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La teoria MOND spiega il (fantomatico) Pianeta 9?

Image Credit: NASA/SOFIA/Lynette Cook
Tra le possibili spiegazioni del mistero del pianeta 9, cioè di un pianeta che dovrebbe esistere (per spiegare alcune anomalie orbitali della fascia di Kuiper, ai confini del sistema solare) ma che nessuno strumento è mai riuscito ad identificare, si annoverano buchi neri primordiali (PBH, vedi articolo precedente), pianeti con orbite talmente eccentriche da essere per ora fuori visuale o l’essere questa massa mancante in realtà il risultato della somma di una miriade di piccoli planetoidi come quelli che compongono la nube di Oort.
Nelle scorse settimane ne è stata proposta un’altra, ben più complessa, che è parte della teoria MOND sviluppata come alternativa alla (altrettanto introvabile) materia oscura per spiegare la curva di rotazione delle galassie. Il nuovo sviluppo (pubblicato su The Astronomical Journal) viene dagli astrofici americani Brown e Mathur  che hanno provato a vedere se questa versione modificata della dinamica newtoniana fosse in grado di spiegare gli indizi (e rendere così inutile la proposta della sua esistenza) del Planet Nine.

In parole molto semplici le orbite anomale di alcuni corpi transnettuniani sarebbe un effetto della azione gravitazionale della Via Lattea nel suo complesso che, a certe distanze, si comporterebbe in modo “non-newtoniano”.  Il punto centrale della della Mond, revisione della dinamica newtoniana, è il palesare i suoi effettià dove la forza gravitazionale è molto debole come ad esempio ai confini delle galassie a spirale (dove si trova il sistema solare) o negli ammassi aperti. 
L’idea inziale di Brown era tipica del pensiero scientifico cioè mettere alla prova la teoria Mond verificando una eventuale incompatibilità con i dati che avevano generato l’idea di Planet Nine. Invece la conclusione alla quale giunsero fu che qualche effetto poteva esserci, quindi non solo la Mond non viene “falsificata” da questi dati ma che il clustering di alcuni corpi trans-nettuniani (TNO) sarebbe proprio ciò che la Mond prevede: in tempi su scala di milioni di anni le orbite di alcuni TNO sarebbero stati spinti fino ad allinearsi con il campo gravitazionale della Via Lattea.

Mistero risolto? Aspettiamo la prossima puntata

Fonte
Modified Newtonian Dynamics as an Alternative to the Planet Nine Hypothesis
Katherine Brown e Harsh Mathur, (2023) The Astronomical Journal



Qual è la distanza di sicurezza da una supernova?

Una supernova è la spettacolare esplosione di una stella massiccia giunta a fine vita**, così spettacolare che è raccomandabile guardarla da molto lontano.
Illustration Credit: NASA/CXC/M. Weiss
Tale premessa spiega la domanda che si sono posti alcuni astronomi cioè quale sia la distanza di sicurezza minima. La risposta viene da uno studio basato sui dati ottenuti dall’osservatorio a raggi X Chandra, che pone a 160 anni luce tra noi e la stella perché l'evento sia osservabile senza subirne gli effetti. Studi precedenti avevano fissato il paletto a 50 anni luce dalla Terra e altri avevano descritto gli scarsi effetti di una supernova avvenute a 300 anni luce da noi, non associabili a evidenti cambiamenti della biosfera (o estinzioni di massa) sulla Terra.
L'ultimo evento distruttivo risale alla fine dell'Ordoviciano (500 milioni di anni fa) in cui si ritiene che l'estinzione di massa sia stata innescata, attraverso una serie di effetti a cascata, da GRB (gamma ray burst) prodotti da una non meglio identificata supernova, i cui effetti sono però evidenti nella d'elezione dello strato di ozono dell'antica atmosfera.
Una supernova distante 30 anni luce di distanza produrrebbe gravi danni sulla Terra a causa dell'effetto dei raggi X e gamma sullo strato di ozono, danneggiato il quale aprirebbe la strada all'azione dannosa dei raggi ultravioletti provenienti dal Sole. A questo si aggiungerebbe la ionizzazione dell'azoto e dell'ossigeno atmosferici  portando alla formazione di grandi quantità di protossido di azoto, che tra le altre cose causa l'effetto serra, quindi un forte impatto sul clima.
Tra i primi organismi ad essere colpiti il fitoplancton il cui declino impatterebbe la catena alimentare oceanica e con esso la biosfera in generale.

Fortunatamente (oggi) non ci sono (più) stelle entro un raggio di 30 anni luce che abbiano la potenzialità di originare supernova; discorso simile anche espandendo il raggio a 100 anni e ampliando le previsioni centinaia di milioni di anni da ora; o almeno non ci sono stelle massicce che sono per natura di breve vita e destinate a "esplodere".
** Esistono due diversi tipi di supernova. La supernova di tipo II è una stella massiccia che collassa quando ha esaurito il combustibile nucleare e non è più in grado di produrre energia per controbilanciare la massa soprastante. Non mi risultano esserci stelle massicce entro la distanza di sicurezza di 160 anni luce.
La supernova di tipo I si verifica quando una piccola e debole stella nana bianca collassa avendo raggiunto una massa critica in seguito alla cattura di materiale da una stella compagna in un sistema binario. Queste stelle sono fioche e difficili da trovare, quindi manca una precisa indicazione di quante ce ne siano nelle vicinanze; una stima meramente teorica indica un numero di alcune centinaia entro 160 anni luce, ma non se ne conosce nessuna pronta ad esplodere. La stella IK Pegasi B (parte di un sistema binario) è il candidato progenitore di supernova più vicino conosciuto situato a circa 150 anni luce di distanza.
C'è in effetti una stella gigante (15-20 masse solari) che gli astronomi prevedono esploderà "presto": Betelgeuse. La stella, di cui ho scritto in precedenza, si trova a 430 anni luce da noi e la sua supernova produrrà sarà visibile per diverse settimane anche in pieno giorno.
Nella storia dell’umanità (quindi poche migliaia di anni) non si hanno evidenze di supernova verificatesi entro una distanza inferiore al centinaia di anni luce. La supernova più recente (1987) visibile ad occhio nudo è stata la SN 1987A, distante ben 168 mila anni luce, e la seconda visibile senza strumenti in base ai resoconti storici (la prima è quella di Keplero nel 1604, distante 20 mila anni luce).
La più vicina nell'ultimo decennio è quella avvenuta nella galassia M101, distante ben 21 milioni di anni luce.
Alcune stime suggeriscono che la frequenza di supernove "con effetti potenziali" (per la distanza) potrebbero verificarsi ogni 15 milioni di anni; un altro studio che l’esplosione di una supernova entro 10 parsec (33 anni luce) si verifica ogni 240 milioni di anni. In modo più semplice potremmo rifarci al principio antropico per dire che il fatto stesso che abbiamo la possibilità di pensare a tali eventi è la prova che la Terra si trova in un'area relativamente sicura dove questi eventi sono estremamente rari tanto da aver permesso alla vita di emergere e restare negli ultimi 3,5 miliardi di anni.
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Fonte
X-Ray-luminous Supernovae: Threats to Terrestrial Biospheres
Ian R. Brunton et al, (2023) The Astrophysical Journal



La caffeina riduce il rischio Parkinson, anche nei soggetti predisposizione genetica?

Una nuova ricerca svela una correlazione significativa tra il consumo di caffeina e un ridotto rischio di malattia di Parkinson (PD) per gli individui con varianti genetiche asiatiche legate al disturbo.
Image credit: Neuroscience News

Lo studio è stato condotto a Singapore dal (locale) National Neuroscience Institute.
Una delle ragioni dello studio è che poco meno del 10% della popolazione di Singapore è portatrice di una delle due varianti genetiche asiatiche conosciute, che aumentano il rischio PD fino a 2 volte. 

L'analisi ha coinvolto 4488 soggetti divisi tra portatori della variante genica e controlli. Si tratta di uno studio osservazionale in cui è stata fatta una correlazione tra la frequenza di sintomi in funzione della quantità di caffè abitualmente bevuto; il confronto è sia interno (diverse dosi di caffeina assunta abitualmente negli anni) che con i controlli (soggetti senza predisposizione genetica alla malattia con uguale consumo di caffè).

La quantità di caffeina media assunta giornalmente dai partecipanti è stata di 450 mg, equivalenti a circa 4-5 tazze di caffè locale (per dare una idea una tazzina di espresso contiene intorno 60 mg, mentre una tazzina di Moka può arrivare a 120 mg)

I risultati indicano che il consumo regolare di tè o caffè riduce il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson di 4/8 volte rispetto ai portatori della variante che non assumono caffeina. L'effetto protettivo sembra aumentare all'aumentare della quantità di caffeina assunta sebbene anche un consumo modesto, inferiore a 200 mg al giorno, mostra benefici (termine che, ricordo, vuol dire sintomi minori o assenti rispetto a chi non ha mai assunto caffeina).
L’assunzione di 400 mg di caffeina al giorno è considerata sicura per la maggior parte degli adulti sani. Il dato neuorprotettivo in sé non è inatteso in quanto è da tempo nota l'azione neuroprotettiva della caffeina anche nel contesto di altre condizioni neurodegenerative.

 La ragione di tale protezione sembra essere l'azione antinfiammatoria della caffeina alla base di ridotta neuroinfiammazione e morte neuronale.

Lo studio del PD è un tema di sempre maggiore importanza con l'aumento della età media della popolazione globale. Nella sola Singapore vi sono 8 mila persone affette da PD e si stima che il 26% della popolazione anziana locale presenti almeno lievi segni di parkinsonismo. 

Fonte
- Caffeine intake interacts with Asian gene variants in Parkinson's disease: a study in 4488 subjects
Yi-Lin Ong et al (2023) The Lancet (Reg Health West Pac)

Al lavoro per sviluppare test per la diagnosi veloce di Parkinson dai tamponi cutanei

Diagnosticare (meglio se con largo anticipo) il morbo di Parkinson? Potrebbe in futuro essere possibile usando un metodo totalmente non invasivo analizzando il sebo mediante spettrometri di massa.

Lo studio di fattibilità è stato pubblicato qualche mese fa sulla rivista Journal of the American Chemical Society da un team inglese che ha scoperto che esistono lipidi ad alto peso molecolare più abbondanti nelle persone con il Parkinson.
I test, preliminari, sono stati condotti su un gruppo campione costituito da 79 persone con Parkinson e un gruppo di controllo di 71 persone.

L'idea dello studio viene dallo studio di una persona di cui avevo già scritto in precedenza* come Joy Milne, dotata di olfatto "super" (in termini tecnici iperosmia ereditaria), che si è dimostrata capace di "annusare" la malattia nelle persone prima che questi manifestassero i sintomi clinici.
Joy Milne al "lavoro" (credit: manchester.ac.uk)
* Vi rimando agli articoli del 2019 ("Lo strano caso della donna capace di...") e del 2016 ("Predire il rischio di Parkinson dall'odore").
Il sebo è una secrezione oleosa, ricca di metaboliti, prodotta dalle ghiandole sebacee cutanee collegate al sistema endocrino.
Punto di partenza la nozione clinica che i soggetti affetti da Parkinson presentano una produzione anomala di sebo, da qui l'idea di verificare se alterazioni nella sua composizione potessero avere valenza diagnostica, dall'analisi di campioni prelevati dalla parte superiore della schiena.
Una volta arrivato in laboratorio il campione viene trasferito dal tampone alla carta da filtro, a cui viene poi aggiunta una goccia di solvente. Fatto questo si può procedere all'analisi mediante spettrometro di massa. Si è potuto così dimostrare che tra le più di 4000 molecole uniche presenti, circa 500 erano diversi tra i due gruppi di soggetti analizzati.

La speranza ultima è quella di sviluppare un test diagnostico facile e affidabile che permetta di individuare i soggetti a rischio malattia prima che questa si manifesti (requisito fondamentale per sviluppare e testare trattamenti idonei, visto che quando la malattia si manifesta il danno neuronale è oramai talmente ingente da non potere essere invertito)

Fonte
Parkinson’s breakthrough can diagnose disease from skin swabs in 3 minutes
University of Manchester /news


***
Kit per addestrare l'olfatto ... senza pretendere/sperare di diventare super come Joy Milne


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