/OMS news

L'autocitazione negli articoli scientifici, una risposta molto italiana alla produttività

Un paese di poeti, santi, navigatori e ... con il motto "aiutati che il ciel t'aiuta".

Sebbene sia innegabile il vezzo italico di denigrarsi (cosa che credo non abbia uguali in altri paesi più propensi invece all'autoincensamento), dall'estero non si tirano mai indietro quando c'è l'occasione per rinfacciarci le nostre (spesso presunte) mancanze, come ben ci ricordano le copertine dei settimanali tedeschi e inglesi, o il commento di qualche Eurocrate e ministro nordico.

Anche in ambito scientifico ci troviamo spesso esposti agli strali sarcastici esteri. Che poi questa stigmatizzazione sia ingenerosa considerando il rigore procedurale e l'integrità professionale di tanti (anzi della maggioranza) di noi, poco importa. Bisogna infatti riconoscere che si tratta spesso di accuse innescate da fatti acclarati come quando qualche giudice decise di portare a processo i sismologi che non avevano previsto il terremoto (sic! , --> "Scienza e giudici"), la credibilità data al metodo (!?) Stamina e Di Bella o la situazione di alcune facoltà del sud dove gran parte dei docenti è imparentato.
Su quest'ultimo punto in particolare c'è ben poco da dire, essendo figlio illegittimo di una riforma del dopoguerra nata con i migliori auspici (scegliere i migliori valutandoli in modo imparziale mediante i concorsi, evitando le raccomandazioni) ma naufragata nella logica baronale e di alleanze incrociate. Per accedere ad una qualunque posizione nell'apparato pubblico (scuole, università, ospedali e CNR ricadono in questo calderone) o più recentemente ai bandi per ottenere finanziamenti per la ricerca bisogna presentare titoli e produttività. Anche i finanziamenti privati valutano gli stessi parametri ma sono in genere più efficienti (chi paga vuole sapere a chi vanno i soldi e cosa ne farà), quelli pubblici rientrano in una zona di penombra dove la valutazione del merito si accompagna al "a chi fai riferimento" (dato che traspare dall'istituto di appartenenza e dalle persone con cui hai pubblicato).
In società meno gerontocentriche della nostra dove conta in primis il progetto e chi lo presenta (cioè il CV) il metodo funziona. I finanziamenti pubblici chiesti da giovani ricercatori verranno valutati in modo imparziale; da noi invece tutto tende a passare dal prof ordinario di turno (in genere over-60) che con la scusa di fare da volano per i finanziamenti - senza un nome noto referenti non si passa alla prima selezione - si pone come riferimento istituzionale tarpando le ali ai giovani ricercatori. In cambio pretende l'ultimo nome negli articoli - posizione che indica la "mente" del progetto. Ne deriva un effetto a cascata che riduce il numero di pubblicazioni utili ai giovani ricercatori (i nomi che contano sull'articolo sono i primi due e l'ultimo) e con essi la possibilità di accedere a finanziamenti europei "pesati" sugli articoli pubblicati.

La capacità di un ricercatore di produrre risultati "utili" viene stimata, oltre al mero numero di pubblicazioni, da un altro parametro cioè il numero di volte che quel dato articolo è stato citato da altri lavori, un indice della importanza e affidabilità dei dati prodotti.
Un sistema non perfetto ma che altrove funziona. 
Non da noi, o meglio non così bene da noi, a causa sia di una minore produttività generale (conseguenza a sua volta, anche ma non solo, di minori fondi) che del minore spazio dato ai giovani ricercatori, quelli in teoria più innovatori. Come spesso avviene entra qui in gioco l'italica tattica "fatta la legge, trovato l'inganno" che in questo caso consiste nell'aumentare occultamente il peso bibliografico della citazioni dei propri lavori o di quelli di colleghi che poi ricambieranno il favore, agendo sulla bibliografia a supporto del progetto. Insomma, una bella pompatina in classifica per i propri lavori, che appaiono più citati di quanto dovrebbero.
Sebbene citare i propri lavori sia corretto per segnare l'evoluzione di una ricerca o qualora sia tra i maggiori esperti del campo, fare una selezione "interessata" di quali articoli usare a conferma delle proprie affermazioni non è una pratica corretta.
Questa tendenza non è sfuggita ad alcuni analisti, italiani e questo è un merito, che hanno pubblicato un report sull'abuso delle autocitazioni finalizzato all'avanzamento di carriera.

In sintesi, i ricercatori italiani si posizionano ai primi posti (specialmente nelle discipline economiche e manageriali ma anche in genetica e psicologia) nell'utilizzo delle autocitazioni, in particolare quando si tratta di preparare la documentazione per i concorsi in ambito accademico. L'analisi ha preso in esame i lavori di 886 accademici italiani a partire dal 2002  evidenziando un aumento consistente del ricorso a questa pratica a partire dal 2010. La data non è casuale. Nel 2010 è entrata in vigore la riforma con cui si cercava di risolvere i problemi del passato (il pubblicare su riviste a basso impact factor per aumentare il numero di articoli) introducendo un indice calcolato sul numero di citazioni dei lavori (H-index).
Non si tratta di incrementi di poco conto. In alcune discipline il numero di autocitazioni è aumentato del 179 %. Altro problema contingente è l'aumento del numero di autori (o meglio co-autori) che se totalmente giustificato in molti casi (cooperazione tra molti gruppi di ricerca) è altre volte motivato dalla necessità di fare pubblicare le persone.

Insomma, ad ogni tentativo di migliorare il sistema si scoprono nuove vulnerabilità e con esse aumenta la sfiducia di chi decide che forse è meglio lasciare perdere ed andarsene.

Ma c'è di peggio. In Corea del Sud il governo ha aperto un'indagine sul fenomeno dei ricercatori che hanno inserito il nome dei loro figli come co-autori negli articoli pubblicati. Bene precisare che si tratta di ragazzi/e in età scolare e non di personale professionale. In alcuni casi gli studenti hanno lavorato agli esperimenti in corso come "manovalanza" con la scusa di progetti scolastici, mentre in altri casi il loro nome è stato inserito per dare loro un vantaggio nelle temibilissime prove di accesso universitario (altro che le lagne del numero chiuso da noi) a cui gli studenti si preparano fin dall'asilo con test di ammissione alla scuola (elementare, media, superiore) sempre più selettiva.


Fonte
- Self-citations as strategic response to the use of metrics for career decisions
M. Seeber et al, (2017) Research Policy

Anziani e religione. Il ruolo degli ormoni sessuali

Da buon laico, fedele al ragionar di scienza, la notizia non mi stupisce più di tanto anche se andrei molto cauto prima di generalizzare.
Se infatti da una parte è credibile che a parità di condizioni di partenza (status sociale, cultura di appartenza, istruzione, età e sesso - senza questa normalizzazione le variabili diventano dominanti), la sensibilità religiosa possa essere maggiore in persone "psicologicamente" adatte, dall'altra le variabili in gioco sono tali e tante da rendere tali studi un campo minato.
La riduzione dei "fattori confondenti" è un passaggio chiave ben noto a chiunque bazzichi i campi della statistica e della epidemiologia. E' sufficiente un assunto "sbagliato" (nel contesto della ricerca) per falsare i risultati anche se condotti nel pieno del rigore statistico. Un problema tanto più accentuato quanto più il campo d'indagine si accosta alla psicologia. Ad esempio testare l'accettazione del concetto di evoluzionismo usando come campione la popolazione Amish, non potrà che dare risultati negativi perché  la risposta è determinata dal campione usato. 
Se poi, come fatto in questo studio, si cerca di identificare una qualche "concausa biologica" come fattore predisponente la religiosità all'interno della popolazione anziana, predisposta per una serie di motivi intrinseci a tale atteggiamento, i risultati ottenuti dovranno essere pesati con estrema cautela.

Fatta questa doverosa precisazione, passiamo allo studio pubblicato dai ricercatori della prestigiosa McGill University (con eccellente reputazione nel campo delle neuroscienze) sulla rivista Adaptive Human Behaviour & Physiology
I ricercatori hanno usato come materiale di partenza il database del progetto Health and Ageing (NSHAP) gestito dal National Institutes of Health (NIH) americano. I dati sono quelli di migliaia di soggetti che al momento dell'arruolamento nello studio avevano una età compresa tra 57 e 85 anni; le informazioni raccolte sono sia di tipo comportamentale, attraverso questionari anonimizzati, che biomedici, con la raccolta e analisi di campioni di saliva e sangue.
Si tratta quindi di un classico studio retrospettivo con il quale il ricercatore indaga e mette alla prova statistica eventuali legami di causa-effetto.

Alla domanda se vi fosse una qualche relazione tra stato biologico e religiosità, la risposta è stata particolarmente interessante. Al netto dell'educazione ricevuta e dalla psicologia dell'individuo (a sua volta risultato della somma di esperienza e biologia) c'è anche la partecipazione dello stato ormonale, quindi del metabolismo. Nello specifico, sembra che gli uomini anziani il cui livello di ormoni sessuali (testosterone e di deidroepiandrosterone - DHEA) è nella parte alta della curva, sono quelli con una minore tendenza ad indulgere in pratiche religiose (sia praticate che interiorizzate).
image credit: QUORA
La fuga nella religione spiegata da un calo ormonale? 
Forse, e nel caso non sarebbe nulla di inspiegabile. Il calo ormonale che si accompagna all'entrata nella terza (o quarta) età è spesso foriero di cambiamenti neurologici che possono degenerare in depressione o problemi cognitivi che sommati ad altri eventi contingenti (frequenti nelle persone anziane) come la morte di amici o familiari troverebbe terreno fertile in atteggiamenti più intimistici e consolatori. Se la fuga nella religione non è per sé stessa un problema, la validità del dato dovrà essere verificata su individui molto più giovani

Fonti
- Older men with higher levels of sex hormones could be less religious
McGill University / news

- Are Men’s Religious Ties Hormonally Regulated?
Aniruddha Das, (2018) Adaptive Human Behavior and Physiology

- Sex Differences in Anxiety and Depression: Role of Testosterone
J. McHenry et al, (2014) Front Neuroendocrinol. 35(1): 42–57


Una molecola contro tutti i raffreddori

Se l'influenza è un accidente stagionale una tantum (non tutti gli anni ci ammaliamo), il banale e in genere meno problematico raffreddore è invece una costante sempre in agguato, pronta ad accompagnarci per un paio di giorni di fase acuta, che per la legge di Murphy coincidono spesso con i fine settimana. Capace magari di ripresentarsi più volte nella stessa stagione insieme alla fastidiosa sintomatologia di naso gocciolante e voce cavernosa.
La nota positiva è che molto difficilmente il malanno evolve in qualcosa di più serio, e in genere quando questo avviene è perché sono entrati in gioco patogeni opportunisti che hanno trovato terreno fertile in un soggetto debilitato o con problematiche pregresse (asma e patologie polmonari). L'influenza è un avversario solitamente più temibile capace, quando compare il ceppo "giusto", di dare luogo a pandemie ad alta morbilità. Tuttavia contro quest'ultimo avversario la ricerca ha sviluppato armi abbastanza efficaci come i vaccini annuali o nel caso di pandemie (cioè quando il virus è troppo "nuovo" per essere coperto dalle precedenti vaccinazioni) farmaci antivirali
Per approfondimenti sulla genetica dei virus influenzali, quindi sulla impossibilità di sviluppare vaccini efficaci per più anni, vi rimando al precedente articolo sul tema --> L'alto numero di casi dell'influenza 2018 .
Contro il raffreddore invece non ci sono né vaccini né farmaci specifici se non quelli dedicati ai sintomi più fastidiosi. Il motivo è semplice: non esiste UN virus del raffreddore ma centinaia di ceppi, di cui il rhinovirus è il più comune (responsabile di una quota poco superiore al 30% dei casi mentre almeno il 50% dei casi è riconducibile ad almeno 100 virus diversi), quindi non si può sviluppare un vaccino "universale".
Anche i raffreddori da rhinovirus sono tutt'altro che omogenei. I rhinovirus sono virus a RNA e come tali hanno un tasso d mutazione intrinsecamente elevato, che li rende "pessimi" bersagli per i vaccini.
I coronavirus sono, in aggiunta ai "classici" rhinovirus, i virus più
frequentemente associati al raffreddore (credit: wikipedia)
.
La via di ingresso "preferita"
dal virus del raffreddore
(credit: Common Cold )

L'aggancio del virus alla cellula bersaglio, il passo chiave per l'entrata
(credit: Common Cold )

Infezione, replicazione, liberazione virus e morte cellula (credit: Common Cold )

Se la strada dei vaccini è preclusa causa l'alto numero di agenti causali, una ragionevole alternativa è quella di spostare il focus della ricerca dall'agente eziologico (il virus) al suo bersaglio (la cellula). Per quanto il virus possa variare, la costante per tutti i virus del raffreddore è di dovere passare dalle cellule della mucosa naso-faringea. Non solo il virus deve "agganciarsi" alle cellule che riconosce come bersaglio, ma deve anche essere in grado di riprogrammare la cellula per ridirigere tutta la sua capacità metabolica al servizio del virus.
(per approfondimenti sul "magico" mondo dei virus --> "Virus: quasi-organismi microscopici").
Grazie a questo cambio di prospettiva i ricercatori del Imperial College di Londra hanno prodotto una molecola che, almeno a livello sperimentale (modelli cellulari e animali), risulta essere particolarmente efficace contro il raffreddore nella sua accezione più ampia.
Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature Chemistry,

Senza entrare troppo nel dettaglio funzionale, la nuova molecola (per ora nota come IMP-1088) è diretta contro una proteina con attività enzimatica presente nelle cellule umane (N-miristoiltransferasi - NMT), che il virus sfrutta per assemblare l'involucro proteico della progenie virale. Una volta bloccato questo passaggio, il virus non potrà più generare virus infettivi dando il tempo al sistema immunitario di ripulire ogni traccia dell'invasore (e delle cellule infettate).
Poiché tutti i vari tipi di virus del raffreddore usano questa proteina, se si blocca la proteina, si blocca la diffusione del virus. Inoltre essendo il trattamento diretto contro una proteina umana, viene meno anche il rischio che possano comparire virus mutanti insensibili alla terapia.

C'è di più. Oltre alla vasta categoria di virus del raffreddore, la NMT viene sfruttata anche dal virus della polio e da quello dell'afta epizootica (una vero incubo negli allevamenti di bestiame) il che rende ipotizzabile un suo ampio utilizzo.

Il problema intrinseco a questa tipologia di approcci (mirata ad una proteina umana) è nella potenziale tossicità del trattamento. Ad oggi i dati disponibili non hanno evidenziato alcun effetto collaterale. Tuttavia sarà necessario ancora qualche tempo prima di avere dati sufficientemente solidi prima di attivare la sperimentazione clinica di non tossicità e farmacodinamica (fase 1), superata la quale si potrà testarne l'efficacia (fase 2 e 3).

Fonte
- Fragment-derived inhibitors of human N-myristoyltransferase block virus capsid assembly and replication of the common cold virus
Aurélie Mousnier et al, (2018) Nature Chemistry, volume 10, pp. 599–606 


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