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Alla scoperta dell'origine dei dingo

Il dingo australiano, al pari del licaone africano e del crisocione sudamericano, è considerato genericamente come un cugino selvatico del cane, da cui si è staccato migliaia di anni fa. Una separazione quella del dingo non completa dato che gli incroci con il cane sono possibili e danno luogo a progenie fertile, un chiaro segnale di processo di speciazione non ancora completato.
Credit: Barry Eggleton via The Guardian
I cani moderni si sono evoluti dal lupo grigio in quella che un tempo veniva definita domesticazione ma che oggi è meglio definita come auto-domesticazione cioè una selezione spontanea di varianti del lupo grigio con minor paura innata di avvicinarsi agli accampanti umani e con indice di aggressività minore (vedi articolo precedente). Delle 340 razze di cani moderne gran parte hanno una origine recente (grazie ad una selezione umana attiva), databile negli ultimi 200 anni.
La domesticazione è invece databile al neolitico, in un intervallo di tempo tra i 29 e i 14 mila anni fa. Da quel momento i nostri amici pelosi si sono adattati ad una dieta (e ad un comportamento) molto diverso da quello dei lupi.
Altre caratteristiche selezionate sono meno evidenti ma nondimeno emergono chiaramente dall'analisi del genoma dei cani. Ad esempio la duplicazione di del gene codificante per la amilasi 2B, necessario per digerire l'amido, molto evidente in molte razze canine (alcuni ne hanno più di dieci copie); un chiaro adattamento alla dieta onnivora derivante dalla coabitazione con gli umani dediti alla agricoltura e infatti il lupo e il dingo (carnivori puri) hanno una sola copia di questo gene. È interessante notare che la stessa duplicazione genica si è verificata indipendentemente in altri animali recentemente addomesticati (maiali, etc) ad indicare come la selezione la selezione da "coabitazione".
Si ritiene oggi che il dingo, l'unico cane nativo australiano, rappresenti un evento unico all'interno dell'evoluzione canina, essendo arrivato in Australia tra i 5 e gli 8 mila anni fa, quindi molto dopo l'arrivo delle tribù aborigine, avvenuto nelle primissime fasi della migrazione dei sapiens ai confini asiatici.
La mancanza di informazioni certe sulla sua origine era anche dovuto ad un genoma solo parzialmente sequenziato, un passo fondamentale questo per una analisi comparativa con il genoma del cane domestico (Canis lupus familiaris) per quantificarne la distanza evolutiva.
Un "buco informativo" ora riempito grazie allo studio pubblicato su Science Advances da un team australiano, il cui primo passo è stato proprio sequenziare il genoma del dingo, usando come riferimento di distanza evolutiva il genoma del pastore tedesco e il basenji (la prima razza di cane utilizzata per la caccia in Congo) per i cani e il lupo della Groenlandia per i lupidi.
Credit: Matt A. Field et al, Science Advances (2022)


Dall'analisi è emerso che il dingo si è distaccato dalla linea dei cani moderni prima di quanto ipotizzato, molto prima del più antico cane domesticato, il basenji. Sebbene si sia certi che non vi sia stato alcun tipo di domesticazione successiva all'arrivo in Australia, non si può escludere che questo possa essere avvenuto prima, quando ancora si trovava in Asia, in aree già popolate da umani dediti all'agricoltura.



Fonte
- The Australian dingo is an early offshoot of modern breed dogs
Matt A. Field et al, Science Advances 22 Apr 2022 • Vol 8, Issue 16



Capire la luna Europa studiando i ghiacci artici

Europa è una delle lune di maggior interesse per gli esobiologi per la presenza di un oceano sotto la superficie ghiacciata che, secondo stime recenti, ha più acqua di tutta quella presente sulla Terra. Non è l’unica luna ad averla (vedi Encelado, una luna di Saturno) ma appare meno “contaminata” da idrocarburi, quindi più adatta ad ospitare forme di vita microbica.
credit: NASA/JPL/DLR.
Vedi anche il precedente articolo "Europa come non l'avevamo mai vista"

Uno dei misteri che circonda questa luna riguarda le creste ghiacciate che attraversano la superficie, la cui origine ha finora resistito ai tentativi di studio.
La probabile spiegazione delle doppie creste di ghiaccio (credit: CNN)
La struttura di Europa e il suo oceano sommerso (credit: NASA/JPL-Caltech/Michael Carroll)

Altro problema importante è che l’oceano si trova a profondità di 25 km rendendolo non accessibile a futuristiche sonde lì inviate ma indirettamente analizzabile (seppur al limite) a strumenti radar come quelli montati sulla sonda orbitale Clipper, il cui lancio è previsto per il 2024 e operativa in zona nel 2030.
La sonda Clipper analizzerà le profondità della luna Europa usando radar a due frequenze (9 e 60 MHz)

Arriva ora uno studio su Nature Communication, basato sui ghiacci artici a ridefinire la profondità alla quale si potrebbe trovare acqua liquida rendendo più facilmente studiabile l’oceano sotterraneo. Il tutto nasce quando i geologi impegnati in uno studio sui ghiacci della Groenlandia si accorsero, durante una conferenza sulla luna Europa, che le creste di ghiaccio qui presenti (fotografate la prima volta dalla sonda Galileo negli anni 90) somigliavano molto, seppur su scala maggiore, alle creste ghiacciate a forma di M che conoscevano bene.

Mentre la genesi delle formazioni sulla luna gioviana avevano eluso per decenni una chiara spiegazione, quelle della Groenlandia erano state studiate grazie alle rilevazioni radar dei satelliti, giungendo alla conclusione che fossero il risultato di sacche d’acqua presenti qualche decina di metri sotto la calotta, che erano andate incontro a ricongelamento e successiva fratturazione per la pressione esercitata dalle masse circostanti.
Se le doppie creste di Europa avessero una genesi paragonabile vorrebbe dire che devono esistere sacche di acqua molto meno profonde (circa 5 km) che l’oceano che le alimenta; sempre impossibili da raggiungere da una sonda ma meglio analizzabili mediante radar. Qualora esistesse vita nell’oceano sottostante è probabile che tracce di essa siano state trascinate anche in queste aree superficiali.


Fonte
- Double ridge formation over shallow water sills on Jupiter's moon Europa
 Riley Culberg et al, Nature Communications (2022)

Una linea diretta tra cervello e stato microbiota intestinale

I neuroni ipotalamici rilevano direttamente le variazioni dell'attività batterica nell'intestino e adattano di conseguenza l'appetito e la temperatura corporea. I risultati dimostrano l'esistenza di una comunicazione diretta tra cervello e microbiota intestinale.

L'intestino è considerato un secondo cervello non tanto per l'immagine comune di "reazioni viscerali" a particolari situazioni ma per l'elevata innervazione ad opera del sistema nervoso enterico e per il ruolo chiave giocato dal microbiota intestinale nella produzione di serotonina e a cascata il suo impatto sul  nostro stato mentale.
Il sistema nervoso enterico si basa sullo stesso tipo di neuroni e neurotrasmettitori che si trova nel sistema nervoso centrale
L'intestino ospita una vasta comunità microbica (nella quasi totalità batteri) con numeri intorno ai 1000 miliardi di batteri suddivisi in 300-1000 specie diverse. Dalla loro composizione dipende anche la nostra silhouette; molti sono oramai gli studi che dimostrano come la flora negli obesi, nei diabetici e nei malati del morbo di Crohn sia diversa da quella presente nei normopeso e come il trapianto del microbiota possa eliminare molti problemi.
Sul tema vedi i precedenti articoli (tag "microbioma"), ad esempio "microbioma: un ecosistema"
A completare il quadro arriva ora uno studio pubblicato sulla rivista Science in cui ricercatori francesi hanno scoperto che i neuroni ipotalamici sono in grado di rilevare direttamente le variazioni dell'attività batterica nell'intestino adattando di conseguenza l'appetito e la temperatura corporea. Un risultato che dimostra il dialogo diretto tra il microbiota intestinale e il cervello, e che potrebbe aprire la via per nuovi approcci terapeutici a malattie metaboliche come il diabete e l'obesità.
Nello studio condotto su un modello animale, i ricercatori si sono concentrati sul recettore intracellulare NOD2, importante per il riconoscimento di particolari molecole batteriche, i peptidoglicani; come tale non sorprende che sia espresso principalmente dalle cellule immunitarie 
Nello specifico NOD2 riconosce un tipo particolare di peptidoglicani noti come muropeptidi il cui nome indica i peptidoglicani associati alla parete cellulare batterica.
Varianti del gene NOD2 sono state associate ad un aumento (40x) del rischio di sviluppare il morbo di Crohn, nonché a malattie neurologiche e disturbi dell'umore.

I dati finora disponibili erano però insufficienti per dimostrare una relazione diretta tra l'attività neuronale nel cervello e l'attività batterica nell'intestino.
Grazie a tecniche di imaging cerebrale, i ricercatori hanno osservato che NOD2 nei topi era espresso anche da neuroni in varie aree del cervello, in particolare, nell'ipotalamo. Passo successivo è stato rilevare la scomparsa dell'attività elettrica di questi neuroni quando entrano in contatto con i muropeptidi batterici dall'intestino.
A riprova della correttezza dell'osservazione, se si eliminava NOD2 da questi neuroni, anche l'attività neuronale non era più soppressa in presenza dei muropeptidi. 
La presenza di muropeptidi nell'intestino, sangue e cervello è un biomarcatore dello stato di proliferazione batterica, più elevata e maggiore la crescita. Da qui il senso del sistema di feedback negativo per cui quando le cellule dell'ipotalamo rilevano una aumentata proliferazione, viene diminuita la voglia di assumere altro cibo e minore regolazione della temperatura. I topi femmina sono anche meno propensi a costruire un nido, indice che le condizioni non sono ideali. 
I topi mutati sono meno capaci di regolare l'assunzione di cibo e la temperatura corporea e in conseguenza sono sovrappeso e più suscettibili (specialmente le femmine mature) allo sviluppo del diabete di tipo 2.
 Credit: Institut Pasteur / Pascal Marseaud via neurosciencenews.com


In sintesi con questo studio si è dimostrato che i neuroni di un'area chiave del cervello (ipotalamo) sono in grado di rilevare direttamente la presenza (e la "conta") dello stato della flora intestinale e come tale operare le contromisure. Finora si riteneva che questa rilevazione fosse mediata dalle cellule immunitarie.
L'impatto dei muropeptidi sui neuroni ipotalamici e sul metabolismo solleva interrogativi sul loro potenziale ruolo in altre funzioni cerebrali e potrebbe aiutarci a capire il legame tra alcune malattie cerebrali e varianti genetiche di NOD2.

Fonte
- Bacterial sensing via neuronal Nod2 regulates appetite and body temperature
 Ilana Gabanyi et al, Science, 2022 Apr 15;376(6590)







Batteri giganti che non dovrebbero esistere ovvero il caso Thiomargarita magnifica

Nel 1977 il regno di Monera crollò.
Era un regno giovane con i suoi 50 anni, popolato da esseri microbici, privi di nucleo e di altri organelli, altrimenti noti come procarioti.
Il responsabile della sua cancellazione fu Carl Woese ma non perché fosse cattivo. Fu solo l'inevitabile risultato della meticolosa analisi comparativa da lui fatta sul RNA ribosomale che dimostrava come all'interno di questo regno fossero raggruppati organismi tra loro molto diversi.
Fu così che il regno Monera scomparve e i suoi abitanti vennero raggruppati in due regni che noi oggi conosciamo come Eubacteria (veri batteri) e Archaeabacteria (batteri arcaici) che si andarono ad aggiungere ai 5 regni Animalia, Plantae, Fungi e Protista.
Una classificazione semplificata dalla stesso Woese dopo una decina di anni in tre regni, ma che in questo inizio secolo ha poi visto altre riorganizzazioni soprattutto nell'ambito degli eucarioti.
La versione semplificata di tutto è che l'albero della vita si distingue in cellule con nucleo (eucarioti) e cellule senza nucleo (procarioti) divisi in due regni tra loro tanto diversi quanto lo sono da una cellula nucleata.
LUCA sta per Last Universal Common Ancestor.

All'interno di questo mondo affascinante (vi rimando a precedenti articoli sulla simbiosi che ha originato gli eucarioti moderni), non trovano spazio i virus per la semplice ragione che oggettivamente non possono essere considerati organismi mancando di tutti i tratti necessari (ad esempio il metabolismo) oggi usati per definire "vita". 
Vedi in proposito il precedente articolo su questo blog "Virus come quasi-organismi" e un articolo su Frontiers del 2021.
Questo non vuol dire che queste "stringhe di informazione" vaganti non si siano "evolute": dal momento della loro comparsa (per alcuni rappresentano una fase pre-biotica, per altri sono la degenerazione massima di antichi organismi) l'evoluzione ha agito anche su di essi, selezionando quelli che stavano "al passo" con l'evoluzione cellulare. 
Per l'albero evolutivo dei virus vi rimando alla figura a questa pagina.
Tra i tanti virus esistenti (ne conosciamo solo una infima minoranza, vedi i 5 mila nuovi virus appena scoperti nelle acque oceaniche) alcuni sfidano il senso comune come i virus giganti, più grandi di una nostra cellula. Il virus più grande finora trovato è il Pithovirus sibericum con i suoi 1,5 micron (il coronavirus è grande 0,12 micron).
I virus giganti vanno bene per cellule giganti quali possono essere alcune amebe (Amoeba proteus può arrivare a 750 micron). Nelle profondità abissali si è trovato un vero gigante unicellulare, lo xenophyophorea che può arrivare a 10 cm (pensate che un eritrocita non supera gli 8 micron). 
Il tema "dimensioni" non è solo materia da Guiness dei primati ma nasce da vincoli biologici, in primis la "sostenibilità" della cellula. Un organismo unicellulare deve infatti avere dimensioni che tengano conto di una superficie che diventa in fretta limitante all'aumentare delle dimensioni cellulari. Inoltre mentre negli eucarioti la cellula dispone di sistemi di trasporto interni molto raffinati, sotto forma di citoscheletro e di compartimenti (organelli) in cui fare avvenire reazioni specifiche, questi sono assenti nei procarioti in cui il sistema di "delivery" del cibo e dei mattoni costruttivi avviene principalmente per diffusione passiva. È proprio la velocità di diffusione a porre un limite alla dimensione batterica, che si assesta nell'intervallo 0,2-2 micron.
In sostanza se una cellula non può affidarsi alla sola diffusione passiva per trasferire i nutrienti dall'esterno alle zone dove servono, deve compiere un lavoro, e compiere un lavoro implica un cospicuo consumo di energia che i batteri non si possono permettere (gli eucarioti possono, avendo una centralina energetica sotto forma di mitocondri e plastidi).
A rimettere in discussione il dogma dimensionale nei batteri arriva la scoperta dei Magnificent Sulphur Margarita.
Tecnicamente il nome dovrebbe essere Thiomargarita magnifica (thio è il suffisso per zolfo) ma i ricercatori vollero mettere in risalto il nome Margarita.
Fino a un paio di anni fa questo organismo non solo era senza nome e noto a pochi biologi ma nemmeno era consideravato un batterio.
Tutto iniziò quando il biologo marino Olivier Gros notò fili bianchi, lunghi anche un centimetro, che aderivano alle foglie sommerse delle mangrovie.
Credit: Jean-Marie Volland et al
All'inizio ipotizzò che fossero funghi senza però riuscire a identificarne la specie (nulla di strano, meno del 10% dei funghi è stato caratterizzato). Pensò allora di prenderne un campione e di farlo analizzare in laboratorio dove però i suoi collaboratori osservarono che c'era qualcosa di molto strano. In sintesi non solo questo era in realtà un batterio ma era 50 volte più grande del batterio più grande noto (tanto grande da potere essere visto agevolmente al microscopio ottico il cui limite di risoluzione è 0,2 micron.
Credit: Jean-Marie Volland et al

Come prima scritto questa dimensione è sempre stata considerata impossibile nel mondo dei batteri a causa del limite intrinseco posto dalla diffusione passiva.

A questo batterio gram negativo chemolitotrofo non deve essere importato molto delle disquisizioni teoriche sulle dimensioni ed ha evoluto un modo per aggirare il limite: la parte interna della cellula è riempita per gran parte del suo volume da una sacca piena di liquido, che costringe tutto il contenuto intracellulare a ridosso della membrana (e parete) cellulare. Il vantaggio è immediato in quanto i nutrienti, per quanto grande sia la cellula, non devono diffondere molto tra il punto d'ingresso e quello di utilizzo essendo tutto lo "spazio vitale e operativo" ammassato all'esterno.
La sacca di liquido che riempie la quasi totalità del batterio. "V" indica il vacuolo, "S" granuli di zolfo (questo batterio ricava l'energia ossidando l'acido solfidrico a zolfo, che poi deposita come granuli nel suo periplasma). Essendo questi granuli altamente rifrangenti e opalescenti, la luce incidente da l'idea di una perla, da cui il nome (margarita in latino).  
Image credit: Jean-Marie Volland et al.

Come se non bastasse questi giganti hanno infranto un'altra regola, anzi un dogma, cioè il non possedere un nucleo (luogo in cui il genoma è racchiuso). Non si tratta in verità di un vero e proprio nucleo con tutte le sue caratteristiche strutturali ma di un compartimento semplificato.

In qualche modo, questi batteri hanno preso una svolta evolutiva inedita che finora non era stata considerata possibile.

Questo studio ci ricorda che la nostra comprensione dell'evoluzione della complessità biologica è incompleta e che molto lavoro attende le nuove generazioni di ricercatori.


Fonte
- A centimeter-long bacterium with DNA compartmentalized in membrane-bound organelles
 Jean-Marie Volland et al, BioRxiv (Feb. 2022)





Pubblicati i risultati (positivi) dello studio clinico di un farmaco contro la calvizie

Nel 2016 scrissi delle potenzialità (inattese) di un farmaco antiartritico nel trattamento della calvizie, sottolineando l'importanza dell'approccio noto come riposizionamento di un farmaco (drug repurposing).
Sullo stesso tema vedi anche le potenzialità di un farmaco originariamente sviluppato per la psoriasi.
È di pochi giorni fa la pubblicazione sul New England Journal of Medicine dei risultati dello studio di fase 3 del baricitinib, un inibitore delle proteine della famiglia STAT, noti trasduttori di segnale e attivatori dell'espressione genica. I test, condotti su 654 persone con alopecia areata severa, hanno mostrato risultati positivi alla 36 settimana in circa il 38% dei soggetti rispetto al 2% dei controlli trattati con placebo.
Da notare che lo stesso farmaco è stato approvato a settembre 2021 anche per il trattamento del COVID-19, grazie alle sue proprietà immunomodulanti. Ricordo che tra le cause principali della alopecia vi è una reazione autoimmune.

Fonte
Two Phase 3 Trials of Baricitinib for Alopecia Areata
Brett King et al, NEJM,  March 26, 2022


Il metano come biomarcatore più semplice per la vita su altri pianeti

Rilevare la presenza di forme di vita sarebbe complicato perfino sul “vicino” Marte figuriamoci in pianeti distanti (molti) anni luce da noi. Meglio una soluzione indiretta cioè cercare dei marcatori ambientali rilevabili con gli attuali telescopi (e successiva analisi spettroscopica), ad esempio molecole prodotte, anche se non in modo univoco, dall’attività biologica. Tra gli strumenti oggi disponibili per questo tipo di analisi il telescopio orbitale James Webb Space Telescope, arrivato a gennaio al punto di Lagrange 2 e in procinto di iniziare la sua attività di analisi.
Nota. L'analisi viene fatta durante il passaggio del pianeta davanti alla sua stella. È in questa fase che i contorni del pianeta forniscono informazioni sulla presenza e tipologia dell'atmosfera. 
Image credit: exoplanets.nasa.gov
L’ossigeno è chiaramente la prima molecola che verrebbe in mente per cercare tracce di vita, ma la sua rilevazione non è semplice (e univoca) a grandi distanze. Sarebbe inoltre riduttiva perché escluderebbe dalla rilevazione pianeti con vita primordiale, come era la Terra prima dell'evento noto come Grande Ossigenazione, avvenuto circa 2 miliardi di anni fa.

Discorso simile per l'acqua, sia per limiti analitici (vedi l'articolo di Ethan Siegel sul tema) che per la divisione nel mondo accademico circa la idoneità di pianeti oceano a permettere la comparsa della vita (vedi articolo su Scientific American).

Molto meglio il metano atmosferico che è più semplice da rilevare e non vincolato alla sola presenza di organismi aerobi (sebbene anche da questi prodotto in date circostanze).
L'analisi spettrografica di un pianeta distante 870 anni luce da noi fatta dal telescopio Spitzer (oggi pensionato). Pur essendo un gioviano caldo (quindi di sicuro non adatto alla vita) è da menzionare in quanto è il primo esempio di esopianeta ricco di carbonio. I dati ottenuti indicano che l'atmosfera di questo pianeta ha monossido di carbonio, metano in eccesso e poco vapore acqueo.
Image credit: NASA

Come potrebbe apparire l'analisi dell'atmosfera della luna Europa fatta dal JWST
(image credit: NASA-GSFC/SVS)

Il potenziale informativo (specie nella banda infrarossa) di pianeti distanti decine di anni luce
(image credit: discussion on Quora)

Il metano è chiaramente solo un pezzo del puzzle, i cui tasselli comprendono la geochimica, l’interazione con la sua stella e i tanti processi che possono influenzare l'atmosfera di un pianeta. 

Dato che il metano come biomarcatore può essere inficiato dalla produzione naturale (leggasi abiotica) dello stesso, servono linee guida per rimuovere "il fondo" dall'eventuale componente biologica. Viene in aiuto lo studio pubblicato questo mese sulla rivista PNAS.
L'articolo verte sull’analisi di una varietà di fonti non biologiche di metano, analizzate anche nel contesto delle condizioni atmosferiche per stabilirne la stabilità.
Tra le fonti non biologiche ben note (leggasi presenti sulla Terra) annoveriamo vulcani, dorsali oceaniche, camini idrotermali, zone di subduzione tettonica e perfino da comete e asteroidi.
Punto chiave è l'instabilità del metano nell'atmosfera (a causa di reazioni fotochimiche) il che implica che la sua presenza, deve avere una spiegazione "recente". 
Ad esempio si stima che su Marte il metano possa permanere per circa 400 anni. Da qui l'ipotesi che, in assenza di attività vulcanica da eoni, la quantità ancora oggi rilevabile possa essere attribuita a microbi nel sottosuolo oppure al rilascio del metano intrappolato nelle rocce.
In altre parole se vengono rilevati livelli significativi di metano su un pianeta roccioso, devi prima rimuovere tutte le fonti non biologiche e da qui fare la tara di quanto rimane. Se una volta normalizzato per vulcani (geologia, etc) i valori non coincidono allora ci sono buone evidenze che possa esistere in loco una attività di produzione, possibilmente, biologica.
Questo calcolo vale per i pianeti siti nella zona abitabile ma non per quelli orbitanti oltre la “linea del ghiaccio” che notoriamente (vedi Plutone e alcune lune) abbondano di metano pur in assenza di attività tettonica. La ragione è che il metano è la forma termodinamicamente più stabile in cui può esistere l’atomo di carbonio all’interno di una atmosfera riducente e ricca di idrogeno. Facendo il discorso opposto, se le condizioni sono diverse (presenza di ossigeno e ozono, cioè ambiente ossidante, e CO2) il metano diventa un potenziale biomarcatore.
image credit: cdn.britannica.com
Usando la Terra come riferimento (con tutti i limiti che questo comporta), la presenza di metano nell’atmosfera è riconducibile in primo luogo all’attività biologica e questo fin dagli albori della vita, essendo tale metabolita tra i più semplici da produrre. Il perfetto esempio di organismi che producono metano in ambiente anossico sono i metanogeni le cui due reazioni chiave sono la fermentazione dell'acetato verso CO2 e CH4, e l'ossidazione di H2 a produrre H2O. In senso "opposto" procedono i batteri metanotrofi che ossidano il metano a metanolo e poi formaldeide convertita infine ad acido acetico
Il ciclo del metano sulla Terra (credit: frontiersin.org)

Altro punto importante è che il metano atmosferico originato da fonti non biologiche è sempre "in compagnia" del monossido di carbonio. Se vi sono microorganismi, quest'ultimo è il materiale preferito sia come deposito dell'energia chimica (ricavata altrove) che per fissare gli atomi di carbonio, il mattone della vita organica. Secondo le teorie più recenti i processi non biologici difficilmente sono in grado di generare atmosfere planetarie ricche sia di metano che di anidride carbonica e con poco o nessun monossido di carbonio.
Da qui le considerazioni sviluppate nell'articolo per cui su un pianeta roccioso in orbita attorno ad una stella simile al Sole, il metano atmosferico potrebbe fungere da biomarcatore se:
  • l'atmosfera ha anche anidride carbonica;
  • il metano è più abbondante del monossido di carbonio;
  • non c'è una eccessiva presenza di acqua (reazioni acqua-rocce sono una fonte di metano). Come metro di riferimento consideriamo che sulla Terra l'acqua rappresenta lo 0,02% della massa totale.
Fissati i paletti minimi di cosa cercare, bisogna anche considerare che a causa di limiti intrinseci agli strumenti oggi disponibili, ci sarebbe un bias verso pianeti nella fase iniziale (microbica) dell'evoluzione, corrispondenti al nostro periodo Archeano, quindi un problema di falsi negativi. Il JWST dovrebbe migliorare la resa analitica.


  
Altre molecole con ruoli di biomarcatori sono state proposte e analizzate in altri articoli (vedi New Scientist, 2015)
Da ricordare che la presenza di idrocarburi a catena lunga non è sinonimo (solo) di vita. Un esempio ci viene dalla luna Titano la cui nebbia fatta di idrocarburi più lunghi del metano è il risultato di reazioni indotte dalla fotodissociazione del metano



Fonti
The case and context for atmospheric methane as an exoplanet biosignature

- Exoplanet Biosignatures: A Review of Remotely Detectable Signs of Life
EW Schwieterman et al, (2018) Astrobiology, 18 (6)





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