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Visualizzazione post con etichetta Parkinson. Mostra tutti i post
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Pesticidi comuni e rischio Parkinson

Poco più di 10 anni fa scrivevo dei forti indizi tra l'uso estensivo di pesticidi e il rischio di contrarre il morbo di Parkinson (vedi articolo in calce).
Nel 2023 il dato pare essere stato confermato con l'identificazione di 10 pesticidi tossici per i neuroni dopaminergici (direttamente coinvolti nel movimento volontario).
Credit: neurosciencenews.com
Ecco un breve riassunto
I ricercatori hanno individuato 10 pesticidi che danneggiano in modo significativo i neuroni coinvolti nell’insorgenza della malattia di Parkinson.
Sebbene fattori ambientali come l’esposizione ai pesticidi siano stati a lungo collegati al Parkinson, identificare con certezza il/ vero/i responsabile di questa malattia neurodegenerativa si è rivelata una prova ardua per l'assenza di test specifici
Il nuovo studio pubblicato l'anno scorso su Nature Communications ha esaminato i pesticidi più in uso in California (grazie ad un database molto accurato) con test innovativi per identificare quelli direttamente tossici per i neuroni dopaminergici, cellule cruciali per il movimento volontario.
Il risultato ha mostrato che almeno 10 pesticidi (alcuni ancora presenti) usati nella coltivazione del cotone mostravano effetti diretti su queste cellule. Tra gli effetti più forti le combinazioni di pesticidi che contengono trifluralin, uno degli erbicidi più usati in California.

A parte la loro tossicità nei neuroni dopaminergici, i pesticidi identificati hanno poco in comune sia nella struttura/classe di molecole che come gamma di utilizzo

Nel prossimo futuro i ricercatori si focalizzeranno sullo studio delle alterazioni epigenetiche e metabolomiche legate all’esposizione cercando di capire quali sono i circuiti alterati che portano alla morte delle cellule dopaminergiche


Fonte
- A pesticide and iPSC dopaminergic neuron screen identifies and classifies Parkinson-relevant pesticides
Richard Krolewski et al. Nature Communications


***

Pesticidi e Parkinson: ricercatori UCLA identificano un nuovo collegamento
(26(0/2013)
Il morbo di Parkinson (PD) è una malattia neurodegenerativa invalidante che colpisce milioni di persone in tutto il mondo. I sintomi caratteristici - tra cui tremore, rigidità, difficoltà nei movimenti e della parola - sono il risultato della morte dei neuroni posti nella substantia nigra, un'area particolarmente ricca di neuroni dopaminergici. Quando il Parkinson si manifesta, circa la metà dei neuroni dopaminergici in questa area sono già morti.

Salvo quei casi in cui esiste una familiarità della malattia, le cause principali sono da ricercarsi in inquinanti ambientali.

Per diversi anni i neurobiologi della UCLA hanno cercato conferme sul nesso tra la presenza di pesticidi e morbo di Parkinson. Ad oggi, il paraquatmaneb e ziram - alcune fra le sostanze chimiche più usate dagli agricoltori californiani - sono tra i principali indiziati (mancano infatti dati conclusivi) dell'aumentata frequenza della malattia sia nei contadini che tra le persone che vivevano in vicinanza dei terreni trattati. 
Detto per inciso è curioso che i tanti avversari degli OGM (in uso da 10 anni e senza alcun elemento di tossicità trovato) non abbiano invece alcuna remora nel consumare vegetali trattati con prodotti simili. Curioso visto che il vantaggio principale della agricoltura OGM è di ridurre al minimo i trattamenti chimici.
 Come se non bastasse ecco che ora, grazie allo studio di Jeff Bronstein pubblicato sulla rivista PNAS, un nuovo pesticida viene fatto salire sul banco degli imputati, il benomil, i cui effetti tossici ambientali sono ancora presenti a 10 anni di distanza dalla proibizione da parte della EPA (Environmental Protection Agency) americana. Ma un dato è ancora più inquietante: l'aumentata incidenza di Parkinson sarebbe causata da un effetto indiretto del pesticida.

Alcuni dati riassuntivi a tal riguardo. 
Il benomil inibisce un enzima, la aldeide deidrogenasi (ALDH), importante nel processo di detossificazione della diidrossifenilacetaldeide (DOPAL) un metabolita naturale della dopamina cerebrale. E' evidente che se l'enzima viene inibito, il sottoprodotto tossico (del tutto fisiologico) della dopamina aumenta. Quindi in questo caso non è l'erbicida in se ad essere tossico, ma il suo effetto indiretto. Per spiegarmi meglio, i test di tossicità condotti a suo tempo avrebbero potuto dare segnali allarmanti solo se fossero stati condotti sul metabolismo dei neuroni dopaminergici.
Questo per quanto riguarda i dati di laboratorio, che sono indiziari e non conclusivi vista l'ovvia impossibilità di fare studi sull'uomo.
In ambito scientifico ogni ipotesi per essere validata necessita di studi di causa-effetto. L'unica strada percorribile quindi è stata quella di integrare i dati da colture cellulari con quelli ricavati da animali.
I risultati non si sono fatti attendere: test in zebrafish hanno dimostrato che il benomil colpisce prevalentemente i neuroni dopaminergici lasciando inalterati gli altri neuroni.
 
E' probabile che la comparsa del PD sia il risultato della somma di concause ambientali (inquinanti vari) e di predisposizione genetica. Ad oggi i geni (o meglio gli alleli) noti per essere fattori di predisposizione sono la alfa-synuclein e LRRK2. In entrambi i casi il risultato autoptico mostra la degenerazione dei neuroni della substantia nigra pars compacta a causa dell'accumulo dei corpi di Lewy (ricchi di alfa-synuclein).
Ora con la scoperta di un nuovo meccanismo le possibilità di sviluppare una terapia raddoppiano. Come? Ad esempio mediante farmaci in grado di preservare l'attività della ALDH.

Fonti
Pesticides and Parkinson's: UCLA researchers uncover further proof of a link.

 - Aldehyde dehydrogenase inhibition as a pathogenic mechanism in Parkinson disease
   Proc Natl Acad Sci U S A. 2013 Jan 8;110(2):636-41.
   



La caffeina riduce il rischio Parkinson, anche nei soggetti predisposizione genetica?

Una nuova ricerca svela una correlazione significativa tra il consumo di caffeina e un ridotto rischio di malattia di Parkinson (PD) per gli individui con varianti genetiche asiatiche legate al disturbo.
Image credit: Neuroscience News

Lo studio è stato condotto a Singapore dal (locale) National Neuroscience Institute.
Una delle ragioni dello studio è che poco meno del 10% della popolazione di Singapore è portatrice di una delle due varianti genetiche asiatiche conosciute, che aumentano il rischio PD fino a 2 volte. 

L'analisi ha coinvolto 4488 soggetti divisi tra portatori della variante genica e controlli. Si tratta di uno studio osservazionale in cui è stata fatta una correlazione tra la frequenza di sintomi in funzione della quantità di caffè abitualmente bevuto; il confronto è sia interno (diverse dosi di caffeina assunta abitualmente negli anni) che con i controlli (soggetti senza predisposizione genetica alla malattia con uguale consumo di caffè).

La quantità di caffeina media assunta giornalmente dai partecipanti è stata di 450 mg, equivalenti a circa 4-5 tazze di caffè locale (per dare una idea una tazzina di espresso contiene intorno 60 mg, mentre una tazzina di Moka può arrivare a 120 mg)

I risultati indicano che il consumo regolare di tè o caffè riduce il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson di 4/8 volte rispetto ai portatori della variante che non assumono caffeina. L'effetto protettivo sembra aumentare all'aumentare della quantità di caffeina assunta sebbene anche un consumo modesto, inferiore a 200 mg al giorno, mostra benefici (termine che, ricordo, vuol dire sintomi minori o assenti rispetto a chi non ha mai assunto caffeina).
L’assunzione di 400 mg di caffeina al giorno è considerata sicura per la maggior parte degli adulti sani. Il dato neuorprotettivo in sé non è inatteso in quanto è da tempo nota l'azione neuroprotettiva della caffeina anche nel contesto di altre condizioni neurodegenerative.

 La ragione di tale protezione sembra essere l'azione antinfiammatoria della caffeina alla base di ridotta neuroinfiammazione e morte neuronale.

Lo studio del PD è un tema di sempre maggiore importanza con l'aumento della età media della popolazione globale. Nella sola Singapore vi sono 8 mila persone affette da PD e si stima che il 26% della popolazione anziana locale presenti almeno lievi segni di parkinsonismo. 

Fonte
- Caffeine intake interacts with Asian gene variants in Parkinson's disease: a study in 4488 subjects
Yi-Lin Ong et al (2023) The Lancet (Reg Health West Pac)

Al lavoro per sviluppare test per la diagnosi veloce di Parkinson dai tamponi cutanei

Diagnosticare (meglio se con largo anticipo) il morbo di Parkinson? Potrebbe in futuro essere possibile usando un metodo totalmente non invasivo analizzando il sebo mediante spettrometri di massa.

Lo studio di fattibilità è stato pubblicato qualche mese fa sulla rivista Journal of the American Chemical Society da un team inglese che ha scoperto che esistono lipidi ad alto peso molecolare più abbondanti nelle persone con il Parkinson.
I test, preliminari, sono stati condotti su un gruppo campione costituito da 79 persone con Parkinson e un gruppo di controllo di 71 persone.

L'idea dello studio viene dallo studio di una persona di cui avevo già scritto in precedenza* come Joy Milne, dotata di olfatto "super" (in termini tecnici iperosmia ereditaria), che si è dimostrata capace di "annusare" la malattia nelle persone prima che questi manifestassero i sintomi clinici.
Joy Milne al "lavoro" (credit: manchester.ac.uk)
* Vi rimando agli articoli del 2019 ("Lo strano caso della donna capace di...") e del 2016 ("Predire il rischio di Parkinson dall'odore").
Il sebo è una secrezione oleosa, ricca di metaboliti, prodotta dalle ghiandole sebacee cutanee collegate al sistema endocrino.
Punto di partenza la nozione clinica che i soggetti affetti da Parkinson presentano una produzione anomala di sebo, da qui l'idea di verificare se alterazioni nella sua composizione potessero avere valenza diagnostica, dall'analisi di campioni prelevati dalla parte superiore della schiena.
Una volta arrivato in laboratorio il campione viene trasferito dal tampone alla carta da filtro, a cui viene poi aggiunta una goccia di solvente. Fatto questo si può procedere all'analisi mediante spettrometro di massa. Si è potuto così dimostrare che tra le più di 4000 molecole uniche presenti, circa 500 erano diversi tra i due gruppi di soggetti analizzati.

La speranza ultima è quella di sviluppare un test diagnostico facile e affidabile che permetta di individuare i soggetti a rischio malattia prima che questa si manifesti (requisito fondamentale per sviluppare e testare trattamenti idonei, visto che quando la malattia si manifesta il danno neuronale è oramai talmente ingente da non potere essere invertito)

Fonte
Parkinson’s breakthrough can diagnose disease from skin swabs in 3 minutes
University of Manchester /news


***
Kit per addestrare l'olfatto ... senza pretendere/sperare di diventare super come Joy Milne


Lo strano caso della donna capace di "annusare" il Parkinson che ha permesso lo sviluppo di un test diagnostico

L'olfatto è uno dei sensi più importanti nel mondo animale, capace di catturare informazioni ambientali (nel senso generale del termine) con una sensibilità di poche particelle per milione. Nella sua accezione più nota questo sistema sensoriale permette di trovare fonti di cibo, acqua, partner o evitare predatori. L'evoluzione degli esseri umani ha pagato dazio in questa capacità sia per ragioni selettive (minore dipendenza dall'olfatto per sopravvivere) che sociali (una atrofizzazione funzionale legata al vivere sempre più in società "inodori") con il risultato di avere relegato questo senso tra quelli meno apprezzati.
Quello che abbiamo perso lo deleghiamo ai cani come rilevatori viventi di "odori" nelle più svariate situazioni tra cui, inattesa emersa negli ultimi, la capacità di percepire stati patologici come tumori e problemi circolatori e (mediante i ratti) perfino la tubercolosi
Ma ci sono umani "speciali", dotati di capacità olfattive sopra la media, in gran parte innate ma anche "educabili" (si può imparare a riconoscere gli odori). Tra questi particolare interesse aveva suscitato il caso della persona capace di identificare persone affette dal morbo di Parkinson (anche nello stadio precoce non diagnosticato) soltanto annusandone gli indumenti (ne ho parlato in un precedente articolo -->QUI).

Il caso è quello dell'infermiera Joy Milne che percepì nel marito un odore strano 12 anni prima che a questi fosse diagnosticata il Parkinson. Solo in seguito il neurobiologo Tilo Kunath confermò come affidabile tale correlazione dando inizio ad uno studio, a cui l'infermiera partecipò come "sensore" per identificare le molecole "odorifere" con la speranza di sviluppare test diagnostici precoci.
Quando compaiono i sintomi del Parkinson, i danni a livello del sistema dopaminergico sono talmente estesi da rendere possibili solo terapie di mantenimento. Trattamenti in ogni caso di breve termine e non terapeutici nel senso stretto del termine (le cellule produttrici di dopamina sono morte e non sostituibili). Per ipotizzare un approccio terapeutico bisognerebbe prima di tutto avere a disposizione test diagnostici capaci di rilevare la malattia quando ancora asintomatica; solo così sarà possibile sviluppare e testare farmaci capaci di prevenire la morte dei neuroni.
Il lavoro è stato completato, con la identificazione di 4 molecole, e il test diagnostico è in fase di validazione clinica, passaggio obbligatorio per ottenere il semaforo verde dagli enti regolatori.

Facciamo ora un passo indietro.
Joy Milne capì che quello strano odore che lei sola notava poteva essere qualcosa di più di una coincidenza quando, insieme al marito oramai malato, iniziò a frequentare gruppi di supporto sul Parkinson. A quelle riunioni scoprì che tutte le persone malate presenti nella stanza emanavano lo stesso odore. Ci pensò un po' prima di condividere queste sue impressioni con Tilo Kunath, un neurobiologo dell'Università di Edimburgo, quasi rassegnata alla reazione di incredulità che avrebbe suscitato la sua affermazione.
Ma Kunath da persona di scienza decise di mettere alla prova tale affermazione mediante un test nel quale la Milne annusò magliette indossate da persone sane o dai malati di Parkinson. La signora non solo identificò senza errori le magliette "parkinsoniane" ma indicò come positiva anche quello di una persona a cui venne diagnosticato il Parkinson solo 8 mesi dopo.
Joy Milne (Credit: Chris Watt / The Telegraph)
Da qui iniziò la ricerca, condotta insieme ad un team della università di Manchester, delle molecole responsabili dell'odore che la Milne descriveva come muschiato. Il terreno di caccia fu delimitato al sebo, un liquido biologico di natura grassa prodotto da particolari ghiandole nella cute. L'area venne ristretta alla parte superiore della schiena dove l'infermiera affermava essere più forte l'odore da lei percepito.
L'analisi della composizione delle molecole presenti nei campioni sebo si è basata sulla tecnica nota come spettrometria di massa. Il processo di raffinazione del mix molecolare, guidato nella selezione dall'olfatto della Milne, ha permesso di ridurre il numero di molecole indiziate dalle migliaia iniziali a quattro, i cui livelli determinano la particolare impronta odorifera del malato.
Nel dettaglio i test hanno rilevato che nel sebo dei parkinsoniani il livello di tre sostanze (eicosano, acido ippurico e aldeide stearilica) era maggiore che nei controlli mentre una quarta sostanza, l'aldeide perillica, era meno abbondante.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista ACS Central Science.

Per validare la capacità predittiva del test bisognerà ora attendere i risultati di uno studio a cui partecipano un migliaio tra pazienti e controlli. Durante questa fase i ricercatori cercheranno anche di capire se esista una correlazione tra l'odore percepito (e a cascata nella composizione delle molecole), la progressione della malattia e le varianti con cui si può manifestare il Parkinson.

Il "dono" della Milne non è scevro da effetti collaterali. La sua sensibilità olfattiva la costringe ad evitare le corsie più profumate dei supermercati e, immagino, possa esserle capitato di trovarsi a disagio percependo odori in persone apparentemente sane, soprattutto considerando che ha scoperto di essere in grado di rilevare "odori" di altre malattie. Se nel caso del Parkinson percepisce un aroma muschiato, con l'Alzheimer ha un vago sentore di vaniglia, mentre con il cancro la sensazione è qualcosa di più "terroso".
Tra i progetti a cui partecipa l'oramai indispensabile Milne, c'è quello legato all'identificazione delle molecole per la rilevazione della tubercolosi, una malattia che pensavamo di avere sconfitto ma che è diventata nuovamente un problema (--> "Il ritorno di polio e TBC").

Articolo successivo sul tema––> "Al lavoro per sviluppare test precoci per il Parkinson"

Altri articoli legati al tema Parkinson (--> QUI) e olfatto (-->QUI)

Fonti
-  Discovery of Volatile Biomarkers of Parkinson’s Disease from Sebum
DK Trivedi et al, ACS Cent. Sci., 2019, 5 (4), pp 599–606

- Super-smeller' helps develop swab test for Parkinson's disease
The Guardian (20/3/2019)




Un antiasmatico abbassa il rischio Parkinson?

Non è la prima volta (e non sarà l'ultima) che un farmaco ampiamente utilizzato in clinica per una data patologia rivela inattese funzionalità. 
In alcuni casi si va oltre il semplice ampliamento terapeutico con il "ripescaggio" di vecchi farmaci dismessi a causa degli effetti collaterali o soppiantati da nuove e migliori versioni. Anzi a volte è proprio la scoperta di un effetto collaterale inatteso a "scoperchiare" inattese modalità di azione del farmaco che una volta appositamente indirizzate forniscono innovativi ed efficaci trattamenti. L'esempio classico è il Viagra, il cui principio attivo (Sildenafil) fu sviluppato nel 1989 come contrasto all''alta pressione e all'angina. I suoi indesiderati effetti collaterali (che lascio alla vostra immaginazione) resero il farmaco inutilizzabile nelle terapie cardiovascolari ma permisero di lanciare un vero e proprio farmaco blockbuster contro la disfunzione erettile
 (vedi gli articoli precedenti sul tema "nuove indicazioni per vecchi farmaci" --> QUI).
Veniamo così al nuovo caso di farmaco in uso che ha mostrato inattese (e benefiche) potenzialità. 
Il salbutamolo, un farmaco per l'asma agente come agonista del recettore adrenergico β2, ha mostrato, sebbene indirettamente, la capacità di ridurre il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson (PD). Il PD è una patologia neurodegenerativa che distrugge progressivamente le cellule produttrici di dopamina nel cervello, a causa (ma non solo) dell'accumulo nei neuroni di aggregati della proteina α-sinucleina che con il tempo portano alla morte cellulare.

La scoperta, pubblicata sulla rivista Science, è il risultato di uno studio con il quale i ricercatori hanno testato l'azione di 1126 farmaci in uso (per patologie diverse dal PD) su un modello cellulare del Parkinson. L'idea era quella di verificare se qualcuno di questi farmaci avesse la capacità di ridurre l'espressione di α-sinucleina. Tra i farmaci che hanno mostrato una azione in tal senso, quelli più efficaci (in grado di ridurre l'espressione del 35%) erano gli attivatori dei recettori β-adrenergici, come sono ad esempio gli anti-asmatici. Ottenuta la prova iniziale, i ricercatori sono andati a testarne l'efficacia in modelli in vivo, cioè nei neuroni dopaminergici dei topi. Tali principi attivi non solo funzionavano anche nei topi ma erano dipendenti dalla presenza dei recettori beta-adrenergici (test fatto sui topi ingegnerizzati per essere privi di tali recettori), il che è il miglior indizio del nesso di causalità.
In altre parole la riduzione della alfa-sinucleina avviene attraverso l'attivazione dei recettori β-adrenergici, evento che contestualmente proteggeva le cellule dopaminergiche.

Dato che i farmaci attivanti tali recettori, come il salbutamolo, sono in uso da molto tempo in clinica, si aveva a disposizione anche una enorme casistica spalmata su decadi con la quale verificare l'esistenza di un effetto protettivo su coloro che avevano assunto gli anti-asmatici per anni.
L'analisi epidemiologica condotta su 4 milioni di norvegesi che hanno usato il farmaco ha mostrato che l'incidenza del PD era inferiore di un terzo rispetto ai controlli che non hanno mai usato il farmaco. Viceversa, i soggetti che avevano usato il propranololo, un antagonista del recettore β2 indicato nel trattamento della pressione alta, avevano il doppio delle probabilità di sviluppare la malattia neurodegenerativa.
Nota. Uno studio recente ha mostrato come le persone affette da diabete di tipo 2 hanno un rischio aggiuntivo del 32% di sviluppare il PD rispetto alle persone sane (--> UCL/news). Un dato utile per ricordarci come l'esito di malattie complesse come cancro e patologie neurodegenerative sia spesso frutto di molteplici situazioni che sommandosi tra loro, spiegano perché tra le persone senza familiarità per quella malattia alcune si ammalino e altre no.
I dati sono molto importanti ma è bene sottolineare che non si tratta di studi che dimostrano un nesso causale diretto in quanto il farmaco non mira alle cellule dopaminergiche ma in qualche modo ha un effetto a cascata su di esse. Nondimeno la scoperta è importante in quanto delinea il percorso per lo sviluppo di terapie mirate alla riduzione del rischio PD e, ma questo è ancora tutto da capire, se il trattamento sia anche utilizzabile per chi è nelle fasi iniziali della malattia (quando i sintomi compaiono la maggior parte delle cellule dopaminergiche sono già morte e non sono sostituibili quindi è ben difficile ipotizzare una qualsiasi efficacia sulle persone con sintomi oramai evidenti).

Altra cosa da fare sarà verificare se la correlazione tra uso di farmaci attivanti il recettore β-adrenergico e la diminuzione rischio PD, sussista anche in altre popolazioni oltre a quella norvegese.
Altri esempi di farmaci in uso o dismessi per cui è stata trova una funzione è presente nella tabella in fondo all'articolo seguente -->qui

Fonte
- β2-Adrenoreceptor is a regulator of the α-synuclein gene driving risk of Parkinson's disease.
Mittal S. et al, (2017) Science 357(6354):891-898






Stimolazione cerebrale profonda senza intervento chirurgico

[Aggiornamento 2025] I risultati di uno studio clinico volto a testare una variante della stimolazione cerebrale profonda (DBS) basata su una sorta di pacemaker, sono promettenti.

***
I neuroni trasportano i segnali da un estremo all'altro del proprio "corpo" grazie ad impulsi elettrici generati dalla differenza di potenziale tra aree adiacenti e "in serie" della membrana cellulare. La trasmissione del messaggio verso altre cellule (siano esse neuroni o cellule muscolari) necessita di mediatori chimici capaci di indurre una depolarizzazione o una iperpolarizzazione della membrana post-sinaptica; a seconda del caso si avrà l'innesco o l'inibizione, rispettivamente, di un nuovo segnale elettrico.
In verità esistono anche sinapsi elettriche ("gap junctions" ), molto più veloci di quelle chimiche proprio per l'assenza di "intermediari". Sono tuttavia molto rare nell'organismo adulto.
Facile allora immaginare come una qualunque anomalia capace di alterare il flusso di corrente (o la sua "facilità di innesco") nei neuroni abbia conseguenze sul funzionamento del sistema nervoso, tanto maggiori quanto più estesa e/o critica è la regione coinvolta. Tra le patologie che meglio riassumono le conseguenze di tali alterazioni, un caso emblematico è quello legato alla perdita della guaina mielinica che avvolge i prolungamenti dei neuroni che veicolano il segnale in uscita (gli assoni); una configurazione non troppo diversa da quella di un isolante che protegge il segnale dei cavi elettrici, solo che qui ha la doppia funzione di massimizzare la velocità di trasmissione del segnale e di conservarlo integro sulle lunghe distanze (alcuni neuroni raggiungono lunghezze superiori al metro e la velocità del segnale "inguainato" può raggiungere i 120 metri al secondo). In caso di alterazioni della guaina è il distretto coinvolto a determinare tipologia, sintomi e decorso della malattia; per fare qualche esempio la sclerosi multipla e la sindrome di Guillain-Barré sono la conseguenza della demielinizzazione di neuroni del sistema nervoso centrale e di quello periferico, rispettivamente.
Le guaine mieliniche nel SNC e nel SNP


Nel caso di altre patologie il problema non è legato alla conducibilità ma è da ricercarsi nella integrità strutturale del  circuito stesso (vedi neurodegenerazioni o lesioni) o nella generazione di segnali anomali (vedi epilessia). Nel caso del morbo di Parkinson, è il deficit di un neurotrasmettitore chiave come la dopamina a produrre a cascata un "firing"  anomalo nella rete di neuroni a valle, fondamentali nella regolazione fine del movimento muscolare; da qui la comparsa del tipico tremore parkinsoniano.

Ripristinare il corretto funzionamento di un circuito alterato è complesso ma sperimentalmente possibile, a patto che le cellule bersaglio siano integre. Tra le metodiche possibili vi è l'impianto di elettrodi in specifiche aree del cervello o, a livello periferico, di stimolatori che agiscono come modulatori del segnale (un approccio questo particolarmente utile nella terapia del dolore cronico). La letteratura scientifica è piena di esempi che illustrano le potenzialità di questi trattamenti capaci di agire su distretti anche molto specifici (in grado di evocare ad esempio la percezione di un sapore definito o anche di stati emotivi.

L'evidente limite di tali approcci è nella invasività e nella intrinseca grossolanità dell'area bersaglio; sebbene in laboratorio (o su un nervo periferico) sia possibile attivare una singola cellula, una volta posizionato l'elettrodo, per quanto piccolo, modificherà l'attività di un'area del cervello contenente un certo numero di cellule, potenzialmente appartenenti a distretti funzionali diversi. Questo è il motivo per cui durante gli interventi di posizionamento degli elettrodi (o prima della rimozione di un'area ad attività anomala) il paziente viene tenuto in sedazione cosciente in modo che possa fornire al chirurgo "le coordinate" precise della regione da "colpire".

Tornando al caso dei tremori parkinsoniani fatto in apertura, uno dei trattamenti oggi in uso è la stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation - DBS) consistente nell'introduzione di elettrocateteri nelle aree deputate al controllo dei movimenti, collegati ad un dispositivo esterno che ne regola l'attività. Un trattamento che come dice il termine implica la creazione di un foro nel cranio per potere inserire gli elettrodi; una procedura invasiva quindi ma ad oggi è anche l'ultima opzione per quei pazienti che non rispondono (più) al trattamento farmacologico ma sufficientemente "sani" perché il rischio connesso all'intervento sia accettabile.

Per rispondere alla necessità di minimizzare l'invasività di tali approcci sono stati sviluppati negli anni tecnologie come la stimolazione magnetica transcranica grazie alla quale è possibile modificare l'attività elettrica neuronale sfruttando un campo magnetico esterno.  Tale approccio, di cui ho parlato in precedenza (--> QUI), si fonda sul legame magnetismo-elettricità ben descritto già nel '800 da Hans Christian Ørsted prima e da James Clerk Maxwell poi.
--> Mayo Clinic
Il metodo, per quanto innovativo, ha una intrinseca limitazione nei distretti che può raggiungere (tipicamente le parti più esterne come la neocorteccia) e, elemento non secondario, nel coinvolgimento di un numero di cellule maggiore rispetto a quelle raggiungibili da un elettrodo ottimamente posizionato.

I ricercatori del MIT hanno recentemente pubblicato i risultati di un nuovo approccio (Temporal Interference stimulation - TIS) in grado di eliminare la componente chirurgica grazie ad elettrodi impiantabili sul cuoio capelluto invece che all'interno della scatola cranica. I test, condotti sui topi, hanno dimostrato la capacità di attivare in modo specifico i neuroni dell'ipotalamo (un'area sita nella parte più interna e di difficile accessibilità del cervello, avente un ruolo centrale nei processi cognitivi e di memoria).
In estrema sintesi il metodo consiste nell'inserimento di due coppie di elettrodi sulla cute, da cui partono due scariche elettriche in direzione dell'area di interesse. Data l'alta frequenza di emissione i neuroni lungo il percorso di ciascuna scarica non "rispondono" al segnale che prosegue inalterato fino al "punto di fuoco", in cui converge l'altra scarica. Qui la combinazione delle due genera una frequenza compatibile con la risposta neuronale che quindi verrà attivata in modo estremamente specifico.
In un certo senso non è molto diverso dalla procedura nota come gamma-knife che in oncologia viene usata per generare un impulso letale per le cellule solo nel punto di fuoco di due raggi gamma separati e convergenti.
Altro elemento importante è che mentre la DBS standard impone al chirurgo di spostare gli elettrodi se vuole spostare il bersaglio, nel caso della TIS  è sufficiente che l'operatore modifichi i parametri delle frequenze delle due correnti in modo da spostare il "punto di fuoco" in altra posizione.
Credit: Nir Grossman et al, (2017)


Secondo i ricercatori il prossimo passo sarà affinare la tecnica in modo da renderla capace di operare in qualunque area del cervello si voglia e con qualunque fine (spegnimento o stimolazione dell'attività elettrica dei neuroni). Tra gli obiettivi vi è quello di riuscire a raggiungere l'area nota come nucleo subtalamico, un'area chiave nella sintomatologia del Parkinson.

Articoli precedenti sul tema --> "Una scarica per ricordare" e "TMS per trattare l'anoressia".
Prossimo articolo sul tema --> Stentdrode

Fonte
- Noninvasive Deep Brain Stimulation via Temporally Interfering Electric Fields
 Nir Grossman et al, (2017) Cell, Volume 169, Issue 6, p1029–1041

Morbo di Parkinson e batteri intestinali. Una "liaison" pericolosa da approfondire

Dal lavoro di un team di ricercatori del Caltech emergono indizi sul potenziale collegamento funzionale tra le caratteristiche della flora batterica intestinale e il rischio di morbo di Parkinson (da qui in avanti userò PD, acronimo anglosassone per Parkinson Disease). In estrema sintesi, i cambiamenti nella composizione della flora batterica sono correlate e precedenti al deterioramento delle capacità motorie, uno dei marcatori diagnostici più precoci della malattia.
Il lavoro è stato pubblicato sul numero di dicembre della prestigiosa rivista Cell dal gruppo coordinato da Sarkis Mazmanian.

Morbo di Parkinson
Le aree più ricche di  neuroni dopaminergici
sono le più danneggiate nel Parkinson
 
Il PD ha una prevalenza nella popolazione italiana sopra i 60 anni poco sotto al 2 % per un totale di 230 mila individui affetti; a livello globale il numero è intorno a 10 milioni con 1 milione solo negli USA (numeri destinati a cresce con l'invecchiamento della popolazione anche in aree finora "risparmiate" ma solo perché l'aspettativa di vita media è inferiore alla età media di esordio del PD). Numeri alla mano il PD è la seconda malattia neurodegenerativa in termini di frequenza e ha un impatto economico e sociale nettamente superiore a quello delle patologie neoplastiche in quanto è una malattia invalidante, non curabile e con lungo decorso (quindi ad alto carico assistenziale). 
Tra le manifestazioni esterne tipiche del PD vi sono tremori e difficoltà a camminare mentre a livello cellulare si possono osservare aggregati proteici ricchi di alfa-sinucleina (αSyn) sia a livello cerebrale che intestinale. Altro marcatore noto è l'aumento a livello cerebrale di proteine pro-infiammatorie (citochine) che a loro volta innescano danni tipici di una infiammazione cronica.
Il 75% delle persone con PD presenta inoltre problemi nella funzionalità gastrointestinale che si palesano principalmente con sintomi di costipazione.

Il morbo e l'intestino
Dati i sintomi è nell'intestino che i  ricercatori sono andati alla ricerca di un qualche fattore "facilitatore" della malattia, trovandolo nella flora intestinale; attenzione però, facilitatore è cosa ben diversa da agente induttore in quanto NON è un evento necessario e sufficiente ad indurre la malattia.
Il microbiota opera per il nostro benessere (se bilanciato)
Come descritto in articoli precedenti l'intestino è sede permanente di una variegata comunità di batteri (quasi sempre benefici e dannosi quando l'equilibrio tra le varie componenti viene meno) noto come microbiota (o microbioma se si usa una prospettiva genetica ---> QUI). Il microbioma ha, oltre ad una funzione ausiliaria nella digestione, un ruolo chiave per lo sviluppo e il funzionamento dei sistemi immunitario e nervoso.
Il primo viene costantemente "tenuto in esercizio" e "modulato" in modo da abituarsi ai batteri "buoni" (essenziali sia da un punto di vista metabolico che come competitori dei ceppi patogeni) e in grado di autoregolarsi evitando così il permanere di stati infiammatori.
Il secondo aspetto è diretta conseguenza del fatto che il 70% di tutti i neuroni del sistema nervoso periferico si trova nell'intestino e che ad esempio la serotonina (uno dei neurotrasmettitori chiave per l'umore) è prodotta per il 90% in questo distretto. Il sistema nervoso dell'intestino è direttamente collegato al sistema nervoso centrale attraverso il nervo vago, il che aiuta a comprendere meglio come la qualità del cibo possa influenzare l'umore e viceversa come l'umore abbia effetti sulla digestione. Non a caso Michael Gershon ha titolato brillantemente il suo libro "Il secondo cervello" per sottolineare la centralità dell'intestino anche nelle funzioni "alte".
Credit: Caltech
La correlazione tra intestino e Parkinson è nota da tempo, sebbene catalogato come epifenomeno, e trova facile riscontro nella comparsa dei problemi gastrointestinali con anni di anticipo rispetto ai sintomi motori. Il dato di per sé non è ovviamente sufficiente per affermare che l'intestino è l'epicentro della malattia ma solo che i primi effetti si manifestano in tale sede forse a causa dell'estesa innervazione dell'area; al massimo una tale evidenza potrebbe rafforzare l'ipotesi ambientale come concausa della malattia, specie nelle forme di PD non familiari (il 90% dei casi sono sporadici, correlabili a mutazioni de novo e/o a cause ambientali).
L'eziologia della malattia è complessa anche nelle forme familiari dove la forma monogenica (un solo gene alterato responsabile) non supera il 30% dei casi ereditari (che ricordo sono il 10% del totale dei casi). Il che pone un problema diagnostico non indifferente nei soggetti sani ma a rischio (per familiarità) dato che il restante 70% delle forme ereditarie sarà per definizione poligenico, vale a dire conseguente alla mutazione o deregolazione di due o più geni (18 sono i geni "parkinsoniani" più comuni). Il problema è ancora più evidente quando non si dispone di biopsie dei genitori deceduti da cui ricavare il profilo genetico a rischio. Oltre alla αSyn i geni più frequentemente alterati nei malati sono PARK2, UCH-L1, LRRK2, PINK1 e DJ-1 (per approfondimenti --> "Genetics of Parkinson’s Disease").
La somma di questi elementi ha innescato nei ricercatori una domanda "semplice" e diretta: esiste un legame tra microbioma e rischio/decorso della malattia?

Lo studio
Per verificare tale ipotesi di lavoro i ricercatori hanno utilizzato un modello animale classico della malattia cioè topi modificati geneticamente che producono alti livelli di αSyn (come negli umani questa alterazione cellulare provoca la deplezione dei neuroni dopaminergici). I topi sono stati separati in due gruppi, di cui uno allevato in ambiente classico di stabulario e l'altro in ambiente asettico, con il risultato che i primi possedevano una normale flora intestinale mentre i secondi ne erano privi. Per il resto la genetica e le condizioni di vita (cibo, attività ludiche sulla ruota, etc) erano identiche. Ad intervalli regolari i topi vennero valutati per le loro abilità motorie di tipo prettamente ludico (test su tapis roulant, discesa e risalita da un palo, camminata su un asse). Ebbene, i topi cresciuti in ambiente asettico (e quindi senza germi intestinali) possedevano abilità motorie significativamente migliori di quelli cresciuti normalmente. Ricordo che i topi di partenza sviluppano nella quasi totalità sintomi parkinsoniani già nelle primissime fasi dell'età adulta, quindi il miglior risultato del primo gruppo indica che il decorso della malattia è stato fortemente rallentato se non bloccato; l'unica differenza tra i due gruppi è il microbioma.
Nessuna differenza è stata invece riscontrata usando topi normali come popolazione di partenza, e questo è il controllo essenziale per definire l'importanza della alterazione in αSyn.

Il nesso causale tra presenza di batteri e predisposizione genetica potrebbe risiedere nel metabolismo delle fibre alimentari su cui la flora intestinale ha una azione determinante (scompone la cellulosa in elementi assorbili dalla mucosa). Tra i prodotti ottenuti dalla digestione delle fibre vi sono gli acidi grassi a catena corta (SCFA), come ad esempio acetato e butirrato, molecole capaci di attivare la risposta immunitaria nel cervello, un'area nota per essere "immunologicamente privilegiata in quanto ad accesso limitato anche per le cellule immunitarie" (una scelta evolutiva proprio per prevenire i danni provocati da una infiammazione anche solo temporanea). La difesa immunitaria del cervello è assicurata da cellule immunitarie locali ((microglia) e da una barriera "impenetrabile" a tossine e patogeni (la barriera ematoencefalica).
I dati raccolti hanno portato Mazmanian ad ipotizzare che fosse lo squilibrio nei livelli di SCFA a favorire la comparsa di uno stato infiammatorio nel cervello e da lì i sintomi motori tipici del PD. A riprova di tale ipotesi se si arricchiva con SCFA il mangime dato ai topi privi di germi, le cellule della microglia si attivavano e dopo alcune settimane comparivano i sintomi parkinsoniani. Nei topi normali (che non esprimono alti livelli di αSyn) l'aggiunta di SCFA nel mangime non provocava invece alcun effetto ad indicare che gli SCFA (e quindi il metabolismo dei batteri) non erano l'agente causale ma una concausa.
In altre parole le cause sono una summa di genetica e "ambiente".
Prove ancora più convincenti di tale correlazione sono venute dalla collaborazione tra il team di Mazmanian con quello di Ali Keshavarzian a Chicago, in cui vennero eseguiti test centrati sul trapianto fecale.
Nota. Già in un precedente articolo avevo accennato a questo approccio "strano" ma molto promettente per la terapia di patologie intestinali croniche come la sindrome del colon irritabile. Si è visto che per compensare squilibri (innati o acquisiti) nella flora intestinale che causano la comparsa di uno stato infiammatorio cronico, è possibile trapiantare la popolazione batterica presente nell'intestino dei soggetti sani in quello dei malati (attraverso un "banale" trasferimento di materia fecale dall'intestino del primo verso i secondi); tale trattamento è sufficiente per eliminare i sintomi più acuti della malattia, altrimenti difficilmente trattabili.
L'esperimento congiunto è consistito nel trasferimento di campioni fecali prelevati da pazienti con malattia di Parkinson (oppure da controlli sani) nell'intestino dei topi privi di germi. Risultato anche qui chiaro: i sintomi del Parkinson comparivano solo nel primo gruppo mentre nessun effetto era evidente se il destinatario del "trapianto" erano i topi normali (senza alterazione in αSyn) o se il materiale fecale proveniva da batteri non parkinsoniani.
Gli indizi raccolti sono forti (e la pubblicazione su Cell lo dimostra) ed indicano che il metabolismo batterico che porta alla produzione di SCFA è capace di indurre l'attivazione immunitaria nel cervello con effetti deleteri in presenza di una genetica predisponente.
Video riassuntivo della scoperta (credit: Caltech)

Le implicazioni di questa scoperta sono notevoli in quanto suggerisce che oltre allo sviluppo di farmaci ad azione cerebrale miranti a rallentare il decorso del Parkinson si apre un nuovo promettente campo di intervento cioè agire sul microbioma intestinale: molto più semplice da raggiungere e da modificare. Tali farmaci potrebbero essere progettati per modulare i livelli di SCFA e/o la composizione dei batteri locali, come fanno i probiotici.
Nota. Ho scritto rallentare e non invertire in quanto i sintomi motori compaiono quando circa l'80% dei neuroni dopaminergici in alcune aree sono morti, quindi quando i danni sono molto estesi
Un approccio particolarmente utile in fase preventiva per i soggetti con storia familiare di Parkinson.

Articoli precedenti sul tema --> "Parkinson"

Fonte
- Gut Microbiota Regulate Motor Deficits and Neuroinflammation in a Model of Parkinson's Disease
Sampson TR et al, Cell (2016)167(6):1469-1480
- Parkinson's Disease Linked to Microbiome
Caltech/news




Qualche scarica ... per ricordare

Il caro vecchio elettroshock a dispetto della pessima fama acquisita negli anni '60 trova nuovi seguaci. Chiariamo NON si tratta di reiterare l'utilizzo di un metodo tristemente noto grazie  alla visione di film come "Qualcuno volò sul nido del Cuculo". Il principio è lo stesso ma le modalità di esecuzione sono ben diverse: sotto anestesia; a minor intensità e con un rigoroso monitoraggio dei parametri fisiologici.
Un approccio concettualmente simile (scariche elettrica per variare l'attività neuronale) è quello basato sull'utilizzo di elettrodi sottilissimi posizionati a diretto contatto con il bersaglio e di un generatore (poco più grande di una scatola di fiammiferi), posizionato esternamente o sottocute, dotato di una ampia autonomia (superiore all'anno e quando necessario ricaricabile mediante trasduzione magnetica).
I risultati ottenuti nel corso degli anni con questi strumenti sono più che lusinghieri e spaziano su diversi fronti: dalla terapia del dolore al Parkinson fino al miglioramento delle capacità mnemoniche (vedi in proposito gli studi di Itzhak Fried del Cognitive Neurophysiology Laboratory presso la UCLA). 
Se nel caso della terapia del dolore la stimolazione è a livello spinale, nel caso si voglia agire sulle funzionalità cognitive il bersaglio sarà ovviamente cerebrale e la tecnica conosciuta come Deep Brain Stimulation. Mediante la somministrazione di scariche elettriche in aree specifiche del cervello si è riusciti a migliorare le performance cognitive in pazienti nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, aprendo così un nuovo percorso per il trattamento sintomatico di patologie neurodegenerative e/o del dolore cronico, attualmente non trattabili.

Maggiori informazioni sull'argomento sono reperibili sul sito della UCLA.

Ti potrebbe anche interessare --> "Bio-robot e chip per la memoria umana".
Articolo successivo sul tema Alzheimer --> "Terapia anti-androgenica e rischio Alzheimer".
Sulla stimolazione transcranica --> "Un approccio neurologico contro l'anoressia"
Possibile leggere il pensiero con la scansione attività cerebrale? --> QUI


 Fonte
-  Memory strengthened by stimulating key site in brain
UCLA/news (2012)
- Deep brain stimulation for enhancement of learning and memory.
Neuroimage. 2014 Jan 15;85 Pt 3:996-1002
-  Trattamenti Chirurgici: la DBS - Deep Brain Stimulation
Parkinson Italia onlus e Istituto Clinico Humanitas

Per chi volesse approfondire l'argomento in modo professionale
L'edizione più "economica" è quella del 2012 --> Deep Brain Stimulation


Suona incredibile ma si potrebbe riuscire a predire il rischio Parkinson ... dall'odore

Un team di ricerca inglese si sta dedicando ad uno studio curioso quanto potenzialmente ad alto impatto terapeutico: scoprire se esiste una impronta digitale "odorosa", generata dalla somma delle molecole secrete dalla cute, nei soggetti in cui il morbo di Parkinson è ancora nella fase asintomatica.
I ricercatori sono partiti dall'ipotesi che le alterazioni sottostanti a tale malattia potrebbero modificare le caratteristiche chimiche del sebo, un liquido oleoso con funzioni protettive per la pelle. Se venisse dimostrata l'esistenza di tale correlazione, il sebo diventerebbe un utile biomarcatore diagnostico, con in più il vantaggio di non necessitare di esami invasivi (e costosi).

L'idea non nasce dalla fantasia di un qualche neurobiologo ma dall'esistenza di una persona dimostratasi capace di identificare le persone affette da Parkinson semplicemente annusandone la t-shirt (--> BBC news).
La donna dall'olfatto diagnostico (Parkinson's UK in Scotland)
Nota. Sebbene esistano alcune patologie notoriamente associate alla presenza di un odore corporeo caratteristico e facilmente percepibile, nella maggior parte dei casi questa associazione, se presente, non è rilevabile da un "naso" medio. Nella popolazione esistono tuttavia individui noti, come "super-percettori" (di odori o sapori), capaci di identificare odori e aromi "invisibili" alla gran parte delle persone. A questa categoria di persone (super-sniffer) appartiene la persona prima citata, una donna scozzese.
Un altro esempio che sostanzia l'esistenza di marcatori odorosi in alcune malattie è la dimostrata capacità di alcune razze di cani di percepire la presenza di neoplasie (o altre alterazioni neuro-vascolari) in individui spesso non consapevoli di esserne affetti.
Lo studio pilota appena iniziato, finanziato dall'ente Parkinson’s UK, verte sull'analisi in singolo cieco di 200 volontari, sia sani che malati. La caratterizzazione del profilo odorifero dei tamponi (lasciati per un certo periodo di tempo in contatto con la pelle dei soggetti) si baserà non solo su tecniche analitiche quale la spettrometria di massa ma anche sulla collaborazione con "detector-umani", cioè individui dotati di capacità olfattive superiori alla media.

Se il progetto avrà successo, questo fornirà un fondamentale supporto allo sviluppo di terapie preventive o contenitive della sintomatologia del Parkinson in quanto potrà essere "disegnata" sulle primissime fasi della malattia quando ancora il danno non è talmente esteso da essere,  funzionalmente, irrimediabile.
(Articolo successivo sullo stessa tema --> QUI)
Un articolo su un tema "più leggero" ma sempre attinente all'olfatto è quello da titolo evocativo "Perché i giapponesi hanno ragione quando dicono che noi puzziamo" (-->QUI). Un esempio di come, a volte, la scienza deve dare ragione a quelli che avremmo definito stereotipi.


Fonte
- Skin odour could lead to early diagnosis of Parkinson’s
The University of Manchester, news


I disturbi del sonno come predittori di malattie neurologiche

I ricercatori dell'università di Toronto ne sono convinti: i disturbi del sonno sommati ai movimenti del dormiente sono tra i migliori predittori nei soggetti altrimenti sani di malattie future come il Parkinson e l'Alzheimer.
"Il Rapid-eye-movement sleep behaviour disorder  (RBD) è un campanello d'allarme indicante un potenziale processo neurodegenerativo in atto che alla lunga può sfociare in una malattia conclamata" ha affermato John Peever, uno degli autori dell'articolo apparso su Trends in Neuroscience.
Non si tratta di numeri che lasciano molto spazio all'immaginazione, quelli forniti da Peever: "più dell'80% delle persone con RBD svilupperà una malattia del cervello".
L'acronimo RBD è già di suo indicativo di qualcosa di anomalo in atto. Sappiamo che durante la fase REM i sogni sono più vividi grazie ad una maggiore attività corticale. Sebbene uno possa sognare di correre, arrampicarsi o litigare, il corpo rimarrà ben fermo nel letto; una sorta di cintura di sicurezza del sonno REM, causata dalla paralisi della muscolatura scheletrica che previene situazioni potenzialmente pericolose sia per sé stessi che per chi dorme accanto. Tale paralisi associata ad piena attività corticale (simile a quella presente nel soggetto sveglio) spiega anche la sensazione di sforzo provata quando si sogna di correre, ben superiore a quella del correre "realmente".
RBD (© wikipedia; video completo QUI)
Non sempre però questo "freno a mano" funziona. O forse sarebbe meglio dire che quando questo freno non funziona la causa va ricercata in anomalie neurologiche ancora asintomatiche nella fase di veglia. Nei soggetti a rischio non compaiono semplicemente nuovi movimenti durante il sonno (diversi a seconda della fase del sonno) ma movimenti degli arti ben marcati, anche molto violenti (appunto perché completamente fuori dal controllo conscio); talmente incontrollati da causare non di rado lesioni al partner o a sé stessi.
Il motivo di questa perdita di tenuta del freno a mano è, secondo gli autori, da ricercare nel fatto che le aree del cervello che controllano il sonno sono le prime ad essere colpite in malattie come l'Alzheimer.

Se i dati verranno confermati, i medici avranno un ulteriore strumento per una diagnosi precoce di malattie ad elevato impatto sociale in una società che invecchia velocemente. E' vero che purtroppo non esistono ancora farmaci in grado di bloccare (e tanto meno di invertire il decorso) tali malattie neurologiche, ma esistono farmaci in grado di contenerne alcuni sintomi, tanto più efficaci quanto prima sono assunti. Se si considera che i sintomi di molte malattie neurodegenerative compaiono "tardivamente" (grazie all'enorme plasticità del cervello) quando più dell'80 % dei neuroni coinvolti sono morti, diviene ancora più evidente quanto sia importante identificare marcatori precoci della malattia.
Nota. Nel caso del Parkinson i sintomi motori divengono clinicamente evidenti quando almeno il 60 per cento dei neuroni dopaminergici nel nucleus accumbens sono morti e quando il contenuto di dopamina nello striato è calato del 80 per cento. La plasticità cerebrale è uno dei miracoli della biologia ma in questo caso è in grado di rallentare la comparsa di sintomi finché il danno diventa troppo esteso.
Vantaggio non secondario di una diagnosi precoce è che sarà possibile reclutare negli studi clinici per farmaci sperimentali solo soggetti ideali cioè le persone che, dato la limitatezza dei danni neuronali accumulati, sono maggiormente responsivi alla terapia. Del resto è evidente che sperare di bloccare, o addirittura invertire, la sintomatologia quando i danni sono estesi è una ipotesi al momento irrealizzabile. Fare i test su pazienti con alterazioni troppo ampie ha come ovvia e nefasta conseguenza quella di cestinare opportunità terapeutiche funzionanti se assunte precocemente. Il problema ad oggi è proprio quello di identificare i soggetti a rischio prima che il danno si manifesti.
Questo studio, se confermato, fornirà un aiuto su questo problema irrisolto.

Articolo successivo su Alzheimer (--> QUI) e sonno (--> QUI).

(potrebbe anche interessare --> "Linee guida sul sonno ottimale")

Fonte
- Breakdown in REM sleep circuitry underlies REM sleep behavior disorder
   John Peever et al, Trends in Neurosciences (2014), 37(5) p279–288

Statine, colesterolo e rischio di Parkinson. Un quadro ancora confuso

Le statine sono tra i farmaci più efficaci per la prevenzione delle patologie cardiovascolari grazie alla loro capacità di inibire la sintesi del colesterolo endogeno agendo sull'enzima idrossi-metilglutaril-CoA reduttasi.
Il livello del colesterolo ematico è la summa del colesterolo endogeno e di quello assunto con il cibo. Con la mezza età non è raro osservare un aumento del livello del colesterolo anche in presenza dieta morigerata, ad indicare una  una anomale gestione del colesterolo endogeno. In questi casi il trattamento con statine diventa un utile strumento di prevenzione. Il che ovviamente non autorizza a cambiare la dieta in peggio.
Ma se le proprietà delle statine sono indubbie altrettanto noti sono gli effetti collaterali che a tale trattamento possono associarsi e che il medico curante deve valutare in modo da massimizzare l'efficacia minimizzando, dove presenti, gli effetti non voluti. Questo è il motivo per cui l'inizio del trattamento con le statine, che ricordo deve essere portato avanti per gli anni a seguire, viene solo in seguito alla decisione del medico (per ulteriori informazioni --> farmacovigilanza.org).

La cautela è quindi d'obbligo (come deve essere per ogni molecola ad azione farmacologica) e lo è ancora di più quando alcuni studi hanno fanno balenare l'ipotesi di un potenziale effetto protettivo delle statine contro il rischio del morbo di Parkinson.
RIPETO. Si trattava SOLO una ipotesi basata su dati preliminari. Giusto per capirci è stato lo stesso Xuemei Huang, autore dello studio che aveva indicato tale possibilità (sostanziata poi da da altre ricerche indipendenti) a frenare ogni entusiasmo dopo aver revisionato i dati.
Nota. L'analisi dei dati ottenuti durante una sperimentazione clinica è un processo molto complesso che spesso necessita di anni, cioè dopo che si sono accumulati dati a sufficienza o dopo la valutazione di parametri prima considerati secondari. Non si tratta quindi di faciloneria nell'analisi ma di un processo. L'onestà intellettuale di uno scienziato (a differenza di tanti praticoni) si esplicita nel suo rivalutare i dati, accettare le critiche circostanziate e aggiornare o confutare la sua stessa ipotesi.
Nel dettaglio, quello che si è scoperto dopo avere raccolto molti altri dati metabolici sui pazienti testati è che in realtà l'elemento protettore non sono le statine ma … il colesterolo !!
In altre parole usare le statine NON riduce il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson.
La malattia di Parkinson (PD) colpisce circa 5 milioni di persone in tutto il mondo e il numero è destinato a salire vertiginosamente con l'aumentare della percentuale di persone anziane anche nei paesi in via di sviluppo, posti in cui per ovvie ragioni tale malattia era fino a poco tempo fa sconosciuta. Sebbene la causa prima del PD sia sconosciuta quello che è certo è le aree cerebrali colpite sono quelle ricche di neuroni che producono dopamina. Con il progredire della lesione, la capacità di compensazione cerebrale dei danni viene meno e cominciano così a manifestarsi i tipici sintomi del Parkinson. Per avere una idea della capacità del cervello di compensare deficit locali pensate che devono morire il 90 per cento (!!!!) dei neuroni dopaminergici della substantia nigra prima che compaiano i sintomi del Parkinson. D'altro canto questo indica che quando i sintomi compaiono il danno è già molto esteso e quindi (al momento) difficilmente trattabile.
Nel nuovo studio Xuemei Huang e i colleghi del National Institute of Environmental Health Sciences, hanno messo assieme due dati contrastanti presenti nella letteratura scientifica:
  1. alti livelli di colesterolo nel sangue si correlano ad una minore incidenza di PD;
  2. soggetti sotto trattamento con statine si ammalano meno di PD.
Due dati chiaramente conflittuali.
La soluzione del dilemma venne dopo che ci si accorse che dei soggetti analizzati nel punto 2, non si era tenuto conto del livello del colesterolo PRIMA dell'inizio che iniziassero il trattamento con le statine.
Allo scopo di avere dati sufficientemente solidi su tale punto, gli autori hanno preso in esame i dati clinici già disponibili raccolti nell'ambito di uno studio pluridecennale ("Atherosclerosis Risk in Communities study") iniziato prima che le statine diventassero i farmaci classici. Correlando questi numeri con la incidenza di PD nella popolazione, Huang ha potuto così ricavare dei numeri statisticamente solidi che mostravano che alti livelli di colesterolo "cattivo" (LDL) e di quello totale abbassavano il rischio PD.
Questo spiega il motivo per cui le statine sembravano proteggere dal Parkinson.
Chi prende le statine?
Ovviamente, chi ha alti livelli di colesterolo. Da qui la confusione tra effetto delle statine ed effetto del colesterolo che le statine devono normalizzare.
Non stupisce allora che guardando questi studi sotto questa nuova prospettiva le statine potrebbe avere un effetto opposto aumentando il rischio di PD.
ATTENZIONE. Questo NON VUOL ASSOLUTAMENTE DIRE che le statine siano deleterie. Ogni farmaco deve essere valutato per un rapporto benefici/effetti collaterali. Le statine hanno una azione indubbiamente positiva nel ridurre il rischio di problematiche vascolari e ictus; tale vantaggio in termini di minore morbilità e di aumento della sopravvivenza è nettamente superiore al rischio aggiuntivo di sviluppare il PD.
Il punto chiave è un altro e riprende quanto già scritto in precedenza: i farmaci vanno usati con cognizione di causa, quindi quando il rapporto rischio/beneficio è basso.
Il numero di persone salvate con le statine è indubbio. Compito del medico è individuare chi siano le persone che possano beneficiare maggiormente del trattamento con statine ed evitare di fare trattamenti quando non necessario (vale a dire quando i vantaggi sono infinitesimi rispetto ai fattori di rischio aggiuntivi).
Per intenderci, non ha alcun senso per un trentenne (a meno che non soffra di ipercolesterolemia famigliare) iniziare a scopo preventivo la terapia a base di statine. Stesso dicasi per un cinquantenne con valori di colesterolo nella norma (vedi tabella su livelli ottimali, pesati per fattori come fumo, pressione ed età).
Per un calcolo del fattore di rischio fare riferimento allo strumento fornito dall'Istituto Superiore di Sanità (-->qui)
L'utilizzo improprio delle statine non è un problema secondario, dato il connubio deleterio tra interessi commerciali da una parte e un salutismo diffuso (ma troppo spesso privo di conoscenze adeguate) che si traduce in trattamenti altrimenti procrastinabili al futuro. Solo negli USA sono 43 milioni le persone che usano le statine e il numero supererà i 56 milioni nei prossimi anni. Le nuove linee guida (criticate da alcuni) raccomandano l'uso di statine anche ad alcuni pazienti senza colesterolo alto, quando siano presenti altri fattori di rischio per le malattie cardiache e ictus.

Chiudiamo con una domanda.
In che modo il colesterolo conferirebbe protezione contro il PD? E' possibile ad ora solo formulare ipotesi. Il livello di colesterolo ematico non si riflette nei colesterolo cerebrale e quindi ridurre i livelli ematici potrebbe avere conseguenze non prevedibili nel cervello. Del resto il coenzima-Q10, prodotto nello stessa via metabolica del colesterolo, ha un ruolo chiave per aumentare la produzione energetica delle cellule, fondamentale per cellule energivore come i neuroni. Una ipotesi è che riducendo la quantità di colesterolo prodotto anche il Q10 possa calare e questo si ripercuota sulla capacità dei neuroni di resistere agli stress metabolici. E' solo una ipotesi ma vale la pena ricordare il vecchio detto che "ciò che è buono per il cuore [necessariamente] buono per il cervello".


Fonte
- Statins, plasma cholesterol, and risk of Parkinson's disease: A prospective study
X. Huang et al, Mov Disord. 2015 Jan 14

Cibo biologico. Imparare a leggere dentro una parola

Cibo organico. Quando la parola è vuota dentro

Se andate a fare shopping in qualsiasi grande supermercato in un paese occidentale oppure mentre guardate la televisione o ancora se cercate di godervi un "happy hour" il rischio che correrete sarà quello di essere bombardati da messaggi più o meno diretti sui benefici di salute legati all'acquisto dei cosiddetti prodotti "biologici", magari aggettivizzati come "etici". Un messaggio che arriva invariabilmente dall'ospite di turno in trasmissione (ma non lavorano mai?) come dalla "supergiovane e trendy sciuretta" che vi scavalca mentre si avventa sugli stuzzichini posti sul bancone del bar.
Grano
Del resto come non essere sedotti dalla possibilità di dare un contributo personale alla salute del nostro caro pianeta e in più fare del bene a 360 gradi. Il concetto base è che pagare un prezzo leggermente più elevato è un'opera intelligente per un prodotto non trattato con agenti nocivi. Se poi arriva da una filiera etica dove ad essere ricompensati sono in primis i produttori locali invece delle famigerate multinazionali, allora ci sentiamo ancora meglio.
Ma qui cominciano i problemi di interpretazione in quanto troppo spesso i termini biologico, etico e a chilometro zero si sovrappongono senza una vera ragione. Un prodotto etico non è praticamente mai a chilometro zero e quindi non arriva magicamente sui nostri scaffali, teletrasportato qui dall'altra parte del globo. Un prodotto biologico poi potrebbe essere paradossalmente più dannoso di uno commerciale in quanto il secondo è regolamentato e controllato mentre il primo è "naturale" (ivi compresi i microorganismi). E inoltre cosa ci sarebbe di non biologico in una porzione di fish&chips comprata in una rosticceria inglese? Nulla, semmai avrei qualche dubbio sul numero di volte che anche un perfetto olio di semi è stato usato per la frittura...
 La definizione stessa di chilometro zero è poi alquanto curiosa in quanto limiterebbe il consumo di cibo per un cittadino a quello prodotto sull'orto del terrazzo o al più in periferia (mangeremmo veramente verdure prodotte di fianco alla tangenziale?). Scordiamoci poi caffè e frutta.
E che dire della legittima sensazione di benessere che ci da l'idea di preferire un vegetale coltivato anche solo in modo standard (quindi nemmeno biologico) rispetto alla semplice menzione di OGM: un termine di cui curiosamente parlano tutti, salvo poi scoprire che ignorano la differenza tra un acido nucleico e una proteina.
Certo un prodotto biologico è bello concettualmente anche se di aspetto poco invitante. Giustamente non ci interessa che una carota abbia per forza la forma di una carota (guardate i prodotti sui banchi del biologico) se è genuina; ci contentiamo di carote bitorzolute che nemmeno campi posti nei pressi di Chernobyl sarebbero riusciti a produrre.
Ma questa è la Natura e accettiamo l'imperfezione per la salute.
Chi è la persona che del resto farebbe obiezioni ad allevamenti di galline libere di sgranchirsi le zampe razzolando in un campo o di erbette cresciute in un orto biologico (certo sperabilmente non nei pressi di una discarica abusiva)? Stesso discorso per il latte preso da mucche mai trattate con antibiotici, anche se le donne dovrebbero ricordarsi dei dolori legati alle mastiti, una affezione di cui questi animali soffrono frequentemente; ma qui arriverebbero altri attivisti che sotto il grido "no al latte animale ma solo al latte di soia". Peccato che questo non solo implicherebbe una immediata eliminazione di bovini (consumatori di risorse e inquinatori in quanto vivi) ma a estesi campi di soia a scapito di altre coltivazioni (e al fatto che la soia non è OGM per puro caso ma perché altrimenti le coltivazioni su larga scala sarebbero insostenibili). Tralasciamo poi gli effetti a cascata sull'industria casearia ... ma questo non è un punto su cui molti attivisti si soffermano troppo.

Il punto cruciale è in realtà un altro. E' proprio vero che il cibo biologico sia un concentrato di vitamine naturali e di valori etici, oltre ad essere privo di ogni tossina?
La risposta è meno semplice di quanto possa sembrare date le leggi che governano l'uso del termine "organico".
Il termine in sé è, per sua natura, estremamente fuorviante. La chimica ci insegna che una ipotetica lattuga completamente organica non potrebbe essere verde, mentre una mela totalmente inorganica non sarebbe altro che un insieme di pochi grammi di sali. Non parliamo poi di quello che avviene quando si cerca di trasferire la parola nel contesto di lingue diverse. In finlandese una patata che non è "luomu" (cioè secondo natura) significa che viene direttamente dal mondo della mitologia (sic!). Una patata di Thor? Ottimo spunto di marketing per i prossimi film ispirati alla saga della Marvel.
E a meno che non siano siglate specificamente come "biologiche" le salcicce presenti sui bancali dei mercati francesi sarebbero per definizione prive di proteine, grassi, zuccheri e acidi nucleici!
Tornando seri bisogna ricordare i risultati sconfortanti di alcune inchieste che hanno provato come il vino fatto da uva "biologica" sia in Europa che in USA contenesse tracce evidenti di solfato di rame, un fungicida completamente inorganico, non biologico per definizione. Gli agricoltori che si avvalgono del bollino "biologico" possono infatti utilizzare quantità a loro discrezione di questa sostanza chimica, purché adottino misure tali da ridurre al minimo l'accumulo nel suolo.
Oltre al solfato di rame, vi è un lungo elenco di prodotti chimici "naturali" consentiti nella agricoltura biologica. Un elenco che varia a seconda della legislazione nazionale. Tra questi l'ipoclorito di sodio (cioè la candeggina), il solfuro di calcio (una miscela corrosiva di polisolfuri di calcio) e il solfato di nicotina (un composto altamente tossico derivato dal tabacco e probabile responsabile della moria delle api, per questo bandito in Europa da due anni).
Il rotenone, usato nei laboratori di ricerca in tutto il mondo come potente inibitore del complesso 1 della catena respiratoria, è stato associato in laboratorio all'insorgenza di malattie parkinsoniane nei roditori. Tuttavia in molti paesi può ancora essere spruzzato liberamente sulle vostre fragole, rigorosamente biologiche.
Fortunatamente prodotti come arsenico, stricnina e sali di piombo sono oramai proibiti così come lo sono antibiotici come tetraciclina e streptomicina, fino a poco fa usati per proteggere pere e mele biologiche. Questo grazie ad una legge di meno di due anni fa (Reg. UE n. 126/2012, allegato III) che impone ai prodotti in arrivo nella EU che siano accompagnati da un certificato emesso dall'Organismo di Certificazione o dall'Autorità di controllo, attestante il mancato utilizzo di tali sostanze in ogni fase del processo produttivo. Ripeto. E' richiesto un certificato per l'importazione. Purtroppo non siamo gli USA o l'Australia dove vige un rigoroso controllo nelle importazioni di materiale biologico.
Questo non vuol dire che gli antibiotici siano banditi. Un veterinario può autorizzare il trattamento di un animale da allevamento se questo è ritenuto necessario per il benessere dell'animale, purché con posologie annuali massime definite da tabelle specifiche. Bandire in toto gli antibiotici implicherebbe il proliferare di malattie tra i capi di allevamento con conseguenze devastanti (vedi i problemi legati alle frequenti epidemie di afta, una malattia virale e quindi non sensibile agli antibiotici, in UK).


Allo stesso modo la "contaminazione" di prodotti originati da materiali certificati come biologici può avvenire grazie all'utilizzo di sostanze legali ma notoriamente tossiche come il perossido di idrogeno (acqua ossigenata), il biossido di zolfo, una vasta gamma di coloranti (purchè di origine vegetale) e la carragenina. Quest'ultimo è un carboidrato naturale estratto dalle alghe marine usato come gelificante, addensante e stabilizzante (si può trovare nei dessert, nelle salse e nella carne lavorata) su cui però ci sono dubbi sul suo legame con disturbi da lievi (gonfiori intestinali) all'essere un potenziale cancerogeno. Nel dubbio, non c'è un chiaro consensus a riguardo, le normative vigenti escludono il suo utilizzo unicamente per prodotti alimentari per l'infanzia.

Attenzione, tutta quanto sopra scritto non vuol dire puntare il dito contro il settore alimentare biologico, anche se alcune delle affermazioni che troverete sulle confezioni o che sentirete in televisione sanno più di marketing che di reali benefici. Promuovere pratiche sostenibili e salutari è una mossa lodevole. Ma lo sarebbe ancora di più se ogni affermazione a riguardo fosse basata su parametri scientifici, cioè su dati e non su sensazioni.
Rifiutare in toto le tecniche di modificazione genetica, anche quando su di esse non è mai stata trovata una singola, non dico prova, ma evidenza di tossicità e non curarsi delle comunissime infestazioni da aflatossine fungine nei grano (queste si cancerogene) è quantomeno curioso. Ricordo ad esempio che il grano usato in Italia deve essere in buona parte importato (da Argentina e altri paesi) per evitare il superamento della soglia minima di aflatossina presente nel prodotto coltivato in Italia.
Dicevo, è curioso che puntare il dito contro gli OGM quando il motivo principale per cui tali prodotti sono creati è per minimizzare il ricorso a diserbanti e antiparassitari senza i quali la resa nei campi (e quindi i prodotti disponibili) sarebbero circa il 15-20% dell'attuale. Senza contare l'importanza di piante modificate appositamente per potere crescere in ambienti aridi.

Bisogna sforzarsi di giudicare ogni caso nel merito e ad evitare semplificazioni assolute del tipo "buon organico - cattivo OGM".
Essere consumatori intelligenti vuol dire indirizzare le associazioni che ci rappresentano a prendere in considerazione tutti i fatti pertinenti per prendere decisioni razionali. Tra questi, consapevole di ripetermi, il diritto di giudicare se ad una particolare tecnologia genetica sia preferibile l'uso indiscriminato di tossine, conservanti e fertilizzanti.

***
Chiudo con una curiosità che è poi indice del potere pervasivo del marketing innestata sulla moda alimentare. In una nota catena di supermercati ho trovato esposto un cioccolato il cui nome è tutto un programma
Un "claim" ovvio che però nasconde sorprese se leggete sul retro negli ingredienti ... "può contenere tracce di latte".

Dove è l'artificio del marketing? Semplicemente OGNI cioccolato fondente potrebbe fregiarsi del titolo di vegan-friendly dato che è privo (a differenza del cioccolato al latte) di latte o di qualsivoglia derivato animale: cacao; burro di cacao; zucchero; lecitina; aromi vari. Gli altri produttori non lo indicano in quanto è ovvio.
Sarebbe come se un produttore di arance per differenziarsi dagli altri decidesse di mettere l'etichetta "cibo adatto a vegani"



Sull'errore di definire aprioristicamente che naturale=salutare consiglio la lettura dell'articolo "Naturale: meno male?" presente sull'ottimo sito chemicare.
(Articoli precedenti su argomenti simili in questo blog: Ragionare sugli OGM; pesticidi e Parkinson; OGM si e no).

Fonti
- Poison running through my veins
Howy Jacobs EMBO reports,  Volume 15, Issue 2 (2014), 123-198

- Biological Hazards in Food 
Richard Lawley & Laurie Curtis,  (2012)  Publisher: Food Safety Info


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