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Infezioni respiratorie e rischio attivazione tumori dormienti

Infezioni respiratorie comuni (dall'influenza al Covid19) potrebbero essere in grado di risvegliare le cellule dormienti tumorali favorendo così la comparsa/accelerazione di metastasi.
La conclusione viene da uno studio ottenuto incrociando dati dalla clinica con quelli ottenuti da un modello murino.

Primo tassello dello studio pubblicato su Nature l'analisi dei pazienti oncologici ancora in vita (dati presi dalla UK Biobank) la cui malattia era stata diagnosticata almeno 5 anni prima della pandemia di COVID. L'analisi ha mostrato che coloro che, durante e dopo la pandemia, sono risultati positivi al test del COVID avevano un rischio quasi doppio di morire di cancro rispetto ai pazienti con cancro risultati negativi.
Restringendo il periodo di follow-up al 2021 l'odd ratio (OR) saliva a 8, indicando che l'aumento del rischio di mortalità per cancro è maggiore nei primi mesi dopo l'infezione da SARS-CoV-2.
Secondo tassello l'analisi di 36.845 donne con tumore al seno con il fine di determinare se avessero un rischio aumentato di progressione verso la malattia metastatica nei polmoni dopo l'infezione da COVID. In effetti le sopravvissute che avevano contratto il COVID dopo la diagnosi iniziale di tumore mostravano un hazard ratio  (HR) aggiustato per età, razza ed etnia di 1,44 per la successiva diagnosi di metastasi nei polmoni.
In sintesi i risultati indicano che le persone con una storia di cancro sono tra i primi beneficiari di qualunque precauzione (leggasi vaccinazione) che contrasti l'infezione da virus respiratori. O in parole ancora più semplici sempre meglio evitare le infezioni se possibile.
Questo vale per i virus influenzali e il Sars-CoV-2 (compresi i coronavirus prossimi venturi)
Non una sorpresa se si considerano le precedenti evidenze che suggerivano come lo stato infiammatorio in generale sia in grado di risvegliare le cellule tumorali disseminate (DCC), cellule che si staccano da un tumore primario e si diffondono in organi distanti. E i virus respiratori sono un ottimo esempio di qualcosa in grado di indurre infiammazione.
Evidenze confermate dal terzo e ultimo tassello consistente in test per verificare se le infezioni da virus respiratori possano portare al risveglio di queste cellule tumorali, con conseguente progressione metastatica della malattia. 
Test condotti su un modello murino di carcinoma mammario metastatico, che includeva DCC dormienti nei polmoni e topi successivamente esposti a virus come SARS-CoV-2 o influenza. I risultati sono stati chiarissimi: dopo l'infezione virale si è rilevato un aumento da 100 a 1.000 volte del numero di queste cellule tumorali nell'arco di alcune settimane.
Per comprendere il meccanismo alla base di questo processo i ricercatori hanno condotto un'analisi molecolare che ha dimostrato che il risveglio delle DCC dormienti era guidato (e dipendente) dall'interleuchina-6, una proteina che le cellule immunitarie rilasciano in risposta a lesioni o infezioni.
Il team ha anche scoperto che questo processo è seguito da un ritorno a quiescenza e creazione di nicchie cellulari CD4+ che inibiscono l'eliminazione del DCC, in parte attraverso la soppressione delle cellule CD8+. 
In altre parole, una volta che queste cellule si sono espanse, risultano protette dal sistema immunitario. Invece di eliminare attivamente le cellule tumorali, il sistema immunitario le protegge dall'eliminazione immunitaria.

Pur riconoscendo che le differenze di specie giustificano cautela nell'interpretazione dei dati sui topi, i dati basati sulla popolazione "mostrano che il infezioni polmonari aumentano il rischio di metastasi polmonari nelle pazienti con tumore al seno.

Fonte
Respiratory viral infections awaken metastatic breast cancer cells in lungs
Shi B. Chia et al, (2025) Nature




Quello che il covid potrebbe insegnarci sulle malattie autoimmuni

Sebbene sia ancora prematuro trarre conclusioni, alcuni indizi sembrano indicare l’esistenza di un collegamento tra il rischio malattie autoimmuni e il virus che causa COVID-19. Un problema molto importante da considerare ora che (forse) siamo usciti dalla fase acuta della pandemia e ci affacciamo incerti in una nuova fase endemica, meno aggressiva, ma da monitorare.
Ricordo per inciso che anche se il peggio sembra essere alle spalle, rimane il punto interrogativo sugli effetti a lungo termine in chi si è infettato e, pur essendo guarito, manifesta una serie di disturbi che vanno sotto il nome di Long Covid syndrome.  Tra i sintomi principali stanchezza persistente, difficoltà di concentrazione e mancanza di respiro. Interessante notare che tali sintomi hanno una forte somiglianza con l'encefalomielite mialgica (ME), nota anche come sindrome da stanchezza cronica (patologia ad eziologia ignota). Uno studio su PNAS del 2021 ha suggerito che in entrambe le malattie i sintomi potrebbero essere la conseguenza di autoanticorpi.
Alle incertezze sul Long Covid, si aggiunge la presenza, in un numero basso ma non trascurabile di individui, di sintomi riconducibili alle patologie autoimmuni, come infiammazione dei vasi sanguigni, eruzioni cutanee e danni agli organi. Alcuni di questi pazienti sviluppano malattie autoimmuni conclamate, come il diabete di tipo 1, il  LES o l'artrite psoriasica.
Image credit: L. Calabrese et al, (2021) An. Rheum. Disease

Partiamo da un concetto base cioè cosa significa autoimmunità.
È un fenomeno clinico che si innesca quando il sistema immunitario attacca i tessuti sani in modo "voluto" e non come effetto collaterale dello stato infiammatorio. Si tratta di vero e proprio fuoco amico con l'aggravante che il sistema è "convinto" che il bersaglio individuato sia veramente il nemico.
Image credit: niehs.nih.gov


Le cause sono varie e risiedono sia nella predisposizione genetica (ad esempio avere particolari alleli del gene MHC-II) che nel comportamento di alcuni patogeni (spesso virus) che dopo essersi accasati in un tessuto richiamano l'attenzione delle pattuglie immunitarie la cui risposta può andare "fuori bersaglio" per varie ragioni: la somiglianza strutturale di alcune porzioni virali con quelle dell’ospite; la lisi cellulare che libera (e rende disponibili alle cellule spazzino che poi recluteranno i linfociti adatti) antigeni intracellulari “legittimi” che non vengono riconosciuti come tali dal sistema (complice la presenza di linfociti autoreattivi che avrebbero dovuto essere distrutti alla nascita).
Alcuni studi mediante modellistica al computer hanno evidenziato la somiglianza strutturale di alcune parti del virus con quelle dello streptococco (da qui il dato che il vaccino contro lo streptococco pare fornire una certa protezione dal virus). Ciò potrebbe innescare una risposta potente da parte del sistema innato che riconosce (per errore) un nemico di vecchia data.
Altri studi hanno evidenziato la somiglianza di altre parti del virus con porzioni di proteine ​​umane, come i fattori della coagulazione. In alcune persone (vuoi per la genetica vuoi per motivi ancora poco noti), il sistema immunitario risponde dando la caccia a dei fantasmi sulla base di una foto segnaletica che somiglia pericolosamente a proteine self. Tra le conseguenze la comparsa di sintomi riferibili a coaguli di sangue e a cascata danni multiorgano.
Tra le malattie autoimmuni più comuni abbiamo il diabete di tipo 1, l'artrite reumatoide, la sclerosi multipla e LSE (lupus eritematoso sistemico) che si differenzia dalle precedenti perché il sistema immunitario attacca più di un tessuto. Le terapie in sviluppo (e quelle futuribili) anelano a “rieducare” il sistema immunitario, attivando i meccanismi regolatori che solitamente disattivano l’attacco linfocitario prima che faccia danni ai tessuti normali (leggasi contenere l’infiammazione una volta iniziata e, prima ancora, eradicare ogni tipo di linfocita che sia autoreattivo).
Nota. Uno studio del 2019 su pazienti con diabete di tipo 1 ha rilevato la presenza di alcuni virus gastrointestinali che potrebbero avere innescato la risposta autoimmune. Studi simili hanno suggerito il coinvolgimento del virus di Epstein-Barr nella comparsa (in soggetti geneticamente predisposti) della sclerosi multipla e del lupus.
Fatta la premessa, torniamo al Covid19.
In modo quasi paradossale la recente pandemia potrebbe perfino aiutare lo sviluppo di terapie contro le patologie autoimmuni grazie a quanto appreso sui sintomi prima menzionati rilevati in alcuni pazienti.
Per capire come, è necessario considerare la prima linea di difesa (barriere fisiche escluse) contro i patogeni intracellulari (in primis i virus), parte della cosiddetta immunità innata. L'interferone gioca un ruolo di primo piano in questo ambito, grazie al suo essere sia un regolatore di specifici geni (e a valle di pathways di regolazione) che come segnale di allarme ad altre cellule.
Una volta che specifici complessi proteici intracellulari rilevano la presenza di entità di natura chiaramente "aliena" (molecole di RNA a doppio filamento, etc) si attiva la risposta che porta in ultima istanza alla produzione di vari tipi di interferone, che fungeranno da segnale di allarme alle cellule vicine mentre nel contempo la cellula colpita attiverà il processo di autodistruzione così da eliminare anche il virus al suo interno.

Come si suol dire "fatta la legge, trovato l'inganno" ecco che i virus hanno evoluto delle contromisure per almeno ritardare il lancio del segnale d'allarme. Tra questi abbiamo il SARS-CoV-2 che mediante le proteine NSP1 e NSP13 spegne l'allarme bloccando l'attivazione dell'interferone. Questo meccanismo è stato osservato nei pazienti con forma grave della malattia, il che pare indicare che nella maggior parte dei soggetti a decorso non grave, si siano attivati dei meccanismi alternativi di rilevamento e contenimento  virale.

Mentre questo trucchetto implementato dal virus è noto dai primi mesi della pandemia, più recente è l'osservazione della presenza (sempre nei pazienti gravi) di anticorpi diretti contro l’interferone, il che spegne del tutto il sistema d'allarme. In quest'ultimo caso si tratta di una risposta anomala dell'organismo che produce anticorpi che non dovrebbe produrre.
Nota. Gli anticorpi "spontanei" contro l’interferone sono noti fin dagli anni ’80 quando furono rilevati in un paziente oncologico trattato con gli interferoni. Negli stessi anni furono scoperti anche in un paziente con lupus (qui sembra che parte degli effetti dannosi fossero dovuti al complesso anticorpo-interferone, rispetto all'attesa azione neutralizzante la risposta immunitaria dell'anticorpo).
Poiché gli anticorpi appartengono alla risposta immunitaria adattativa, che necessita di almeno 2 settimane per diventare efficace, un tale fenomeno può essersi sviluppato solo nei soggetti rimasti infetti per un periodo prolungato di tempo (in genere le persone nelle ICU).
Non c'è una spiegazione semplice sul perché questi anticorpi siano stati prodotti (e selezionati); verosimilmente si tratta di una somma di ragioni genetiche e ambientali tra cui la cattura di molecole sul luogo dell’infezione da parte delle cellule spazzino, che poi trovano  nella "nursery" dei linfociti (midollo osseo) una controparte linfocitaria che avrebbe dovuto essere stata eliminata (tutti i linfociti potenzialmente reattivi contro molecole self vengono eliminati nelle fase iniziali del loro differenziamento).

La domanda che ora vi sorgerà spontanea è dove sia l'aiuto che questi "effetti collaterali" del Covid19, potrebbe fornire allo sviluppo di nuove terapie contro le patologie autoimmuni.
Il tutto si basa sul fatto che in alcuni pazienti il sistema difesa basato sull'interferone agisce come una lama a doppio taglio, nel senso che o smette di funzionare (il virus si diffonde) oppure funziona troppo (con rischio di malattie autoimmuni).
Varie sono le informazioni che si possono ricavare da questi pazienti.
  • Comprendere il legame tra la molecola virale che assomiglia a strutture self, permetterà di disegnare terapie per colpire in modo preciso i linfociti autoreattivi (ad esempio mediante anticorpi monoclonali).
  • I soggetti in cui si è rilevata la presenza di anticorpi anti-interferone potrebbero ugualmente essere i destinatari di terapie mirate alla eliminazione delle cellule produttrici degli anticorpi indesiderati. Nello stesso tempo questi pazienti permettono di comprendere cosa ha portato alla produzione di anticorpi non desiderati
  • Gli anticorpi anti-interferone potrebbero diventare un utile strumento terapeutico per spegnere l'eccesso di attività immunitaria auto-diretta. A riprova dell'utilità di tale approccio, uno studio del 2021 in cui si utilizzano anticorpi monoclonali anti-interferone nel trattamento delle patologie reumatiche autoimmuni. Un esempio è il loro utilizzo nei pazienti con LES.

Dall'analisi di tutti questi punti si potrà avere una maggiore comprensione delle dinamiche alla base dell'eccesso di attività immunitaria e di come prevenire (prima che compaiano i sintomi) patologie dovute a tale eccesso (o errato bersaglio).


Ecco come le cellule NK riconoscono le cellule infettate da SARS-CoV-2

Il sistema immunitario consta di due linee di difesa (escludendo le barriere fisiche, come l’epitelio e le secrezioni protettive, tipo il muco): difese innate e difese acquisite
Al primo tipo appartengono macrofagi, granulociti, cellule Natural Killer (NK) e sistema del complemento, mentre al secondo i linfociti. 
La principale differenza tra i due è che le difese innate possono essere paragonate a pattuglie che (a seconda del tipo) colpiscono tutto ciò che non ha un lasciapassare idoneo e/o chi mostra “segnali” riconosciuti in modo automatico come “nemico”, tipo particolari combinazioni di saccaridi tipici di molti batteri. 
Cellula Natural Killer (credit: NIAID)
Cito solo per completezza la linea di difesa interna alle cellule che riconosce DNA o RNA "alieni" (virali) che porta alla duplice attivazione di un segnale di allarme per le cellule vicine (interferone) e il suicidio della cellula stessa. Si tratta di difese molto antiche che funzionano egregiamente per scovare e annientare in poco tempo gli intrusi. Per ulteriori dettagli vi rimando ad una review di qualche anno fa.
Al contrario la difesa acquisita (alias immunità adattativa) necessita di un "incontro con il nemico" in quanto si fonda sulla cattura da parte delle cellule spazzino del potenziale intruso e la presentazione dell’identikit dello stesso nella “nursery” dei linfociti, selezionando le cellule che hanno prodotto (per puro caso durante il riarrangiamento dei geni codificanti le immunoglobuline) una immunoglobulina adatta al bersaglio. Questa difesa è molto più efficente ma richiede 3 settimane per raggiungere il picco di risposta. 

Tra le cellule alla base della risposta innata, le NK sono le più interessanti (e anche meno comprese) in quanto importanti anche nel monitoraggio ed eradicazione (e in futuro nella terapia) delle cellule tumorali che spontaneamente compaiono durante la vita.
Immagine al microscopio (falsi colori) che mostra il riconoscimento e attacco delle NK di una cellula tumorale (image credit: dana-farber.org)
L'attività di controllo delle NK è stata anche associata alla protezione di primo livello contro l’infezione da Sars-CoV-2 mediante la distruzione delle cellule infettate; un processo importante perché dà il tempo all’organismo di montare difese (adattative) adeguate. Mancavano però ad oggi i dettagli su come facessero le NK a capire se e quale cellula fosse infettata (tra l’altro da un virus nuovo, sebbene membro di una classe, coronavirus, con cui conviviamo da sempre).
Le NK vivono in un equilibrio dinamico che previene la loro attivazione (attacco), grazie al bilanciamento tra i segnali inibitori delle nostre cellule (“qui tutto a posto. Non sono un estraneo”) e attivatori ("qui c'è qualcosa di strano") da cui dipende se la NK attaccherà o meno la cellula incontrata nel suo giro di pattuglia.
In breve, i ricercatori hanno identificato un peptide virale, esposto sulla superficie delle cellule infettate grazie alla proteina HLA-E (proteina della famiglia MHC importante per la regolazione del sistema immunitario), che viene riconosciuto dal recettore NKG2A presente sulle NK. Una volta avvenuto il riconoscimento, l'equilibrio si sposta su "attacco", ignorando i segnali di “tutto ok”; in pratica è come una macchina sempre accesa con il freno a mano tirato a cui viene tolto il freno. Il coinvolgimento del recettore NKG2A viene da studi precedenti che avevano mostrato come in alcuni casi il virus riuscisse a sfuggire al controllo impedendo l'attivazione del recettore sulle NK.
credit: Quirin Hammer et al 

Qualche parola in più sullo studio, diviso in una prima fase in cui l’ipotesi “esiste un frammento virale riconosciuto da un recettore” è stata testata al computer e la successiva conferma in laboratorio.
I test in vivo si sono basati sull’infezione di cellule polmonari umane con il virus, poi “esposte” a cellule NK dotate o meno di NKG2A (knock-out funzionale). I risultati hanno dimostrato la centralità del recettore nel processo di riconoscimento della HLA-E che "presenta" un peptide non-self.

I ricercatori sono ora impegnati nell’analisi di campioni di sangue (ottenuti dalla biobanca dell'ospedale) di oltre 300 persone curate per COVID-19 durante la prima ondata della pandemia. Lo scopo è vedere se le caratteristiche delle NK presenti nei pazienti correlavano con la gravità dei sintomi.

In futuro questa conoscenza potrebbe essere utile durante la fase di monitoraggio di nuove varianti di virus per prevedere se e quanto la nuova variante verrà riconosciuta (quindi neutralizzata) dal sistema immunitario innato.


Fonte
- SARS-CoV-2 Nsp13 encodes for an HLA-E-stabilizing peptide that abrogates inhibition of NKG2A-expressing NK cells
Quirin Hammer et al, (2022) Cell Reports







La nuova generazione di vaccini specifici per i linfociti T

Positivo il risultato di studi clinici preliminari per testare il primo vaccino peptidico contro il Sars-CoV-2 (denominato CoVac-1) progettato per indurre l'immunità cellulare (mediata dai linfociti T) invece di quella anticorpale (in cui gli attori principali sono i linfociti B). Dallo studio non sono emerse né criticità di sicurezza né problemi di efficacia, il tutto a fronte della capacità, intrinseca alla risposta cellulare, di essere meno sensibile al rischio varianti virali "invisibili".

Un tale vaccino, se e quando verrà validato da studi clinici più ampi, potrebbe offrire l'opzione di immunizzazione, che oggi manca, ai pazienti con carenze nella risposta linfocitaria B, ai quali i vaccini oggi in uso conferiscono scarsa o nulla protezione. Se usato come richiamo nella popolazione generale già vaccinata, potrebbe minimizzare il rischio di malattia e prolungare il tempo di copertura, essendo l'immunità cellulare meno labile di quella anticorpale.
Il vero vantaggio sarebbe però un'altro: è in grado di far fronte alle varianti del futuro dato che sfrutta molteplici bersagli virali.
Linfocita T (falsi colori). Credit:  Credit: NIAID

Lo studio di fase 1 (condotto su un campione ristretto, solo 36 soggetti) ha mostrato che una singola dose del vaccino inizia la cascata di eventi che porta all'attivazione dei linfociti T CD4+ e CD8+ in modo molto più marcato che in seguito ad infezione naturale e a vaccinazione. Dettaglio quest'ultimo non trascurabile perché sappiamo bene come in entrambi i casi la protezione conferita non sia di lunga durata e i casi di reinfezione non rari.
Da notare che a seguito della vaccinazione, in tutti i vaccinati si è registrata la comparsa di un nodulo indurito nel sito di iniezione; evento in sé innocuo e previsto data la  presenza nel vaccino di un adiuvante (peptide sintetico XS15), che lega, attivandoli, i recettori Toll-like (TLR) 1 e 2 ed è immerso in un emulsionante (Montanide), necessario alla creazione di un deposito a rilascio lento e prolungato dell'antigene.
Riguardo all'antigene, il vaccino contiene sei peptidi risultanti dalla frammentazione del HLA-DR (antigene leucocitario umano DR) e di cinque proteine ​​proprie del SARS-CoV-2 (S, N, M, E e ORF-8); il primo, membro della famiglia MHC, è coinvolto nel riconoscimento del TCR, il recettore sui linfociti T, mentre i 5 rimanenti sono il bersaglio che i linfociti T devono "imparare" (attraverso la selezione che avviene durante la maturazione immunitaria) a riconoscere. 
In prospettiva i vaccini a cellule T potrebbero persino essere in grado di fornire una protezione immunitaria "abortiva" nel senso di essere capaci di bloccare sul nascere l'infezione prima ancora che compaiano i marcatori virali nei test. L'ipotesi formulata dopo la scoperta dell'esistenza di una popolazione di cellule T capaci di riconoscere un cluster di proteine ​​virali non strutturali (RTC), necessarie alla replicazione virale.
Alcuni test sono stati condotti anche su pazienti che non possono sviluppare la risposta anticorpale indotta dai vaccini classici a causa di motivi genetici (agammaglobulinemia legata all'X), cancro (leucemia o linfoma) o per terapie concomitanti (farmaci anti-CD20 o terapie con cellule CAR-T)

Con il fallimento (più che prevedibile) della politica zero-covid mirante alla eradicazione del virus e ad un futuro presente in cui il virus sarà endemico e la popolazione vaccinata nella quasi totalità, arriva il momento di un cambio di obiettivo: da vaccinazione mirante a impedire la diffusione del virus si passerà a booster finalizzati a minimizzare al massimo il rischio di malattia.
I vaccini "a cellule T" potrebbero essere lo strumento ideale sia in termini di efficacia che per il lungo tempo di copertura prevista.

Il vantaggio della immunità basata sui linfociti T (attivati anche da precedenti esposizioni a coronavirus di altro tipo) è nella loro capacità di riconoscere bersagli diversi e diversi tra un individuo e l'altro. Il che renderebbe vana la comparsa di varianti (Nature, 2022).


Fonte
T-cell vaccines could top up immunity to COVID, as variants loom large
Nature/news (01/2022)
- A COVID-19 peptide vaccine for the induction of SARS-CoV-2 T cell immunity






I cani possono essere addestrati a identificare gli infetti asintomatici

In passato si è trattato su queste pagine dell'enorme potenziale associato alla rilevazione di molecole olfattive diagnostiche di sottostanti (e a volte ancora asintomatiche) patologie, una capacità presente nei casi e perfino in alcuni umani.
Sul tema vedi gli articoli sul diabete e Parkinson.
Viviamo nell'epoca della pandemia covid per cui non sorprende che l'interesse "diagnostico" sia volto a cani in grado di identificare le persone infette.
Image credit: University of Florida (FIU) via The Guardian
In quest'ottica assume particolare interesse la scoperta fatta dai ricercatori che quattro dei cani testati si sono rivelati in grado di identificare i biomarcatori associati al virus con una precisione del 97,5%.
Una efficacia di sicuro maggiore dei fallaci controllori nostrani del green pass che MAI verificano la congruenza tra nome sul certificato e ID del controllato (a compendio la recente decisione lombarda di obbligo di esibire la carta d'identità prima di ricevere il vaccino, in quanto ci sono stati casi di persone vaccinatesi per conto terzi).

L'utilizzo dei cani non sorprende. Dato il loro senso dell'olfatto fino a 100.000 volte più sensibile di quello umano, i cani sono stati impiegati come "sniffatori" professionisti capaci di rilevare qualsiasi cosa, dal contrabbando al denaro, dalle muffe del raccolto fino a malattie come il cancro.
Credit: Image: Neil Pollock via medicaldetectiondogs.org.uk


Alla fine del 2021, i ricercatori della Florida International University pubblicarono uno studio in doppio cieco sul rilevamento del Covid, in cui i quattro cani partecipanti dimostrarono la loro efficacia olfattiva con i valori percentuali sopra menzionati; valori notevoli anche all'interno dei cani da fiuto.
Una capacità confermata da altri due studi indipendenti condotti in Inghilterra e in Germania, con valori attorno al 82-94% e del 95%, rispettivamente.

I cani sono in grado di generalizzare gli odori che sono stati addestrati a riconoscere, il che significa che possono rilevare tutte le varianti di Covid-19 attualmente conosciute, in modo simile a come possono riconoscere tutti i tipi di esplosivi quando vengono addestrati.

Con la diffusione della variante Omicron, anche i protocolli di addestramento sono cambiati. Prima di questa variante, i cani venivano addestrati ad avvicinarsi a una fila di persone e ad annusarne le mani o i piedi, sedendosi di fronte a coloro che identificavano come positivi. La ragione è che fino alla variante Delta il virus tendeva a infettare l'apparato respiratorio profondo (polmoni) e da li diffondeva in altre aree, lasciando tracce olfattive nel nostro sudore. Con Omicron i polmoni (tranne nei casi gravi) sono poco coinvolti e a cascata anche le tracce nel sudore diminuiscono; per tale ragione le persone da controllare devono essere annusati a livello della mascherina.


Un esempio di utilizzo di questi cani (e del limite intrinseco) viene dall'azienda americana Bio-Detection K9 che prima della pandemia era specializzata nell'addestramento allo scopo di rilevare le piante e colture malate (ad esempio colpite dalla muffa). Lo scorso anno alcuni dei loro cani sono stati utilizzati per monitorare il backstage e le zone riservate, in occasione di eventi come le corse  Nascar e i concerti dei Metallica.
Questi cani sono in grado di controllare da 200 a 300 persone all'ora e richiedono pause ogni 20 minuti per mantenere alto l'entusiasmo (perché solo in questo modo svolgono tale compito) per il lavoro. Un monitoraggio focalizzato non tanto sui musicisti o piloti (e nemmeno sul pubblico, impensabile dati i numeri) ma su tutti i tecnici etc che transitano nei luoghi "protetti" mantenendo così la bolla protettiva.
Il costo per una squadra di cani è di 5 mila dollari al giorno

Una delle teorie spiega perché i cani sono particolarmente abili nel trovare virus a causa di una predisposizione biologica a identificare ed evitare malattie tra i loro ranghi. La logica è che un lupo in natura è naturalmente interessato alla salute del proprio branco.

Il fenomeno si sta diffondendo se perfino distretti scolastici regionali come quello di Freetown-Lakeville nel Massachusetts, sta collaborando con la FIU per convertire i propri Labradors dai compiti di sicurezza a "ispettori" del covid nelle scuole.

Manca ad ora l'approvazione formale (come strumenti diagnostici) da parte della FDA, per cui ogni soggetto taggato come positivo dovrà comunque fare un test antigienico o molecolare per avere la conferma. Alcune ricerche indicano che i cani sono perfino più sensibili dei test molecolari (basati sulla PCR) riuscendo ad identificare gli individui infetti anche prima che abbiano accumulato una carica virale sufficiente per dare positività.


Di seguito il video della FIU che mostra i cani in azione


Qualche numero sull'indubbia protezione conferita dai vaccini contro Sars_CoV_2

Sempre più spesso tocca ascoltare persone che usano le statistiche epidemiologiche in modo alquanto ... leggero ... per veicolare il messaggio che la vaccinazione non serve poi a molto visto che (a loro dire) le persone in sala di rianimazione sono per la maggior parte vaccinate. 

Al netto che, numeri alla mano, è falso in quanto il 74% delle persone in ICU è non vaccinato, conviene riportare qualche grafico semplificato ma sufficientemente dettagliato.

Il primo confronto lo abbiamo mettendo in uno stesso grafico due semestri chiave (il secondo del 2020 vs. il secondo del 2021) che, data l'attuale copertura vaccinale, sono adatti a confrontare gli effetti del covid19 prima e dopo il vaccino.

I decessi ci danno l'immagine immediata della protezione, in quanto i trattamenti farmacologici non sono granché cambiati e inoltre stiamo confrontando due periodi in cui non si era nella fase di crisi dovuta alla saturazione delle ICU (come invece nel primo semestre 2020)

Il numero di positivi ci fornisce una informazione ben nota tra gli addetti ai lavori. Il vaccino ti protegge dalla infezione fino ad un certo punto. Confrontando questo grafico con il precedente e il successivo il messaggio è che un vaccinato può reinfettarsi con una certa frequenza (molte variabili tra cui il tempo passato dalla seconda dose, varianti o patologie concomitanti che inducono un calo di protezione) MA ti proteggono dal rischio che una volta che sei infettato tu possa sviluppare sintomi gravi da necessitare l'ospedalizzazione. Si tratta come detto di un problema associato alla scarsa (temporalmente) immunità indotta dai coronavirus e dal fatto che l'immunità (naturale o vaccinica) è sistemica e ben poco mucosale (tradotto, vengono generate poche sIgA). Di questo ne ho scritto in un precedente articolo.

Le persone che necessitano di terapia intensiva.


Vi serve un grafico più diretto? Ecco il numero di nuovi casi per ogni 100 mila persone tra il gruppo di vaccinati e non vaccinati.

Nota: L’incidenza viene calcolata come rapporto tra numero di vaccinati o non (almeno parzialmente) vaccinati (report Iss) e la popolazione di riferimento intesa come numero cumulato di vaccinati o non vaccinati da inizio campagna vaccinale fino a una data di riferimento. Tale data viene fatta coincidere con la fine dell’intervallo di calcolo delle diverse voci: casi, ricoveri, terapie intensive e decessi. In tal modo si catturano nell’analisi sia i vaccinati di lunga data che quelli più recenti. Per quanto la popolazione di riferimento sia in costante cambiamento, rendendo così meno significativo il confronto tra i valori della stessa categoria in periodi diversi, tale distorsione è comune a entrambe le categorie sotto esame per cui il loro confronto mantiene significatività.


Ancora qualche numero.

Tasso di ospedalizzazione tra vaccinati e non vaccinati nella popolazione generale e raggruppata per età (quindi con fattori di rischio simili)

Image Credits per questa immagine e successive: skytg24


L'impatto della variante Omicron è ancora "fuori dai radar" dato che ad oggi la variante Delta è ancora la dominante assoluta tra i nuovi casi (circa lo 0,4% dei genomi virali sequenziati nell'ultimo mese è Omicron.

I dati sono reperibili sui siti dell'Istituto Superiore di Sanità, del ECDC e (in forma digerita) sull'ottimo portale lab24.ilsole24ore







Due o tre cose sulle varianti SARS-CoV-2 [Aggiornato]

(Ultimo aggiornamento febbraio 2022)

Gli aggiornamenti al presente articolo sono indicati come tali o messi in calce al paragrafo riguardante una data variante.
Poiché queste ultime sono ordinate in ordine di "apparizione", le sezioni a fondo pagina riguardano le varianti più recenti, quindi più interessanti (per altri articoli sul tema --> covid19).

***
La catalogazione delle varianti è stata in seguito modificata usando lettere greche invece del paese in cui sono state identificate, pare per le proteste di alcuni paesi (si spera che nel continuo subbuglio provocato dal politicamente corretto non intervengano ora i greci per contestare l'associazione del loro alfabeto al virus ...)
Ricostruzione al computer del Sars-CoV-2. Il diametro del virus è circa 100 nm. Le proteine Spike (24-40 per ogni virione) "protrudono" dalla superficie per circa 20 nm 
Image credit: Janet Iwasa, University of Utah via nature.com

Quella che segue è invece una "immagine" reale del virus (in falsi colori) ottenuta mediante tomografia crioelettronica.
Ulteriori dettagli alla pagina nanographics.at/... . Scaricabile in HD dalla pagina cryo-et-renders.zip e visibile anche su Youtube/... ..


***
Inizio con una panoramica dell'evoluzione e diffusione delle varianti virali aggiornata a gennaio 2022 



I coronavirus mutano sia a causa sia di errori intrinseci della polimerasi virale che della risposta cellulare di difesa, il cui fine è eliminare "strane" sequenze/strutture di acido nucleico (per dettagli vedi RNA-Pol error proneRNA sensors). 
Confusi sui molti nomi con cui sono etichettate le varianti virali? Vi rimando all'articolo dedicato.
Tra i virus a RNA i coronavirus hanno una caratteristica insolita consistente nel minor tasso di errori in fase di replicazione. La ragione è che il complesso multiproteico deputato alla copia del RNA contiene una subunità deputata al proofreading (la correzione degli errori di copiatura) sulla falsa riga di quella posseduta da, alcune, DNA polimerasi cellulari. Il tasso di errori di copiatura (la fonte delle mutazioni) è di conseguenza inferiore rispetto a quello di retrovirus (virus a RNA che passa da una fase a DNA integrata nel genoma cellulare) come l'HIV o di virus a RNA come quello dell’influenza il cui tasso di variazione viene massimizzato anche grazie al riassortimento dei filamenti di RNA (pensate a mini cromosomi, 8 nel caso del virus Influenza A) che danno luogo alle pandemie influenzali.

EDIT: un recente studio ha mostrato che la realtà è più complicata del previsto data la scoperta (per solo in laboratorio) della capacità di 3 tipi diversi di coronavirus (tra cui il Sars-CoV-2 di ricombinare (Jennifer Gribble et al, PLOS-Pathogens, 2021

Un graffito stradale in India per esorcizzare le paure ma ricordare che il virus è sempre in agguato (image credit to: Sanjeev Gupta/EPA via The Guardian)

I ricercatori nei vari paesi si sono da subito messi all'opera per caratterizzare (e monitorare) l'evoluzione virale mano a mano che si passava da una epidemia locale (primi passaggi successivi alla zoonosi) alla pandemia dove il meccanismo di trasmissione era quasi esclusivamente per via umana (ulteriori passaggi animale ad umano si sono verificati in Danimarca e Olanda dai visoni di allevamento). Un processo adattativo che si porta dietro modifiche al genoma virale utili per migliorare infezione e replicazione nel nuovo contesto (ospite umano) rispetto al "prototipo" che fece il salto interspecie nei wet markets cinesi.
A proposito di zoonosi. Per l'attuale pandemia non ci sono evidenze di trasmissioni a uomo dagli animali da compagnia, anzi semmai è vero il contrario con diversi casi di cani e gatti (oltre alle tigri negli zoo) risultate positive al virus dopo il contatto con il loro padroni/guardiani malati. Il vero punto è che questi animali sono ospiti di altri tipi di coronavirus (alfa e beta) per noi non infettivi. La commistione tra coronavirus "umani" ed dei "pets" potrebbe tuttavia essere un punto di partenza per la selezione di ceppi "umani". Da monitorare.
Tracciamento che implica sequenziamento del genoma virale e successiva comparazione tra i virus isolati in tempi e luoghi diversi.
Per dare un'idea del lavoro sottostante, a metà dicembre il numero di sequenze depositate nei database genomici era superiore a 250 mila, gran parte delle quali riferite a sequenze tra loro diverse (differenza intese come presenza di 1 o più mutazioni puntiformi e delezioni). Non è superfluo specificare che un discreto numero di queste alterazioni non sono mutazioni “propriamente dette” in quanto non influiscono sulla sequenza proteica finale e/o sulla espressione genica; si tratta ad esempio di sostituzioni nucleotidiche conservative (diverso codone, stesso aminoacido). Ottimi marcatori per i genetisti che li usano per tracciare lo spostamento (e variazione percentuale) dei virus nel tempo ma funzionalmente senza conseguenze. 
Questo allo stato delle conoscenze attuali; non si può escludere che alcune di queste alterazioni apparentemente silenti impattino il livello di RNA prodotto, magari variandone la stabilità.

Il resto delle mutazioni si dividono in sostituzioni aminoacidiche conservative o modificanti, il cui effetto sulla funzionalità virale può essere accertato con test in laboratorio. In genere si tratta di mutanti con uguale o migliore funzionalità; le mutazioni deleterie per la sopravvivenza virale vengono eliminate rapidamente per selezione naturale.

La genetica ci direbbe che la mutazione migliore prende il sopravvento ma questa è una semplificazione usata solo per veicolare il messaggio. Alcune di queste varianti possono divenire le più comuni in una particolare area geografica per puro caso e non perché forniscano un vantaggio. 

Possiamo semplificare il concetto pensando alla possibilità che in una data valle ci sia una maggiore frequenza di persone con i capelli rossi che nella valle adiacente. Si tratta di una conseguenza del Founder Effect (effetto del fondatore) e può verificarsi quando il numero di “coloni” fondatori di quella comunità è basso, per cui se uno di questi aveva i capelli rossi questo gene si fisserà nella popolazione locale ad una frequenza maggiore che nella valle adiacente in cui il numero di “rossi” era basso come nella popolazione di provenienza (ad es. della pianura). 
Una volta che il virus entra in contatto con una popolazione si possono avere due dinamiche molto diverse. La versione classica è quella di una popolazione "vergine", priva di anticorpi per quel particolare virus e ignara del nuovo arrivato (che non attua contromisure comportamentali). Qui il virus non incontra alcuna barriera nella propagazione se non quella derivante dalla propria biologia (un virus che si trasmette per via aerea come il raffreddore sarà facilitato rispetto al virus Ebola che necessita di fluidi corporei e di lesioni). La pressione selettiva a cui è sottoposto il virus è minima una volta adattato all'umano.
Il discorso cambia quando  a causa di variazioni comportamentali (non visito chi è infetto) e della crescente immunità nella popolazione (anticorpi post-esposizione e programmi di vaccinazione) diventa sempre più difficile per il patogeno sopravvivere. In questi casi il virus è sottoposto a forte pressione selettiva e con essa si ha la comparsa di mutazioni adattative necessarie per facilitarne la diffusione (es. maggiore titolo virale nel droplet o aumentata resistenza al clima esterno) e sfuggire al rilevamento da parte del sistema immunitario (diventa "invisibile" o spegne il sistema immunitario).

Prima di arrivare alla variante inglese è necessario fornire qualche altro dettaglio su come il SARS_CoV_2 aggancia la cellula bersaglio.
La proteina chiave per riconoscere ed entrare nella cellula si chiama Spike, ricopre l'esterno della particella virale e ha come bersaglio la proteina ACE2 esposta sulla superficie delle cellule.
Immagine artistica del virus. In rosso la proteina Spike (S). Credit: CDC

Interazione tra Spike (S), la chiave, e ACE2, la serratura, per l'ingresso nella cellula. Elemento fondamentale è RBD, in verde tratteggiato (Image credit: E. Taka et al, bioRxiv - 2020)


Dettaglio dell'interazione tra Spike (in alto, rosso) e ACE2 (blu in basso)
(Credit: Juan Gaertner / Science Source via Rochester.edu)


Dettaglio del punto di interazione tra RBD (parte bassa, viola o giallo) e ACE2 (in alto, verde) mettendo a confronto il virus del covid19 (sinistra) e della SARS (a destra) Per una comparazione ancora più dettagliata tra lo Spike dei due virus e ACE2 vi rimando alla esaustiva figura 1 dell'articolo di H. Lim et al. (Scientific Report, 10/2020). (Image credit: J. Shang et al. - Nature)


Non stupisce allora che la proteina Spike sia tra le "quelle da mutare" nel processo evolutivo virale pur se con alcune limitazioni (dovrà sempre essere capace di "vedere" il bersaglio).
Dato confermato sperimentalmente: su oltre 150 mila genomi virali sequenziati dall'inizio della pandemia, oltre 1100 sono portatori di alterazioni (nello specifico delezioni) della proteina Spike. Mutazioni non distribuite però in modo casuale: il 90% delle delezioni si raggruppa in quattro aree del gene spike.

Una panoramica delle principali mutazioni trovate a carico della proteina Spike
(credit: sfchronicle)

 
 
Non tutta la proteina è substrato ideale perché una mutazione faccia la differenza; il sito ideale è nel Receptor Binding Domain (RBD). Mutazioni in questa regione non solo possono migliorare il legame con il recettore ma possono anche diminuire la capacità degli anticorpi neutralizzanti di bloccare il virus.
Gene e struttura 3D di Spike nella forma trimerica. In verde il dominio RBD nella conformazione "up" (image credit: D. Wrapp et al, Science)

Una delle mutazioni più note di Spike è la D614G (localizzata nella S1 della figura sopra) che si trova fuori dalla RBD. Emersa nelle prime fasi dell'epidemia si è poi diffusa in tutto il mondo, grazie sia alla sua contagiosità e, a cascata, capacità di aumentare il titolo virale nelle mucose nasali e trachea (ma non nei polmoni), da cui maggiore facilità di diffusione all'esterno, che alla maggiore stabilità a temperature febbrili.
Nota a margine: la variante con questa mutazione è nota anche come "ceppo italiano" per la sua maggiore velocità di diffusione rispetto a quella originaria di Wuhan. La aumentata contagiosità è legata ad un aumento di 4-5 volte del numero di proteina Spike sulla superficie.


La sua diffusione ha fatto sorgere qualche preoccupazione teorica sulla capacità dei nuovi vaccini specificamente diretti contro Spike di riconoscere la variante. In verità i vaccini da poco approvati sono in giro da troppo poco tempo perché abbiano esercitato una pressione selettiva sui virus selezionando quelli capaci di eludere il vaccino. Inoltre essendo la mutazione D614G ampiamente diffusa, e da molto tempo, la protezione conferita dal vaccino non sarebbe stata così alta come invece osservato, visto che è estremamente probabile che i soggetti abbiano “incontrato” proprio questa variante dopo essere stati vaccinati. Per finire non ci sono dati che i (pochi) soggetti vaccinati che si sono ammalati (pur in forma solo lieve) si siano infettati in modo statisticamente significativo solo dopo avere incontrato la D614G.
Uno studio appena depositato su bioRxiv conferma che il vaccino Pfizer protegge anche dalla variante N501Y
Solo quando la copertura del vaccino diventerà significativa non dovremo sorprenderci di vedere emergere mutanti virali in grado di sfuggire alla barriera vaccinale. Per essere pronti a contrastare tali mutanti, sia Moderna che Pfizer hanno comunicato di stare lavorando ad un "upgrade" del vaccino configurabile per chi è già vaccinato in una sorta di "richiamo".
Ho scritto "emergere" perché questi mutanti compaiono spesso nella popolazione virale ma scompaiono altrettanto rapidamente. Vale il principio no pressure-no selection.

Nota. I virus non usano solo le mutazioni per indurre variabilità ma, almeno alcuni di essi, agiscono sullo strumento di decodifica dell'informazione genetica (il ribosoma) in modo che invece di leggere una tripletta dietro l'altra "scivoli" di 1 o 2 nucleotidi generando così una proteina alterata risultato di un frameshift. La scoperta, fatta da team di università svizzere e irlandesi, potrebbe aprire un nuovo filone nel campo della drug discovery finalizzata ad interferire in questo processo.


24/05/21
Infografica aggiornata dell'efficacia dei vari vaccini rispetto alle varianti
credit: Bloomberg

Un portale con informazioni strutturali sulle varianti lo trovate su http://sars2.cvr.gla.ac.uk/cog-uk/ disponibile come web application su www.gla.ac.uk/....

Nota. Per quale motivo nei bambini il rischio ospedalizzazione da covid19 è quasi trascurabile? Uno studio sembra indicare che non a parità rischio di infezione i fattori protettivi includono: anticorpi contro altri coronavirus (del raffreddore, ...); prominenza della risposta immunitaria innata rispetto a quella adattativa (ancora in fase di formazione) -->Nature settembre 2021 

*** VARIANTI ***
Un riassunto schematico per iniziare

Altre informazioni sulle principali varianti sul sito del OMS o la pagina eCDC con le sezioni riferite alle VOC, VOI e varianti sotto monitoraggio.

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Variante inglese o del "Kent" (B.1.1.7 / Alpha)

Qualche dettaglio più tecnico (ma sempre soft, comprensibile anche ai non addetti ai lavori) sulla variante.
Tra le caratteristiche genetiche interessanti di questo ceppo, quella di veicolare 17 mutazioni (non polimorfismi) diverse.
Le mutazioni, e loro localizzazione, presenti nella linea B.1.1.7
Credit: Andrew Rambaut et al (19/12/2020)

Aggiornamento. In data 1 febbraio le autorità UK hanno comunicato che alle precedenti mutazioni se ne è aggiunta una, E484K. Tale mutazione finora era caratteristica della variante sudafricana che pare diminuire l'efficacia del vaccino e degli anticorpi neutralizzanti.

La comparsa di un tale aggregato di mutazioni in un ceppo è in genere attribuibile ad una selezione avvenuta all'interno di un singolo individuo, piuttosto che all’accumulo di mutazioni nel passaggio tra un soggetto e il successivo. Le condizioni ottimali perché ciò avvenga si verificano (lo storico in altre infezioni lo dimostra) negli “infettati di lungo termine”.
Abbiamo tutti sentito parlare di persone rimaste positive al tampone virale per settimane e non parlo solo di persone con altri problemi di salute ma di sportivi in piena salute (l’esempio che mi viene in mente è il giocatore della Juventus Dybala positivo per +39gg). 

Un articolo apparso su Cell Stem Cell di maggio ripercorre la genesi di questi ceppi nei soggetti immune-compromessi.

Un caso paradigmatico di come soggetti immunodepressi siano l'incubatore preferenziale delle varianti viene da una donna sudafricana positiva al HIV e resistente al trattamento standard, rimasta positiva al Sars-CoV-2 per 216 giorni durante il cui periodo ha generato virus con 32 mutazioni, 16 delle quali a carico della proteina Spike.

La risposta immunitaria inefficace insieme al trattamento farmacologico (sia mediato da antivirali che con anticorpi/plasma dei guariti) mettono sotto forte pressione il virus; se il processo selettivo si protrae troppo a lungo (alias il virus sta resistendo e mantiene una cerca capacità replicativa seppure a livello basale) queste sono le condizioni in cui si accumuleranno le mutazioni capaci di conferire un vantaggio nella sopravvivenza.
I pazienti in cui questo processo è più probabile sono quelli con immunodeficienze (naturali o indotte, vedi chemioterapia e simili), con alto titolo virale e malattia prolungata e chi è stato sottoposto più volte  a terapia anticorpale. Studi precedenti hanno dimostrato alti tassi di accumulo di mutazioni (mutazioni missense e delezioni) in brevi periodi di tempo in pazienti con sistema immunitario compromesso o con una infezione da SARS-CoV-2 di durata almeno 2-4 mesi, trattati con antivirali e/o con anticorpi (EDIT: vedi anche l'articolo sul tema pubblicato a febbraio 2021 su Bloomberg e l'articolo su Nature).

Le mutazioni accumulate sono tali da renderlo più contagioso in assoluto o solo un epifenomeno frutto delle particolari condizioni in cui è sorto?
Supponiamo ora la nuova variante abbia effettivamente una maggiore capacità di trasmissione. In presenza di strumenti di minimizzazione del contagio (maschere, gel, distanziamento sociale, …) anche il possedere una proteina Spike migliorata non darebbe alcun vantaggio nella propagazione ... perché la variante non è il risultato di una selezione a renderlo capace di infettare più persone ma di sopravvivere all'interno di un individuo sottoposto a terapia.
Da cui l’importanza di queste barriere per tutelarci ed impedirne la diffusione 
 
 

Analizziamo ora alcune delle mutazioni funzionalmente più interessanti tra le 17 presenti nella tabella. Non si tratta di mutazioni "uniche", ma già viste in altre varianti virali, sebbene mai insieme.
Cominciamo dalle 3 mutazioni che colpiscono la proteina Spike.
Panoramica della posizione delle mutazioni nella proteina Spike (image credit: CeronLab)


Vista del punto di interazione tra Spike (arancio) e ACE2 (verde) con la mutazione N501Y (modalità Ribbon Diagram).
(credit: original poster)


Modalità alternativa (Surface) per visualizzare la struttura proteica, in questo caso risaltando l'esterno ma mantenendo in semi-opacità la sottostante struttura secondaria.  

Le 3 mutazioni caratterizzanti la variante inglese. La dicitura sulla figura è fuorviante in quanto la N501Y è una sola (in alto a dx) mentre le altre 2 sono le associate alla "variante inglese".

  • 69-70del (H69/V70). Alterazione osservata nel contesto dell'evasione alla risposta immunitaria. Si tratta di una delle numerose delezioni ricorrenti trovate nel dominio N terminale di Spike, spesso associata a diverse mutazioni nel RBD. Visto la prima volta nel visone (Danimarca), associato alla mutazione Y453F, e negli esseri umani in associazione con la mutazione N439K. La frequenza con cui compare questa delezione è stata spiegata con la particolare struttura del RNA in quella posizione che favorisce errori da parte della polimerasi (per altri dettagli "Recurrent emergence and transmission of a SARS-CoV-2 Spike deletion H69/V70")
  • P681H Non sono a conoscenza di studi che hanno esplorato l'effetto di questa mutazione. Probabilmente non è casuale l'essere immediatamente adiacente al sito di taglio operato dalla furina (sul ruolo essenziale della furina vedi anche "Furin Cleavage Site Is Key to SARS-CoV-2 Pathogenesis"). Esperimenti in laboratorio hanno dimostrato che la perdita di questo sito favorisce la replicazione virale in alcune cellule ma la attenua nelle cellule respiratorie rendendola di fatto meno virulenta. Questo sito è assente in altri coronavirus e si ritiene che la sua comparsa sia stata una delle chiavi che ha consentito al SARS-CoV-2 un accesso facilitato alle cellule dell’epitelio respiratorio. Importante notare come la variante indiana abbia P681R che pare importante nella sua maggiore diffusione
Oltre a queste 3 mutazioni nella proteina Spike vale la pena citare le mutazioni nel gene ORF8 in quanto la sua proteina è una delle proteine ​​accessorie in più rapida evoluzione tra i beta coronavirus ed è stata precedentemente proposta come artefice dell’azione di interferenza con la risposta immunitaria dell'ospite. Come? Diminuendo l'espressione del MHC-1 e interrompendo il segnale antivirale mediato da interferone-a (IFN-1). Una delle mutazioni presenti, ORF8 Q27stop, produce una proteina tronca, inattiva. Il dato di mutazioni nonsense (o delezioni) in ORF8 in sé non è nuovo (vedi F. Pereira - 2020) e segnala che il virus può continuare a diffondersi in assenza di questa proteina ma che rimane necessaria in talune circostanze.
Nota. 2 studi pubblicati su Science (Zhang et al. e Bastard et al.) fanno luce su un elemento chiave che potrebbe spiegare perché in alcuni soggetti, a parità di ceppo e dello stato di salute precedente l'infezione, il decorso della malattia sia più grave: la mancanza di IFN-1. Gli interferoni sono  una famiglia di proteine che le cellule producono in condizioni di stress e/o quando rilevano virus. La loro carenza, spiegata da mutazioni ereditarie o ad autoimmunitarie contro gli IFN, abbassa le difese e favorisce l'aumento del titolo virale.
Un quesito spontaneo è quale possa essere il vantaggio di tali mutanti (o meglio della proteina in genere se non serve). Nel caso delle delezioni si pensa che favorisca la comparsa di hairpins che poi facilitano eventi di ricombinazione. La presenza di uno stop favorisce la comparsa di mutazioni carrier a valle del sito di stop che, in caso di mutazioni reverenti sarebbe già pronte all'uso.
ORF8 è presente anche nel virus della SARS ma le sequenze sono tra loro molto divergenti.
All'inizio della pandemia furono identificati ceppi mutanti a Singapore, privi di ORF8, associati a un'infezione clinica più lieve e a una minore infiammazione post-infezione. Queste varianti sono poi scomparse con l'aumento delle restrizioni per minimizzare i contagi.
Domanda. Le mutazioni a carico della RBD alterano la capacità di legare ACE2? Innanzitutto è implicito che tale alterazione non possa che essere positiva visto che mutanti "negativi" verrebbero controselezionati immediatamente. Da quanto ne so si ha un aumento di affinità nel caso di N501Y (Starr et al., 2020b)​, Y453F e N439K ​(Starr et al., 2020b; Thomson et al., 2020).


Riassumendo, i dati ad oggi disponibili ci portano ad ipotizzare che l'insolita divergenza genetica della linea B.1.1.7 sia  il risultato, almeno in parte, dell'evoluzione del virus in un individuo che è rimasto infetto e in terapia per un periodo prolungato e verosimilmente immunodepresso. Sebbene tali infezioni siano rare e la successiva probabilità di trasmissione sia ancora più rara, tali eventi non sono improbabili dato il gran numero di nuove infezioni in corso.
Le mutazioni presenti sono coerenti con la possibilità che tale linea sia portatrice di una maggiore capacità di contagio (aumentata affinità per ACE2) e di evasione dal sistema immunitario; d'altra parte non ci sono evidenze né di aumentata virulenza né di problemi anche solo potenziali nella copertura vaccinale prossima ventura.

Aggiornamento giugno 2021.
Uno studio condotto alla UCL ha evidenziato che le cellule polmonari infettate da questa variante  producono molto meno interferone del normale (e già sappiamo che il Sars-CoV-2 usa come strategia standard quella di colpire la produzione di interferone) e con esso i geni da esso attivati rimanevano "silenti". Questa variante virale ottiene questo risultato aumentando di 80 volte l'attività del gene virale Orf9b, la cui proteina interagisce con TOM70, una proteina cellulare chiave per la produzione di interferone. Il vero problema sembra tuttavia successivo: dato che l'interazione è reversibile, dopo circa 12 ore dall'evento il sistema di allarme torna "online" e questo provoca l'emissione di un segnale molto molto più potente del normale (si è accumulato), cosa che spiega la reazione eccessiva dell'organismo con uno stato infiammatorio sistemico. Non basta. La repentina risposta favorisce la comparsa di tosse e starnuti, che massimizza la diffusione di droplet e di muco infetto. 
Sebbene anche le varianti sudafricana e indiana riducano i livelli di interferone, usano strategie che non coinvolgono ​​Orf9b.

Come previsto dai modelli la variante inglese è diventata la dominante negli USA a fine aprile. Il fatto che in parallelo non si sia avuta una impennata di casi indica che il vaccino in uso protegge anche da questa variante.




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Variante sudafricana

Nome ufficiale B.1.351, 501Y.V2 o BETA
In comune con la variante inglese ha la mutazione N501Y. Di specifico le mutazioni E484K e K417N, site nella RBD della proteina Spike, che sembrano responsabili della capacità di questa variante di eludere gli anticorpi neutralizzanti (efficacia 10 volte inferiore).
Da notare che le mutazioni a carico di E484 sono quelle più efficaci nel minimizzare la capacità di riconoscimento da parte degli anticorpi neutralizzanti. Altri siti con simile rischio sono L455, F456, G485, F486 e F490. A conferma di tale "resistenza" ci sono i risultati del vaccino Novavax che mostra un crollo al 50% di efficacia nel "braccio" dello studio clinico condotto in Sudafrica.
Uno studio condotto in laboratorio usando plasma "immune" (lavoro ancora in revisione) indica che questa variante è meno sensibile all'azione degli anticorpi neutralizzanti, sia quelli presenti naturalmente nei soggetti guariti che nelle persone vaccinate con Pfizer o Moderna. L'elemento centrale di tale "resistenza" sembra essere l'azione combinata sulla morfologia della proteina di E484K e le altre due mutazioni.
Stesso discorso della figura sopra. La freccia indicante la posizione della E484K è solo quella centrale. Le altre frecce indicano le altre mutazioni presenti nel ceppo sudafricano.

EDIT 05/05/2021. Uno studio pubblicato su The Lancet basato sull'efficacia del vaccino Pfizer in Israele mostra una protezione intorno al 95% dopo due dosi, confermata anche nelle aree in cui la variante B.1.1.7 è prevalente

Fonte
- Comprehensive mapping of mutations to the SARS-CoV-2 receptor-binding domain that affect recognition by polyclonal human serum antibodies


Variante brasiliana 

Nome ufficiale P.1 o B.1.1.248 o GAMMA.
Manaus è considerato l'epicentro della variante.
La linea contiene 10 mutazioni a carico della proteina Spike, tra cui la classica N501Y e "l'inglese" E484K
La preoccupazione è nella mutazione E484 che la rende meno riconoscibile dagli anticorpi neutralizzanti. Un dato allarmante è che nonostante l'analisi sierologica avesse mostrato che ad ottobre il 76% della popolazione di Manaus era già stato infettato, questo non ha evitato che a fine dicembre si registrasse un picco di infezioni mai così alto. Le possibili spiegazioni vanno da errori nei test alla perdita di immunità sia per ragioni intrinseche alla durata degli anticorpi sviluppati che per l'emersione di varianti capaci di superare questa protezione
Per altri dettagli --> The Lancet

Ogni punto rappresenta un genoma SARS-CoV-2, mentre le linee indicano "il ramo" evolutivo. Al centro il genoma virale al momento del passaggio in essere umano. Più ci si allontana dal centro, maggiore il numero di mutazioni. Nella figura sono indicati per semplicità solo le tre varianti principali (Image credit: NextStrain via theconversation.com, CC BY)



Variante californiana 
Epsilon (B.1.427 e B.1.429)
La variante, appartenente al clade 20C, è stata chiamata CAL.20C la cui mutazione caratterizzante è L452R (proteina Spike) identificata per la prima volta in Danimarca a marzo. In totale sono 3 le mutazioni che distinguono questa dalla B.1.1.7.

La variante ha dato luogo a diversi grandi focolai nella contea di Santa Clara, appena fuori San Francisco; diversi studi recenti, ancora in via di pubblicazione, hanno suggerito che Epsilon è più infettiva (40% circa) rispetto ad altre varianti, e che sembra in grado di sfuggire con più efficacia alle difese del sistema immunitario.
 
Per ulteriori dettagli vedi l'infografica sul sfchronicle

Il primo indizio di CAL.20C risale a luglio, rimasto come unico esempio fino a ottobre. Già a novembre aveva raggiunto il 25% dei campioni analizzati, il 36,4% ad inizio gennaio per arrivare al 50% di settimana scorsa (10 gennaio).
La variazione della frequenza relativa della variante in meno di 1 mese
(clicca QUI per l'intervista a Charles Chiu della UCSF)


Aggiornamento 02/2021
Il suo attack rate secondario è intorno al 35% contro il 25 del ceppo classico.
Alcuni dati indicano un maggiore rischio di ospedalizzazione e di entrata nelle ICU (e a cascata un maggiore mortalità) ma si tratta di analisi preliminari.
Quello che appare preoccupante è che la capacità degli anticorpi neutralizzanti di riconoscere questa variante è tra 2 e 4 volte inferiore il che si traduce nella probabile necessità di adeguare il vaccino.
Come ha fatto a diffondersi così in fretta? Tra i tanti comportamenti che hanno aiutato c'è il caso del dipendente di un ospedale che si era vestito da albero di natale e che ha trasmesso inconsapevolmente   il "suo" virus ad altre 90 persone e si parla di solo quelle sintomatiche).

Variante nigeriana (linea B.1.207) 

Mutazione caratterizzante è P681H. Ad oggi sembra limitata e non mostra alcuna caratteristica peggiore rispetto alla B.1.1.7 da cui sembra essere derivata.

Variante indiana 
linea B.1.617.2 o DELTA
linea B.1.617.1 o KAPPA

Di queste solo la Delta è catalogata come VOC. La KAPPA è ancora VOI.
Caratterizzante è la presenza di entrambe le mutazioni E484Q and L452R nel gene Spike. Uno studio di aprile 2021 condotto su colture cellulari ha evidenziato una maggiore efficienza di infezione e un certo grado di capacità di evasione dagli anticorpi presenti nel cosiddetto plasma convalescente.

credit: news-medical.net

Ad oggi questa pare essere la variante con il più alto indice di trasmissibilità, responsabile sia della crisi in India che dei nuovi focolai nelle Seychelles (dove pur gran parte della popolazione è vaccinata) e a Taiwan. Il numero di casi riferiti a questa variante sta rapidamente aumentando in UK 
India (credit: Victor Grubsky)

UK (credit: Victor Grubsky)

In India l'incidenza di questa variante è passata dal ~ 10% dei casi all'attuale ~ 80% nel giro di un mese. In UK si è passati da frequeze trascurabili a quasi il 25% dei casi in un mese. Il suo successo in UK è ancora più significativo perché sta prendendo il posto della variante virale dominante (Kent o B.1.1.7) che partendo da qui si è poi diffusa nel resto del mondo grazie ad una trasmissibilità del 50% -70% superiore. Le attuali misure di prevenzione e vaccinazione sono efficaci per la variante B.1.1.7 ma  la B.1.617.2 sembra non accorgersene.
A mia domanda diretta a Victor sui nuovi infetti la risposta è in un certo senso confortante in quanto si tratta di persone non ancora vaccinate. Rimane tuttavia da capire, e questo è molto complesso, se i vaccinati contraggano una infezione asintomatica della nuova variante che permette un certo grado di diffusione sotto traccia.
Le stime attuali indicano che la variante indiana diventerà dominante in UK ad inizio giugno.

Il caso Seychelles è però importante in quanto 1/3 dei nuovi casi aveva già ricevuto la doppia dose di vaccino; sappiamo che il 60% della popolazione vaccinata ha ricevuto Sinopharm e il restante AstraZeneca  (Seychelles brings back curbs despite vaccination success). La domanda spontanea è quindi se questo "buco" nella rete di protezione sia dovuto all'intrinseca minore efficienza di AZ e dei vaccini cinesi rispetto ai vaccini a RNA oppure se sia proprio il virus ad essere meno "visibile" al radar immunitario dei vaccinati tout court. 

A metà 2021 luglio questa variante è oramai la dominante tra i nuovi casi diagnosticati in USA e UK.
In USA è passata al 57% dal 31 in sole 2 settimane (https://covid.cdc.gov/covid-data-tracker/#variant-proportions)

La veloce diffusione di questa variante è un chiaro segno di un qualche vantaggio selettivo. Un articolo in fase di revisione (luglio 2021) mostra che il tempo di latenza tra esposizione e rilevazione del virus è di 4 giorni vs. i 6 del ceppo originale (quindi maggiore velocità di replicazione) e un maggiore titolo virale nei pazienti (fino a mille volte superiore).

Lambda 
linea C.37

Rilevata per la prima volta in Perù, si è ora diffusa in oltre 80 nazioni e costituisce il 10% di tutti i nuovi casi di infezione rilevati negli USA.

Necessari ulteriori studi per confermare ipotesi di maggiore trasmissibilità e resistenza agli anticorpi neutralizzanti.

Alla fine di agosto è stata identificata una nuova variante (C.1.2) che è ad oggi la più diversa rispetto al ceppo originale di Wuhan (1.0) creando di fatto rischi sulla tenuta dei vaccini di prima generazione.


Delta Plus 

Innanzitutto bisogna precisare che il nome "Delta Plus" era già stato utilizzato dai media per una diversa sottovariante di Delta. Un nuovo elemento di confusione causato da questa nomenclatura e da media poco attenti o competenti.
Conviene in genere sempre riferirsi al sito cov-lineages.org

Ad oggi non ci sono reali segnali di una sua diffusione eccessiva. Ha suscitato però l'attenzione perché sembra essere aumentata di frequenza in alcune località.




Variante sudafricana 2 
Nome ufficiale B.1.1.529 o OMICRON
Segnalata per la prima volta il 24 novembre 2021 da un campione raccolto il 9 novembre.
La rapida diffusione della nuova variante in Sudafrica (credit:ft.com)


La variante Omicron porta circa 50 mutazioni mai viste tutte assieme prima. Di queste 32 sono a carico della proteina Spike, alcune delle quali in grado definite preoccupanti per le caratteristiche conferite al virus. Ad esempio la D614G, N501Y e K417N sembrano aumentarne l'infettività. Per tale ragione è stata inserita nella tabella VOC.
Le mutazioni più rilevanti della variante Omicron (Image credit: ft.com)


I test diagnostici in uso per il momento sono sufficienti alla sua rilevazione, importante per evitare falsi negativi. 

Tabella comparativa mutazioni in 5 varianti (credit: E. Topol)

Delle tre linee Omicron, la terza è molto rara (credit: Nature)

Questa variante racchiude un mistero: com'è possibile che tutta questa serie di mutazioni sia passata sotto i radar per emergere all'improvviso?
I tratti genetici di Omicron hanno infatti più somiglianze con le varianti diffuse nel 2020 rispetto a quelle oggi dominanti come Beta e Delta. 
Varie le teorie formulate. L'opinione più popolare tra i virologi è che le mutazioni si siano accumulate nel corso dei mesi in soggetti immunodepressi portatori di una infezione cronica. Secondo altri ricercatori la spinta decisiva è venuta dall'utilizzo dei farmaci antivirali, il che non sorprende se pensiamo all'impatto del trattamento antibiotico prolungato nella genesi di batteri resistenti agli antibiotici, a cui si sarebbe poi aggiunto un crossover del virus in un'altra specie animale prima di tornare agli umani.
Che questa variante sia comparsa in Sud Africa non sorprende data la diffusione del HIV che è responsabile di una immunodepressione cronica.

Da un punto di vista della virulenza i dati sono ancora insufficienti. Tuttavia due cose sono note: si trasmette più facilmente della delta; predilige i bronchi invece dei polmoni il che potrebbe spiegare la maggiore facilità di trasmissione e anche la minore propensione a causare sintomi gravi.
image credit: med.hku.hkde


Altra particolarità di Omicron è il percorso per entrare nella cellula
Se infatti la via classica è contatto con recettore che favorisce la fusione tra la membrana virale e quella cellulare, Omicron sembra preferire la via endosomiale come accadeva al suo "antenato", il virus SARS. 


La capacità del sistema immunitario post-vaccinazione di neutralizzare la variante Omicron pur con tutte le sue mutazioni è attribuita alle difese cellulari più che a quelle articorpali. Vedi in proposito l'articolo su Nature pubblicato a gennaio 2022.





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