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Le migliori foto dallo spazio "vicino" del 2015

Eclisse di superluna
Image: Jose Antonio Hervás (@JoseHervasMora) via gizmodo.com

Dalla unione di più di 200 fotografie delle fasi lunari culminate nella luna rossa si è ottenuta questa spettacolare immagine. Si tratta di un evento raro noto come "eclissi di super Luna" per rivedere la quale bisognerà attendere il 2033 (vedi anche --> Wired).

Giove
Credit: NASA
La "Grande Macchia Rossa" di Giove è una tempesta che copre un'area grande due volte la superficie della Terra e che dura da almeno 150 anni (il momento in cui fu osservata la prima volta). In quella zona i venti raggiungono velocità superiori ai 600 chilometri all'ora. Il colore rossastro del centro potrebbe essere causato dall'idrosolfuro di ammonio anche se è difficile affermarlo con certezza essendo tale sostanza difficile da studiare in laboratorio data la sua instabilità (vedi anche --> INAF).

Marte
Credit: NASA/JPL-Caltech/MSSS
Una bella immagine catturata dal rover Curiosity. Dune di sabbia marziane nei pressi del monte Sharp. 
Per approfondimenti "semplificati" consiglio la lettura di articoli precedenti pubblicati su questo blog: "Missione Marte" (--> qui) e sul rover Curiosity (--> QUI per i momenti salienti della missione, ivi compreso un video riassuntivo dei tre anni di lavoro dall'arrivo su Marte).

Sonda Rosetta
La cometa vista da Rosetta (credit: ESA)

Immagine della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko catturata dalla sonda Rosetta ad una distanza di 128 chilometri. Sulla cometa è ora adagiato il lander Philae (maggiori dettagli nel precedente articolo pubblicato sull'argomento --> "Momenti chiave della missione Rosetta").

Pioggia di meteore
Credit: Andrés Nieto Porras (CC BY-SA 2.0)via popsci.com
Ogni agosto in corrispondenza della notte di San Lorenzo si ripete l'omonima "pioggia" di meteore (anche nota come "Perseidi" a causa della posizione nella volta celeste). La periodicità del fenomeno è da ascrivere al passaggio della cometa Swift-Tuttle e della conseguente scia di detriti.

Plutone
Visto da "dietro" ...  (Credit: NASA/Johns Hopkins University)
d
... e di "fronte"(Credit: NASA/JHUAPL/SwRI)
 ... e la sua luna, Caronte
Credit: NASA/JHUAPL/SwRI
Articolo tematico sulla missione New Horizon --> qui.

Aurora polare vista dalla stazione spaziale orbitale internazionale
(Credit: Scott Kelly. Foto originale --> @stationcdrkelly)

Addio a Leonard Nimoy (alias mr. Spock)
L'astronauta Terry Virts ha salutato in questo modo la dipartita di Leonard Nimoy.
Un saluto vulcaniano durante il passaggio della ISS sopra il Massachusetts,
luogo di nascita di Nimoy. (credit: @AstroTerry via Twitter)
La Luna e la ISS
L'astronomo Dylan O'Donnell ha atteso un anno per trovare le condizioni
ideali per fotografare il transito della stazione spaziale internazionale (ISS)
di fronte alla luna piena (l'oggetto in alto a destra). La frase "cogli l'attimo" descrive perfettamente la
foto dato che la ISS ci ha messo 0,33 secondi per "attraversare" lo sfondo lunare
(credit: ESA / Dylan O’Donnel)

Saturno e Dione
Una immagine catturata dalla sonda Cassini del passaggio "davanti" a Saturno di una
delle sue lune, Dione (credit: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute)

Immagini dalla sonda Cassini delle tre lune di Saturno: Titano, Rea e Mimas
(credit: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute / Caption by: Michelle Starr)
Giove, le sue lune ... e le ombre
La foto scattata da Hubble mostra il transito "contemporaneo" di tre delle lune di Giove
(Callisto, Europa e Io) e della loro ombra proiettata sull'atmosfera di Giove (credit: NASA,
ESA, and the Hubble Heritage Team (STScI/AURA) / Caption by: Michelle Starr).



L'alba vista dalla stazione spaziale internazionale
Un'altra spettacolare immagine catturata dall'astronauta Scott Kelly.
In questo caso una delle tante albe (si ripetono ogni 90') vista dalla ISS
(Credit: Scott Kelly, Original pict --> @stationcdrkelly)

La rottura del muro del suono
Visualizzazione delle onde d'urto generate da un jet che si muove a velocità supersonica.
Per ottenere questa immagine i ricercatori della NASA hanno sfruttato una tecnica
chiamata "fotografia schlieren", sviluppata nel XIX secolo dal fisico tedesco August Toepler,
che permette la visualizzazione delle turbolenze prodotte nell'aria o in altri fluidi quando questi
vengono compressi dal passaggio di un solido, ad esempio un aereo.

Il fantasma di una stella
L'immagine catturata dal Very Large Telescope in Cile è quella di una nebulosa
planetaria, vale a dire i resti incandescenti di una stella morente (altre info sul
sito dell'osservatorio di Brera)
 I ghiacci di Marte
Gli indizi della presenza di acqua su Marte (o nel sottosuolo o ghiacciata) sono
molti. Tra le prove più evidenti le striature erosive presenti sul bordo di questo cratere
(Credit NASA)
... e quelli di Encelado
Encelado, una delle lune di Saturno, è balzata agli onori delle cronache come luogo in cui
potrebbe esserci vita, sebbene microscopica. La scoperta fatta dalla sonda Cassini
di un oceano liquido sotto la superficie ghiacciata è stata trattata in precenza --> QUI
(credit: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute / Caption by: Michelle Starr)

Le macchie luminose su Cerere/Ceres
ss
I colori sono il risultato della eleborazione al computer. L'area quasi luminescente
è verosimilmente dovuta alla presenza di solfati di magnesio (--> Nature). Altre informazioni
--> Wired e in questo blog --> qui.

Il gatto del Cheshire
(credit: NASA/CXC/UA/J.Irwin et al)
Quale migliore foto per chiudere questo articolo e augurare buon 2016 di questa immagine che sembra arrivare direttamente dal "gatto del Cheshire", uno dei personaggi iconici di "Alice nel paese delle meraviglie". L'immagine raffigura un gruppo di galassie dette appunto "Cheshire Cat galaxies". La percezione che noi abbiamo di tale immagine è un tipico esempio di pareidolia (--> QUI per ulteriori dettagli sul fenomeno).

Preeclampsia. Un vecchio farmaco (anzi due) apre apre nuove prospettive

(Aggiornamento di un precedente articolo scritto nel 2014)

 ***

La preeclampsia è una delle più pericolose tra le complicanze "comuni" della gravidanza negli esseri umani, arrivando ad interessare fino al 5% delle donne gravide (e responsabile della morte di 60 mila di esse a livello globale), in particolare tra le primigravide e in chi è predisposto a ipertensione o ha affezioni vascolari preesistenti.
Le cause della malattia sono da ricercare nel rilascio da parte della placenta  delle molecole sFlt-1 e endoglina, che una volta entrate in circolo causano danni vascolari nella madre e a cascata disturbi pressori.
Se non trattata, la preeclampsia rimane generalmente stazionaria per un tempo variabile e poi improvvisamente, con frequenza di 1 ogni 200 pazienti preeclamptiche, procede fino all'eclampsia il cui esito è fatale in assenza di intervento medico. Tra le complicanze più importanti della preeclampsia vi è il distacco placentare originato da problemi vascolari.

Il trattamento medico standard varia a seconda della serietà dei sintomi; nei casi più blandi può essere sufficiente, pur sotto costante monitoraggio, un semplice riposo a letto. Qualora questo non sia sufficiente, la soluzione è univoca e consiste nell'affrettare il parto (naturale o per via chirurgica) indipendentemente dallo stadio della gravidanza. Una scelta imposta dal pericolo associato.

Per cercare di capire meglio questa condizione un team di ricerca francese dell'INSERM, ha creato un modello murino di preeclampsia grazie alla sovra-espressione di STOX1, un fattore trascrizionale precedentemente indiziato tra i colpevoli della malattia.
Quando topi femmina normali sono stati fatti accoppiare con maschi transgenici (cioè topi che sovra-esprimevano la proteina), le femmine gravide hanno sviluppato sintomi di preeclampsia, come ipertensione e proteinuria.
Una volta ottenuto un modello adeguato è stato possibile iniziare il test su un un certo numero di farmaci, cosa ovviamente prima impossibile. Si è così potuto scoprire che, tra i trattamenti più efficaci vi era la somministrazione preventiva (all'inizio della gravidanza) di aspirina disciolta in acqua. L'effetto benefico del trattamento è stato osservato anche nella cucciolata; se in assenza di trattamento i topi di madri "preclampsiche" erano alla nascita più piccoli di quelli nati da madri sane, nei topi trattati ogni differenza di peso scompariva.

I dati indicano quindi un potenziale nuovo strumento per prevenire le complicanze nelle donne a rischio. 
E' importante sottolineare che questi dati sono preliminari e che nessun dato conclusivo è disponibile sull'essere umano. Per ottenere la conferma dei dati è necessario attendere che un numero sufficiente di donne venga analizzato. Solo allora, e se non emergeranno controindicazioni importanti, si potrà pensare di usare l'aspirina (o suoi derivati più adatti alla gravidanza) come una efficace e sicura alternativa alle procedure oggi disponibili.

*** Aggiornamento dicembre 2015 ***

Di potenziale rilevanza per terapie future è lo studio pubblicato sull'American Journal of Obstetrics and Gynecology. I ricercatori della università di Melbourne hanno infatti scoperto che la metformina, uno dei farmaci più comunemente usati per il trattamento del diabete adulto, e approvato anche per l'uso durante la gravidanza, non solo è in grado di ridurre il rilascio dalla placenta delle molecole causa della preeclampsia ma è anche in grado di favorire la riparazione dei vasi danneggiati.
Gli studi clinici dovrebbero ora essere fatto per vedere se la metformina potrebbe essere usato per trattare le donne con preeclampsia.

*** Aggiornamento dicembre 2019 ***

La preeclampsia è causata da alti livelli di sFLT1, proteine antiangiogeniche di origine placentare che legano e sottraggono dal circolo fattori angiogenici come il VEGF. Sono allo studio terapie basate su siRNA capaci di legare e rimuovere, in modo specifico sia come bersaglio che come luogo d'azione limitato alla placenta, l'eccesso di sFLT1

Fonte
- Preeclampsia-like symptoms induced in mice by fetoplacental expression of STOX1 are reversed by aspirin treatment
Doridot L et al, Hypertension (2013) 61(3):662-8
- Metformin as a prevention and treatment for preeclampsia: Effects on soluble fms-like tyrosine kinase 1 (sFlt-1) and soluble endoglin secretion, and endothelial dysfunction
Fiona C. Brownfoot et al, AJOG (2015)

d

Blue Origin ovvero il successo del primo razzo spaziale riciclabile.

Il futuro dei viaggi spaziali di corto raggio (commerciali o "turistici") è nel privato. Questa è la conclusione raggiunta anni fa dalla NASA quando di fronte agli ingenti costi di sviluppo sommati ai taglio delle risorse disponibili si decise di prendere il meglio tra i due mondi del pubblico e del privato.

Il razzo New Shepard
della Blue Origin
(credit Blue Origin)
Il pragmatismo anglosassone ha reso questa scelta "facile" una volta venuta meno la necessità politica nata con la guerra fredda (in epoca Sputnik) di sopravanzare l'avversario nei più disparati campi, dallo sport alla conquista spaziale.
Complice la tragedia del Challenger e la scomparsa della minaccia sovietica, il governo USA ha cominciato a fare due conti, del tipo di quelli normalmente affrontati in un corso di economia di base: dato che le risorse sono limitate anche nei paesi più produttivi (da non confondere con quelli ricchi e improduttivi come i paesi del Golfo) bisogna scegliere come allocare in modo efficiente tali risorse. La NASA ha scelto di concentrarsi sull'aspetto scientifico e sulle missioni di lungo corso (invio di esseri umani su Marte e Phobos previsti per il 2030), in collaborazione con la ESA e i russi, lasciando ai privati la sperimentazione di nuovi vettori e tecnologie ma fornendo loro il know-how necessario e anche dei finanziamenti.
Il pensionamento del mitico Space Shuttle ha chiuso di fatto un'epoca gloriosa iniziata con le missioni Apollo e non poche sono state le giuste critiche di fronte a tale scelta miope. Lo Space Shuttle fu il primo veicolo spaziale a tornare in modo "attivo" sulla Terra, riuscendo ad atterrare come un normale aereo in un punto ben preciso sul territorio USA. Prima di lui il ritorno era molto meno "comodo" per l'equipaggio che rientrava a terra (anzi per essere precisi nell'oceano) in caduta libera, prendendo fuoco durante l'ingresso nell'atmosfera e opportunamente frenato dai paracadute subito dopo. Una tecnica usata ancora oggi dagli astronauti che utilizzano la Soyuz per tornare dalla base spaziale e la cui "scarsa comodità" (per usare un eufemismo) è ben evidente sui loro volti una volta che emergono dalla capsula adagiata nelle steppe dell'Asia centrale.
E' proprio nella modalità di viaggio di andata che trova spiegazione il costo esorbitante di ogni missione. Se infatti lo Shuttle rappresentava il massimo del riutilizzo allora ipotizzabile è anche vero che la gran parte del razzo che lo aveva portato in orbita si distruggeva dopo il distacco dei diversi stadi, solo in parte recuperabili una volta precipitati nell'oceano. Nel caso delle navette Soyuz la quantità di metallo (e tecnologie) riciclabili ad ogni lancio è drasticamente più bassa e rappresenta una chiara involuzione tecnologica, ma anche l'unica disponibile oggi.
Provate ad immaginate di dover ricostruire il Boing 747 dopo ogni volo Milano-New York. Ora capirete i costi e i tempi necessari per ogni missione spaziale.
Demandare ai privati lo sviluppo di tecnologie di lancio "economiche" in quanto centrate sul riutilizzo è forse l'arma vincente per superare le costrizioni di budget. E' la "mission" stessa di queste aziende centrata sul turismo spaziale prossimo venturo il motore che le obbliga a cercare nuove vie per contenere i costi e massimizzare il riutilizzo dei veicoli. Le aziende oggi in prima fila in questa sfida tra privati sono tutte finanziate da imprenditori di successo (e multimiliardari) sia direttamente come Jeff Bezos di Amazon (Blue Origin), Richard Branson di Virgin (Virgin Galactic) o Elon Musk di Paypal (Space-X) che indirettamente come il premio istituito da Google per il ritorno sulla Luna (Google Lunar XPRIZE di cui ho parlato --> QUI). I primi due hanno un core business centrato sul turismo spaziale, mentre il terzo vuole diventare il trasportatore di merci tra la Terra e la Stazione Spaziale Internazionale (presenti e future).
Nota. Ad oggi solo India e Cina perseguono l'ambizioso progetto dei voli spaziali con progetti totalmente statali; una scelta centrata sul desiderio di emergere, sul marcato nazionalismo (non partecipano a missioni congiunte) e resa possibile dal non obbligo di ottemperare a concetti come pareggio di bilancio o di crescita equilibrata (da notare la totale assenza in tali paesi, pur dotati di enormi fatturati, di alcuna voce di spesa legata a welfare ... ).
L'esplosione del razzo Falcon 9 lo scorso
anno. Nessuno a bordo fortunatamente.
Qui il video.
Credit: Robert Pearlman/SPACE.com
La scelta del privato ha un altro enorme vantaggio: mette la NASA al sicuro dai probabili fallimenti che la sperimentazione di nuove tecnologie comporta. Se l'esplosione del Challenger aveva destato enorme risonanza sia per il prezzo umano pagato che per i danni di immagine (ed economici) riguardo i criteri di manutenzione e dei bandi per l'approvvigionamento dei materiali, ecco che con il passaggio al privato fallimenti similari diventano unicamente un problema dei finanziatori anche quando i collaudatori perdono la vita (vedi i casi dell'anno scorso --> SpaceX e --> Virgin Galactic).

Tra i tanti tentativi va sottolineato il successo raggiunto dalla Blue Origin di Bezos che è riuscita a fare tornare a terra il razzo New Shepard facendolo adagiare delicatamente in verticale usando i retrorazzi per ridurre la velocità e stabilizzare l'assetto. Di fatto è la prima volta in cui il modulo di lancio ritorna intatto alla base (impresa tentata senza successo l'anno scorso dal Falcon 9 di SpaceX).
Ecco come funzionerà il modulo di trasporto passeggeri Blue Origin quando diventerà operativo. Nel video a fine pagina è mostrato il test della fase più critica (e finora mai sperimentata con successo da altri) cioè il ritorno automatico del razzo di lancio alla base di partenza (credit: Blue Origin).

Il video sotto allegato è indicativo dei progressi fatti anche se "arricchito" da simulazioni al computer per rendere l'idea dei futuribili vantaggi associati a questi voli. La parte più interessante (e vera) è quella del lancio ma, soprattutto, l'ultima parte, quella dell'atterraggio. Nel mezzo c'è la simulazione video del razzo con ipotetici turisti a bordo che giunto a 100 chilometri di altezza, si separa dalla capsula. Mentre il razzo ritorna alla base, la capsula rimane per quattro minuti in posizione sub-orbitale in modo da fare sperimentare ai passeggeri l'assenza di gravità, e quindi ricade sulla Terra in modo "tranquillo" protetta da una serie di paracadute.
Quello che è più interessante è però il rientro a terra del razzo, la parte che ospita i serbatoi e i motori, finora considerata usa e getta e il cui recupero è stata la vera sfida per gli ingegneri aerospaziali. La strategia sviluppata da Blue Origin si è centrata sull'utilizzo della spinta propulsiva dei motori per compensare la caduta, rallentando il razzo e mantenendolo in posizione verticale fino all'atterraggio.
Anche qui come nel caso dello Space Shuttle l'obbiettivo era quello di fare atterrare il razzo in un punto ben preciso della base, come fosse  un elicottero che atterra al centro della pista e non in un punto casuale nell'arco di decine di chilometri. L'obbiettivo è stato raggiunto.

Come detto SpaceX persegue una strategia simile con con la differenza che la base di rientro è uno "spazioporto" automatizzato sito nell'oceano.

Potrebbero interessarti i seguenti gruppi tematici di articoli su argomenti correlati: Missione Luna; Missione Marte; missioni spaziali.

Fonte
- Blue Origin web site



Il mistero delle nane bianche "contaminate"

Anche le stelle hanno un loro ciclo vitale per quanto lungo sia e per quanto tale aggettivo non sia da prendere alla lettera.
 Con vita di una stella si vuole qui unicamente indicare il periodo che intercorre tra il momento in cui la temperatura della proto-stella (risultato del collasso gravitazionale del materiale della nube di gas e della conversione dell'energia potenziale gravitazionale in energia termica) è tale da innescare la reazione di fusione dell'idrogeno, fino al momento in cui il "combustibile" residuo non è più in grado di generare energia sufficiente da evitare il collasso della materia soprastante il nucleo.
Cosa avviene quando si raggiunge questa ultima fase dipende dalla massa della stella:
  • le stelle più massicce (massa superiore a 8 volte quella del Sole) hanno massa sufficiente da raggiungere, nella fase del collasso gravitazionale, l'energia necessaria per iniziare la reazione di fusione nucleare che coinvolge elementi di massa maggiore rispetto all'idrogeno. Una volta innescate tali reazioni, l'energia sviluppata sarà sufficiente per autoalimentare la reazione e bilanciare la "caduta gravitazionale" della materia soprastante. Mano a mano che si esauriranno gli elementi più leggeri il collasso gravitazionale permetterà di raggiungere temperature via via più alte, tali da iniziare le reazioni di fusione "più difficili" cioè quelle che necessitano di energie di innesco più elevate. Il processo non può però continuare all'infinito; il limite fisicamente invalicabile è rappresentato dalla fusione del ferro (vedi grafico --> QUI), punto oltre il quale l'energia prodotta dalla reazione è inferiore a quella di innesco. Quando la stella non riesce più a produrre energia sufficiente a "sostenere" gli strati superficiali (perché non ha sufficiente "carburante" o è cresciuta di massa oltre al cosiddetto limite di Chandrasekhar), va incontro a un improvviso e irreversibile collasso che indurrà la catastrofica esplosione della stella in una brillantissima supernova (di tipo II o Ib/Ic nel caso delle stelle supermassicce). Dai resti della supernova potranno originare stelle di neutroni, buchi neri o altro a seconda delle condizioni specifiche. Tanto maggiore è la massa della stella iniziale e tanto minore è la sua vita a causa della quantità di "carburante" necessario per tenerle accese e compensare la massa soprastante. Le stelle più mastodontiche vivranno solo pochi milioni di anni contro i miliardi di anni delle stelle piccole.
  • Le stelle più piccole come il nostro Sole non potranno mai percorrere tutti gli stadi sopra descritti. Il limite dato dalla massa (quindi l'energia termica massima raggiungibile) le trasformerà prima in una gigante rossa da cui emergerà poi la "fredda" e longeva nana bianca
Schematizzazione dell'evoluzione stellare per stelle di massa solare (sopra) o massiccie (sotto)
 Questo in estrema sintesi e semplificando al massimo è il destino di una stella. Del resto quello che mi interessa qui non è una trattazione esaustiva del fenomeno ma la contestualizzazione del problema indicato nel titolo; rimando per i dovuti approfondimenti ai link suggeriti a fondo pagina selezionati in base alla loro "comprensibilità" per un neofita.


Torniamo ora al caso di una stella come il nostro Sole la cui evoluzione è riassunta nella figura sotto con l'aggiunta di una scala temporale.
Il ciclo vitale di stelle di massa simile al Sole
La nana bianca è la naturale evoluzione delle stelle di massa solare. Nonostante siano "piccole" e non particolarmente luminose, le nane bianche sono tra le stelle più comuni nella volta celeste, conseguenza diretta della loro longevità. Lo studio del loro spettro di emissione ha però dato non pochi grattacapi teorici visto che all'incirca il 25-50 per cento di esse sembra possedere negli strati superficiali (responsabili delle linee spettrali osservate) elementi pesanti, risultato dalla fusione nucleare in stelle massicce o dall'esplosione di una supernova (a causa delle alte temperature di innesco necessarie). 
Due modi di rappresentare uno spettro di assorbimento da una fonte stellare. In alto quello caratteristico del Sole con le barrette nere ad indicare le lunghezze d'onda assorbite da elementi specifici; barrette note come linee di Fraunhofer. In basso la rappresentazione dello spettro del cielo visto dal suolo terrestre in una giornata serena e in direzione dell'orizzonte; quelle che nella figura sopra apparivano come barrette nere qui sono indicate come "fossette". Per ulteriori informazioni sugli elementi che corrispondono a ciascun punto di assorbimento --> QUI. Se invece volete capire come i caratteristici spettri stellari permettano di identificare le diverse classi di stelle --> QUI (courtesy of Wikipedia)

Riassumendo, quando viene analizzata la luce proveniente da una stella (di cui si conosce la temperatura grazie alle caratteristiche spettrali) è possibile inferire la presenza di elementi specifici incontrati tra il punto di irraggiamento e il punto di rilevazione in base ai picchi di assorbimento. Dato che nello spazio interstellare la densità è molto simile a quella del vuoto perfetto e tenendo conto della eventuale presenza di nubi di gas interstellari, è possibile posizionare i punti di assorbimento nelle parti più esterne della stella.
Se quindi lo spettro stellare mostra la presenza di elementi "strani", caratteristici cioè più di corpi rocciosi che di una "palla di idrogeno e di altri elementi combustibili" allora la domanda è perché siano presenti.
Attenzione, il problema non è tanto la presenza di questi elementi quanto la loro presenza nella parte esterna della stella; gli elementi più pesanti dovrebbero sprofondare "velocemente" nella stella (e non contribuire alle linee spettrali), fatti salvi i periodici movimenti di ritorno convettivi. La loro percentuale nell'atmosfera di alcune nane bianche è invece più simile a quella dei corpi rocciosi. Da qui la denominazione di "nane bianche contaminate".
La presenza nel 4 per cento delle nane bianche di dischi di detriti e polveri calde ha fatto ipotizzare che le "peculiarità spettrali" delle nane bianche non fossero altro che il risultato di una contaminazione esterna alla stella. Una ipotesi convincente ma solo una ipotesi in quanto finora non supportata da evidenze dirette sulla esistenza di corpi rocciosi in via di disintegrazione in orbita (o in caduta) intorno a queste stelle.
A dare una svolta viene ora lo studio della nana bianca WD 1145+017 attorno alla quale sono stati identificati planetesimi in fase di disintegrazione con periodo di  4,5 ore, un valore che indica la estrema prossimità degli stessi alla stella. Dalla analisi spettrale si è dedotta la presenza di elementi pesanti come magnesio, alluminio, silicio, calcio, ferro e nichel la cui origine è, indubbiamente, esterna alla stella-
Il cosiddetto inquinamento delle nane bianche è quindi verosimilmente il risultato della frantumazione di planetoidi e asteroidi avvicinatisi troppo alla stella (--> Limite di Roche).


Fonte
- A disintegrating minor planet transiting a white dwarf
Andrew Vanderburg et al, Nature 526, 546–549 (22 Ottobre 2015)
-


Link utili per comprendere l'evoluzione stellare
- wikipedia --> qui
- Treccani --> qui
- Istituto Nazionale di Astrofisica --> PDF






Presto disponibile una fotocamera low cost per scoprire dettagli invisibili a occhio nudo

Si mettano l'animo in pace coloro che si sono precipitati qui dopo avere letto il titolo con la speranza di avere finalmente trovato lo strumento in grado di svelare le forme sotto i vestiti...
Credeteci o no c'erano veramente persone che abboccavano
alle mirabolanti promesse dei venditori di occhiali a raggi X.
Pubblicità del genere erano comuni ancora negli anni '80.
... anche perché strumenti simili a quelli sopra millantati esistono già da qualche anno e sono stati per un certo tempo in uso in alcuni aeroporti. Almeno fino a quando quallche giornale convinse i gestori e i garanti della privacy che, forse, era il caso di modificare lo strumento in modo che le "forme fisiche" non emergessero in tutta la loro "completezza" ( --> The Guardian).

L'argomento di oggi non è in realtà centrato su nulla di così ameno (e inutile se non per ludus voyeuristico) o legato alla mai eccessiva sicurezza dei voli ma è utile per immaginare futuri utilizzi nel monitoraggio qualitativo dei prodotti alimentari che acquistiamo.
Quando ci rechiamo al banco frutta di un supermercato, specie nel caso dei prodotti già confezionati, in genere prendiamo il prodotto in mano e cerchiamo di capire se la pesca (pomodoro, avocado, etc) presenta difetti tipo ammaccature o se sia troppo matura; compito non semplice data l'impossibilità di capire se sotto la buccia siano già in corso processi degenerativi legati all'età del prodotto, a urti subiti o ad una conservazione non ottimale.
A questo problema (non solo delle massaie ma di chiunque si sia trovato nella condizione di buttare via prodotti comprati al mercato solo il giorno prima) promette di trovare una soluzione una telecamera ora in fase di sviluppo presso l'università di Washington (in collaborazione con la Microsoft).
HyperCam, questo il nome del prototipo, è una fotocamera ad ampio spettro e a basso costo che sfrutta sia la luce visibile che l'infrarosso-vicino per "vedere" al di sotto della buccia e catturare dettagli altrimenti invisibili. Concettualmente non si tratta di una novità e tanto meno di un progresso tecnologico epocale essendo questa tipologia di prodotti già ampiamente utilizzato nelle lavorazioni industriali; i costi (e le dimensioni) sono il vero limite alla diffusione con prezzi intorno alla decina di migliaia di dollari. La vera novità è che si vuole rendere questa tecnologia disponibile a tutti.
E l'obbiettivo sembra essere stato raggiunto dato che il costo del nuovo hardware oscillerebbe, a seconda delle caratteristiche, tra le versioni Pro- a 800 dollari giù fino alle entry level a 50 dollari dove la fotocamera verrebbe di fatto montata sullo smartphone.
Così come i muscoli senza cervello servono a poco, anche qui un hardware senza software è un lavoro lasciato a metà. Per tale scopo è stato progettato un software "intelligente" in grado di scovare e mostrare le differenze tra ciò che viene registrato dalla fotocamera ad ampio spettro e quello che può essere visto ad occhio nudo.

Facciamo un esempio concreto.
Credit: University of Washington
Quando HyperCam cattura l'immagine della mano di una persona, rileva anche particolari come la venatura superficiale e le caratteristiche della pelle, dettagli questi che sono unici per un dato individuo. Facile capire come questa innovazione trascenda i bisogni associati alla cernita di prodotti alimentari e faccia immaginare tutta una serie di applicazioni legati alla biometria nei campi più disparati della tecnologia (dal campo ludico alla sicurezza).
In un test condotto su 25 persone il sistema si è dimostrato in grado di identificare le mani di una persona (senza sfruttare i dati delle impronte digitali) con una precisione del 99 per cento.

Il prototipo della HyperCam. Non solo "vede" ma illumina scansionando il bersaglio.
Credit: University of Washington
Tornando all'esempio applicativo sulla frutta, gli sviluppatori hanno catturato le immagini da 10 tipi di frutta, dalle fragole al mango fino all'avocado, a tempi prestabiliti nel corso di una settimana. La sequenza di immagini ottenuta ha permesso di ricavare a posteriori (e alla cieca) lo stato di maturazione di ciascun frutto analizzato con una precisione del 94 per cento.
Credit: University of Washington
Va sottolineato che una uguale valutazione condotta con una fotocamera professionale permette una precisione limitata al 62 per cento.
HyperCam, a differenza delle fotocamere classiche che sfruttano sensori RGB, utilizza sensori in grado di catturare anche lunghezze d'onda nell'infrarosso vicino. In verità non si tratta solo di un processo "passivo" (la cattura della radiazione elettromagnetica) ma di un processo pro-attivo: la fotocamera illumina la scena usando luce a 17 diverse lunghezze d'onda e generando per ciascuna di esse l'immagine di ritorno. Concettualmente, è la stessa modalità di analisi che usano i visori notturni.
Mentre una fotocamera normale ci potrà dire che la tale camicia è azzurra, Hypercam ci fornirà informazioni anche sulla tessitura e quindi sui materiali utilizzati. Lo stesso dicasi per una un frutto di cui coglieremo non solo la "bellezza" esterna ma la "bontà interna".

Lo scopo del progetto è quello di permettere, in un prossimo futuro, a ciascuno di noi di tenere in tasca uno strumento (e una App) disegnata apposta per la sicurezza alimentare e all'industria di abbassare i costi per tutta una serie di applicazioni legate alla biometrica.

Di seguito un video dimostrativo delle funzionalità presenti con questa fotocamera.


La sfida è tuttavia ancora in divenire e necessita di miglioramenti sostanziali in quanto uno dei limiti di questa tecnologia è il non lavorare bene in condizioni di piena luce. Altra sfida sarà di ridurre l'hardware a dimensioni tali da renderlo incorporabile negli smartphone.

Fonte
-  Affordable camera reveals hidden details invisible to the naked eye.
University of Washington/news
- Hyper Cam:  Hyperspectral Imaging for Ubiquitous Computing Applications.
--> PDF

Intelligenza e disturbi mentali. Un legame

La letteratura scientifica e aneddotica sul legame tra arte, genialità e "peculiarità" mentali, giusto per usare un eufemismo, è ampia e di questo ne ho trattato in precedenza in questo blog (--> QUI). Niente di eclatante in fondo visto quanto sono comuni frasi caratterizzanti tipo "è proprio strano ma in fondo è un artista (oppure scienziato o scrittore o ...)".
(©Focus.it / Works/Corbis)
Ad aggiungere un nuovo tassello alla conoscenza del perché sussista tale legame vi è la ricerca pubblicata sul British Journal of Psychiatry, che suggerisce come i gravi disturbi dell'umore, quale il disturbo bipolare, potrebbero rappresentare il dazio evolutivo pagato dagli esseri umani per la comparsa dei tratti caratterizzanti la nostra specie come intelligenza, creatività e competenza verbale.
I ricercatori sono partiti dalla ampia raccolta di informazioni presente nello studio longitudinale AVON su genitori e figli iniziato negli anni '90 (ALSPAC) giungendo alla conclusione che il possedere un alto QI durante l'infanzia è predittivo della comparsa del disturbo bipolare in età adulta.
Il database ALSPAC rappresenta un ottimo punto di partenza per indagini che presentano molteplici (e poco note) varianti grazie alle informazioni contenuti sui partecipanti allo studio (14 mila donne più partner e figli) seguiti nel corso di oltre due decenni grazie ad interviste e analisi periodiche sul loro stato di salute. Per le finalità dello studio di cui sopra i ricercatori si sono concentrati sul grado di correlazione tra i valori di QI misurati all'età di otto anni e la presenza di sintomi maniacali intorno ai  22 anni.
Nota. La valutazione del QI nello studio è basata sia sul QI verbale (VIQ) che di performance (IPU).
In totale sono state identificate 1881 persone che mostravano una associazione tra QI e presenza di episodi maniacali continuati. Nello specifico gli individui che presentavano caratteristiche maniacali nel decile inferiore avevano ricevuto un punteggio QI inferiore di circa 10 punti rispetto ai soggetti le cui caratteristiche maniacali li posizionavano nel decile superiore. In particolare è il VIQ il parametro con miglior valore predittivo di disturbi maniacali futuri.

Il responsabile del progetto, Daniel Smith, riassume così le idee attuali sul tema: "un possibile legame tra disturbo bipolare e intelligenza/creatività è da anni oggetto di discussioni e sono molti gli studi che vanno in tale direzione. Nel nostro studio, abbiamo scoperto che avere migliori punteggi nel test QI all'età di otto [strumento ampiamente usato nelle scuole anglosassoni e orientali. NdB] può prevedere la comparsa di caratteristiche bipolari all'inizio della età adulta. Questo NON vuol dire che un alto QI infantile sia un fattore di rischio concreto ma piuttosto che esista una biologia condivisa tra l'intelligenza e il disturbo bipolare che merita di essere studiata".
Molti sono i fattori in grado di influire pesantemente sul rischio concreto di disturbi maniacali; tra questi la storia familiare di malattie mentali (la genetica), fenomeni traumatici, anche se non percepiti come tali, nella prima decade e infine l'uso/abuso di droghe. 
L'aggettivazione "biologica" usata da Smith è particolarmente interessante in quanto tale pattern (il sapere vedere fuori dagli schemi) potrebbe essere stato selezionato come fattore evolutivamente utile purché a bassa frequenza nella popolazione. Semplificando al massimo, una popolazione in cui fossero dominanti le caratteristiche mentali di persone indubbiamente geniali come il matematico Nash, Einstein o di un Van Gogh, si sarebbe verosimilmente autoestinta in quanto non "adatta alla vita pratica". Di converso se non fossero mai esistite  persone in grado di "vedere oltre" saremmo rimasti confinati nelle savane africane allo stadio di cacciatori-raccoglitori.

Nota. In data 21 marzo 2016, sempre grazie ai dati forniti dallo studio AVON, è stato pubblicato sulla rivista Nature Genetics un lavoro centrato sulla distribuzione degli alleli "autistici" nella popolazione generale (vedi Elise B Robinson et al, Nature Genetics (2016).


Fonte
- Childhood IQ and risk of bipolar disorder in adulthood: prospective birth cohort study
J.D. Smith et al, (2015)  British Journal of Psychiatry Open, 1(1), pp. 74-80
- Is there a link between high childhood IQ and bipolar disorder?
Bristol University/news

Psoriasi. Nuovi dati confermano l'efficacia dei nuovi trattamenti

La psoriasi colpisce almeno il 3% della popolazione mondiale, con numeri superiori ai 125 milioni di persone. Questa condizione non rappresenta un semplice problema estetico ma si associa nel 15% dei casi all'artrite psoriasica (AP) e ad un aumentato rischio di malattie cardiovascolari.
Nota. L'artrite da psoriasi è una complicanza infiammatoria delle articolazioni, di tipo cronico e debilitante, che si accompagna a grave disabilità, scarsa qualità della vita e ridotta aspettativa di vita. Tra i sintomi più comuni dolore e rigidità, psoriasi su pelle e unghie, dita gonfie e persistente tendinite dolorosa. Il danno provocato da questa infiammazione è irreversibile. Il rischio di sviluppare la psoriasi oscilla, a seconda del background genetico della popolazione, tra un minimo dello 0,3% a valori superiori al punto percentuale; ben una persona malata di psoriasi su quattro ha anche una AP non diagnosticata. 
Sebbene le cause principali della psoriasi non siano del tutto comprese, è indubbio che la componente autoimmunitaria giochi un ruolo fondamentale, come si evince dal miglioramento del quadro clinico successiva al trattamento con immunodepressivi. Un ruolo importante è sicuramente giocato anche dalla genetica e da cause ambientali.

Al momento non si dispone di terapie risolutive ma solo di trattamenti che possono fornire un sollievo temporaneo. Tra i farmaci in uso abbiamo quelli appartenenti alla classe di inibitori del Tumor Necrosis Factor-alfa (TNF-a) che perdono tuttavia di efficacia dopo un trattamento prolungato, condizione purtroppo ineludibile per una patologia cronica.
La conseguenza ovvia è che una vasta categoria di pazienti psoriasici non disponendo di farmaci utili sul medio-lungo periodo tende a saltare le visite periodiche dal medico curante.
Credit: wikipedia
Secondo un'indagine condotta tra il 2004 e il 2011 dalla National Psoriasis Foundation, il 52% dei pazienti con psoriasi ritiene inadeguati i trattamenti disponibili. Dei pazienti intervistati un numero rilevante (tra il 10 e il 49 % a seconda della sottoclasse analizzata) non fruiva di alcun trattamento (in quanto percepito come inefficace) o lo cercava solo sporadicamente (Armstrong AW et al, JAMA Dermatol. 2013).
Nota. L'efficacia di un trattamento contro la psoriasi viene quantificato con il punteggio PASI che prende in considerazione la riduzione di arrossamento, desquamazione e lo spessore delle placche psoriasiche, oltre alla percentuale dell'area corporea coinvolta. Vedi QUI per la tabella parametrica.
Acquistano quindi particolare importanza i dati presentati da Novartis sugli effetti del farmaco Cosentyx (un anticorpo monoclonale diretto contro la interleuchina 17, IL-17, una citochina proinfiammatoria) raccolti in tre anni di studio clinico. I dati sono stati presentati al 24mo congresso della European Academy of Dermatology and Venereology tenutosi a Copenhagen:
  • I dati preliminari (studi clinici FUTURE 1 e 2) su un campione ridotto di pazienti hanno mostrato un sostanziale miglioramento nei pazienti trattati con il farmaco, quantificati dal parametro PASI 75, che può essere semplificato con l'avere "normalizzato" il 75% della pelle.  Il 64% dei pazienti mostrava miglioramenti in accordo con il parametro "pelle pulita" (PASI superiore a 90).  
  • Dato ancora più importante, non sono stati riscontrati problemi di sicurezza e/o effetti collaterali di rilievo. 
I dati sono stati confermati dopo l'allargamento del campione a 320 pazienti, trattati con dosaggio fisso del farmaco per tre anni. 
  • Il 69% dei soggetti ha ottenuto valori almeno pari a PASI 90 già nel primo anno di trattamento;
  • l'efficacia è stata mantenuta per almeno tre anni con il 64% dei pazienti rimasti nella categoria superiore a PASI 90. Il 43% dei pazienti ha raggiunto il massimo risultato (PASI 100 cioè pelle normale) alla fine del terzo anno e nel 44% dei casi già dal primo anno.
  • Estendendo la finestra di efficacia (limitando l'efficacia al superamento di PASI 75, il numero di pazienti che hanno raggiunto questo traguardo arriva all'83%.
Con il 2015 il Cosentyx (secukinumab) è inibitore della IL-17A approvato dalle autorità regolatorie sia in Europa che negli USA. Al momento sono più di 9600 i pazienti trattati con il farmaco, un numero adeguato per escludere problemi evidenti di reazioni avverse (di cui è sempre importante tenere conto quando si sperimenta un anticorpo).

Aggiornamento 1. In data 23 novembre 2015 Novartis ha reso pubblico che il farmaco Cosentyx ha ricevuto l'autorizzazione dagli enti regolatori della Commissione Europea per essere utilizzato nella terapia della spondilite anchilosante e dell'artrite psorisiaca (--> link)

Aggiornamento 2. In data 14 novembre 2016 e in occasione del meeting dell'American College of Rheumatology i risultati dello studio triennale sull'utilizzo del Cosentyx nel trattamento della psoriasi artritica (➡ link).

Fonte
- Novartis presents new data showing that the majority of patients are able to maintain clear or almost clear skin with Cosentyx across 3 years
  --> pdf
- Il trattamento della psoriasi nell’adulto
Istituto Superiore di Sanità --> pdf


Gli occhi specchio dell'anima? Più facile che rivelino se sei preda o cacciatore

 "Nam ut imago est animi vultus, sic indices oculi" 
(come il volto é l'immagine dell'anima, gli occhi ne sono gli interpreti) 
Marco Tullio Cicerone, Rethorica/Orator/18 
Pupilla verticali e piccoli felini
Se fin dall'antichità gli occhi sono stati considerati una finestra dove si affaccia l'anima, oggi più prosaicamente i neuroscienziati ci dicono che la semplice osservazione degli occhi di un animale permette non solo di predire il suo essere un predatore o una preda, ma anche la modalità di caccia usata (da agguato o da rincorsa).
Lo studio, pubblicato sulla rivista Science Advances, ha preso in esame 214 specie di animali terrestri per ciascuna delle quali sono state valutate le caratteristiche della pupilla.
Raffrontando le caratteristiche morfologiche con il comportamento alimentare dell'animale è emersa l'associazione tra l'avere pupille verticali e l'essere predatori "da agguato", diurni o notturni.
Al contrario, gli animali con pupille allungate in senso orizzontale hanno anche gli occhi posizionati lateralmente e sono tipicamente erbivori.
Infine, le pupille rotondeggianti circolari sono tipiche degli animali che rincorrono la preda.

Pupilla orizzontale negli erbivori
(Credit: Martin Banks, UC Berkeley)
Martin Banks, professore di optometria all'università di Berkeley e autore senior dell'articolo, non si è fermato ad una mera descrizione associativa ma ha proposto una nuova ipotesi sul perché della associazione forma pupilla-comportamento alimentare. 

La ricerca in sé non è una novità dato che prende spunto dai lavori condotti nella prima metà del '900 da Gordon Walls, anche lui  professore di optometria a Berkeley, che nel 1942 pubblicò The Vertebrate Eye and Its Adaptive Radiation, un testo sulla fisiologia dell'occhio divenuto un classico; nel libro Walls propose che la forma a fessura della pupilla renda possibile un aggancio ottimale della muscolatura in modo tale da massimizzare, quando necessario, l'entrata di luce.
Nota. Le pupille verticali presenti nei gatti (ma anche nei gechi, etc) permettono di modulare l'entrata di luce, variando la superficie pupillare, tra 135 e 300 volte il valore base. Giusto per avere un termine di paragone, la cui variazione massima che la pupilla umana consente è 15 volte.
Le specie animali come i felini in grado di cacciare sia di giorno che di notte, traggono enorme vantaggio dal possedere pupille fessurate, capaci di fornire la gamma dinamica di luce necessaria per vedere bene nella penombra senza per questo essere accecati dal sole del mezzogiorno. Un meccanismo ben distinto, è bene ricordarlo, da quello che consente a molti predatori di vedere anche in condizioni di scarsa (o quasi nulla) illuminazione, possibile sia grazie ad una densità bastoncellare superiore di 6-8 volte la nostra che alla presenza del tapetum lucidum, uno strato riflettente in grado di concentrare la luce sulla retina (il che spiega perché gli occhi dei predatori risaltino sul fondo buio).
Mancava ad oggi tuttavia una ipotesi coerente sul perché nei predatori la forma pupillare fosse verticale e non orizzontale (tipica delle "prede" come pecore, cervi e cavalli) o magari diagonale.
Per cercare questa risposta i ricercatori si sono avvalsi della modellistica al computer con la quale predire l'effetto della forma sulla funzione.
I dati emersi sono molto interessanti.
Negli erbivori la pupilla orizzontale permette di ampliare il campo visivo "utile" specialmente se associata al posizionamento laterale degli occhi. La contrazione muscolare che modifica in senso orizzontale la pupilla (allineandola di fatto al terreno) consente di catturare luce (quindi le informazioni ambientali) dalla parte anteriore, laterale e retro-laterale; nel contempo limita fortemente la luce verticale (abbagliante) del sole consentendo all'animale di "scandagliare" meglio il terreno su cui pascola e l'avvicinarsi di "malintenzionati".
Una caratteristica non inattesa se pensiamo che la sopravvivenza di questi animali si basa sia sull'individuazione dei potenziali predatori (nel caso dei grossi erbivori la minaccia è principalmente terrestre) che sul loro monitoraggio costante - pronti a distinguere ogni loro movimento improvviso. Il tutto senza che venga meno la capacità di scandagliare il terreno, essenziale per una fuga efficace; poco senso avrebbe infatti percepire l'arrivo di una minaccia e inciampare dopo due salti per non avere analizzato correttamente il terreno. In ogni caso i "punti ciechi" devono essere ridotti al minimo, da qui l'importanza della lateralizzazione visiva.

Cosa succede però quando l'animale abbassa la testa per pascolare? In teoria la pupilla segue il movimento della testa e quindi da orizzontale diventerebbe quasi verticale, annullando l'efficacia di quanto sopra scritto.
 Per trovare la risposta a questo dilemma teorico (che ovviamente in natura non esiste dato che gli erbivori sembrano indifferenti a questa problematica), Banks ha passato ore al giardino zoologico per osservare i diversi animali scoprendo che gli occhi ruotano in modo tale che, al variare della postura della testa, le pupille rimangono parallele rispetto al terreno, assicurando così il mantenimento della vigilanza.
Una conclusione confermata dal coautore Gordon Love, nata dalla sua osservazione delle pecore e di altri animali da fattoria e riassunta dalla frase "gli animali da pascolo possono ruotare di 50 gradi o più la posizione di ciascun occhio, una capacità 10 volte superiore a quella possibile nell'essere umano".
Il video che segue mostra l'incredibile capacità di movimento degli occhi in alcuni erbivori.
(credit: UC Berkeley Campus Life)

Nel caso dei predatori ovviamente il problema è opposto e questo spiega l'orientamento verticale della pupilla. La necessità di un "predatore da agguato" è quella di balzare sulla preda e di farlo con successo al primo tentativo; questa decisione implica valutare in anticipo la distanza utile a cui si deve trovare la preda perché sia raggiunta, oltre che stimarne velocità e direzione. I ricercatori selezionarono tre elementi chiave per rendere il predatore "capace" di tale valutazione:
  • stereopsi (visione binoculare) necessaria per la profondità di campo; 
  • parallasse di movimento cioè la velocità apparente maggiore per un oggetto vicino rispetto ad uno lontano;
  • sfocatura, oggetti a distanze diverse sono fuori fuoco rispetto ad un oggetto "mirato".
Tra questi la meno utile doveva essere, per la tipologia di caccia, la parallasse in quanto per funzionare correttamente avrebbe imposto all'animale lo spostamento ripetuto della testa, movimento quasi certamente rilevabile dalla preda che avrebbe eliminato il vantaggio della mimetizzazione e dell'agguato. L'ipotesi formulata da Banks è che le due "funzionalità" rimanenti agiscano in cooperazione sfruttando anche la caratteristica pupilla verticale per eseguire un calcolo accurato della distanza della preda, senza tradire la propria presenza.
In particolare la visione binoculare funziona al meglio su contorni verticali e oggetti posti ad una certa distanza, mentre lo sfocamento differenziale è ottimale su contorni orizzontali e oggetti vicini. Le pupille verticali massimizzano entrambi gli aspetti sia variando la luce incidente utile che focalizzando il bersaglio verticalmente. Per questi animali, a differenza degli erbivori, l'eliminazione dei punti ciechi laterali è di scarsa rilevanza per la sopravvivenza.

Tutto chiarito?
I grossi felini hanno pupille circolari
(M. Appel (sin), Jimmy B (dx))
Forse, ma in realtà questa conclusione è lacunosa in quanto generalizzabile. Infatti non tutti i predatori da agguato hanno pupille verticali; anzi queste pupille sono molto più frequenti tra quelli che cacciano "rasoterra". L'esempio tipico lo si ha nei "mini" felini come i gatti, che sono dotati di pupille verticali mentre i grossi felini (leoni e tigri) hanno pupille circolari più simili a quelle umane o dei cani.
Tale osservazione sembra reggere un confronto su larga scala: tra i 65 animali presenti nel campione analizzato, classificabili come predatori da agguato e dotati di occhi frontali, 44 avevano pupille verticali. Di questi ben 36 di questi avevano un'altezza alla spalla inferiore a 42 centimetri. Il dato indica che le pupille verticali massimizzano la capacità di predare piccoli animali.

Gli autori sottolineano che i dati finora ottenuti sono riferiti unicamente agli animali terrestri e che il loro prossimo obbiettivo sarà analizzare l'associazione forma-funzione dell'occhio negli animali acquatici, nei volatili e in quelli che prediligono la vita arborea.

Fonte
- Why do animal eyes have pupils of different shapes?
Martin S. Banks et al, Science Advances  Vol 1, No. 7 07 August 2015 

L'uccello imitatore che fa scappare il predatore

Acanthiza pusilla
Il vecchio trucchetto di urlare "attento alle tue spalle!" è in voga anche tra alcuni uccelli, come dimostra la sorprendente scoperta fatta da alcuni ricercatori australiani.
Currawong (Credit: J. McLachlan)
Nello specifico è la Acanthiza pusilla, una specie di passero locale, che con il suo grido di allarme cerca di convincere l'aggressore di guardarsi da una minaccia incombente. Come? Simulando il grido di allarme "anti-rapace" che altri uccelli (tra cui proprio il predatore del passero appartenente al genere Strepera o Currawongs per usare il nome locale) usano quando vedono avvicinarsi predatori temibili per tutti come i rapaci.
Il currawong non rappresenta in realtà un pericolo diretto per il passero ma ha la deleteria abitudine di cibarsi dei nidiacei, quindi tenerlo alla larga è fondamentale.

La particolarità del falso segnale d'allarme è che questa specie di passeri oltre ad essere dotata di un proprio richiamo (vero) per avvertire i consimili del rischio rapace, è in grado di mimare quello tipico di altre specie "nemiche" scegliendo quello più adatto a seconda dell'indentità dell'aggressore.

L'effetto della distrazione non è di lunga durata ma è sufficiente al passero per distrarre l'aggressore e mettere in sicurezza il nido.

Articoli precedenti su temi correlati --> "Se sei un mio nidiaceo dammi la password di riconoscimento".



Fonte
- Crying wolf to a predator: deceptive vocal mimicry by a bird protecting young
Branislav Igic et al, Proceedings of the Royal Society B (2015) Volume: 282 Issue: 1809
-  Birds ‘cry hawk’ to give offspring chance to escape predators
Cambridge research / news


Dormire troppo aumenta il rischio di ictus?

Chi dorme più di otto ore al giorno ha un rischio cumulativo di ictus maggiore e questo rischio raddoppia nel caso delle persone anziane. Questo è quanto emerge da uno studio della università di Cambridge.
credit: cam.ac.uk
I dati emersi sono in un certo senso inattesi data l'abbondanza di studi pregressi che all'opposto identificava nel deficit di sonno un fattore predisponente per patologie metaboliche, cardiovascolari e neurologiche (vedi anche --> QUI).
Il dubbio legittimo che mi è sorto leggendo l'articolo è se si tratti di un vero fattore di rischio o di un epifenomeno.
Andiamo con ordine.
Lo studio britannico, pubblicato sulla rivista Neurology, ha coinvolto circa 10 mila persone di età compresa tra 42 e 81 anni, scelti tra i partecipanti allo Studio prospettico europeo sul cancro EPIC-Norfolk. A quattro anni di distanza dall'inizio dello studio fu chiesto ai partecipanti di quantificare il numero di ore di sonno medio e la qualità dello stesso; è ben noto infatti che fenomeni come l'apnea da sonno non solo sono relativamente frequenti nella popolazione ma anche la causa principale della stanchezza cronica giornaliera e di problemi neurovascolari sul lungo periodo.
Quasi sette partecipanti su dieci riferirono di dormire 6-8 ore al giorno, mentre uno su dieci affermò di dormire più di otto ore al giorno. Come atteso la maggior parte dei soggetti ipo-dormienti (meno di 6 ore) erano anziani, donne e soggetti non occupati.
Alla fine del periodo di rilevazione vennero incrociati questi dati con la frequenza di morbilità vascolare, con particolare attenzione a patologie come l'ictus. Dopo la normalizzazione per vari fattori come età e sesso, i ricercatori scoprirono che le persone che:
  • dormivano più di otto ore al giorno avevano un rischio di ictus del 46% maggiore rispetto alla media. 
  • chi dormiva meno di sei ore al giorno aveva un rischio aumentato del 18%. Il rischio aumentava per coloro che avevano dormito poco in modo continuativo nei 4 anni precedenti l'ictus.
I dati ottenuti sono stati quindi combinati in una meta-analisi con quelli già pubblicati in altri 11 studi; nel complesso il numero di soggetti studiati, provenienti da 7 paesi diversi, è arrivato a 560 mila.

Quanto è affidabile questa correlazione?
I numeri parlano chiaro ed indicano che sia dormire poco che dormire troppo prefigura un rischio aggiuntivo. Molto meno chiara è la spiegazione di questo legame cioè se il sonno sia più un sintomo, un marker precoce o la causa di problemi cardiovascolari. E' indubbio che gli anziani sono in genere meno occupati socialmente e questo è di per sé un facilitatore di sonno diurno soprattutto se le ore di sonno notturne sono ridotte (sia per dolori vari che per assenza di sonno).
L'ipotesi a mio parere più corretta è che dormire più a lungo della media sia in realtà un indicatore di problemi fisiologici sotterranei (asintomatici) che la causa dei problemi stessi.
Nota. Uno studio da poco pubblicato ha investigato la solidità dell'ipotesi che identifica nel ritmo di vita moderno (diciamo successivo all'avvento della illuminazione elettrica) la causa principale della diminuzione del numero di ore di sonno per notte. Il mantra comune descrive il buon villico dei tempi andati come uno che seguiva il ritmo solare... come le galline (il corollario quindi avrebbe dovuto essere che nel nord Europa, le persone dormissero moltissimo d'inverno e solo 4 ore per notte d'estate ... il che è ovviamente errato). L'articolo pubblicato su Current Biology ribalta l'assioma dopo avere studiato (grazie a modaioli smartwatch) il ritmo sonno-veglia in alcune popolazioni pre-industrializzate. Quello che emerge è che, forse, dormivano meglio ma di sicuro non più di oggi (--> Natural Sleep and Its Seasonal Variations in Three Pre-industrial Societies, Curr. Biol. (2015) 25, 21, p2862–2868)
Sul tema "sonno" potrebbero interessarvi i precedenti articoli sul tema --> QUI.


Fonte
- Sleep duration and risk of fatal and nonfatal stroke: A prospective study and meta-analysis
Yue Leng, MPhil et al, Neurology. (2015) 84(11):1072-9



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