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Un termometro per le cellule?

Pensando ad un termometro l'ultima cosa che ci verrebbe in mente sarebbe quella di crearne uno da usare sulle cellule:  per ovvi motivi dimensionali, tecnici e soprattutto perchè una cellula di suo non può essere paragonata ad un sistema multicellulare in cui la temperatura interna è un discriminante. Certo questa ultima frase è troppo generale in quanto si riferisce agli organismi eterotermi (es. mammiferi) in cui la temperatura è finemente regolata da un meccanismo omeostatico molto preciso ed efficiente.
Tuttavia anche una cellula presenta differenziali di temperatura per il semplice motivo che possiedono, in generale, delle "centrali energetiche" e che tali centrali, nelle cellule eucariotiche, si localizzano in corrispondenza dei mitocondri. Il cui  numero e attività varia, non solo nei diversi tipi cellulari, ma anche temporalmente.
Ancora più in generale ogni attività cellulare è associata ad una reazione chimica e quindi produce/consuma energia, cosa che a sua volta determina variazioni locali di temperatura.

Ecco allora che si spiega l'importanza di tale misurazione. Ed è partendo da questi presupposti che un gruppo di ricercatori giapponesi guidati da Seiichi Uchiyama dell'University of Tokyo dopo avere sviluppato un polimero fluorescente, ha mostrato che alcuni organelli all'interno della cellula sono più "caldi" di altri. Osservazione questa utile per comprenderne i meccanismi molecolari alla base, per correlare eventuali anomalie con stati patologici e, come vedremo, per ottenere delle immagini delle cellule sotto una altra prospettiva.

Schema del funzionamento del polimero (© Nat. Commun)
L'ultima versione di questo polimero, presentato la prima volta nel 2009, funziona attraverso l'incorporazione di tre elementi: una molecola fluorescente , dei gruppi idrofilici ed una porzione responsiva al calore.
In condizioni standard la parte fluorescente è "quenchata" (bloccata) dalle molecole di acqua, tuttavia nel momento in cui il polimero si contrae in seguito ad un aumento di temperatura, le molecole di acqua vengono spiazzate e la fluorescenza risulta manifesta. 

Tecnicamente una delle modifiche risolutive della metodica è stata quella di renderla in grado di "mappare" il gradiente di temperatura, attraverso il rilevamento della emivita della fluorescenza invece che la sua intensità. Quest'ultima da sola è infatti pressochè inutile in quanto troppo dipendente dalla concentrazione locale del polimero. 

 Iniettando il polimero dentro le cellule il termometro ha mostrato non solo il nucleo, il centrosoma ed i mitocondri come le regioni più calde, ma ha anche mostrato le differenze a loro carico nelle diverse fasi del ciclo cellulare.


Uno dei vantaggi di questa tecnica è che fornisce una risoluzione spaziale oltre che termica. In associazione ad i moderni microscopi a fluorescenza si ritiene che potrà fornire immagini funzionali complementari rispetto a quanto ora disponibile. Con grandi vantaggi per la conoscenza scientifica.

Cosa ci dice ... Ötzi ?

Poche settimane fa la stampa generalista ha ripreso i risultati di uno studio estremamente interessante, in quanto unico: i risultati del sequenziamento (ricostruttivo viste l'antichità del reperto) della mummia del Similaum, alias Ötzi.
Ricostruzione di Ötzi per museo

Si parla del cacciatore morto sulle alpi tirolesi circa 5000 anni fa e conservatosi in ottime condizioni. Uno strumento utile per indagare le caratteristiche genetiche degli abitanti di quei tempi remoti mediante marcatori di malattie o semplicemente polimorfismi specificamente associati a popolazioni odierne (così da ricostruirne i percorsi migratori).
Va da se che molti dei commentatori che hanno ripreso la notizia hanno amplificato, in modo quasi unanime direi, osservazioni di minore impatto scientifico ma più facilmente vendibili. Anzi questa unaniminità mi fa pensare che molti si siano basati su una stessa notizia di agenzia senza leggere l'articolo originale (Nature Communications). Ma tant'è.



 
Estrapolo quindi, dall'articolo originale alcune delle notizie interessanti, specificandone i punti salienti e magari sottolineando interpretazioni troppo semplicistiche fornite dai quotidiani.

• il periodo storico a cui risale Ötzi è la parte iniziale dell'età. Diffusasi del medio oriente, l'uso del rame doveva appena avere raggiunto le regioni alpine. Si tratta di un periodo cominciando a diffondersi in modo sistematico l'agricoltura, erano anche iniziate le differenze fra le popolazioni sedentarie e nomadi. Nello stesso periodo cominciavano a comparire le prime forme di registrazione scritta in Cina, Mesopotamia e valle del Nilo.
• Ötzi era intollerante al lattosio. Questo fenomeno (intolleranza primaria) che compare nell'età adulta, è ancora presente ad i giorni nostri ed ha una distribuzione etnico/geografica nota con picchi nelle popolazioni africane/asiatiche (90-100%) e valori molto bassi nelle caucasiche nord-europee (3-10%). Da non confondere con l'intolleranza secondaria conseguente a patologie gastro-intestinali. Ricordo che la persistenza della lattasi in età adulta è un tratto acquisito visto che, naturalmente, il consumo di latte non avviene dopo lo svezzamento. E' una mutazione che è stata selezionata positivamente nel tempo in popolazioni la cui dieta ne era ricca. Quindi ancora "troppo poco" svizzero se mi si passa il paragone troppo generico 
(Melvin B.,Heyman and for the Commetee on Nutrition, Lactose Intollerance in Infant, Children, and Adolescents, Pediatrics 2006; 118; 1279 – 1286).
• Ötzi appartiene ad un ceppo praticamente estinto il cui aplotipo Y, molto raro oramai in Europa, è legato all'emigrazione di alcune tribù provenienti dal vicino Oriente nel Neolitico, il cui Dna è presente ancora in popolazioni isolate come quelle della Sardegna e della Corsica. Questa mi farebbe ipotizzare che o la presenza nei sardi di questo DNA è dovuto semplicemente al fatto che nel resto d'Europa è stato troppo "diluito" a causa delle varie migrazioni oppure che Ötzi ed i sardi abbiano un legame diretto con i popoli medio-orientali. In quest'ultimo caso bisogna anche considerare che dato lo scambio genetico intercorso fra i Fenici (Libano odierno) e la civiltà Nuragica (X-IX a.C.) il legame con il popolo di Ötzi sia secondario in quanto originato dai veri cugini di Ötzi.
•  Era infettato dalla Borrelia burgdorferi, batterio causante la malattia di Lyme, una malattia ancora oggi molto diffusa nell'emisfero nord e trasmessa dalle zecche. A parte l'ovvia osservazione che questo patogeno era già allora un nostro "nemico" l'analisi più interessante sarebbe confrontare il DNA, temo troppo scarso, del batterio odierno e del suo antenato in modo da potere studiare le mosse immunitarie/contromosse batteriche intercorse in questi millenni.
•  uno dei punti "deviati" dai media nella comunicazione dei risultati è  il dato sulla predisposizione genetica a malattie cardiovascolari di Ötzi. Citando, ad esempio, parte dell'articolo del Corriere:
(...) Il dato è interessante perchè, 5.000 anni fa, Ötzi non era esposto ai rischi che oggi influenzano fortemente l'insorgere di malattie cardiocircolatorie: Ötzi non era sovrappeso e non conduceva una vita sedentaria. "La conferma che questa predisposizione genetica fosse riscontrabile già ai tempi di Otzi è rilevante perchè mostra che le malattie cardiocircolatorie possono non essere legate alla civilizzazione (...)

In realtà il punto è del tutto diverso ed è molto più semplice. In una situazione tipica di un uomo pre-ventesimo secolo il citare una correlazione fra predisposizione a patologie cardio-vascolari ed alimentazione/moto/etc non ha alcun valore.
Riformulo. Da un punto di vista genetico NON hanno alcuna importanza le predisposizioni a patologie che si potrebbero (condizionale visto che è solo un fattore di rischio) manifestare SOLO dopo il periodo riproduttivo. In termini ancora più semplici ogni alterazione che non provochi una diminuzione della fitness è irrilevante.
Generalizzando ancora di più, i nostri bisnonni erano pieni di "tare" che noi scopriamo solo ora perchè abbiamo eliminato tutti gli altri fattori di rischio e viviamo a sufficienza per poterlo sperimentare. Sufficiente geneticamente è anche solo sopra i 25-30 anni).
Facendo un esempio opposto, avrebbe avuto senso invece scoprire che Ötzi aveva una mutazione che lo rendeva daltonico o sordo o fortemente miope, condizioni che al giorno d'oggi non sono più selezionate contro ma che al suo tempo gli avrebbero permesso, forse, di crescere in ambito familiare ma molto difficilmente di riprodursi e ancora più difficilmente di sostentarsi andando a caccia (fitness negativa).

Quindi il dato sulla predisposizione è interessante ma solo in senso opposto a quanto venduto dai diversi, ma unanimi, quotidiani: indica chiaramente che tale "tara genetica" è giunta fino a noi senza essere selezionata negativamente. Anzi, visti i casi fibrosi cistica, anemia mediterranea, etc potrebbe avere perfino avuto un qualche effetto positivo di sopravvivenza secondaria … ma questo è un argomento ampio, e noto, che non vale la pena descrivere ora.

Un raggio di luce sulla Sindrome di Angelman

E' da alcuni anni evidente il ruolo centrale delle modificazioni epigenetiche ("sopra la genetica", modificazioni che non riguardano la sequenza nucleotidica quanto alterazioni, reversibili, della cromatina) nei meccanismi regolatori della cellula. Giusto per rendere l'idea, ognuno dei diversi tipi di cellule presenti nel nostro corpo ha un identico patrimonio genetico; eppure ciascuno di questi tipi cellulari ha una forma, funzione e potenzialità diverse. E' proprio la somma delle modificazioni epigenetiche accumulatesi ad ogni successiva divisione cellulare a partire dalla cellula uovo fecondata a fare si che una cellula diventi un neurone piuttosto che un adipocita.
Ad aumentare la complessità della regolazione vi è il fatto che perché si abbia uno sviluppo corretto è fondamentale che alcuni dei geni espressi siano (in specifici momenti dello sviluppo) esclusivamente quelli di origine materna o paterna. La perdita (o alterazione di questa "marcatura", nota come imprinting, può avere conseguenze importanti nello sviluppo embrionale prima e dell'adulto poi).

Che questi meccanismi regolatori siano importanti è provato dal fatto che diverse malattie congenite e/o acquisite (cancro, etc) sono, in alcuni casi, il risultato da una alterata (quantitativa o cellulo-specifica) o assente espressione dei geni parentali. Riuscire a ripristinare l'equilibrio trascrizionale, resettando l'apparato regolatore, è una frontiera di estremo interesse della ricerca bio-medica .

Come studiare sistemi regolativi così complicati?
Studi di tale complessità necessitano del contributo di più approcci: animale, cellulare e molecolare. Nessuno di questi è a priori migliore e/o in grado di sostituire l'altro, come invece vorrebbero alcuni pasdaran animalisti il cui ardore, troppo spesso fuori fuoco, è dogmatico più che logico.
La Scienza (e la S maiuscola non è un refuso) insegna che ogni metodo deve essere validato e che, dove non esista un metodo univoco, si debba ricorrere ad approcci complementari. Così se è vero che l'innovazione tecnologica ci sta portando verso modelli cellulari derivati direttamente da pazienti le cui cellule espiantate sono state riprogrammate per creare lo stesso tipo di cellula malata (un approccio reso possibile solo grazie agli studi sugli animali) è altrettanto evidente che per testare l'efficacia di un trattamento già validato in colture cellulari, e prima di arrischiarsi a fare un test analogo su un essere umano sarà necessario sfruttare un modello animale (se disponibile) in quanto intrinsecamente più complesso delle sole cellule e già in grado di evidenziarne tossicità se non di misurarne l'efficacia.

Data questa premessa, necessaria, volevo qui presentare un caso di estremo interesse in quanto complesso ed umanamente toccante.
I pazienti affetti da sindrome di Angelman pur avendo una aspettativa di vita sostanzialmente normale non sono, nella stragrande maggioranza dei casi, in grado di parlare, hanno serie disfuzioni intellettive e presentano problemi sia di movimento che di equilibrio. 
Sono individui fortemente "emozionabili" il cui tratto caratteriale più evidente è una risata frequente.
La frequenza dei bambini nati con questa sindrome è di 1 ogni 15 mila bambini nati vivi. Si tratta di una malattia genetica dovuta ad un difetto nel gene UBE3A, gene che codifica per una proteina importante nella ubiquitinazione, un processo cellulare fondamentale nella rimozione di proteine alterate o non più necessarie. Spesso tale alterazione è una delezione di una regione posta sul braccio lungo del cromosoma 15 (in cui si trova il gene), sebbene singole mutazioni nel gene siano in grado di indurre da sole la malattia.
Negli individui sani "quasi tutte" le cellule hanno entrambi gli alleli parentali di UBE3A attivi. "Quasi" in quanto il gene paterno è spento nei neuroni mediante la produzione di un trascritto antisenso che neutralizza il messaggero del gene.
Nella sindrome di Angelman tuttavia anche il gene materno è spento (in questo caso a causa di una mutazione). Risultato i neuroni non sono in grado di produrre la proteina UBE3A e le proteine che dovevano essere distrutte si accumulano. Le alterazioni rilevate dall'analisi autoptica fanno ipotizzare
che l'alterazione cardine sia di tipo sinaptico, con conseguente anomala trasmissione inter-neuronale. Alcuni studi sui topi hanno dimostrato che la mancanza della proteina UBE3A impedisce ai circuiti cerebrali di rafforzarsi in risposta agli input sensoriali (ed esperenziali) esterni; una condizione alla base del processo di apprendimento e di adeguamento al mutevole ambiente in cui si vive. Persa questa capacità, l'individuo (così come l'animale) manca di un elemento chiave per "crescere" (vedi anche qui per i punti in contatto con l'autismo).

In un recente articolo pubblicato su Nature (dicembre 2011), il team di Benjamin Philpot che lavora presso l'università del Nord Carolina, ha descritto la produzione di un farmaco che, in topo, ha mostrato risultati estremamente interessanti.
In breve, sono state utilizzate cellule neuronali di un topo modificato geneticamente in modo tale che la proteina Ube3a di origine paterna fosse fluorescente. Come detto prima le cellule neuronali sane non esprimono il gene paterno, quindi la fuorescenza in tali cellule è basale. Questi neuroni, espiantati e coltivati in vitro, sono state testati con una batteria di 2306 molecole già commercialmente disponibili per verificare se una di queste fosse in grado di riattivare la copia paterna (essendo la copia materna danneggiata solo quella paterna può essere "de-repressa"). Una di queste molecole, l'Irinotecan (antitumorale prodotto della Pfizer, inibitore della topoisomerasi-1) era in grado di svegliare il gene dormiente. Il test sui topi ha confermato, in vivo, la riattivazione genica. Una riattivazione stabile per almeno 12 settimane dopo il trattamento

In un articolo successivo pubblicato nel 2012 su PLoS ONE lo stesso team ha aggiornato i risultati evidenziando come in seguito alla riattivazione genica, si siano ottenuti miglioramenti significativi sia nella capacità di apprendimento che in quelle mnemoniche dei topi adulti.
E' necessario sottolineare come questi dati siano ancora preliminari e che altri studi saranno necessari prima di potere iniziare un trial clinico. 
Fra le domande a cui rispondere, le più ovvie sono:
  • quale è il meccanismo mediante il quale l'irinotecan agisce per riattivare UBE3A?
  • ci sono altri geni, e quali, che si riattivano in seguito a questo trattamento? Che tessuti coinvolgono e quali sono gli effetti collaterali attesi?
  • quale è l'intervallo di tempo in cui tale somministrazione risulta efficace?
  • in un articolo pubblicato da IF King e collaboratori (Nature 2013) viene evidenziato come il trattamento con l'inibitore della topoisomerasi abbia avuto, come atteso del resto, un effetto su non pochi geni. Identificare il contributo di ciascuno di questi aggiunge complessità allo studio.


Nonostante tutti questi interrogativi ancora aperti la migliore frase è quella di Huda Zoghbi un neurobiologo e genetista del Baylor College a Houston (Texas): è fantastico essere riusciti a riattivare questo gene senza che sia stato necessario alcun intervento di terapia genica.

(aggiornamenti sul lavoro in atto ---> Nature aprile 2014)


Link utili
- (in inglese) Angelman Foundation e informazioni cliniche sul sito della Mayo Clinic, Harvard University.
- (in italiano) Telethon, OR.SA, Ospedale Niguarda Milano,

novità terapeutiche per il diabete di tipo 2

Il diabete di tipo 2 è, nei paesi sviluppati e con alto tenore di vita, una delle patologie a maggior impatto economico per il sistema socio-sanitario nazionale. A differenza del diabete di tipo I che compare spesso nei bambini ed è associato ad una reazione auto-immunitaria, il diabete di tipo 2 compare nell'età adulta, non è trattabile con insulina ed è spesso associato a sovrappeso.
Da queste poche righe si può facilmente intuire come la ricerca in tal senso abbia un impatto potenziale molto elevato. 
E' di questi giorni la pubblicazione sul prestigioso New England Journal of Medicine di un articolo prodotto dalla collaborazione fra la Cornell University (Ithaca, NY, USA) ed il policlinico Gemelli (Roma), sotto la guida di Francesco Rubino, professore di chirurgia al Weill Cornell Medical College e direttore del Gastrointestinal Metabolic Surgery al NewYork-Presbyterian/Weill Cornell.
In breve, gli autori hanno mostrato come l'approccio migliore per una remissione spesso completa dal diabete di tipo 2 sia di tipo chirugico, purchè i pazienti siano oltre che diabetici anche obesi (una condizione specie in USA fra le più comuni).
immagine presa di egmnblog.wordpress


L'intervento chirurgico messo a punto da Rubino si differenzia rispetto ad i trattamenti standard per l'obesità in quanto non comporta la riduzione dello stomaco (gastric banding) ma crea un bypass con il duodeno.  Il tasso di mortalità è a livelli, per il tipo di operazione, estremamente bassi (6/10000), così come gli interventi correttivi.
Un anno dopo l'operazione il 59% dei pazienti trattati era in completa remissione, in altre parole non avevano bisogno di alcun tipo di trattamento diabetico.






Un risultato certamente interessante e importante.

prossimo IgNobel ?

Come è oramai arcinoto gli IgNobel premiano le ricerche scientifiche più improbabili. 
Con questo non si vuole dire che tali ricerche non siano condotte con tutti i sacri crismi della Scienza. Semplicemente trattano di argomenti così peculiari o improbabili da fare esclamare al lettore "perchè vi è venuto in mente di affrontare questo argomento?!". 
Questi premi, conferiti presso il Sanders Theater - Università di Harvard - rappresentano un momento di sana ilarità scientifica.

Stamane mentre leggevo un articolo su di una ricerca in svolgimento presso l'università di Southampton (UK) ho subito pensato agli autori come a dei validi candidati per l'edizione 2013 del premio. 
Cosa hanno fatto di così curioso? Niente di irragionevole se non cercare di capire se la percezione del dolore nelle persone con i capelli rossi è diversa rispetto alle persone con capelli di altro tipo (bruno, castano piuttosto che biondo).
© wikimedia.org
Un quesito certamente interessante considerando che in UK i "reds" puri (cioe' coloro che hanno anche una carnagione molto chiara e con efelidi), costituenti il 3 % della popolazione, potrebbero essere svantaggiati quando necessitassero di terapie anti-dolorifiche e/o di trattamento anestetico. Trattamenti il cui dosaggio dipende dall'indice di massa corporea (sebbene l'etnia sia importante in quanto potenzialmente associata a polimorfismi e quindi a diverso metabolismo del farmaco) senza valutare il paziente per il suo pel di carota
Importante precisare che evidenze in tal senso si ebbero già nel 2002 con uno studio americano che mostrò, sebbene in modo non chiarissimo, come le donne con i capelli rossi necessitassero per i farmaci anti-dolorifici di dosaggi superiori del 19% rispetto al dosaggio necessario per donne con capelli scuri. Un altro studio danese del 2009 evidenziò invece una diversa sensibilità cutanea alle iniezioni.
Per fugare ogni dubbio i ricercatori (fra cui una "rossa") hanno predisposto un trial clinico in cui volontari con capelli rossi e "non-rossi", di età superiore a 30 anni, sono sottoposti, in modalità blind, a piccole scosse elettriche sulla coscia. La percezione dolorosa viene valutata dal tester su scale sensoriali idonee. Lo scopo è chiaramente quello di valutare se esistano delle differenze statisticamente significative nella percezione del dolore, neutralizzando il più possibile fattori di disturbo come il sesso. Sebbene non sia indicato nell'articolo mi aspetto che venga considerato nell'ambito del gruppo femminile la fase del ciclo mestruale. Un dato questo assolutamente essenziale visto che è noto come livelli di estrogeno diversi siano associati ad una differente sensibilità al dolore.

La chiusura della fase sperimentale è attesa per il mese di settembre quando, si ipotizza, un numero sufficiente di casi sarà stato esaminato.

pesticidi biologici... i soliti errori nella gestione sul campo.

In un precedente post si parlava del cattivo uso degli antibiotici e delle conseguenze a questo comportamento correlate. Vi è un altro settore in cui l'uso massiccio di agenti biologici, seppure in modo regolamentato, sta inducendo un olocausto ecologico: l'agricoltura.
Come al solito è il cattivo uso dei pesticidi (anche se biologici), e non il loro utilizzo, a creare problemi. Questo almeno è quanto risulta da uno studio condotto dal team del prof. Michael Gray dell'University of Illinois (USA). In questo articolo si evidenzia come, nel Midwest ma non solo, sia diffusa la pratica di massimizzare la resa del raccolto mediante un sovradosaggio dei diserbanti e/o di agenti contro gli insetti (come ad esempio la Bt tossina), senza passare attraverso la pratica dello scouting field cioè del campo test in cui verificare se questo trattamento porti o meno a miglioramenti sostanziali. Stesso discorso se invece di usare la tossina si opta per l'uso di piante modificate (che producono la tossina anti-insetto).
In qualunque modo la si guardi questo viola un principio fondamentale nella gestione integrata dei pesticidi (o delle piante transgeniche) che prevede la valutazione sul campo della misura minima di efficacia.
Il risultato di questi trattamenti è spesso la creazione di campi di grano e di soia in cui si crea un deserto di diversità biologica fra le specie di insetti presenti: in altre parole vengono cancellati in toto e quelli che sopravvivono sono ovviamente resistenti e senza concorrenti.
Alla domanda fatta direttamente agli agricoltori sul perchè non venisse considerata la pratica della rotazione dei campi fra grano e soia in modo che il trattamento fosse mirato a colpire solo la specie dannosa per quel raccolto la risposta è che si preferiva usare la insurance pest management cioè un trattamento con tutte le armi a disposizione, mirante a coprirsi da ogni rischio, ogni anno.
Questo uso massiccio di tutte le munizioni disponibili non è tuttavia una tattica di lungo periodo. Le larve della Diabrotica virgifera virgifera (Rootworm in americano) uno dei peggiori flagelli del mais, agiscono principalmente a livello delle radici della pianta e la localizzazione della Bt-tossina nelle radici è fortemente limitata.
Questo vuol dire che le larve della Rootworm ricevono una dose di tossina decisamente inferiore a quella necessaria per indurre l'effetto, che invece è ricevuta sulla foglie dove pure le larve si nutrono. Se a questo trattamento che di fatto favorisce una rapida selezione dei ceppi resistenti si aggiunge il fatto la maggior parte degli agricoltori ignora la pratica dei buffer field (cioè campi in cui vengono seminate piante non modicate o semplicemente non trattate, in modo da attirare li gli insetti non resistenti e diluire quindi il fenomeno della resistenza) si capisce come anche le migliori armi a disposizione della agricoltura per massimizzare in modo corretto il raccolto siano di fatto rese vane da una gestione non scientifica del procedimento.

Depressione un male ... anzi un bene

Questo è il messaggio contradittorio che si ricaverebbe da una lettura veloce di un articolo apparso qualche giorno fa sul New York Times  ad opera di Richard A. Fredman.
Di seguito ne faccio un breve riassunto cercando soprattutto di renderlo meno confuso.

Il dr. Fredman (si, è un medico) cita nell'articolo i lavori di Paul W. Andrews e di Joseph P. Forgas, due psicologi australiani, che evidenziano come la capacità analitica migliori in condizioni di sadness (tristezza). Secondo questi ed altri autori il rimuginare continuo tipico dei depressi può essere assimilato ad una strategia adattativa per risolvere i problemi che provocano situazioni di disagio.
Sulla soglia dell'eternità di Vincent van Gogh
Quando Friedman chiese conto ad i due autori delle basi scientifiche della loro affermazione, questi ammisero che i pazienti da loro analizzati non erano tecnicamente depressi ma indotti in uno stato di tristezza temporaneo.
Anzi, loro con i depressi veri non ci avevano mai lavorato. Questa distinzione è di estrema importanza in quanto solitamente la depressione non si caratterizza per la presenza di elementi scatenanti (stressori) in grado di spiegarne l'insorgenza e, di rimando, di rendere conto del fenomeno adattativo da loro ipotizzato.
Lo stato depressivo è invece quasi sempre presente, anche se latente, prima dell'esordio clinico della malattia. In altre parole la depressione può essere innescata ma una volta attivata, nei soggetti predisposti diventerà indipendente dal permanere o da future ricomparse degli episodi stressori concomitanti.
Perchè allora è così diffuso il concetto che la depressione sia associata ad altre capacità, non solo artistiche?
L'autore ha sua una idea, derivata dal contatto con un suo paziente che una volta guarito ricordava tuttavia con favore il periodo della sua depressione in quanto espressione del suo vero io, creativo e pensieroso. Quindi l'aspetto romanzato del genio associato alla depressione deriverebbe dalla tendenza romantica a considerare buono l'Io naturale e meno buono l'Io nuovo. 
L'autore conclude ricordando che anche molte malattie sono assolutamente naturali, ma non per questo positive o da non combattere.

Sul tema "arte e disturbi mentali" vedi anche QUI,

Fonte
- Depression Defies the Rush to Find an Evolutionary Upside
Richard A. Friedman, NYT. 16 gennaio, 2012



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