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La benda che rilascia il disinfettante solo se la ferita è infetta

Una benda intelligente che evita l'utilizzo di antimicrobici se non strettamente necessario.

Sarà capitato a tanti di noi, dopo cadute anche rovinose durante escursioni o anche solo durante un tranquillo giro in bicicletta (le rotaie del tram sono le mie ... favorite), trovarsi nelle condizioni di medicare le abrasioni apparentemente non così profonde da necessitare una visita al pronto soccorso.
Il punto di partenza è l'impossibilità di dire attraverso la semplice osservazione se una ferita guarirà senza problemi con una semplice medicazione oppure se i batteri penetreranno nel tessuto ferito, infettandola e attivando così il processo infiammatorio. 
In passato la regola aurea era cospargere la ferita con la polvere antibiotica e tinture varie... giusto per sicurezza. Una attitudine non limitata alle automedicazioni ma anche a quelle "professionali" che ha contribuito, oltre che allo spreco di medicinali, alla diffusione della resistenza agli antibiotici.

La soluzione potrebbe venire da bende smart che "decidono" autonomamente di rilasciare il disinfettante solo se rilevano segni di una infezione in atto (tecnica allo studio da tempo per il rilascio controllato di farmaci).
Questo è in effetti il campo di ricerca di un team della svizzera EMPA (istituto svizzero attivo nello sviluppo di tecnologie dei materiali) impegnato nello studio di fibre polimeriche che si ammorbidiscono non appena l'ambiente si riscalda a causa di un'infezione, rilasciando così farmaci antimicrobici.
Image credit: F. Pan et al ACS Appl. Bio Mater (2021)
Per portare in essere tale idea è necessario che la benda contenga già al suo interno i farmaci da rilasciare e che abbia sensori adatti alla rilevazione del segnale di "pericolo". 
Il polimero dermocompatibile adatto allo scopo è stato trovato nel polimetilmetacrilato (PMMA), in uso oggi sia nella produzione di lenti per gli occhiali che nell'industria tessile, associato al Eudragit, una miscela polimerica biocompatibile usata per rivestire le pillole.
La miscela è stata assemblata a formare una sottile membrana fatta di nanofibre a cui poi è stato aggiunto la octenidina, un disinfettante cutaneo. Il tutto assemblato in rapporti tali che la temperatura di transizione vetrosa (la temperatura alla quale un polimero passa da una consistenza solida a uno stato gommoso e indurito) è nell'intervallo di 37 gradi.
In presenza di infiammazione la pelle si riscalda, passando dalla sua temperatura classica di 32-34 gradi, in cui il polimero è solido, a valori superiori ai 37 gradi, ammorbidendosi, permettendo il rilascio del farmaco. Il processo è reversibile, per cui quando l'infiammazione scema anche il farmaco non viene rilasciato; un ciclo ripetibile fino a cinque volte.

I ricercatori sono ora al lavoro per rendere minore l'intervallo di temperature tra la fase "solo benda" e quella "benda a rilascio controllato".

Fonti
- Bioresponsive Hybrid Nanofibers Enable Controlled Drug Delivery through Glass Transition Switching at Physiological Temperature
F. Pan et al ACS Appl. Bio Mater (2021)

La stampa 3D per la creazione di protesi oculari

Il primo paziente dotato di un occhio artificiale, stampato in 3D, apre la via allo studio clinico volto a dimostrarne sicurezza ed efficacia.
Image credit: UCL

Varie possono essere le cause che portano alla rimozione di un occhio e alto è di conseguenza il numero di potenziali fruitori di questa innovazione. Finora le protesi disponibili peccavano di realismo e, cosa ancora più importante, di adattabilità.
Fin dagli albori della stampa 3D si contava di sfruttare questa tecnologia non solo per la produzione di oggettistica ma soprattutto per creare pezzi di ricambio da remoto identici in tutto e per tutto al pezzo originale. Chiaramente quando si passa a materiale biologico il tutto assume livelli di complessità (e di problemi annessi) inusitati che prevedono l’utilizzo di cellule staminali. Ad un livello inferiore c’è la produzione di protesi che devono “solo” avere forma e caratteristiche chimico-fisiche adatte (es. resistenza e non allergiche o tossiche) senza espletare alcuna funzioni fisiologiche se non, nel caso delle protesi degli arti, quelle legato al movimento.
La stampa 3D ha ora il suo banco di prova per una protesi oculare a cui si chiede di essere realistica e adatta alla cavità orbitale in cui dovrà essere posizionata. Uno dei vantaggi di questo approccio rispetto alle protesi create con i metodi tradizionali, è che il prototipo può essere realizzato basandosi su scansioni digitali dell'occhio invece di passare attraverso la creazione di uno stampo (procedimento invasivo che nei bambini richiede un'anestesia generale).

Con il nuovo metodo (frutto della collaborazione tra UCL e una azienda tedesca) si eseguirà una scansione 3D anche dell’occhio buono in modo da creare massima corrispondenza e il file inviato in Germania. Una volta “stampato” l’occhio verrà mandato alla UCL dove gli oculisti eseguiranno le procedure di rifinitura e lucidatura. Tempo di attesa complessiva, meno di 20 giorni.


Se a questo si aggiunge un miglior risultato estetico e un tempo di preparazione molto più veloce (2,5 ore rispetto alle settimane dell’occhio acrilico), è facile capire l’interesse suscitato sia dal risultato "test" che dall'imminente studio clinico volto a testare queste protesi oculari "su misura".
Lo studio sarà condotto su 40 pazienti e valuterà parametri come motilità, aspetto, vestibilità e funzionalità, comfort, secrezione mucosa e benefici generali dell'uso nella vita quotidiana, tutti aspetti testati indossando ciascuna protesi per 4 mesi. Le protesi oggi in uso vengono sostituite ogni 5 anni.


Fonte
- First patient fitted with 3D printed eye
UCL, news

Xenobot. Non solo la curiosa "autoreplicazione" (simile a quella dei proto-organismi?) ma anche l'inizio della progettazione biologica guidata dalla IA?

La visione al microscopio di mini ammassi di materiale biologico che in una capsula di Petri si muovono come ubriachi appena scesi da una giostra girata troppo velocemente, potrebbe ricordare, all'osservatore medio, il vorticoso movimento dei microrganismi in una goccia d'acqua presa da uno stagno.
Immagine di uno xenobots in azione 
(image credit: Doug Blackiston & Sam Kriegman)
Definizione riduttiva in questo caso dato che queste cellule potrebbero segnare un nuovo capitolo nelle bioscienze, sia da un punto di vista tecnologico che filosofico.

I mini "blob" dell'immagine sono degli xenobot, da alcuni anche definiti biorobot - impropriamente a mio avviso-  capaci di riprodursi in modo nuovo.
Lo studio è stato pubblicato qualche giorno fa sulla rivista PNAS.

Gli xenobot visti al microscopio
(video credit: Sam Kriegman et al, PNAS December 7, 2021 118 (49))

Premessa. Il nome xenobot è il risultato della crasi di due termini (xeno + bot) che per quanto corretti danno un risultato potenzialmente fuorviante.
  • Xeno. La radice greca che indica "diversità dal comune" potrebbe facilmente evocare le creature del film Aliens, note anche come xenomorfi. Nel caso degli xenobot però "xeno" deriva dal nome della rana da cui sono state prelevate le cellule (Xenopus laevis), una specie ampiamente usata in laboratorio. 
    credit: Brian Gratwicke 

  • Bot. Errato associarli a "robot" o entità ibride (ad esempio i Borg della saga Star Trek) essendo totalmente costituito da materiale organico vivente e nemmeno geneticamente modificato. L'associazione a "bot" viene dall'avere utilizzato algoritmi per indirizzare le caratteristiche del loro sviluppo (vedi sotto)
Gli xenobot sono infatti dei globi di cellule staminali prelevati da una fase molto precoce (blastula) dell'embrione della rana. Nelle fasi iniziali della loro "coltivazione", questi gruppi di cellule hanno un unico scopo, comune alle staminali, cioè dividersi e/o differenziarsi, a seconda delle condizioni ambientali e del loro "programma genetico". Con il tempo (leggasi numero di passaggi in coltura)  queste cellule hanno acquisito nuove capacità tra cui quella motoria, una sorta di memoria e una rinnovata capacità di interagire con l'ambiente circostante. Possono moltiplicarsi, e questo lo fa qualunque linea cellulare non senescente, ma il modo con cui creano nuove versione di se stesse non ha termini di paragone con la "normale" vita biologica.
Gli autori dello studio definiscono questo comportamento come "autoreplicazione" invece di riproduzione (vedi sotto). La capacità di cellule geneticamente non modificate di riconfigurarsi in autoreplicatori e il fatto che questa modalità sia sorta spontaneamente piuttosto che attraversi i classici passaggi della selezione biologica, esemplifica la loro peculiarità e la possibilità di sfruttarla come punto di partenza per la progettazione di nuovi sistemi.

Gli xenobot sono indubbiamente vivi, ma ben lungi dall'essere veri organismi.
Si tratta di cellule indifferenziate, dotate certamente di un potenziale differenziativo ma incapaci di generare un nuovo organismo. In un certo senso potremmo definirle come "cellule senza uno scopo", il che le distingue nettamente da qualunque organismo.
Vediamo tale peculiarità nel dettaglio.
Dopo l'espianto le cellule vengono messe in una soluzione salina che favorisce la loro aggregazione in sfere costituite da circa 3 mila cellule. Dopo circa 3 giorni le sfere mostrano strutture ciliate o appendici simili a capelli che consentono loro di interagire con l'ambiente circostante.
Niente di veramente nuovo nel campo delle colture cellulari su celle staminali. La vera novità si scoprì quando dopo avere aggiunto questi sferoidi in una piastra di Petri contenente 60 mila cellule staminali singole, veniva indotta l'aggregazione delle cellule in mini sfere, ciascuna fatta da circa 50 cellule. Queste mini-sfere, a loro volta dotate di motilità, ripetono il processo quando incontrano altre cellule staminali, così creando nuove mini-sfere.
Il processo è stato in seguito associato ad un algoritmo di apprendimento utile per "guidare" (leggasi, creare le condizioni adatte) la comparsa di caratteristiche specifiche come la dimensioni e la forma della sfera.
Un organismo progettato al computer. A sinistra: il progetto di sviluppo disegnato con un modello computazionale. A destra: lo xenobot sviluppatosi costituito da epitelio (verde) e muscolo cardiaco (rosso) derivati dalle cellule prelevate dalla blastula. Il tessuto muscolare serve per conferire motilità.
Image credit: Sam Kriegman (2020 - https://cdorgs.github.io) Video a fondo pagina

Grazie alla IA si possono progettare xenobot di forma e caratteristiche desiderate.
Image credit: Sam Kriegman - https://cdorgs.github.io


Una "replicazione da contatto" che potrebbe far pensare ad eventi di cristallizzazione nel mondo inorganico oppure alla propagazione dei prioni.

Una peculiarità che potrebbe forse dirci qualcosa sui primi organismi terrestri e, chissà, persino sugli organismi esistenti su altri mondi.
Non sappiamo nulla di certo sull'origine della vita nel nostro pianeta. Le teorie vanno dal classico "brodo di Miller" che dimostrò la sintesi prebiotica di alcuni mattoni fondamentali per la vita, ai peptidi autoassemblanti divenuti ad un certo punto capaci di auto-replicarsi, e come tali rappresenterebbero la primissima fase dell'evoluzione della vita. Una fase che precede il cosiddetto mondo a RNA (precedente rispetto al DNA proprio grazie alla proprietà unica del RNA di formare molecole autocatalitiche, i ribozimi)

Se lo studio dell'origine della vita è puramente speculativo o di interesse per futuribili missioni spaziali, gli xenobot ci offrono strumenti prêt-à-porter nel campo della biologia avanzata.  Questo ci porta ad uno degli elementi interessanti di questa scoperta cioè la definizione di vita; domanda tutt'altro che peregrina che vede la NASA tra i principali soggetti interessati alla domanda. Il motivo? Se vuoi cercare la vita al di fuori del nostro pianeta (esobiologia) devi poterla definire in senso generale, al di fuori della specificità del nostro pianeta. 
Ad oggi la la migliore definizione di vita è un "sistema chimico autosufficiente capace di un'evoluzione darwiniana" (vedi anche sulla pagina della NASA), definizione che quindi esclude i virus meglio catalogabili come quasi-organismi.
Questo ci porta alle future applicazioni degli xenobot in cui la biologia si unisce alla "progettazione" basata su algoritmi. I ricercatori ipotizzano che la modellazione al computer potrebbe consentire agli Xenobot di acquisire forme e funzioni per svolgere funzioni molto specifiche; un esempio, indurle a comportarsi come "cargo" per il trasporto di farmaci fino a distretti difficilmente accessibili dalle sole molecole, come quelle protette dalla barriera emato-encefalica.


Il video riferito al primo lavoro (2020) sul tema


Su temi "correlati" il libro di G. Galletta sulla astrobiologia (sia in formato digitale gratuito che cartaceo a 18€)

Fonti
- Kinematic self-replication in reconfigurable organisms
Sam Kriegman et al, PNAS December 7, 2021 118 (49)

A scalable pipeline for designing reconfigurable organism
Sam Kriegman et al, PNAS January 13, 2020), 117 (4): 1853–1859



Qualche numero sull'indubbia protezione conferita dai vaccini contro Sars_CoV_2

Sempre più spesso tocca ascoltare persone che usano le statistiche epidemiologiche in modo alquanto ... leggero ... per veicolare il messaggio che la vaccinazione non serve poi a molto visto che (a loro dire) le persone in sala di rianimazione sono per la maggior parte vaccinate. 

Al netto che, numeri alla mano, è falso in quanto il 74% delle persone in ICU è non vaccinato, conviene riportare qualche grafico semplificato ma sufficientemente dettagliato.

Il primo confronto lo abbiamo mettendo in uno stesso grafico due semestri chiave (il secondo del 2020 vs. il secondo del 2021) che, data l'attuale copertura vaccinale, sono adatti a confrontare gli effetti del covid19 prima e dopo il vaccino.

I decessi ci danno l'immagine immediata della protezione, in quanto i trattamenti farmacologici non sono granché cambiati e inoltre stiamo confrontando due periodi in cui non si era nella fase di crisi dovuta alla saturazione delle ICU (come invece nel primo semestre 2020)

Il numero di positivi ci fornisce una informazione ben nota tra gli addetti ai lavori. Il vaccino ti protegge dalla infezione fino ad un certo punto. Confrontando questo grafico con il precedente e il successivo il messaggio è che un vaccinato può reinfettarsi con una certa frequenza (molte variabili tra cui il tempo passato dalla seconda dose, varianti o patologie concomitanti che inducono un calo di protezione) MA ti proteggono dal rischio che una volta che sei infettato tu possa sviluppare sintomi gravi da necessitare l'ospedalizzazione. Si tratta come detto di un problema associato alla scarsa (temporalmente) immunità indotta dai coronavirus e dal fatto che l'immunità (naturale o vaccinica) è sistemica e ben poco mucosale (tradotto, vengono generate poche sIgA). Di questo ne ho scritto in un precedente articolo.

Le persone che necessitano di terapia intensiva.


Vi serve un grafico più diretto? Ecco il numero di nuovi casi per ogni 100 mila persone tra il gruppo di vaccinati e non vaccinati.

Nota: L’incidenza viene calcolata come rapporto tra numero di vaccinati o non (almeno parzialmente) vaccinati (report Iss) e la popolazione di riferimento intesa come numero cumulato di vaccinati o non vaccinati da inizio campagna vaccinale fino a una data di riferimento. Tale data viene fatta coincidere con la fine dell’intervallo di calcolo delle diverse voci: casi, ricoveri, terapie intensive e decessi. In tal modo si catturano nell’analisi sia i vaccinati di lunga data che quelli più recenti. Per quanto la popolazione di riferimento sia in costante cambiamento, rendendo così meno significativo il confronto tra i valori della stessa categoria in periodi diversi, tale distorsione è comune a entrambe le categorie sotto esame per cui il loro confronto mantiene significatività.


Ancora qualche numero.

Tasso di ospedalizzazione tra vaccinati e non vaccinati nella popolazione generale e raggruppata per età (quindi con fattori di rischio simili)

Image Credits per questa immagine e successive: skytg24


L'impatto della variante Omicron è ancora "fuori dai radar" dato che ad oggi la variante Delta è ancora la dominante assoluta tra i nuovi casi (circa lo 0,4% dei genomi virali sequenziati nell'ultimo mese è Omicron.

I dati sono reperibili sui siti dell'Istituto Superiore di Sanità, del ECDC e (in forma digerita) sull'ottimo portale lab24.ilsole24ore







Due o tre cose sulle varianti SARS-CoV-2 [Aggiornato]

(Ultimo aggiornamento febbraio 2022)

Gli aggiornamenti al presente articolo sono indicati come tali o messi in calce al paragrafo riguardante una data variante.
Poiché queste ultime sono ordinate in ordine di "apparizione", le sezioni a fondo pagina riguardano le varianti più recenti, quindi più interessanti (per altri articoli sul tema --> covid19).

***
La catalogazione delle varianti è stata in seguito modificata usando lettere greche invece del paese in cui sono state identificate, pare per le proteste di alcuni paesi (si spera che nel continuo subbuglio provocato dal politicamente corretto non intervengano ora i greci per contestare l'associazione del loro alfabeto al virus ...)
Ricostruzione al computer del Sars-CoV-2. Il diametro del virus è circa 100 nm. Le proteine Spike (24-40 per ogni virione) "protrudono" dalla superficie per circa 20 nm 
Image credit: Janet Iwasa, University of Utah via nature.com

Quella che segue è invece una "immagine" reale del virus (in falsi colori) ottenuta mediante tomografia crioelettronica.
Ulteriori dettagli alla pagina nanographics.at/... . Scaricabile in HD dalla pagina cryo-et-renders.zip e visibile anche su Youtube/... ..


***
Inizio con una panoramica dell'evoluzione e diffusione delle varianti virali aggiornata a gennaio 2022 



I coronavirus mutano sia a causa sia di errori intrinseci della polimerasi virale che della risposta cellulare di difesa, il cui fine è eliminare "strane" sequenze/strutture di acido nucleico (per dettagli vedi RNA-Pol error proneRNA sensors). 
Confusi sui molti nomi con cui sono etichettate le varianti virali? Vi rimando all'articolo dedicato.
Tra i virus a RNA i coronavirus hanno una caratteristica insolita consistente nel minor tasso di errori in fase di replicazione. La ragione è che il complesso multiproteico deputato alla copia del RNA contiene una subunità deputata al proofreading (la correzione degli errori di copiatura) sulla falsa riga di quella posseduta da, alcune, DNA polimerasi cellulari. Il tasso di errori di copiatura (la fonte delle mutazioni) è di conseguenza inferiore rispetto a quello di retrovirus (virus a RNA che passa da una fase a DNA integrata nel genoma cellulare) come l'HIV o di virus a RNA come quello dell’influenza il cui tasso di variazione viene massimizzato anche grazie al riassortimento dei filamenti di RNA (pensate a mini cromosomi, 8 nel caso del virus Influenza A) che danno luogo alle pandemie influenzali.

EDIT: un recente studio ha mostrato che la realtà è più complicata del previsto data la scoperta (per solo in laboratorio) della capacità di 3 tipi diversi di coronavirus (tra cui il Sars-CoV-2 di ricombinare (Jennifer Gribble et al, PLOS-Pathogens, 2021

Un graffito stradale in India per esorcizzare le paure ma ricordare che il virus è sempre in agguato (image credit to: Sanjeev Gupta/EPA via The Guardian)

I ricercatori nei vari paesi si sono da subito messi all'opera per caratterizzare (e monitorare) l'evoluzione virale mano a mano che si passava da una epidemia locale (primi passaggi successivi alla zoonosi) alla pandemia dove il meccanismo di trasmissione era quasi esclusivamente per via umana (ulteriori passaggi animale ad umano si sono verificati in Danimarca e Olanda dai visoni di allevamento). Un processo adattativo che si porta dietro modifiche al genoma virale utili per migliorare infezione e replicazione nel nuovo contesto (ospite umano) rispetto al "prototipo" che fece il salto interspecie nei wet markets cinesi.
A proposito di zoonosi. Per l'attuale pandemia non ci sono evidenze di trasmissioni a uomo dagli animali da compagnia, anzi semmai è vero il contrario con diversi casi di cani e gatti (oltre alle tigri negli zoo) risultate positive al virus dopo il contatto con il loro padroni/guardiani malati. Il vero punto è che questi animali sono ospiti di altri tipi di coronavirus (alfa e beta) per noi non infettivi. La commistione tra coronavirus "umani" ed dei "pets" potrebbe tuttavia essere un punto di partenza per la selezione di ceppi "umani". Da monitorare.
Tracciamento che implica sequenziamento del genoma virale e successiva comparazione tra i virus isolati in tempi e luoghi diversi.
Per dare un'idea del lavoro sottostante, a metà dicembre il numero di sequenze depositate nei database genomici era superiore a 250 mila, gran parte delle quali riferite a sequenze tra loro diverse (differenza intese come presenza di 1 o più mutazioni puntiformi e delezioni). Non è superfluo specificare che un discreto numero di queste alterazioni non sono mutazioni “propriamente dette” in quanto non influiscono sulla sequenza proteica finale e/o sulla espressione genica; si tratta ad esempio di sostituzioni nucleotidiche conservative (diverso codone, stesso aminoacido). Ottimi marcatori per i genetisti che li usano per tracciare lo spostamento (e variazione percentuale) dei virus nel tempo ma funzionalmente senza conseguenze. 
Questo allo stato delle conoscenze attuali; non si può escludere che alcune di queste alterazioni apparentemente silenti impattino il livello di RNA prodotto, magari variandone la stabilità.

Il resto delle mutazioni si dividono in sostituzioni aminoacidiche conservative o modificanti, il cui effetto sulla funzionalità virale può essere accertato con test in laboratorio. In genere si tratta di mutanti con uguale o migliore funzionalità; le mutazioni deleterie per la sopravvivenza virale vengono eliminate rapidamente per selezione naturale.

La genetica ci direbbe che la mutazione migliore prende il sopravvento ma questa è una semplificazione usata solo per veicolare il messaggio. Alcune di queste varianti possono divenire le più comuni in una particolare area geografica per puro caso e non perché forniscano un vantaggio. 

Possiamo semplificare il concetto pensando alla possibilità che in una data valle ci sia una maggiore frequenza di persone con i capelli rossi che nella valle adiacente. Si tratta di una conseguenza del Founder Effect (effetto del fondatore) e può verificarsi quando il numero di “coloni” fondatori di quella comunità è basso, per cui se uno di questi aveva i capelli rossi questo gene si fisserà nella popolazione locale ad una frequenza maggiore che nella valle adiacente in cui il numero di “rossi” era basso come nella popolazione di provenienza (ad es. della pianura). 
Una volta che il virus entra in contatto con una popolazione si possono avere due dinamiche molto diverse. La versione classica è quella di una popolazione "vergine", priva di anticorpi per quel particolare virus e ignara del nuovo arrivato (che non attua contromisure comportamentali). Qui il virus non incontra alcuna barriera nella propagazione se non quella derivante dalla propria biologia (un virus che si trasmette per via aerea come il raffreddore sarà facilitato rispetto al virus Ebola che necessita di fluidi corporei e di lesioni). La pressione selettiva a cui è sottoposto il virus è minima una volta adattato all'umano.
Il discorso cambia quando  a causa di variazioni comportamentali (non visito chi è infetto) e della crescente immunità nella popolazione (anticorpi post-esposizione e programmi di vaccinazione) diventa sempre più difficile per il patogeno sopravvivere. In questi casi il virus è sottoposto a forte pressione selettiva e con essa si ha la comparsa di mutazioni adattative necessarie per facilitarne la diffusione (es. maggiore titolo virale nel droplet o aumentata resistenza al clima esterno) e sfuggire al rilevamento da parte del sistema immunitario (diventa "invisibile" o spegne il sistema immunitario).

Prima di arrivare alla variante inglese è necessario fornire qualche altro dettaglio su come il SARS_CoV_2 aggancia la cellula bersaglio.
La proteina chiave per riconoscere ed entrare nella cellula si chiama Spike, ricopre l'esterno della particella virale e ha come bersaglio la proteina ACE2 esposta sulla superficie delle cellule.
Immagine artistica del virus. In rosso la proteina Spike (S). Credit: CDC

Interazione tra Spike (S), la chiave, e ACE2, la serratura, per l'ingresso nella cellula. Elemento fondamentale è RBD, in verde tratteggiato (Image credit: E. Taka et al, bioRxiv - 2020)


Dettaglio dell'interazione tra Spike (in alto, rosso) e ACE2 (blu in basso)
(Credit: Juan Gaertner / Science Source via Rochester.edu)


Dettaglio del punto di interazione tra RBD (parte bassa, viola o giallo) e ACE2 (in alto, verde) mettendo a confronto il virus del covid19 (sinistra) e della SARS (a destra) Per una comparazione ancora più dettagliata tra lo Spike dei due virus e ACE2 vi rimando alla esaustiva figura 1 dell'articolo di H. Lim et al. (Scientific Report, 10/2020). (Image credit: J. Shang et al. - Nature)


Non stupisce allora che la proteina Spike sia tra le "quelle da mutare" nel processo evolutivo virale pur se con alcune limitazioni (dovrà sempre essere capace di "vedere" il bersaglio).
Dato confermato sperimentalmente: su oltre 150 mila genomi virali sequenziati dall'inizio della pandemia, oltre 1100 sono portatori di alterazioni (nello specifico delezioni) della proteina Spike. Mutazioni non distribuite però in modo casuale: il 90% delle delezioni si raggruppa in quattro aree del gene spike.

Una panoramica delle principali mutazioni trovate a carico della proteina Spike
(credit: sfchronicle)

 
 
Non tutta la proteina è substrato ideale perché una mutazione faccia la differenza; il sito ideale è nel Receptor Binding Domain (RBD). Mutazioni in questa regione non solo possono migliorare il legame con il recettore ma possono anche diminuire la capacità degli anticorpi neutralizzanti di bloccare il virus.
Gene e struttura 3D di Spike nella forma trimerica. In verde il dominio RBD nella conformazione "up" (image credit: D. Wrapp et al, Science)

Una delle mutazioni più note di Spike è la D614G (localizzata nella S1 della figura sopra) che si trova fuori dalla RBD. Emersa nelle prime fasi dell'epidemia si è poi diffusa in tutto il mondo, grazie sia alla sua contagiosità e, a cascata, capacità di aumentare il titolo virale nelle mucose nasali e trachea (ma non nei polmoni), da cui maggiore facilità di diffusione all'esterno, che alla maggiore stabilità a temperature febbrili.
Nota a margine: la variante con questa mutazione è nota anche come "ceppo italiano" per la sua maggiore velocità di diffusione rispetto a quella originaria di Wuhan. La aumentata contagiosità è legata ad un aumento di 4-5 volte del numero di proteina Spike sulla superficie.


La sua diffusione ha fatto sorgere qualche preoccupazione teorica sulla capacità dei nuovi vaccini specificamente diretti contro Spike di riconoscere la variante. In verità i vaccini da poco approvati sono in giro da troppo poco tempo perché abbiano esercitato una pressione selettiva sui virus selezionando quelli capaci di eludere il vaccino. Inoltre essendo la mutazione D614G ampiamente diffusa, e da molto tempo, la protezione conferita dal vaccino non sarebbe stata così alta come invece osservato, visto che è estremamente probabile che i soggetti abbiano “incontrato” proprio questa variante dopo essere stati vaccinati. Per finire non ci sono dati che i (pochi) soggetti vaccinati che si sono ammalati (pur in forma solo lieve) si siano infettati in modo statisticamente significativo solo dopo avere incontrato la D614G.
Uno studio appena depositato su bioRxiv conferma che il vaccino Pfizer protegge anche dalla variante N501Y
Solo quando la copertura del vaccino diventerà significativa non dovremo sorprenderci di vedere emergere mutanti virali in grado di sfuggire alla barriera vaccinale. Per essere pronti a contrastare tali mutanti, sia Moderna che Pfizer hanno comunicato di stare lavorando ad un "upgrade" del vaccino configurabile per chi è già vaccinato in una sorta di "richiamo".
Ho scritto "emergere" perché questi mutanti compaiono spesso nella popolazione virale ma scompaiono altrettanto rapidamente. Vale il principio no pressure-no selection.

Nota. I virus non usano solo le mutazioni per indurre variabilità ma, almeno alcuni di essi, agiscono sullo strumento di decodifica dell'informazione genetica (il ribosoma) in modo che invece di leggere una tripletta dietro l'altra "scivoli" di 1 o 2 nucleotidi generando così una proteina alterata risultato di un frameshift. La scoperta, fatta da team di università svizzere e irlandesi, potrebbe aprire un nuovo filone nel campo della drug discovery finalizzata ad interferire in questo processo.


24/05/21
Infografica aggiornata dell'efficacia dei vari vaccini rispetto alle varianti
credit: Bloomberg

Un portale con informazioni strutturali sulle varianti lo trovate su http://sars2.cvr.gla.ac.uk/cog-uk/ disponibile come web application su www.gla.ac.uk/....

Nota. Per quale motivo nei bambini il rischio ospedalizzazione da covid19 è quasi trascurabile? Uno studio sembra indicare che non a parità rischio di infezione i fattori protettivi includono: anticorpi contro altri coronavirus (del raffreddore, ...); prominenza della risposta immunitaria innata rispetto a quella adattativa (ancora in fase di formazione) -->Nature settembre 2021 

*** VARIANTI ***
Un riassunto schematico per iniziare

Altre informazioni sulle principali varianti sul sito del OMS o la pagina eCDC con le sezioni riferite alle VOC, VOI e varianti sotto monitoraggio.

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Variante inglese o del "Kent" (B.1.1.7 / Alpha)

Qualche dettaglio più tecnico (ma sempre soft, comprensibile anche ai non addetti ai lavori) sulla variante.
Tra le caratteristiche genetiche interessanti di questo ceppo, quella di veicolare 17 mutazioni (non polimorfismi) diverse.
Le mutazioni, e loro localizzazione, presenti nella linea B.1.1.7
Credit: Andrew Rambaut et al (19/12/2020)

Aggiornamento. In data 1 febbraio le autorità UK hanno comunicato che alle precedenti mutazioni se ne è aggiunta una, E484K. Tale mutazione finora era caratteristica della variante sudafricana che pare diminuire l'efficacia del vaccino e degli anticorpi neutralizzanti.

La comparsa di un tale aggregato di mutazioni in un ceppo è in genere attribuibile ad una selezione avvenuta all'interno di un singolo individuo, piuttosto che all’accumulo di mutazioni nel passaggio tra un soggetto e il successivo. Le condizioni ottimali perché ciò avvenga si verificano (lo storico in altre infezioni lo dimostra) negli “infettati di lungo termine”.
Abbiamo tutti sentito parlare di persone rimaste positive al tampone virale per settimane e non parlo solo di persone con altri problemi di salute ma di sportivi in piena salute (l’esempio che mi viene in mente è il giocatore della Juventus Dybala positivo per +39gg). 

Un articolo apparso su Cell Stem Cell di maggio ripercorre la genesi di questi ceppi nei soggetti immune-compromessi.

Un caso paradigmatico di come soggetti immunodepressi siano l'incubatore preferenziale delle varianti viene da una donna sudafricana positiva al HIV e resistente al trattamento standard, rimasta positiva al Sars-CoV-2 per 216 giorni durante il cui periodo ha generato virus con 32 mutazioni, 16 delle quali a carico della proteina Spike.

La risposta immunitaria inefficace insieme al trattamento farmacologico (sia mediato da antivirali che con anticorpi/plasma dei guariti) mettono sotto forte pressione il virus; se il processo selettivo si protrae troppo a lungo (alias il virus sta resistendo e mantiene una cerca capacità replicativa seppure a livello basale) queste sono le condizioni in cui si accumuleranno le mutazioni capaci di conferire un vantaggio nella sopravvivenza.
I pazienti in cui questo processo è più probabile sono quelli con immunodeficienze (naturali o indotte, vedi chemioterapia e simili), con alto titolo virale e malattia prolungata e chi è stato sottoposto più volte  a terapia anticorpale. Studi precedenti hanno dimostrato alti tassi di accumulo di mutazioni (mutazioni missense e delezioni) in brevi periodi di tempo in pazienti con sistema immunitario compromesso o con una infezione da SARS-CoV-2 di durata almeno 2-4 mesi, trattati con antivirali e/o con anticorpi (EDIT: vedi anche l'articolo sul tema pubblicato a febbraio 2021 su Bloomberg e l'articolo su Nature).

Le mutazioni accumulate sono tali da renderlo più contagioso in assoluto o solo un epifenomeno frutto delle particolari condizioni in cui è sorto?
Supponiamo ora la nuova variante abbia effettivamente una maggiore capacità di trasmissione. In presenza di strumenti di minimizzazione del contagio (maschere, gel, distanziamento sociale, …) anche il possedere una proteina Spike migliorata non darebbe alcun vantaggio nella propagazione ... perché la variante non è il risultato di una selezione a renderlo capace di infettare più persone ma di sopravvivere all'interno di un individuo sottoposto a terapia.
Da cui l’importanza di queste barriere per tutelarci ed impedirne la diffusione 
 
 

Analizziamo ora alcune delle mutazioni funzionalmente più interessanti tra le 17 presenti nella tabella. Non si tratta di mutazioni "uniche", ma già viste in altre varianti virali, sebbene mai insieme.
Cominciamo dalle 3 mutazioni che colpiscono la proteina Spike.
Panoramica della posizione delle mutazioni nella proteina Spike (image credit: CeronLab)


Vista del punto di interazione tra Spike (arancio) e ACE2 (verde) con la mutazione N501Y (modalità Ribbon Diagram).
(credit: original poster)


Modalità alternativa (Surface) per visualizzare la struttura proteica, in questo caso risaltando l'esterno ma mantenendo in semi-opacità la sottostante struttura secondaria.  

Le 3 mutazioni caratterizzanti la variante inglese. La dicitura sulla figura è fuorviante in quanto la N501Y è una sola (in alto a dx) mentre le altre 2 sono le associate alla "variante inglese".

  • 69-70del (H69/V70). Alterazione osservata nel contesto dell'evasione alla risposta immunitaria. Si tratta di una delle numerose delezioni ricorrenti trovate nel dominio N terminale di Spike, spesso associata a diverse mutazioni nel RBD. Visto la prima volta nel visone (Danimarca), associato alla mutazione Y453F, e negli esseri umani in associazione con la mutazione N439K. La frequenza con cui compare questa delezione è stata spiegata con la particolare struttura del RNA in quella posizione che favorisce errori da parte della polimerasi (per altri dettagli "Recurrent emergence and transmission of a SARS-CoV-2 Spike deletion H69/V70")
  • P681H Non sono a conoscenza di studi che hanno esplorato l'effetto di questa mutazione. Probabilmente non è casuale l'essere immediatamente adiacente al sito di taglio operato dalla furina (sul ruolo essenziale della furina vedi anche "Furin Cleavage Site Is Key to SARS-CoV-2 Pathogenesis"). Esperimenti in laboratorio hanno dimostrato che la perdita di questo sito favorisce la replicazione virale in alcune cellule ma la attenua nelle cellule respiratorie rendendola di fatto meno virulenta. Questo sito è assente in altri coronavirus e si ritiene che la sua comparsa sia stata una delle chiavi che ha consentito al SARS-CoV-2 un accesso facilitato alle cellule dell’epitelio respiratorio. Importante notare come la variante indiana abbia P681R che pare importante nella sua maggiore diffusione
Oltre a queste 3 mutazioni nella proteina Spike vale la pena citare le mutazioni nel gene ORF8 in quanto la sua proteina è una delle proteine ​​accessorie in più rapida evoluzione tra i beta coronavirus ed è stata precedentemente proposta come artefice dell’azione di interferenza con la risposta immunitaria dell'ospite. Come? Diminuendo l'espressione del MHC-1 e interrompendo il segnale antivirale mediato da interferone-a (IFN-1). Una delle mutazioni presenti, ORF8 Q27stop, produce una proteina tronca, inattiva. Il dato di mutazioni nonsense (o delezioni) in ORF8 in sé non è nuovo (vedi F. Pereira - 2020) e segnala che il virus può continuare a diffondersi in assenza di questa proteina ma che rimane necessaria in talune circostanze.
Nota. 2 studi pubblicati su Science (Zhang et al. e Bastard et al.) fanno luce su un elemento chiave che potrebbe spiegare perché in alcuni soggetti, a parità di ceppo e dello stato di salute precedente l'infezione, il decorso della malattia sia più grave: la mancanza di IFN-1. Gli interferoni sono  una famiglia di proteine che le cellule producono in condizioni di stress e/o quando rilevano virus. La loro carenza, spiegata da mutazioni ereditarie o ad autoimmunitarie contro gli IFN, abbassa le difese e favorisce l'aumento del titolo virale.
Un quesito spontaneo è quale possa essere il vantaggio di tali mutanti (o meglio della proteina in genere se non serve). Nel caso delle delezioni si pensa che favorisca la comparsa di hairpins che poi facilitano eventi di ricombinazione. La presenza di uno stop favorisce la comparsa di mutazioni carrier a valle del sito di stop che, in caso di mutazioni reverenti sarebbe già pronte all'uso.
ORF8 è presente anche nel virus della SARS ma le sequenze sono tra loro molto divergenti.
All'inizio della pandemia furono identificati ceppi mutanti a Singapore, privi di ORF8, associati a un'infezione clinica più lieve e a una minore infiammazione post-infezione. Queste varianti sono poi scomparse con l'aumento delle restrizioni per minimizzare i contagi.
Domanda. Le mutazioni a carico della RBD alterano la capacità di legare ACE2? Innanzitutto è implicito che tale alterazione non possa che essere positiva visto che mutanti "negativi" verrebbero controselezionati immediatamente. Da quanto ne so si ha un aumento di affinità nel caso di N501Y (Starr et al., 2020b)​, Y453F e N439K ​(Starr et al., 2020b; Thomson et al., 2020).


Riassumendo, i dati ad oggi disponibili ci portano ad ipotizzare che l'insolita divergenza genetica della linea B.1.1.7 sia  il risultato, almeno in parte, dell'evoluzione del virus in un individuo che è rimasto infetto e in terapia per un periodo prolungato e verosimilmente immunodepresso. Sebbene tali infezioni siano rare e la successiva probabilità di trasmissione sia ancora più rara, tali eventi non sono improbabili dato il gran numero di nuove infezioni in corso.
Le mutazioni presenti sono coerenti con la possibilità che tale linea sia portatrice di una maggiore capacità di contagio (aumentata affinità per ACE2) e di evasione dal sistema immunitario; d'altra parte non ci sono evidenze né di aumentata virulenza né di problemi anche solo potenziali nella copertura vaccinale prossima ventura.

Aggiornamento giugno 2021.
Uno studio condotto alla UCL ha evidenziato che le cellule polmonari infettate da questa variante  producono molto meno interferone del normale (e già sappiamo che il Sars-CoV-2 usa come strategia standard quella di colpire la produzione di interferone) e con esso i geni da esso attivati rimanevano "silenti". Questa variante virale ottiene questo risultato aumentando di 80 volte l'attività del gene virale Orf9b, la cui proteina interagisce con TOM70, una proteina cellulare chiave per la produzione di interferone. Il vero problema sembra tuttavia successivo: dato che l'interazione è reversibile, dopo circa 12 ore dall'evento il sistema di allarme torna "online" e questo provoca l'emissione di un segnale molto molto più potente del normale (si è accumulato), cosa che spiega la reazione eccessiva dell'organismo con uno stato infiammatorio sistemico. Non basta. La repentina risposta favorisce la comparsa di tosse e starnuti, che massimizza la diffusione di droplet e di muco infetto. 
Sebbene anche le varianti sudafricana e indiana riducano i livelli di interferone, usano strategie che non coinvolgono ​​Orf9b.

Come previsto dai modelli la variante inglese è diventata la dominante negli USA a fine aprile. Il fatto che in parallelo non si sia avuta una impennata di casi indica che il vaccino in uso protegge anche da questa variante.




***




Variante sudafricana

Nome ufficiale B.1.351, 501Y.V2 o BETA
In comune con la variante inglese ha la mutazione N501Y. Di specifico le mutazioni E484K e K417N, site nella RBD della proteina Spike, che sembrano responsabili della capacità di questa variante di eludere gli anticorpi neutralizzanti (efficacia 10 volte inferiore).
Da notare che le mutazioni a carico di E484 sono quelle più efficaci nel minimizzare la capacità di riconoscimento da parte degli anticorpi neutralizzanti. Altri siti con simile rischio sono L455, F456, G485, F486 e F490. A conferma di tale "resistenza" ci sono i risultati del vaccino Novavax che mostra un crollo al 50% di efficacia nel "braccio" dello studio clinico condotto in Sudafrica.
Uno studio condotto in laboratorio usando plasma "immune" (lavoro ancora in revisione) indica che questa variante è meno sensibile all'azione degli anticorpi neutralizzanti, sia quelli presenti naturalmente nei soggetti guariti che nelle persone vaccinate con Pfizer o Moderna. L'elemento centrale di tale "resistenza" sembra essere l'azione combinata sulla morfologia della proteina di E484K e le altre due mutazioni.
Stesso discorso della figura sopra. La freccia indicante la posizione della E484K è solo quella centrale. Le altre frecce indicano le altre mutazioni presenti nel ceppo sudafricano.

EDIT 05/05/2021. Uno studio pubblicato su The Lancet basato sull'efficacia del vaccino Pfizer in Israele mostra una protezione intorno al 95% dopo due dosi, confermata anche nelle aree in cui la variante B.1.1.7 è prevalente

Fonte
- Comprehensive mapping of mutations to the SARS-CoV-2 receptor-binding domain that affect recognition by polyclonal human serum antibodies


Variante brasiliana 

Nome ufficiale P.1 o B.1.1.248 o GAMMA.
Manaus è considerato l'epicentro della variante.
La linea contiene 10 mutazioni a carico della proteina Spike, tra cui la classica N501Y e "l'inglese" E484K
La preoccupazione è nella mutazione E484 che la rende meno riconoscibile dagli anticorpi neutralizzanti. Un dato allarmante è che nonostante l'analisi sierologica avesse mostrato che ad ottobre il 76% della popolazione di Manaus era già stato infettato, questo non ha evitato che a fine dicembre si registrasse un picco di infezioni mai così alto. Le possibili spiegazioni vanno da errori nei test alla perdita di immunità sia per ragioni intrinseche alla durata degli anticorpi sviluppati che per l'emersione di varianti capaci di superare questa protezione
Per altri dettagli --> The Lancet

Ogni punto rappresenta un genoma SARS-CoV-2, mentre le linee indicano "il ramo" evolutivo. Al centro il genoma virale al momento del passaggio in essere umano. Più ci si allontana dal centro, maggiore il numero di mutazioni. Nella figura sono indicati per semplicità solo le tre varianti principali (Image credit: NextStrain via theconversation.com, CC BY)



Variante californiana 
Epsilon (B.1.427 e B.1.429)
La variante, appartenente al clade 20C, è stata chiamata CAL.20C la cui mutazione caratterizzante è L452R (proteina Spike) identificata per la prima volta in Danimarca a marzo. In totale sono 3 le mutazioni che distinguono questa dalla B.1.1.7.

La variante ha dato luogo a diversi grandi focolai nella contea di Santa Clara, appena fuori San Francisco; diversi studi recenti, ancora in via di pubblicazione, hanno suggerito che Epsilon è più infettiva (40% circa) rispetto ad altre varianti, e che sembra in grado di sfuggire con più efficacia alle difese del sistema immunitario.
 
Per ulteriori dettagli vedi l'infografica sul sfchronicle

Il primo indizio di CAL.20C risale a luglio, rimasto come unico esempio fino a ottobre. Già a novembre aveva raggiunto il 25% dei campioni analizzati, il 36,4% ad inizio gennaio per arrivare al 50% di settimana scorsa (10 gennaio).
La variazione della frequenza relativa della variante in meno di 1 mese
(clicca QUI per l'intervista a Charles Chiu della UCSF)


Aggiornamento 02/2021
Il suo attack rate secondario è intorno al 35% contro il 25 del ceppo classico.
Alcuni dati indicano un maggiore rischio di ospedalizzazione e di entrata nelle ICU (e a cascata un maggiore mortalità) ma si tratta di analisi preliminari.
Quello che appare preoccupante è che la capacità degli anticorpi neutralizzanti di riconoscere questa variante è tra 2 e 4 volte inferiore il che si traduce nella probabile necessità di adeguare il vaccino.
Come ha fatto a diffondersi così in fretta? Tra i tanti comportamenti che hanno aiutato c'è il caso del dipendente di un ospedale che si era vestito da albero di natale e che ha trasmesso inconsapevolmente   il "suo" virus ad altre 90 persone e si parla di solo quelle sintomatiche).

Variante nigeriana (linea B.1.207) 

Mutazione caratterizzante è P681H. Ad oggi sembra limitata e non mostra alcuna caratteristica peggiore rispetto alla B.1.1.7 da cui sembra essere derivata.

Variante indiana 
linea B.1.617.2 o DELTA
linea B.1.617.1 o KAPPA

Di queste solo la Delta è catalogata come VOC. La KAPPA è ancora VOI.
Caratterizzante è la presenza di entrambe le mutazioni E484Q and L452R nel gene Spike. Uno studio di aprile 2021 condotto su colture cellulari ha evidenziato una maggiore efficienza di infezione e un certo grado di capacità di evasione dagli anticorpi presenti nel cosiddetto plasma convalescente.

credit: news-medical.net

Ad oggi questa pare essere la variante con il più alto indice di trasmissibilità, responsabile sia della crisi in India che dei nuovi focolai nelle Seychelles (dove pur gran parte della popolazione è vaccinata) e a Taiwan. Il numero di casi riferiti a questa variante sta rapidamente aumentando in UK 
India (credit: Victor Grubsky)

UK (credit: Victor Grubsky)

In India l'incidenza di questa variante è passata dal ~ 10% dei casi all'attuale ~ 80% nel giro di un mese. In UK si è passati da frequeze trascurabili a quasi il 25% dei casi in un mese. Il suo successo in UK è ancora più significativo perché sta prendendo il posto della variante virale dominante (Kent o B.1.1.7) che partendo da qui si è poi diffusa nel resto del mondo grazie ad una trasmissibilità del 50% -70% superiore. Le attuali misure di prevenzione e vaccinazione sono efficaci per la variante B.1.1.7 ma  la B.1.617.2 sembra non accorgersene.
A mia domanda diretta a Victor sui nuovi infetti la risposta è in un certo senso confortante in quanto si tratta di persone non ancora vaccinate. Rimane tuttavia da capire, e questo è molto complesso, se i vaccinati contraggano una infezione asintomatica della nuova variante che permette un certo grado di diffusione sotto traccia.
Le stime attuali indicano che la variante indiana diventerà dominante in UK ad inizio giugno.

Il caso Seychelles è però importante in quanto 1/3 dei nuovi casi aveva già ricevuto la doppia dose di vaccino; sappiamo che il 60% della popolazione vaccinata ha ricevuto Sinopharm e il restante AstraZeneca  (Seychelles brings back curbs despite vaccination success). La domanda spontanea è quindi se questo "buco" nella rete di protezione sia dovuto all'intrinseca minore efficienza di AZ e dei vaccini cinesi rispetto ai vaccini a RNA oppure se sia proprio il virus ad essere meno "visibile" al radar immunitario dei vaccinati tout court. 

A metà 2021 luglio questa variante è oramai la dominante tra i nuovi casi diagnosticati in USA e UK.
In USA è passata al 57% dal 31 in sole 2 settimane (https://covid.cdc.gov/covid-data-tracker/#variant-proportions)

La veloce diffusione di questa variante è un chiaro segno di un qualche vantaggio selettivo. Un articolo in fase di revisione (luglio 2021) mostra che il tempo di latenza tra esposizione e rilevazione del virus è di 4 giorni vs. i 6 del ceppo originale (quindi maggiore velocità di replicazione) e un maggiore titolo virale nei pazienti (fino a mille volte superiore).

Lambda 
linea C.37

Rilevata per la prima volta in Perù, si è ora diffusa in oltre 80 nazioni e costituisce il 10% di tutti i nuovi casi di infezione rilevati negli USA.

Necessari ulteriori studi per confermare ipotesi di maggiore trasmissibilità e resistenza agli anticorpi neutralizzanti.

Alla fine di agosto è stata identificata una nuova variante (C.1.2) che è ad oggi la più diversa rispetto al ceppo originale di Wuhan (1.0) creando di fatto rischi sulla tenuta dei vaccini di prima generazione.


Delta Plus 

Innanzitutto bisogna precisare che il nome "Delta Plus" era già stato utilizzato dai media per una diversa sottovariante di Delta. Un nuovo elemento di confusione causato da questa nomenclatura e da media poco attenti o competenti.
Conviene in genere sempre riferirsi al sito cov-lineages.org

Ad oggi non ci sono reali segnali di una sua diffusione eccessiva. Ha suscitato però l'attenzione perché sembra essere aumentata di frequenza in alcune località.




Variante sudafricana 2 
Nome ufficiale B.1.1.529 o OMICRON
Segnalata per la prima volta il 24 novembre 2021 da un campione raccolto il 9 novembre.
La rapida diffusione della nuova variante in Sudafrica (credit:ft.com)


La variante Omicron porta circa 50 mutazioni mai viste tutte assieme prima. Di queste 32 sono a carico della proteina Spike, alcune delle quali in grado definite preoccupanti per le caratteristiche conferite al virus. Ad esempio la D614G, N501Y e K417N sembrano aumentarne l'infettività. Per tale ragione è stata inserita nella tabella VOC.
Le mutazioni più rilevanti della variante Omicron (Image credit: ft.com)


I test diagnostici in uso per il momento sono sufficienti alla sua rilevazione, importante per evitare falsi negativi. 

Tabella comparativa mutazioni in 5 varianti (credit: E. Topol)

Delle tre linee Omicron, la terza è molto rara (credit: Nature)

Questa variante racchiude un mistero: com'è possibile che tutta questa serie di mutazioni sia passata sotto i radar per emergere all'improvviso?
I tratti genetici di Omicron hanno infatti più somiglianze con le varianti diffuse nel 2020 rispetto a quelle oggi dominanti come Beta e Delta. 
Varie le teorie formulate. L'opinione più popolare tra i virologi è che le mutazioni si siano accumulate nel corso dei mesi in soggetti immunodepressi portatori di una infezione cronica. Secondo altri ricercatori la spinta decisiva è venuta dall'utilizzo dei farmaci antivirali, il che non sorprende se pensiamo all'impatto del trattamento antibiotico prolungato nella genesi di batteri resistenti agli antibiotici, a cui si sarebbe poi aggiunto un crossover del virus in un'altra specie animale prima di tornare agli umani.
Che questa variante sia comparsa in Sud Africa non sorprende data la diffusione del HIV che è responsabile di una immunodepressione cronica.

Da un punto di vista della virulenza i dati sono ancora insufficienti. Tuttavia due cose sono note: si trasmette più facilmente della delta; predilige i bronchi invece dei polmoni il che potrebbe spiegare la maggiore facilità di trasmissione e anche la minore propensione a causare sintomi gravi.
image credit: med.hku.hkde


Altra particolarità di Omicron è il percorso per entrare nella cellula
Se infatti la via classica è contatto con recettore che favorisce la fusione tra la membrana virale e quella cellulare, Omicron sembra preferire la via endosomiale come accadeva al suo "antenato", il virus SARS. 


La capacità del sistema immunitario post-vaccinazione di neutralizzare la variante Omicron pur con tutte le sue mutazioni è attribuita alle difese cellulari più che a quelle articorpali. Vedi in proposito l'articolo su Nature pubblicato a gennaio 2022.





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