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Science from the Cloud (02/15) ...

Il miglior cane anti-esplosivi? Quello che mangia meno proteine e più grassi
Credit: Cornell University
Secondo uno studio condotto alla Cornell University una dieta povera di proteine e ricca di grassi facilita la termoregolazione nel cane dopo l'attività fisica, evitando affaticamento, mancanza di fiato e, a seguire, aumentando la capacità di percepire odori. Quest'ultimo il motivo chiave che spiega l'interesse del dipartimento di giustizia americano a finanziare il progetto. Al momento i cani sono infatti imbattibili nella capacità di identificare esplosivi (e molto altro); e lo rimarranno ancora a lungo se una semplice calibrazione della dieta si dimostrerà in grado di aumentarne ulteriormente le capacità.
Cornell University, news

Avete un cane intelligente? Mandatelo all'università!
Credit: Yale University
Il vostro sogno nel cassetto era quello di studiare in una delle più prestigiose (e selettive … altro che i nostri atenei dove il solo parlare di selezione è disdicevole) università americane? Ci avete provato ma avevate un punteggio sufficiente solo ad accedere ad una facoltà sperduta nel midwest? Non disperate. Potete trasferire i vostri sogni su un altro membro della famiglia. Se infatti avete un cane e pensate, come tutti i padroni, che sia intelligente e che gli manchi solo la parola, allora sappiate che l'università di Yale ha appena attivato una nuova unità di ricerca che suona come "scienze cognitive canine" (Canine Cognition Center) la quale sta reclutando cani di tutte le razze e ibridi allo scopo di studiare come e cosa "pensano".
Yale University, news

L'altruismo di alcuni uccelli
Biologicamente parlando non vi sono dubbi che il fine ultimo di ogni essere vivente sia quello di riprodursi. Una ovvietà che nasce con le primissime forme di vita (dove bastava dividersi in due) e che la riproduzione sessuata ha solo esacerbato con la necessità di trovare, almeno in alcune fasi del ciclo vitale, un partner. Qualunque organismo, sia esso un moscerino o un fisico premiato con il Nobel, privo di tale stimolo verrebbe semplicemente (o meglio la particolare combinazione genica che lo caratterizza) spazzato via alla successiva generazione. Una situazione descritta in maggior dettaglio nel celebre libro di Richard Dawkins, "Il Gene Egoista".
Sappiamo tuttavia che esistono delle "apparenti" eccezioni negli animali in cui la maggior parte degli individui sacrifica il proprio potenziale riproduttivo in favore di quello di pochi individui. Ho virgolettato "apparente" perchè in questi casi il sacrificio è fatto in favore di consanguinei (in molti casi veri e propri gemelli); questo è quanto avviene nelle società di insetti eusociali come le formiche o le api (sulla eusocialità vedi qui).
(credit: columbia.edu)
Volendo semplificare al massimo la situazione, queste società sono molto simili ad un organismo multicellulare in cui solo alcune cellule diventano germinali (e quindi de facto trasmettono il DNA alle generazioni successive) mentre le altre costituiscono l'infrastruttura affinché questa trasmissione sia possibile. Se un'ape ha lo stesso DNA dell'ape egina, allora la personalizzazione della trasmissione del DNA viene a mancare.
Casi simili esistono anche nei vertebrati. Si è scoperto che esistono degli uccelli che scelgono di non riprodursi per fare invece da guardiani al nido di altri membri della comunità. Non membri a caso ovviamente ma individui ad essi strettamente imparentati.
Un fenomeno che non conoscevo ma che ho scoperto riguardare circa il 9 per cento delle specie di uccelli. Per altre informazioni cercare il termine "bird cooperative breeding".

Anche gli uccelli annusano il partner
La scelta del partner negli uccelli non dipende solo dalla abilità come corteggiatori o nelle caratteristiche cromatiche e fisiche del pretendente. Anche l'odore fa la sua parte sebbene in misura minore di quanto avviene nei mammiferi. In effetti non credo che nessuno di noi abbia mai sentito la frase "sembri un piccione (pollo, picchio o pinguino)" per indicare qualcuno con un fiuto sviluppato.
Petrello del Capo (credit: Samuel Blanc)
La vista è al contrario il senso che maggiormente associamo ad un volatile, anche qui con i dovuti distinguo (dire "hai la vista di una gallina" non credo sia un complimento) e le eccezioni per quanto riguarda l'olfatto. Tra queste il Petrello azzuro, una specie della famiglia delle Procellarie che vive in Antartide, riconosce il proprio compagno/a in piena oscurità unicamente grazie all'olfatto.
Alla scarsità di studi sull'argomento sopperisce uno studio condotto da una equipe franco-svedese in cui si dimostra che nella scelta del partner riproduttivo, un ruolo importante è quello della diversità (rispetto al proprio odore). Una scelta che sembra aumentare le probabilità di una progenie con sistema immunitario efficiente.
In fondo niente di strano. L'odore emanato altro non è che un riflesso della specificità genica di un individuo, che lo posiziona come tale all'interno di una comunità.
Dallo studio emerge che il Petrello azzurro è in grado di determinare quale fra i possibili partner sarà in grado di generare progenie con il miglior repertorio immunitario.
Lund University, news

Giovani ricercatori che ribaltano dogmi biomedici

Vimal Selvaraj, professore associato di scienze animali alla Cornell University, è diventato il protagonista di una mini rivoluzione scientifica dopo la pubblicazione di un suo articolo sul Journal of Biological Chemistry. Rivoluzione centrata sulla confutazione del coinvolgimento di una proteina nella via di sintesi degli steroidi.
Vimal Selvaraj e Lan Tu (Cornell University)
Un tema tutt'altro che secondario dato che endocrinologi e aziende farmaceutiche hanno investito tempo (decenni) e milioni di dollari in studi che prendevano di mira la proteina (de facto) sbagliata  per sviluppare terapie contro vari disturbi ormonali.
La proteina è la TSPO e il pathway coinvolto è quello che vede il colesterolo come uno degli attori principali. In estrema sintesi, il colesterolo, oltre ad essere un elemento essenziale della membrana cellulare animale, è il mattone di partenza per la sintesi degli ormoni steroidei (testosterone, estrogeni e cortisolo); tuttavia per essere trasformato deve prima attraversare due membrane mitocondriali, e per farlo ha bisogno dell'aiuto di un "trasportatore".
L'assunto finora incontrastato identificava nella TSPO il trasportatore, rendendolo quindi il bersaglio principale su cui disegnare farmaci specifici per ripristinare vie ormonali deficitarie in una delle vie biosintetiche sotto raffigurate.
Il colesterolo come punto di partenza per molte vie biosintetiche(©wikimedia)
Una teoria sostanziata da centinaia di articoli scientifici ottenuti principalmente dallo studio di linee cellulari. Quasi assenti invece gli esperimenti su animali in quanto dati precedenti avevano indicato che topi privi del gene TSPO non sopravvivevano oltre lo stadio embrionale, rendendo di fatto inutile ogni sperimentazione.
Ed è in quest'ultimo punto che lo studio di Selvaraj ha scoperto l'errore.
Avendo la necessità di validare alcuni dati in vivo si trovò di fronte al problema di come fare dato che l'animale "ideale" sarebbe stato quello knock-out (vale a dire privato delle due copie geniche) per la proteina TSPO. Ma se la mutazione è letale embrionale il test non è chiaramente fattibile. Per aggirare il problema pensò intelligentemente di fare un knock-out tessuto specifico, limitato alle sole cellule di Leydig, una modificazione che avrebbe dovuto generare topi privi di tale proteina solo nelle cellule testicolari. I topi sarebbero così sopravvissuti alla fase embrionale e gli adulti sarebbero sarebbero stati sani ma, ovviamente, sterili (le cellule di Leydig sono le principali produttrici di testosterone). Questo se la teoria standard sulla funzione del TSPO fosse stata corretta.
Ma i risultati furono negativi, nel senso che i topi erano si vitali ma erano anche fertili. Il dato fece sorgere qualche dubbio nei ricercatori che decisero di ritestare l'assunto generale, cioè il fatto che la mutazione knock-out (KO) fosse effettivamente letale embrionale .
Risultato, i topi TSPO KO (quindi mutati in tutte le cellule e non solo nelle cellule di Leydig) oltre a nascere vivi e a non presentare anomalie evidenti, erano in grado di generare prole; chiara indicazione che la sintesi degli ormoni steroidei non viene alterata dalla assenza di TSPO.
Diverse le possibili spiegazioni, tra cui la più semplice è che TSPO esplica una funzione ridondante (coperta da altre proteine) o che i precedenti studi sui topi fossero viziati da caratteristiche genetiche specifiche del ceppo murino usato. Nella peggiore delle ipotesi, la funzione di TSPO non ha nulla (o solo incidentalmente a che fare) con il trasporto del colesterolo e allora ci la domanda d'obbligo è quale sia la sua funzione soprattutto alla luce del fatto che si tratta di biomarcatore utile non solo in alcune patologie nervose ma anche in molti tipi di tumori.
Unica certezza è che tutti gli studi che in questi anni hanno usato il TSPO come target per sviluppare terapie contro l'infertilità e l'iperplasia congenita del surrene, non avevano grosse possibilità di successo dato che miravano al bersaglio sbagliato.
Nota. Non è superfluo sottolineare come questo caso sia paradigmatico dell'importanza della sperimentazione animale (fatta in maniera ripetuta e su più modelli) dato che i sistemi in vitro e le colture cellulari non sono in grado di catturare la complessità degli organismi. Ripeto. I dati ottenuti dalle colture cellulari hanno completamente mancato di identificare la complessità sottostante. Non si sarebbe mai potuto scoprire che la proteina TSPO era un target terapeutico errato se Selvaraj non avesse insistito nel voler usare un modello animale.
L'elemento positivo di questa storia è la capacità della scienza di autocorreggersi anche quando gli attori in gioco sono "asimmetrici": guru ed estabilishment da una parte e giovani ricercatori motivati dall'altra (sul tema "controlli interni nella scienza vedi anche questo articolo)

I risultati sono stati presentati nel 2014 al Congresso Internazionale di Endocrinologia dove gli autori sono stati premiati per il contributo eccezionale fornito alla conoscenza sull'argomento.

Fonti
- Peripheral Benzodiazepine Receptor/Translocator Protein Global Knockout Mice are Viable with no Effects on Steroid Hormone Biosynthesis 
Lan N. Tu et al, J. Biol. Chem. (2014)

Con il millesimo pianeta identificato il numero di pianeti "terrestri" aumenta

(Articolo precedente su esopianeti scoperti dal satellite Kepler --> qui o clicca "esopianeti" nel tag nel pannello a destra)


Pochi mesi fa il telescopio spaziale Keplero della NASA ha raggiunto una prima seppur simbolica pietra miliare: il pianeta numero 1000.
Notare che ora Keplero è puntato verso il "Sagittario"
(©nasa)
La missione Keplero è centrata sull'omonimo telescopio orbitante dotato di un fotometro ultra sensibile, puntato su una porzione della Via Lattea, e ha uno scopo chiaro: identificare esopianeti.
Dalla data del lancio (2009) Keplero ha monitorato in modo continuo tutte le stelle presenti nella porzione di sua competenza, ma distanti meno di 3 mila anni luce, cercando di trovare le minime oscillazioni periodiche di lumininosità indicative del transito di un pianeta (che chiaramente deve avere l'asse dell'orbita tale da passare "di fronte" alla stella).
La sensibilità di Keplero è tale da poter identificare cambiamenti di luminosità della stella pari allo 0,002%. Una sensibilità alta ma bisogna anche tenere conto che il transito di Venere di fronte al Sole causa un calo della luce solare dello 0,1%.
Questo non sminuisce la portata rivoluzionaria di tale strumento che ha permesso di integrare i dati ottenuti con altre tecniche e di rendere possibile identificare pianeti "terrestri" in quanto a massa, dimensione e posizione.
Nota. Fino a pochissimi anni fa i pianeti identificati (o meglio identificabili) erano le cosiddette super-Earths (pianeti rocciosi più grandi del nostro pianeta) e gli hot-Jupiters (pianeti simili a Giove ma posti in un'orbita molto stretta, interna a quella di Mercurio per capirci) in quanto portatori di caratteristiche che massimizzavano la probabilità del pianeta di essere identificato: un volume sufficientemente ampio da bloccare significativamente la luce della stella misurata dal telescopio; masse  sufficientemente elevate e distanze pianeta-stella sufficientemente prossime da "sbilanciare" gravitazionalmente il fulcro dell'orbita stellare. Per ogni altra informazione sui metodi usati per identificare gli esopianeti ---> wikipedia, Smithsonian , astrosociety e l'ottimo divulgativo Center for Science Education.
Nel corso della sua missione Keplero ha identificato circa 4 mila potenziali pianeti, di cui 700 sono stati in seguito confermati (mediante analisi ripetute o incrociando i candidati con quelli ottenuti con altri  metodi). I nuovi dati ne aggiungono 550 per un totale di 1789 pianeti scoperti fuori dal Sistema solare.
Quasi un miracolo date le premesse tutt'altro che favorevoli conseguenti al guasto del maggio 2013 di un componente necessario per mantenere il puntamento del telescopio. Solo grazie alla ingegnosità dei tecnici della NASA fu possibile riposizionare la sonda in modo utile, utilizzando il vento solare come motore. Chiaramente il posizionamento ottenuto è diverso da quello inizialmente progettato, centrato nell'area del Cigno contro l'attuale Sagittario, ma tutto sommato positivo dato che ha permesso di esplorare una nuova regione della Via Lattea.

Al meeting della American Astronomical Society tenutosi lo scorso 6 gennaio a Seattle, si sono aggiunti altri 8 pianeti "utili", vale a dire con raggio solo leggermente superiore a quello terrestre e in una posizione adatta da permettere all'acqua di esistere allo stato liquido.
Due degli otto pianeti, Kepler-438b e Kepler-442b, sembrano i migliori candidati (per massa, posizione e tipologia di stella attorno a cui orbitano) per una nuova categoria di pianeti che prescinda dalla definizione generica di pianeti rocciosi per quella più evocativa di "terrestri".
  • Kepler 438b dista 475 anni luce dalla Terra, ha una massa superiore a quella del nostro pianeta di circa il 12%, e il 70% di probabilità di essere composto di roccia e di rientrare nella zona abitabile della sua stella. 
  • Kepler 442b è più distante, trovandosi a circa 1.100 anni luce da noi, è più grande della Terra di circa il 30% e ha una probabilità del 97% di trovarsi nella zona abitabile.
Hanno entrambi un periodo orbitale molto inferiore a quello terrestre (35 e 112 giorni, rispettivamente) ad indicare una orbita nettamente più interna della nostra. Il che non deve però sorprendere se si considera che le stelle monitorata è di classe M (più piccola e fredda) del Sole e quindi anche la cosiddetta zona abitabile è necessariamente più interna rispetto a quella del sistema solare


Tra i dati trapelati dalle note del congresso sui rimanenti 6 pianeti (il resoconto completo verrà pubblicato prossimamente su The Astrophysical Journal) alcuni sono "affascinanti": uno di questi avrebbe un raggio tra 0,8 e 1,8 volte quelli terrestri e periodo orbitale di 376 giorni; altri tre sono ben oltre la zona abitabile rendendoli di fatto pianeti rocciosi ghiacciati … come il pianeta Hoth in Guerre Stellari.

Ricordiamoci tuttavia una cosa molto importante cioè che la nostra "visuale" è estremamente limitata. Non solo ci è preclusa la identificazione di esopianeti in altre galassie ma anche nella nostra Via Lattea vediamo solo "i palazzi" di fronte e non abbiamo idea di quanto avvenga al di là di essi.
La visuale del telescopio Keplero copre solo 1/400 della volta celeste (credit: Nature / NASA). Potete trovare una infografica sulla ricerca degli esopianeti nel pdf messo a disposizione da Nature --> qui.


Fonte
-  Kepler Discovers 1000th Exoplanet
 NASA/news
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La copertura territoriale delle radio e ... il genocidio del Rwanda

Il 1994 verrà a lungo ricordato come l'annus horribilis dagli abitanti del Rwanda a causa del genocidio maturato nell'ambito dello scontro tra Hutu e Tutsi.
Durante tutti i mesi del massacro la stazione radio RTLM fu l'epicentro da cui tracimava la propaganda razzista Hutu che istigava senza tanti giri di parole la violenza contro i Tutsi. Da questo elemento, che apparentemente non ha nulla a che vedere con le tematiche scientifiche qui trattate, è possibile tuttavia ricavare dati molto interessanti sulla correlazione tra ricezione della radio (a sua volta dipendente dalla geografia fisica locale) con i numeri del massacro.
Grafici di copertura radio e numero di vittime. Ovviamente poi il numero deve essere pesato per la densità locale dell'etnia vittima (credit: Harvard's Shorenstein Center &Carnegie-Knigh).  http://journalistsresource.org
In altre parole come i media possono non solo innescare ma condizionare quantitativamente gli eventi.
 Lo studio è stato condotto da Yanagizawa-Drott che ha creato diversi modelli in cui la ricezione del segnale radio è stata quantificata in modo sistematico nella "terra delle mille colline" (uno dei nomi con cui si identifica il Rwanda), con una particolare attenzione ai  villaggi dell'area. Dal confronto tra le mappe di copertura e i dati del casellario giudiziario locale, da cui emerge il numero di persone successivamente processato per i crimini legati al genocidio, si è scoperto che la correlazione esiste ed è chiara.
La violenza delle milizie Hutu è stata nettamente maggiore nei villaggi coperti dal segnale radio, il che indica l'effetto condizionante dei media sulle interazioni sociali e sulla violenza organizzata
Gli autori quantificato in 51 mila il numero di vittime "aggiunte", cioè direttamente conseguenti all'avere ascoltato le trasmissioni radio.
Trasferiamo questo modello su sistemi molto meno controllabili come i social dei giorni nostri e si capirà meglio l'effetto pervasivo e condizionante della propaganda terroristica dei giorni nostri 
(l'esempio forse più eclatante è quello dei manifestanti nel Mali e Niger all'indomani della strage di Parigi ma ... diretti contro i vignettisti assassinati!!! Un esempio di come si possano condizionare persone che di sicuro non avevano mai sentito parlare né del giornale satirico né del significato intrinseco del fare satira.
Fonte
- Propaganda and Conflict: Evidence from the Rwandan Genocide
David Yanagizawa-Drott The Quarterly Journal of Economics (2014) 129 (4): 1947-1994
- Propaganda, media effects and conflict: Evidence from the Rwandan genocide.

Ricerca sul diabete: lavori in corso

Non tutte le malattie sono uguali di fronte alla ricerca farmaceutica.
Chiunque neghi questo presupposto di fatto nega la realtà. Questo non vuol dire che chi fa ricerca sia senza cuore ma semplicemente che per fare ricerca ci vogliono molti soldi. E la quantità di soldi necessari cresce esponenzialmente quando si passa dalla ricerca accademica (il cui fine è comprendere il meccanismo alla base di un fenomeno) alla ricerca farmaceutica (scopo unico è identificare molecole in grado di alterare in modo voluto e sicuro i meccanismi "inceppati" che causano la malattia).
Per avere una idea delle cifre in ballo vi reindirizzo ad un articolo precedente (QUI). Parliamo di un valore medio per farmaco approvato pari a circa un miliardo di euro. Soldi che solo in pochi casi rientrano nelle casse dell'azienda. I cosiddetti farmaci blockbuster si contano sulle dita di una sola mano nella vita pluridecennale di una azienda.
Solo se si tiene bene a mente questo punto fermo si può capire la frase iniziale e perché ci sia una preferenza delle aziende a investire sulle malattie cardiovascolari rispetto alla atassia di Friedreich.
Solo le patologie sufficientemente diffuse e per le quali non esiste un trattamento soddisfacente (il che vuol dire anche trattamenti risolutivi ma "fastidiosi" per il paziente) sono teoricamente in grado di ripagare le spese affrontate.
Nota. "Teoricamente" in quanto il farmaco deve superare tutte le fasi della sperimentazione pre-clinica e clinica (per un totale compreso tra 8 e 20 anni di test) e affrontare la competizione di farmaci "simili" proposti da altre aziende.
Allo scopo di incentivare la ricerca sulle malattie rare (meno di 5 casi ogni 10 mila abitanti) sono state attivate corsie preferenziali nella fase di approvazione del farmaco (economici, regolatori e di tempistica) e incentivi alle aziende come l'allungamento del periodo di esclusività. Per altre informazioni --> Ministero della Salute e opha.net.
Tra le malattie che non hanno bisogno di incentivi governativi per essere studiate il diabete (e in particolare la forma adulta o di tipo 2) è emblematico. Il motivo è semplice: l'invecchiamento della popolazione, associato ad un regime alimentare non propriamente intelligente (valido anche per i vegetariani) e alla maggior disponibilità di cibo anche in aree geografiche fino a pochi anni fa sottoalimentate, ha di fatto aumentato il bacino dei diabetici potenziali, di coloro cioè che tra non molti anni necessiteranno di un trattamento farmacologico permanente.
In questo senso il diabete è il caso paradigmatico di una malattia "ideale" per l'industria farmaceutica dato che necessita di un trattamento continuativo per tutta la vita del paziente. Questo spiega l'interesse della ricerca per queste tematiche.

Di seguito una serie di articoli sul tema diabete (articolo precedente sul tema QUI)

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Tra gli studi recenti, uno dei più interessanti è quello condotto da una azienda svizzera e pubblicato su Science Translational Medicine. Dalla combinazione di due trattamenti ormonali già in uso (basati su GLP-1 e GIP) in una singola preparazione iniettabile si sono ottenuti risultati positivi sia in modelli animali che in esseri umani consistenti in una sommatoria di proprietà ipoglicemizzanti e bassa incidenza di effetti collaterali (tipici di farmaci simili già in commercio).
Nello studio sono stati analizzati 44 pazienti, divisi in gruppi e trattati con il mix ormonale (a diverso dosaggio) o con placebo per sei settimane. La curva dose-risposta del trattamento ha mostrato una efficacia superiore al trattamento con i singoli ormoni. Non è stata invece confermata in essere umano l'azione anoresizzante osservata negli animali (riduzione del peso corporeo fino al 19% in una settimana); una differenza probabilmente riconducibile al minore tempo dei test su uomo rispetto a quelli condotti su roditori. Rimane aperta quindi la possibilità che, in assenza di effetti indesiderati, l'aumento del dosaggio e/o la durata del trattamento possa essere utilizzato in maniera mirata sui soggetti obesi.
I test su animali hanno fornito un'altro elemento interessante, non ancora testato in uomo, cioè il potenziale effetto sinergico tra GLP-1 e gli estrogeni nel ridurre il rischio diabete. Un tema che varrà sicuramente la pena studiare nel prossimo futuro.
In sintesi, sebbene i dati siano ancora preliminari e basati su un numero di soggetti ancora troppo basso, ci sono le condizioni di sicurezza per aumentare la casistica dei pazienti, condizione necessaria per giungere all'approvazione del nuovo trattamento.

Fonte
- Unimolecular Dual Incretins Maximize Metabolic Benefits in Rodents, Monkeys, and Humans
 Brian Finan et al, Sci Transl MedVol. 5, Issue 209,

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Sempre nel campo del diabete, uno studio della università di Yale mostra come si possa ipotizzare di agire sulle cause biologiche del diabete di tipo 2 prima che questo compaia.
La molecola chiave è in questo caso il dinitrofenolo (DNP), capace di inibire parzialmente la capacità del mitocondrio di produrre energia. Nello specifico l'azione del DNP sulle cellule epatiche (e a cascata la riduzione dei trigliceridi) appare in grado di ridurre la casistica di "fegato grasso" e delle sindromi metaboliche correlate, tra le quali i diabete che come è noto è strettamente correlato a glicemia e dislipidemia.
 Come spesso avviene, gli effetti positivi del DNP erano noti da molti anni (90 anni!) ma erano stati messi in soffitta a causa dei seri problemi collaterali associati al trattamento. Ora grazie alle aumentate conoscenze nel campo si è pensato di riproporre la molecola avendo l'accortezza di farla arrivare solo dove serve (le cellule epatiche), eliminando così la tossicità generale che nasceva dalla aspecificità.

Fonte
Reversal of Hypertriglyceridemia, Fatty Liver Disease, and Insulin Resistance by a Liver-Targeted Mitochondrial Uncoupler
Rachel J Perry et al, Cell Metabolism (2013) 18(5)p740

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Rimaniamo in ambito preventivo sebbene con un focus più di tipo diagnostico.
I ricercatori svedesi della università di Lund hanno identificato un candidato intorno al quale costruire un test predittivo per il diabete. Lo studio è centrato sulla quantificazione dei livelli ematici della proteina SFRP4 nei soggetti normali, una volta all'anno per alcuni anni. Il 37 per cento di coloro che avevano livelli superiori alla media hanno sviluppato il diabete già durante il periodo dello studio. Al contrario solo il 9 per cento dei soggetti con bassi livelli di SFRP4 sviluppavano il diabete. Il marcatore sembra essere inoltre indipendente da altri fattori di rischio noti per il diabete di tipo 2 come obesità ed età.
Difficile dire oggi se tale associazione sia causale o solo un epifenomeno. Di certo SFRP4 non è una proteina aliena dai meccanismi che, alterati, possono condurre al diabete; è infatti coinvolta nel processo infiammatorio, centrale nella eziogenesi del diabete.
La teoria attuale è che uno stato infiammatorio cronico, anche asintomatico, mini la capacità delle cellule beta del pancreas di secernere insulina; processo che alla lunga porta al diabete.

Fonte
- Protein reveals diabetes risk many years in advance, 
 Lund University news 
- Secreted Frizzled-Related Protein 4 Reduces Insulin Secretion and is Overexpressed in Type 2 Diabetes
T. Mahdi et al Cell Metab. 2012 Nov 7;16(5):625-33

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Nuove prospettive per il diabete adulto vengono dalla scoperta di un ormone, la betatropina, in grado di stimolare la produzione di insulina nelle cellule beta del pancreas.
Nota. Se il diabete di tipo 1 è la conseguenza della morte delle cellule beta del Langerhans (produttrici di insulina) a causa di un anomalo attacco autoimmune, il diabete di tipo 2 è caratterizzato dalla resistenza periferica all'insulina che induce un sovraccarico produttivo sulle cellule pancreatiche culminante in un loro "spegnimento".
Nell'articolo pubblicato sula rivista Cell da un team di Harvard si evidenzia che il trattamento con betatropina può aumentare di 17 volte i livelli di insulina prodotta, aprendo così la strada a terapie più efficienti. Da un punto di vista ipotetico si potrebbe passare dalla iniezione giornaliera di insulina a quella settimanale di betatropina.
Nota. Un approccio simile, e molto promettente, è stato descritto anche da altri ricercatori (QUI)
Parliamo ovviamente di dati sperimentali ottenuti su animali che necessiteranno di una lunga fase di valutazione in essere umano (prima di tutto per la sicurezza del trattamento e poi per l'efficacia).


(articolo successivo sul diabete --> QUI)

Fonte
Betatrophin: A Hormone that Controls Pancreatic β Cell Proliferation
Peng Yi et al, Cell (2013) 153 (4) p747

Dal DNA di un bambino siberiano del paleolitico indizi sui primi coloni americani

Lo studio del DNA di un bambino siberiano di 24 mila anni fa è la chiave per identificare le popolazioni che colonizzarono le Americhe

Chi siano stati i primi umani a colonizzare le Americhe è ancora oggi oggetto di discussione. Non mi riferisco ovviamente all'annosa questione su chi tra Colombo, i vichinghi o ... i fenici abbia scoperto le americhe (stucchevole in quanto la scoperta implica la comunicazione ad altri della scoperta). Mi riferisco agli antenati dei cosiddetti nativi americani e in particolare a quale popolazione appartenessero oltre la generica definizione di "popolazioni asiatiche".
Schema riassuntivo degli eventi legati alla migrazione umana nelle americhe (credit: wikimedia/Lhoover724). Vedi anche

Il calo delle temperature culminato con le ere glaciali non è un fenomeno recente dato che è iniziato con la fine del periodo Cretaceo.


(wikimedia in Settlement of Americas)
Una domanda alla quale si può oggi cercare di dare una risposta più dettagliata grazie alle attuali conoscenze nel campo della genomica e nelle sue applicazioni in ambito di population genomics. Se fino a poco tempo erano le similitudini morfologiche e scheletriche a giocare un ruolo chiave nel definire i gradi di parentela tra nativi americani e popolazioni orientali, oggi è sempre più chiaro che questa associazione fornisce un quadro quantomeno riduttivo che non tiene conto né della molteplicità dei flussi umani attraverso l'allora percorribile (sia perché ghiacciato che per il fatto di essere allora parte della terraferma) stretto di Bering né degli incroci avvenuti mano a mano che i nuovi arrivati si spostavano verso sud incontrando coloro che erano arrivati prima. Flussi terminati al termine dell'era glaciale e al successivo innalzamento delle acque (pari a circa 120 metri) che impedì fino all'arrivo degli spagnoli ogni altra "contaminazione" genetica.
Se passare da un continente all'altro non fu particolarmente difficile nel periodo compreso tra 38 e 15 mila anni fa, uno degli ostacoli più significativi incontrati dagli inconsapevoli "neoamerindi" consisteva nello spostarsi verso sud: l'estesa area ghiacciata che ricopriva il Canada insieme agli imponenti massicci montuosi limitarono il transito solo in alcuni periodi e con poca scelta sui percorsi possibili. Due sono le rotte oggi considerate come le direttive di spostamento seguite, a seconda delle condizioni climatiche: il corridoio di Mackenzie (anche noto come corridoio interglaciale Yukon-Alberta) e la rotta costiera che dall'Alaska permette di arrivare a nord dell'attuale stato di Washington. Entrambe percorribili solo in alcune epoche e non "contemporaneamente".  Bisogna allora distinguere tra le prime tracce umane in Alaska (20-30 mila anni fa) e la definitiva chiusura del passaggio attraverso lo stretto con la fine dell'era glaciale (circa 13 mila anni fa).

Altro elemento chiave da tenere sempre presente è nella velleità nel parlare genericamente di similutidini tra amerindi e popolazione orientale, in un periodo in cui le popolazioni erano in piena fase espansiva dall'occidente e dal sud dell'Asia.
A tal proposito consiglio la lettura di un precedente articolo su Homo denisova e sugli incroci con i sapiens durante l'espansione verso oriente, evento avvenuto non tanti secoli prima (--> QUI).
Data la complessità del fenomeno sono chiaramente sempre benvenuti articoli su analisi genomiche condotte su reperti umani trovati "in aree spaziali e temporali" compatibili con popolazioni candidate ad avere generato le migrazioni verso le americhe. La analisi pubblicata sulla rivista Nature da un team del Natural History Museum danese rientra tra questi articoli; un lavoro centrato sulla sequenza completa del DNA ottenuto da resti ossei di un  bambino siberiano di quattro anni morto 24 mila anni fa.
Il reperto (MA-1) venne scoperto nel 1920 da archeologi russi vicino al villaggio di Mal'ta, lungo il fiume Belaya nella Siberia centro-meridionale. Oggi, grazie al progresso delle tecnologie della genomica è stato possibile ricavare da quel campione museale una quantità di DNA sufficiente per una analisi approfondita.
Si tratta, è bene ricordarlo, del più antico genoma di un essere umano moderno mai studiato.
Reperto importante in quanto sia da un punto di vista geografico che temporale è concorde con le popolazioni da cui si sono verosimilmente staccati  i gruppi che hanno attraverso lo stretto. Il confronto tra questo genoma e quello ricavato da analoghi reperti americani è fondamentale per illuminare un periodo lontano nel tempo.
Utilizzare il DNA delle popolazioni native, anche ammettendo di usare campioni da soggetti privi di ogni traccia genetica derivante da europei, è poco utile. Come accennato in apertura di articolo, non si è trattato di un singolo evento migratorio come invece avvenuto su molte isole del Pacifico, ma di una serie di passaggi e di successive migrazioni verso sud che hanno generato incroci che coprono tutto l'arco temporale precolombiano. Il confronto tra il reperto siberiano e reperti umani americani (preferibilmente trovati tra Canada e Alaska) è al contrario molto più utile in quanto non  "contaminato" da incroci.
La distribuzione degli aplogruppi nelle popolazioni umane (credit: wikimedia/Maulucioni)

Questi i punti chiave emersi dall'analisi:
  • Il genoma mitocondriale (trasmesso unicamente per via materna) appartiene all'aplogruppo U, presente con alta frequenza anche tra i cacciatori-raccoglitori che vivevano in Europa nel Paleolitico superiore e del Mesolitico.
  • Il cromosoma Y (trasmesso unicamente per via paterna tranne per la zona pseudoautosomica) ha diversi punti di contatto con le popolazioni eurasiatiche occidentali moderne e con quelli presenti in molte popolazioni dei nativi americani.
  • La componente autosomica del genoma mostra parimenti molte somiglianze con i moderni eurasiatici occidentali e con i nativi americani ma - molto importante - scarsa somiglianza con le popolazioni dell'estremo oriente. 
  • Il soggetto MA-1 presenta omologie con un reperto umano (Kostenki 14) trovato nella Russia europea e risalente a 37 mila anni fa (Paleolitico superiore). Come atteso in base a quanto noto (vedi articolo su Homo Denisova) le tracce di Neanderthal nel reperto russo sono evidenti, ad indicare l'appartenenza ad una popolazione diffusa tra Europa ed Asia centrale.
L'insieme di questi dati suggerisce che le popolazioni eurasiatiche si erano spinte già 24 mila anni fa più a nord-est di quanto finora previsto. Incrociando i dati attuali con quelli di reperti americani e con quelli ricavati da popolazioni "pure" di nativi, è possibile stimare che il 14-38% dei nativi americani discenda da questo antico popolo eurasiatico. E' altrettanto ovvio che nella migrazione (lunga molti secoli) verso nord-est del gruppo che avrebbe poi varcato lo stretto di Bering, si sono avuti molteplici incroci con gli antenati delle attuali popolazioni dell'estremo oriente, prima però che avvenisse la diversificazione nelle diverse popolazioni del Nuovo Mondo. Questo spiega la coesistenza di tratti somatici (e scheletrici) asiatici degli amerindi insieme a marcatori genetici che richiamano invece popolazioni eurasiatiche.

Nuovi dati emergono dall'analisi di un nuovo campione siberiano "più recente" (Afontova Gora-2) risalente a 17 mila anni fa. Sebbene troppo recente per essere di interesse per lo studio dei proto-amerindi, questo campione è interessante in quanto ha una "firma genetica" molto simile a quella di MA-1, ad indicare che la regione è stata abitata in modo continuativo (prima e dopo) dalle popolazioni da cui sono partite le migrazioni. Una popolazione poi diluita con il continuo contatto con le popolazioni meridionali "propriamente" asiatiche.

In conclusione possiamo dire che i dati ad oggi disponibili mettono una pietra tombale alla precedente ipotesi che spiegava la presenza negli amerindi di tracce genetiche assimilabili a quelle eurasiatiche come il risultato di una contaminazione post-colombiana

Come avrebbe potuto apparire l'Uomo di Kennewick
(Brittney Tatchell, Smithsonian Institution via abcnews.go)
La conclusione ad oggi più corretta è che i nativi americani sono il risultato della unione di due popolazioni - uno  dell'Asia orientale e l'altro da popolazioni eurasiatiche occidentali - anche se rimane da capire dove questa unione si sia verificata. Potrebbe essere accaduto da qualche parte in Siberia oppure nel Nuovo Mondo.

La risposta potrà venire solo dall'analisi di reperti umani nordamericani (come l'Uomo di Kennewick vecchio di 9 mila anni): se  i reperti mostrassero la presenza di marcatori orientali e eurasiatici allora l'incrocio sarebbe anteriore all'attraversamento dello stretto.



(Articoli precedenti sul tema "H. sapiens moderno e incroci" -->  neanderthal e denisova

Fonte
- Upper Palaeolithic Siberian genome reveals dual ancestry of Native Americans
  Maanasa Raghavan et al, (2014) Nature,  505, pp. 87–91

Correre, aiuta i topi a recuperare la vista

Fare attività fisica fa bene sotto molti aspetti. Da un punto vista mentale aiuta gli adulti a scaricare le tensioni accumulate durante la giornata e impegna i più giovani allontanandoli da attività meno salubri. In termini generali favorisce la funzionalità cardiovascolare (e quindi l'ossigenazione) e aiuta a prevenire le problematiche legate alla vita sedentaria e ad una alimentazione non ottimale.
Che fosse però anche utile a recuperare deficit visivi è qualcosa che neppure gli oltranzisti del fitness h24 avrebbero mai osato proporre. Perché questo è proprio quello che emerge da uno studio condotto sui roditori pubblicato sulla rivista eLife e citato su Nature.
Non si vogliono qui alimentare false speranze circa possibilità di recupero in persone con lesioni dell'apparato visivo. Stiamo parlando di un caso ben particolare e di un deficit, come vedremo, causato da deprivazione sensoriale e non da lesioni o anomalie del nervo ottico. Lo studio contiene sicuramente elementi molto interessanti riguardo la plasticità cerebrale, la capacità cioè di "ricablarsi" a seconda delle necessità e che è (anche) alla base dell'apprendimento.
Riassumendo l'articolo in una frase, i ricercatori hanno osservato un netto miglioramento nella capacità di recupero della vista in topi sottoposti a deprivazione visiva nelle fasi iniziali della vita. Per capire questo punto vale la pena citare gli studi classici condotti mezzo secolo fa che dimostrarono come il corretto sviluppo della corteccia visiva dipendesse dal ricevere input nervosi da entrambi gli occhi nei primi anni (settimane nel caso dei topi) di vita. Se un occhio è privato della vista durante questo 'periodo critico', il risultato è l'ambliopia, o 'occhio pigro'. Nell'essere umano questa situazione originare da eventi "fisici" come blefaroptosi congenita (in genere corretta chirurgicamente dopo il periodo critico), strabismo, cataratta o altro difetto non corretto per tempo. Tanto più tardi viene ripristata l'apertura dell'occhio e tanto minore è la possibilità di recupero visivo.

Già nel 2010, Christopher Niell e Michael Stryker, entrambi alla UCSF, osservarono che topi fatti correre su minipedane avevano una attività della corteccia visiva più che doppia (stante un identico stimolo) rispetto a topi "non atletici".
Per articoli sul tema vedi "Neuroscience: Through the eyes of a mouse" e "Neurodevelopment: Unlocking the brain".
La spiegazione da loro proposta fu che l'occhio di chi corre è forzato ad essere più reattivo a causa delle maggiori variazioni ambientali rispetto a chi è semi-stazionario. Si tratterebbe quindi di un circuito di rinforzo che si attiva automaticamente quando serve, o al contrario tenuto spento (per risparmiare energia) quando non serve.
Tenendo presente questo dato e il concetto classico che è l'attività ad influenzare la plasticità neuronale, Stryker e Megumi Kaneko, si chiesero se fosse possibile agire in modo proattivo per "forzare" la plasticità neuronale nelle aree poco stimolate della corteccia visiva.
Per testare questa possibilità, hanno indotto l'ambliopia nei topi neonati (con una semplice occlusione temporanea di una palpebra nel periodo critico) e successivamente hanno verificato, in due gruppi di topi entrambi sottoposti ad un allenamento quotidiano su un tapis roulant, se la ricchezza visiva era o meno in grado di influenzare il recupero visivo.
Il primo gruppo di topi venne fatto correre "immerso" in un ambiente visivamente molto ricco e dinamico - creato attraverso simulazioni video - mentre l'altro era tenuto in un ambiente standard.
Le sessioni di tapis roulant erano di 4 ore al giorno per settimane; un allenamento medio usando come riferimento l'attività fisica di un topo in libertà che deve cercare cibo e sfuggire ai predatori.
Durante ciascuna sessione di corsa l'attività cerebrale del topo è stata monitorata mediante tecniche classiche e non invasive come la risonanza magnetica funzionale.

Ad una settimana dall'inizio dei test i topi hanno cominciato a mostrare una maggiore reattività agli stimoli visivi nella zona corticale a cui afferiscono i segnali provenienti dall'occhio a ridotta funzionalità. Dopo due settimane, l'attività corticale era paragonabile a quella dell'occhio sano. Al contrario i topi del gruppo di controllo (corsa in ambiente standard) hanno mostrato miglioramenti nettamente inferiori.
Il dato più importante è che nessuno tra gli stimoli usati (corsa e ambiente ricco) preso singolarmente aveva alcun effetto significativo; inoltre solo stimoli visivi ricchi ma non caotici erano in grado di produrre tali miglioramenti nei topi corridori.

Rimane ovviamente da capire se e quanto questo processo di recupero sia applicabile alla neurofisiologia umana e in quali condizioni. Test che senza dubbio inizieranno molto presto.

  • Per articoli relativi al tema "visione" cliccare il tag corrispondente nel pannello a destra

Fonte
-  Running cures blind mice
Nature/news (2014)
- Sensory experience during locomotion promotes recovery of function in adult visual cortex.
Kaneko, M. & Stryker, M. P. eLife 3, e02798 (2014)

Scienza e giudici. Quando la logica si scontra con le opinioni

Tra i vari primati che l'Italia può vantare, uno di cui faremmo volentieri a meno è quello dell'interventismo dei giudici su tematiche scientifiche. Una velleità ipergiudicante che non ha eguali nel mondo occidentale e che viene, giustamente, stigmatizzata da chi (in Italia e all'estero) si preoccupa per le conseguenze che tali interventi a gamba tesa possono avere sulla nostra società.
 Questo non vuol dire che la scienza (o meglio chi si occupa di scienza) debba porsi al di là dei dettami della Legge, anzi, ma sarebbe auspicabile basare le contestazioni o le imposizioni su criteri logici senza pretendere di andare contro il consensus della comunità scientifica globale. Trascurare questo punto espone inevitabilmente a sconfessioni nei successivi gradi di giudizio e a una perdita di credibilità del sistema giudiziario (oltre a perdita di tempo, di soldi e del grado di affidabilità generale del sistema-Italia percepito all'estero).

L'ultimo caso in ordine di tempo viene dalla sentenza di condanna ai responsabili dell'allevamento noto come Green Hill, partita da capi d'accusa che hanno suscitato parecchi dubbi sulla stampa specializzata internazionale. L'articolo pubblicato pochi giorni fa su Nature segue quelli pubblicati nei mesi addietro dalla stessa rivista (la più letta da chi si occupa di scienza e spesso ripresa dai media classici) su tematiche che avevano in comune lo scontro tra la giustizia (o meglio alcuni giudici) italiana e la comunità scientifica: dalla imposizione di cure considerate illegittime dallo stesso ministero al giudizio sulla effettiva prevedibilità di ciò che è imprevedibile.
Come scritto sopra tutte le sentenze sono poi state ribaltate in appello ... ad indicare che forse prima di emettere una sentenza o anche solo aprire una istruttoria bisognerebbe essere sicuri di maneggiare la tematica che si vuole giudicare. 
Riassumiamo in breve gli episodi più eclatanti:
  • il caso di Bella. Per un riassunto vedi qui
  • il caso Stamina. Alcuni magistrati vanno contro la decisione di ministero e di comunità scientifica permettendo terapie basate sul nulla. Scelta poi sconfessata dalla procura di Torino che chiude definitivamente il caso e porta a giudizio gli "inventori" (qui).
  • il caso terremoto de l'Aquila. Condannati i sismologi che non avevano previsto ciò che nessuno al mondo è in grado di prevedere temporalmente, il terremoto. La sentenza è stata poi sconfessata in appello;
  •  il giudice che decide di indagare su vaccini e autismo ignaro del fatto che tale teoria è stata smantellata da anni  (dettagli qui);
  • caso Green Hill (qui)
A Milano si dice "Ofelè fa el to mestè ..."

Il ritorno del morbillo. La stupidità si paga

Non servivano capacità divinatorie o abilità analitiche degne dei migliori think-tank per prevedere l'epidemia di morbillo che sta imperversando da qualche mese negli USA. Tanto è vero che l'allarme era stato da me rilanciato quasi un anno fa  in articoli tematici (vedi "Vaccinazione morbillo" e "Non abbassare la guardia sul calo delle vaccinazioni").
(wikipedia)
Il punto centrale dell'articolo odierno sottolinea l'impresa (in senso negativo) dell'essere riusciti a trasformare il morbillo, una malattia sotto controllo (in USA e Europa) da più di 15 anni con un numero di casi annuali meno che esiziale, a malattia che si riaffaccia in comunità immunologicamente impreparate  ad affrontarla. 
E questo non perché nel frattempo sia comparso un nuovo ceppo virale particolarmente insidioso o sufficientemente diverso a livello epitopico da rendere meno efficaci le difese immunitarie. La causa è molto più semplice e va ricercata nella sensibile diminuzione delle persone vaccinate (in alcune aree con numeri percentuali a doppia cifra), che si traduce in più persone sensibili all'infezione; maggiore il bacino di infettabili, più probabile è la diffusione dell'epidemia al di fuori del focolaio iniziale. Dato che la vaccinazione contro il morbillo conferisce una protezione pluriennale, ne deriva che i soggetti sensibili per definizione sono i giovani in età scolare o pre-scolare, una età già di suo a maggior rischio a causa della promiscuità sociale a scuola e nei campi gioco.

Paradossalmente il virus del morbillo potrebbe ben figurare come l'esempio da copertina di un virus contro cui il vaccino manifesta una massimizzazione di utilità (durata e grado di protezione) ed efficacia (rapporto rischio-beneficio) proprio per le caratteristiche del virus:
  •  altamente infettivo (valore dell'indice R0 maggiore di 10, tre volte quello dell'influenza). Il virus rimane attivo e contagioso nell'aria o su superfici contaminate per circa due ore dopo che è uscito dal corpo e il periodo infettivo copre l'intervallo compreso tra 4 giorni antecedenti e successivi la comparsa delle macchie cutanee. Sommando questi dati si evince quanto sia facile per un bambino sensibile (cioè privo di anticorpi specifici) essere infettato. Per altre informazioni vedi i dati OMS.
    Malattie infettive a confronto. Morbillo (measles) batte Ebola in quanto a numero di persone infettate da singolo individuo malato
  •  La bassa variabilità virale permette di avere una immunità pluridecennale post-esposizione, dato che il virus è sempre "lo stesso". Confrontate questa "staticità" con l'estrema variabilità del virus influenzale (per cui è necessario ogni anno una nuova vaccinazione); solo questo fatto dovrebbe togliere ogni dubbio sull'importanza del vaccino contro il morbillo
  • Uno dei concetti chiave per comprendere come il rapporto tra soggetti immuni (vaccinati o precedentemente esposti) e sensibili in una data popolazione sia determinante per bloccare sul nascere la nascita di una epidemia, è quello della Herd Immunity (immunità di gregge) Ad ogni malattia infettiva corrisponde un valore diverso di "soglia di immuni" al di sopra della quale il patogeno non riesce a innescare l'epidemia. Come evidenziato dalla figura sotto, il morbillo è tra le malattie infettive comuni quello che è in grado di automantenersi in una popolazione quando la soglia di immuni (vedi sopra) scenda sotto il 90%. Bastano quindi relativamente poche persone (tra quelle sensibili) che decidono di non vaccinarsi per trasformare una popolazione immune in un focolaio epidemico; un fenomeno che, per definizione, favorisce l'insorgere di ceppi virali più aggressivi

    La Comparazione tra l'infettività di malattie comuni (a sinistra) e la copertura sulla popolazione conferita dal vaccino. Per ulteriori dettagli su R0 e concetto di "Herd Immunity" vi invito a rileggere l'articolo precedente sul blog (QUI) e le referenze a fondo pagina. Per una descrizione più semplice di Herd Immunity -->QUI.
     

E qui veniamo al punto dolente. Mai come stavolta si può affermare che più che la ragione potè la credulità popolare, nell'impresa di ridare fiato ad una malattia prevenibile, grazie alle dicerie sul presunto connubio tra vaccinazione e autismo. Un legame totalmente infondato, per vari motivi:
  • eziopatogenesi. L'autismo oltre ad essere una malattia eterogenea e quindi non correlabile ad un singolo e ben identificabile evento (quindi dire che si conosce il nesso causale è un falso), non è nemmeno una malattia che insorge nell'infanzia ma è conseguente a problemi di sviluppo neurologico nella fase embrionale (vedi "Autismo: una patologia geneticamente eterogenea" e articoli successivi per altri dettagli). Un dettaglio non secondario in quanto rende di fatto impossibile teoricamente anche il solo postulare una associazione tra problemi di sviluppo embrionale e vaccinazione infantile: come possa un vaccino avere un effetto retroattivo è un mistero che nessuno dei seguaci di tale ipotesi sembra considerare.
  • Lo studio responsabile di questa credenza venne pubblicato da un medico inglese negli anni '90. Peccato che la teoria formulata, in cui si ipotizzava il legame vaccino/autismo, non solo NON ha mai trovato riscontro in tanti altri studi condotti da allora ma nasce da dati falsi che hanno portato alla ritrattazione dell'articolo da parte dello stesso autore e alla successiva espulsione dello stesso dall'ordine dei medici. ATTENZIONE: non si tratta di un errore di analisi o di dati poi corretti in seguito a migliori tecniche sperimentali (questo è normale e accettabile nella scienza) ma di dati falsificati come appurato da una indagine successiva. Per altri dettagli vedi QUI.
Nonostante queste evidenze, il rifiuto del vaccino è diventato sempre una più una bandiera sotto la quale sono confluite persone e idee anche molto diverse tra loro, in particolare nei paesi anglosassoni. Ne riparlerò in chiusura di articolo.

Non sorprende quindi che dal rischio di epidemie si sia passati alla realtà di epidemie in pochi mesi, come egregiamente riassunto nei due articoli pubblicati oggi sul New York Times (vedi link a fondo pagina).
La conta dei casi di morbillo negli USA secondo i dati ufficiali diffusi dal Center for Disease Control (CDC). Articolo originale QUI.

Risultato simile prendendo in esame il trend in Australia. La freccia rossa indica l'inizio delle vaccinazioni di massa sui bambini
La figura parla chiaro. I casi di morbillo sono saliti l'anno scorso a 644, quasi quanto la somma di casi nell'ultimo decennio. E le prospettive sono negative se si pensa che il numero di casi confermati nel solo gennaio 2015 è già a quota 84, concentrati in solo 14 dei 48 stati continentali degli USA, ad indicare una diffusione ancora nelle prime fasi. Non è nemmeno casuale che uno dei focolai dell'infezione sia stato il parco divertimenti di Disneyland, un luogo "ovvio" in quanto concentra in un'area ristretta e molto affollata quelli che sono i soggetti sensibili per definizione (se non vaccinati): i bambini. Soggetti che al loro rientro a casa e prima della comparsa dei segni rivelatori del morbillo avranno tutte le occasioni per diffondere il virus a scuola o durante le attività ricreative.
Nota. Sebbene possa sembrare ovvio, vale la pena sottolineare che il motivo per cui negli anni passati la frequentazione degli stessi luoghi non abbia alterato sensibilmente il numero di casi di morbillo, a parità di soggetti portatori sempre presenti nella popolazione, era legato al superamento della soglia minima di individui resistenti che rendevano molto difficile al virus trovare "terreni di coltura" adatti. E qui torniamo al concetto di herd immunity che nel caso del morbillo (vedi figura sopra) deve essere superiore al 85-90% dei membri della popolazione in esame. Se prendiamo la popolazione complessiva è probabile che il valore sia (di poco) ancora superiore; se prendiamo però la sottopopolazione degli under-15 (quelli che compongono scuole e campi gioco) tale valore cala drasticamente arrivando al 60%. Una vera "manna" per il virus del morbillo.
Contrarre una malattia così contagiosa come il morbillo ha immediate ripercussioni sulle comunità colpite e i racconti forniti dal New York Times sono emblematici; ne citerò di seguito alcuni.
Le scuole hanno ad esempio cominciato con il vietare la frequentazione ai soggetti non vaccinati (sia perché "a rischio" che per rallentare la diffusione dell'epidemia). Stessa cosa per feste di compleanno e attività sportiva dei ragazzi (attività molto più comuni che da noi).
Un caso emblematico lo si è avuto nella contea di Riverside (a est di Los Angeles), dove in seguito alla malattia di un dipendente della scuola si è deciso per sicurezza di lasciare a casa 40 studenti non vaccinati
A questo si aggiunge una crescente stigmatizzazione verso coloro ora additati come "irresponsabili egoisti" che per una idea personale hanno di fatto messo a rischio l'intera comunità; ricordiamoci infatti che la vaccinazione è SOPRATTUTTO utile per tutelare coloro che per motivi sanitari (anziani, immunodepressi, bambini pre-vaccinazione) non sono o non possono essere vaccinati. Si è quindi passati da una filosofia permissiva nelle piccole comunità basata sul "se non credi nella vaccinazione, sei libero di non farla" ad esplicite accuse ai vicini per "comportamento negligente e criminale che lede la mia sicurezza e non solo la tua".
Molti negozi hanno cominciato ad affiggere avvisi sulle vetrine con inviti alle persone con famigliari malati a indossare mascherine prima di entrare.
Nota. Il problema principale associato al morbillo non è la "malattia in se" ma le complicanze che ad essa possono associarsi. Il fattore rischio aggiuntivo deriva da una capacità peculiare del virus del morbillo che è quella di essere un efficiente immunosoppressore. Minore attività del sistema immunitario si traduce in un aumentato rischio di sviluppare malattie causate da patogeni opportunisti. I numeri sono ancora una volta chiari: 1 bambino su 20 con morbillo contrarrà anche una polmonite (causa principale di decesso nei più giovani); 1 su 1000 si ammalerà di encefalite (causa di convulsioni e potenziale induttore di danni permanenti come sordità o ritardo mentale); ogni 1000 bambini che si ammalano di morbillo, 1-2  ne moriranno.
Numeri assolutamente inconcepibili e inaccettabili essendo il morbillo una malattia prevenibile.
Di fronte al tradursi del morbillo da una minaccia ipotetica ad un evento reale gli stessi attivisti del movimento anti-vaccino americano sono passati da una posizione "militante" compatta ad una divisione tra irriducibili ("preferisco che i miei figli perdano anche un semestre a scuola piuttosto che consentire l'iniezione delle tossine del vaccino" [parole testuali]) e dubbiosi corsi dal medico per una vaccinazione last minute dopo aver soppesato i rischi teorici al morbillo reale. Tendenza in aumento dopo che nuovi focolai di morbillo sono apparsi in Nebraska, Minnesota, New York e in varie contee californiane.
Nota. La corsa dell'ultimo minuto al vaccino è di suo indicativa di una certa ignoranza sui meccanismi di immunizzazione. Una volta ricevuta la vaccinazione sono necessarie circa 3 settimane perché la copertura immunitaria sia evidente (i primi anticorpi cominciano a circolare circa 8 giorni dopo l'esposizione). Non si tratta di una pozione magica o di una medicina che inizia ad esercitare l'effetto subito dopo l'assunzione
La Casa Bianca ha esortato i genitori ad ascoltare la scienza e non le dicerie prive di fondamento. Un simile appello viene dai funzionari della sanità dello stato dell'Arizona che hanno stimato in almeno un migliaio le persone ad immediato rischio di morbillo, esortando chiunque mostrasse i sintomi a contattare il proprio medico e a minimizzare i contatti con altre persone. Un timore sostanziato dal fatto che domenica sera a Phoenix (Arizona) ci sarà l'evento clou della stagione sportiva americana, il Super Bowl; si vuole evitare che l'evento sportivo (aggregatore di pubblico) diventi un nuovo trampolino di lancio per la diffusione del virus in aree ancora non colpite.
Le autorità del New Mexico, stato ancora "libero" da focolai, sono consapevoli di essere a rischio sia per la vicinanza con California e Arizona che per l'alto tasso di bambini non vaccinati, aumentati del 17 per cento nell'ultimo biennio.

Due parole sulle caratteristiche degli appartenenti al movimento anti-vaccino. Si tratta di una compagine alquanto eterogenea per censo, istruzione e motivazioni: andiamo da persone che ancora credono alla validità dell'articolo incriminato di cui sopra a movimenti religiosi che rifiutano pratiche mediche moderne (ad esempio gli Amish) fino alla sottocultura che incorpora idee post-new age e di salutismo assoluto. Una sottocultura molto in voga tra famiglie benestanti e istruite che vivono in quartieri esclusivi di Los Angeles e San Francisco che fanno del motto "all-natural" un modus vivendi per se e i propri figli (le interviste a divi hollywoodiani come Gwyneth Paltrow et similia sono molto indicative).
Una compagine sempre più estesa che lascia sconfortati molti pediatri di base che lamentano di "sentirsi proiettati indietro negli anni '50" data la percentuale di bambini non vaccinati negli asili che oscilla tra il 20 e il 40 per cento. "Le motivazioni addotte dai genitori per non farli vaccinare sono sempre legate a convinzioni personali" continua il medico intervistato "E' molto frustrante vedere un bambino ammalarsi e soffrire per qualcosa del tutto evitabile".
Nota. La protezione fornita dal vaccino trivalente è circa del 95%. Fate voi due calcoli tra la certezza di infezione tra un non vaccinato esposto e un vaccinato. Una differenza molto superiore a 95 volte dato che se nella comunità la soglia dei "resistenti" è superiore al 90% (Herd Immunity) la probabilità di "incontrare il virus" diventa meno che decimale.
Paradossalmente la percentuale di bambini vaccinati è inversamente proporzionale al reddito medio della contea: la classe medio-bassa è più propensa a seguire i consigli dei medici di quelli a reddito elevato. Un caso che mostra come il quoziente intellettivo non va di pari passo con il reddito ...


Un esempio pratico di Herd Immunity. All'aumentare della percentuale di vaccinati nella popolazione varia la velocità di diffusione di un virus. Alcuni valori corrispondono alle percentuali di vaccinati "reali" in alcune contee USA. Facile notare quanto la variazione al di pochi punti percentuali (sotto il valore soglia) abbia un profondo impatto sulla epidemia. La foto è una istantanea di un video flash disponibile sul sito del giornale inglese The Guardian. Clicca --> QUI per vedere la simulazione interattiva.
Se avete dubbi su quanto sia contagioso e pericoloso il morbillo, questo grafico ne evidenzia molto bene le caratteristiche (Credit:NYT)

***

Il problema però non riguarda solo il morbillo (ne ho discusso QUI) che pur con le complicazioni associate è meno distruttivo di altre malattie per cui esistono dei vaccini. Un esempio eclatante viene  dal caso della contea di San Geronimo, California, una bella area rurale sita 30 miglia a nord di San Francisco. Qui il 40 per cento degli studenti della locale scuola elementare non sono vaccinati per il morbillo e il 25 per cento non è stato nemmeno vaccinato contro il virus della polio. In totale il 58% dei bambini è carente per almeno una delle vaccinazioni standard.

Chiudo con il citare una chicca tratta sempre dall'articolo del New York Times che esemplifica al massimo il modo di pensare di alcuni che permangono nelle loro convinzioni anti-vaccino.
La signora McMenimen, una delle mamme che si trova con un bambino con il morbillo, risponde così al giornalista che chiede il perché della scelta di non vaccinare il figlio: "Tobias ha sopportato molto bene sia la varicella che la pertosse, e quest'ultima è stata come un comune raffreddore. Ho solo avuto la tentazione di fargli fare una antitetanica dopo che il bambino si era tagliato con il filo di un recinto ma poi ci ho ripensato. Ha un sistema immunitario così forte"
Credo non servano altri commenti

***

E l'Italia?
L'Italia è stata richiamata ufficialmente dall'OMS a causa del calo del tasso delle vaccinazioni obbligatorie. Sarebbe interessante confrontare i dati e pesarli in base ad aree geografiche, censo, livello di istruzione e origine delle famiglie inadempienti. Dati essenziali per capire come correggere un trend inammissibile.
Casi per milioni di abitanti: <1 (giallo); <10 (arancione); pois (>20)



(Articolo precedente su morbillo qui)


Fonti ulteriori oltre a quelle già citate nell'articolo
- Dal New York Times

  • Vaccine critics turn defensive over measles (31/1/2015)
  • As Measle Cases Spread in US, So Does Anxiety (31/1/2015)
  • Reckless Rejection of the Measles Vaccine (3/2/2015)
- Istituto Superiore di Sanità e Ministero della Salute
- Centers for Disease Control
- Mayo Clinic
- National Institutes of Health

***
Se volete affrontare l'argomento "quanto sono importanti i vaccini e perché" vi consiglio la lettura del libro scritto da Alberto Mantovani, uno che si occupa di scienza 365 giorni all'anno e che rappresenta un fiore all'occhiello della ricerca italiana in ambito internazionale. Il libro è scritto in modo semplice ma rigoroso, pensato apposta per informare e spiegare senza dogmatismi o dietro false ideologie


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