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La telecamera che "vede" anche dietro l'angolo

Precisiamo subito che non si tratta dell'ennesima trovata pubblicitaria di venditori che cercano, tra le altre cose, di rifilare occhiali ad i raggi-x per scrutare le meraviglie, maschili o femminili a seconda dei gusti, celate sotto i vestiti.
Si tratta invece di uno studio serio frutto delle ricerche svolte presso il serissimo Media-lab del Massachusetts Institute of Technology (MIT), lo stesso laboratorio che poco tempo aveva sviluppato una telecamera in grado di registrare alla velocità di mille miliardi di frame al secondo - FPS mediante un trucchetto di usare più dispositivi di registrazione e poi combinarli  (--> qui la notizia). 

Proprio partendo dagli studi condotti per realizzare questa tecnologia i ricercatori sono stati capaci di "visualizzare" oggetti fuori dal campo visivo della telecamera.
In termini molto semplici la tecnica si basa su un laser e sui fotoni riflessi da uno schermo posto vicino all'oggetto nascosto. Alcuni dei fotoni "rimbalzati" colpiscono l'oggetto e vengono in seguito catturati dal sensore della telecamera. Un processore elaborerà quindi le informazioni ottenute e ricostruirà l'immagine occultata.
I risultati sono molto interessanti.
Meglio di tante parole il video che segue da l'idea della tecnica usata.
(clicca QUI se non vedi il video) Credit: MIT & Nature


Fonte
- A camera that peers around corners
MIT/news 


Come funziona il laser "freddo" nella terapia

Qualche settimana fa ho parlato della pressione negativa come metodo per accelerare la guarigione delle ferite ad alto rischio infezione.
Un altro approccio egualmente importante è quello basato sul laser, nello specifico la terapia laser a bassa intensità (Low-level laser therapy  - LLLT) o, se vogliamo, laser freddo.
La LLTT sfrutta un raggio laser rosso o nel vicino infrarosso (lunghezza d'onda tra 600 e 1000 nanometri) e potenza da 5 a 500 milliwatt, ed ha come caratteristica principale la non produzione di calore; da non confondere quindi con i laser usati in chirurgia per vaporizzare tessuti o cauterizzare i vasi sanguigni, la cui potenza è intorno ai 300 watt.
Tra i molteplici utilizzi del laser freddo, oltre al trattamento delle ferite, c'è quello di ausilio nel trattamento di tubercolosi, disturbi della articolazione temporo-mandibolare, affezioni muscolo-scheletriche e nella riabilitazione. Secondo alcuni è perfino utile per smettere di fumare.

Nonostante l'ampia gamma di utilizzi, non si tratta di una tecnica particolarmente diffusa e nota al grande pubblico. Due sono le ragioni principali: nonostante i successi manca una completa comprensione del suo meccanismo di azione a livello molecolare, cellulare e tissutale; inoltre l'alto numero di parametri di cui bisogna tenere conto per sviluppare i protocolli di trattamento (lunghezza d'onda, fluenza, tempi e numero di trattamenti, polarizzazione, etc) rende la tecnica difficilmente standardizzabile.
Ad aggiungere variabili vi è poi la progressiva diffusione dei LED come sorgenti luminose per la LLLT, più economici e capaci di emettere lunghezze d'onda simili a quelle dei laser, ma con gamma di emissione più ampia rispetto al "puro" monocromatismo della luce laser. La diffusione della tecnica, sotto il nome di terapia LED, in ambulatori di chiropratica dovrebbe mettere sull'avviso i potenziali utenti ... .
I diversi tipi di laser

Come può la LLLT indurre una risposta biologica?
A differenza dei laser "caldi", centrati sull'effetto termico, la LLLT induce una reazione fotochimica nella cellula, nota come biostimolazione (o anche fotobiomodulazione).
La fotobiologia (vale a dire la capacità dei fotoni di produrre un effetto biologico) si basa sul principio che quando la luce colpisce delle molecole  chiamate cromofori, l'elettrone esterno passa al livello superiore "eccitando" la molecola. Tale effetto è strettamente correlato alla natura quantica della radiazione elettromagnetica, per cui i fotoni sono in grado di trasferire "pacchetti discreti" di energia a molecole "ricettive", vale a dire molecole i cui elettroni necessitano di quel particolare "pacchetto" per passare allo stato eccitato. La radiazione infrarossa, meno energetica rispetto a quella del visibile, ha minor effetto eccitatorio e una maggiore capacità di indurre un effetto noto come transizione vibrazionale.


Il fenomeno è ben evidente nella fotosintesi, dove la luce "eccita" la clorofilla (batterioclorofilla nel caso dei cianobatteri, alias alghe blu-verdi), ma vale anche per le flavoproteine (coinvolte sia nella fotosintesi che nella bioluminescenza) e perfino per l'emoglobina. Il caratteristico colore associato alla presenza di questi cromofori è funzione di quali sono le lunghezze d'onda assorbite, quali riflesse e quali passano "intonse" attraverso il materiale; da qui il colore verde della clorofilla, giallo delle flavoproteine e rosso per l'emoglobina

Ci serve però un altro tassello per capire l'utilità del laser freddo in biologia e per questo bisogna introdurre un fondamentale organello presente in tutte le cellule eucariote, il mitocondrio (--> qui un articolo recente in questo blog).
I mitocondri sono le centrali elettriche della cellula eucariotica, responsabili della completa scomposizione delle molecole organiche a CO2, per produrre energia chimica sotto forma di una molecola nota come ATP. Attraverso il processo di fosforilazione ossidativa (la respirazione cellulare) gli elettroni estratti durante la scissione delle molecole organiche (ossidazione) vengono canalizzati, come un vero e proprio flusso di corrente, sulle creste della membrana interna del mitocondrio dove passano da un "complesso proteico all'altro e usati per "ricaricare" l'ATP dalle sue componenti esauste (ADP e fosfato), e infine scaricati/neutralizzati sull'ossigeno a formare acqua.
L'ATP può essere visto come una sorta "batteria ambulante" in quanto trasportatrice  dell'energia chimica che verrà utilizzata dagli enzimi per catalizzare le innumerevoli reazioni che avvengono nei vari distretti cellulari.
Esperimenti oramai classici hanno mostrato che nei mitocondri esposti ad un raggio laser (del tipo elio-neon) si aveva un aumento della respirazione cellulare (misurabile dal consumo di ossigeno) e con essa la produzione non solo di ATP e NADH, ma anche di proteine e RNA. Un effetto simile lo si ha quando un tessuto è esposto a radiazioni a bassa intensità.
Questo fatto spiega per quale motivo dosi minimali di radiazioni ionizzanti sembrano fare bene alle cellule, fenomeno come vedremo poi spiegabile con l'attivazione di meccanismi di salvaguardia della cellula. Tuttavia è bene ricordare che gli effetti delle radiazioni sono la somma di effetti deterministici (di natura fisica, con effetto proporzionale alla dose ed esistenza di soglia minima di sicurezza) e di effetti stocastici (non esiste una soglia minima in quanto l'effetto è livello genetico), quindi ogni "esposizione" alla radiazione può da un punto di vista probabilistico (di entità variabile a seconda della lunghezza d'onda) causare una mutazione.
Limitandoci alle radiazioni non ionizzanti, la gamma ottimale di onde elettromagnetiche necessarie per ottenere un effetto biologico "sicuro" è quella con lunghezze d'onda comprese tra la luce visibile e l'infrarosso vicino.

Sebbene queste osservazioni avessero fornito un utile tassello per capire il meccanismo d'azione della LLLT sui mitocondri, rimaneva da capire quale fosse al loro interno la struttura molecolare che fungeva da cromoforo, il "sensore" della luce. Il "responsabile" fu in seguito trovato nel complesso IV (alias citocromo-c ossidasi / CCO), il punto terminale della catena di trasporto degli elettroni nel mitocondrio, quello in cui avviene "l'incontro" tra elettroni ed ossigeno e protoni a formare acqua (--> figura).
Ottimo, ma questo pone una nuova domanda: cosa avviene nel CCO, e poi a valle, una volta assorbita l'energia luminosa?

A livello cellulare, la LLLT è in grado di indurre la fotodissociazione dell'ossido nitrico (NO) dal complesso CCO. Il fenomeno è interessante in quanto le cellule sotto stress producono alti livelli di NO (grazie all'enzima NO sintasi) che va a spiazzare l'ossigeno normalmente "ospitato" dal CCO provocando così un calo nella sintesi dei prodotti chiave (ed energicamente fondamentali) della respirazione cellulare, come l'ATP.

Sommando tutti questi elementi si può capire come un trattamento laser capace di favorire la fotodissociazione del NO dal CCO, possa controbilanciare gli effetti dello stress cellulare che sono evidenti con l'accumulo di NO, ripristinando la funzionalità della centralina energetica e a cascata la produzione sia dell'ATP che di un regolatore chiave da esso derivato come l'AMP ciclico.

Tutto risolto?
No, in quanto bisogna sempre ricordare che la respirazione cellulare produce spontaneamente (a causa della "perdita" di alcuni elettroni che non vengono debitamente neutralizzati con la formazione di acqua dall'ossigeno) specie chimiche reattive note come radicali liberi, che la cellula cerca di tenere sotto controllo mediante processi di detossificazione. Sebbene l'azione continuativa dei radicali liberi sia alla base dell'invecchiamento cellulare, queste molecole sono funzionalmente utili, ad esempio nella difesa antimicrobica e per l'eliminazione delle cellule danneggiate, grazie anche all'attivazione di fattori proteici redox sensibili (che rilevano la variazioni dello stato di ossidazione) come NF-kB e AP-1, che a loro volta attivano a cascata geni con funzioni protettive.


Riassumendo il tutto, il laser freddo agisce stimolando i naturali processi di guarigione grazie alla compensazione dello stato di stress cellulare e alla attivazione di fattori di trascrizione che coordinano la risposta genica anti stress (tra cui quelli coinvolti nel processo di guarigione tissutale).


Riprendere a camminare dopo una lesione spinale. Positivi i primi test sui primati

Per più di un decennio Grégoire Courtine, un neuroscienziato della École polytechnique fédérale de Lausanne, ha fatto il pendolare Svizzera-Cina su base settimanale, in alcuni casi solo per qualche decina di ore. La ragione di questo tour de force era il monitoraggio dei test condotti su primati non antropomorfi nell'ambito degli studi sul recupero della motilità dopo la paralisi da lesioni spinali. 
Test molto complicati da fare in Europa e in USA.

Tralasciando alcune ovvie considerazioni sulla cecità burocratica (vedi nota a fondo pagina), si può oggi dire che i risultati sembrano avere ripagato gli sforzi logistici del ricercatore. Secondo quanto emerge dall'articolo apparso sulla prestigiosa rivista Nature, Courtine e il suo team sono riusciti a fare camminare di nuovo scimmie con lesioni al midollo spinale, grazie ad una comunicazione wireless tra il "comando" cerebrale e gli elettrodi inseriti a valle della lesione. E' importante sottolineare che non si tratta solo della capacità di fare muovere un arto (cosa già testata negli umani) ma anche, e soprattutto, della comparsa di coordinazione e funzione portante, elementi essenziali per la locomozione.

Schematizzazione del "bypass wireless" che ha permesso alla scimmia di tornare a camminare.
Image credit: A. Jackson Nature 539, 177–178 (2016)

Un risultato che chiaramente apre interessanti prospettive terapeutiche basate sulla "bioelettronica" per le tante persone rimaste paralizzate in seguito ad incidenti stradali.

Non è superfluo ricordare che il risultato non è il frutto di uno studio estemporaneo ma deriva da almeno un decennio di test fatti prima sui ratti e poi, quando le evidenze erano tali da rendere ragionevole questo approccio, sui primati. 
In sintesi, nella prima parte del progetto si sono mappati i segnali che il cervello invia ai muscoli delle zampe posteriori quando l'animale cammina su un tapis roulant. Solo allora si è cercato di ricreare (decodificandoli) gli stessi segnali a valle del sito della lesione. Segnali che non solo dicevano alle gambe di muoversi ma che dovevano indurre il feedback sensoriale necessario al mantenimento della postura; camminare non vuol dire solo "muovere le gambe" ma avere un certo ritmo, coordinazione, postura e sostentamento del proprio peso.
In parole semplici hanno registrato il segnale nell'animale sano e poi lo hanno "ritrasmesso" a valle della lesione nell'animale paralizzato, con l'idea di riottenere movimento e postura paragonabili.
L'esperimento è riuscito. Il segnale una volta giunto negli elettrodi proseguiva nel suo percorso naturale lungo i nervi e a cascata sui muscoli responsabili del movimento. Una camminata non perfetta ma funzionalmente utile, priva dei classici problemi di trascinamento del piede e con l'animale che riesce a mantenere la postura sostenendo il proprio peso (il che è veramente un risultato importante).

Come detto non si tratta di una procedura totalmente nuova. Esempi interessanti sono i risultati ottenuti su persone prive della capacità di muovere gli arti superiori (a causa di paralisi o amputazioni) che riuscivano a muovere un braccio robotico (per bere, spostare un oggetto o anche giocare ad un videogioco) grazie a cuffie con sensori in grado di captare il comando cerebrale del movimento, poi trasmesso all'arto meccanico (vedi --> "La mano bionica che trasmette il tatto"). 
Lo studio condotto ora sui primati rappresenta un passo ulteriore che riassume in se difficoltà notevoli: camminare, mantenere la postura, reggere il proprio peso ed evitare gli ostacoli.

Video credit: EPFL

Un ottimo risultato certamente ma c'è ancora molto lavoro da fare prima di pianificare approcci simili (ma meno invasivi) sull'essere umano. Per tutta una serie di ragioni. 
Si dovrà prima di tutto migliorare il processo di trasduzione sensoriale (il processo di decodifica del cervello umano è più complesso) ma soprattutto si dovrà riuscire a farlo in tempo reale. Se nel caso dei test sulle scimmie si è trattato di "ritrasmettere" una registrazione del movimento, diventa ora cruciale trasdurre "in diretta" il comando "cammina" e il feedback sensoriale "mantieni la postura".
L'obbiettivo ultimo è quello di "equipaggiare" le persone paralizzate con una sorta di esoscheletro nella parte inferiore del corpo in grado di sostenere il peso dell'individuo e di farlo muovere a suo piacimento. Invece di elettrodi invasivi il paziente indosserebbe un qualche caschetto in grado di rilevare gli impulsi cerebrali e poi una specie di "pantalone/imbragatura" in cui entrare ogni mattina prima di iniziare una giornata in perfetta autonomia.

(articolo successivo su argomento correlato --> Stentdrode)

Fonte
- Neural interfaces take another step forward
Nature, news
- A brain–spine interface alleviating gait deficits after spinal cord injury in primates
M. Capogrosso et al, (2016) Nature 539, 284–288



Nota
Il risultato per la scienza europea  è un danno doppio. Non solo si dirottano in Cina gli studi di frontiera (con ovvie ricadute economiche e culturali) ma, usando un vecchio adagio, "si butta il via il bambino insieme all'acqua sporca" data l'incapacità manifesta di rendere le cose semplici per studi riconosciuti come scientificamente validi.
L'ennesimo caso di "fuoco amico" dove la creazione delle sacrosante regole per regolamentare l'etica sperimentale va a colpire in primis coloro che seguono le regole e che pieni di buona volontà iniziano la trafila burocratica per ottenere il permesso dalle autorità preposte. I costi associati, ma soprattutto la mole documentale (per esperienza, e senza esagerare, posso dire che si supera in molti casi il migliaio di pagine) necessaria solo per iniziare il percorso, si sommano alla incertezza sui tempi per ottenere una risposta, qualunque sia. Risultato, le regole invece di scremare i progetti inutili, dirottano la ricerca in toto verso oriente dove il pragmatismo ma soprattutto la chiarezza della regolamentazione la fa da padrone. E al giorno d'oggi vietare da una parte quando la stessa cosa è consentita a qualche ora d'aereo produce il solo effetto di perdere ogni controllo su quanto viene fatto (vedi a tal proposito --> "Il turismo delle staminali").
Non siamo molto distanti dalla posizione di molti paesi europei che vietano in loco la coltivazione dei prodotti transgenici salvo poi fare spallucce  sul fatto che la quasi totalità dei mangimi utilizzati (di importazione) è dichiaratamente transgenica (--> "Ragionare sugli OGM". 
Vedi anche l'articolo "Reform regulations to make pet clinical trials easier
Trials in animals can aid both veterinary and human medicine, but complicated rules can stifle them
", Nature 2016.

Fumare troppa "erba" provoca un deficit di dopamina

Il precedente articolo sulla cannabis ha sollevato alcune domande sull'annosa questione della effettiva capacità di questa droga di indurre dipendenza come avviene con altre sostanze.

Sebbene l'esistenza di una dipendenza da erba sia da sempre negata con veemenza (in genere dai fruitori ...), i dati oggi disponibili vanno nella direzione opposta, cioè che l'erba non solo ha un effetto sul funzionamento cerebrale (come ovvio che sia essendo una sostanza psicotropa) ma produce anche uno stato di dipendenza, meno accentuato è vero rispetto ad altre sostanze ma nondimeno presente.
Del resto le crisi di astinenza non sono tutte uguali; il "craving" (lo stimolo, o in alcuni casi la necessità "fisica", che attiva un comportamento proattivo di ricerca) per una certa sostanza, presenta intensità e modalità diverse a seconda della sostanza, dipendente dalle vie neuronali che va ad alterare. Le manifestazioni possono andare da un profondo stato di malessere fisico e psichico (esempi classici sono l'astinenza da eroina e alcol) ad un malessere più psicologico (ma sempre di origine "organica") come nel caso della cocaina. Che i sintomi siano ansia, depressione, irritabilità, stato confusionale o vere e proprie crisi di astinenza (con manifestazioni fisiche molto importanti) è solo correlato a cosa e come il principio attivo va ad alterare.
La sindrome da astinenza da Coca Cola è una riprova di quanto anche bevande innocue ma contenenti sostanze psicotrope siano in grado di indurre (in casi estremi di assunzione ripetuta) fenomeni di dipendenza. Dipendenza qui indotta da caffeina (e forse zuccheri) e non certo dagli alcaloidi delle foglie di coca (assenti nella miscela da almeno un secolo).
Generalizzando al massimo possiamo dire che ogni sostanza o stimolo che agisce sul circuito cerebrale della ricompensa (non solo sostanze chimiche quindi ma anche sesso e gioco d'azzardo) è in grado di attivare un comportamento volto a "ricercare" l'agente stimolante, una volta che l'effetto della precedente "dose" sia scomparso.
Tornando al caso cannabis, nessuno ha mai messo in dubbio che sotto il suo effetto le persone siano più predisposte a fare cose alquanto stupide, ma in genere si è sempre minimizzato l'effetto o le conseguenze sul lungo periodo. Non per reale volontà di occultamento ma perché si tratta di effetti meno potenti o evidenti rispetto a quelli indotti da altre droghe (oppiacei, metanfetamine, alcol, ...). Stesso discorso sui potenziali effetti a lungo termine a carico delle capacità cognitive.

Quali sono le evidenze scientifiche sul rischio dipendenza da cannabis?
Le ricerche condotte sul tema negli ultimi anni hanno permesso di illuminare molte zone d'ombra, nello specifico il legame tra un uso intensivo di cannabis e la diminuzione del livello di dopamina nel cervello. Un aspetto questo importante in quanto uno squilibrio nella dopamina produce una serie di effetti a cascata come il calo nell'efficienza mnemonica, nelle capacità di attenzione e di problem-solving (abilità a risolvere problemi).
La dopamina è il neurotrasmettitore chiave del sistema di ricompensa cerebrale, la cui attività è alla base della nostra sopravvivenza non solo come individui ma come specie: tutte le attività essenziali (cibo, sesso, e in generale qualunque cosa provochi uno stato di piacere e/o diminuisca l'ansia, che è poi lo stato di "ricerca inappagata di piacere"), passano direttamente o indirettamente attraverso la produzione di dopamina.
La dopamina fa molto altro ancora come dimostrano i sintomi associati alla sindrome del Parkinson conseguenza diretta della morte in massa dei neuroni dopaminergici.
La dopamina viene rilasciata dai terminali presinaptici di specifici neuroni in risposta a stimoli percepiti come piacevoli; mangiare una torta, fare sesso o assumere alcune sostanze neuroattive hanno come punto in comune il rilascio di dopamina. Questa è la ragione per cui non esitiamo a mangiare il nostro dolce preferito o cerchiamo di ripetere lo "sballo" del fine settimana.
Non è un luogo comune quello della ricerca del piacere. Si tratta di uno stimolo potente in quanto noi siamo programmati per questo; la selezione ha fatto in modo che ogni attività "positiva" (per l'organismo ma soprattutto per il successo come specie) fornisse una gratificazione immediata e lo stimolo a "ripeterla" quando l'effetto indotto fosse scomparso. Le droghe non fanno altro che attivare circuiti preesistenti che ovviamente esistono per tutt'altro motivo che per "sballare". Ne deriva che lo stimolo che induce "piacere" non potrà mai essere appagato se non temporaneamente. A questo si aggiunge un problema tipico di alcune droghe come gli oppiacei in cui, per ragioni fisiologiche, il fruitore non riuscirà mai a ripetere la sensazione provata la "prima volta", il che indurrà una sensazione crescente di desiderio inappagato. Vasco Rossi, una persona al di sopra di ogni sospetto in quanto a perbenismo disse tempo fa "... bisogna imparare subito a divertirsi senza, anche perché prima o poi bisogna farlo per forza".
L'uso eccessivo di sostanze psicotrope provoca uno squilibrio nei livelli fisiologici di dopamina in aree del cervello come il corpo striato, che ha un ruolo centrale nella pianificazione e nella modulazione dei movimenti e in una varietà di processi cognitivi. Una minore funzionalità del corpo striato produce non a caso un calo delle performance motorie e cognitive.
Due vie fondamentali: dopaminergica (centri del piacere e ricompensa) e serotoninergica (umore, memoria, ossessioni

Per sintetizzare il tutto in una frase: il THC - il principio attivo della cannabis - ha una azione stimolante sui neuroni dopaminergici e questo spiega il suo effetto "piacevole". Se la stimolazione è ripetuta si genera uno squilibrio cronico e questa è la causa dei suoi effetti negativi sul lungo periodo.


Gli studi
Alcuni studi possono aiutare a contestualizzare quanto ho scritto nei paragrafi precedenti mostrando le conseguenze di un uso cronico di cannabis.
THC
Particolarmente interessante il lavoro pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry in cui i ricercatori hanno quantificato, mediante tomografia ad emissione di positroni (PET),  il livello di dopamina nel corpo striato di 11 pazienti con dimostrata dipendenza da cannabis. Per monitorare la effettiva produzione di dopamina, i volontari sono stati analizzati prima e dopo aver ricevuto per via orale una dose di amfetamina, una sostanza capace di stimolare il rilascio di dopamina. Se confrontati con i soggetti di controllo le persone con dipendenza mostravano livelli ridotti di dopamina, una chiara indicazione della minore capacità di rispondere allo stimolo dopaminergico.
Test cognitivi condotti in parallelo mostravano che le persone con dipendenza avevano punteggi peggiori dei controlli sia nella funzionalità mnemonica che nella capacità di mantenere l'attenzione. La ridotta produzione di dopamina nei consumatori cronici si correla quindi ad una minore funzionalità cognitiva.
Il punto debole di questa analisi viene da un vizio metodologico, rilevato dagli stessi ricercatori con la frase "non è possibile affermare che vi sia una incontrovertibile relazione causale" tra l'uso di cannabis e il deficit di dopamina, dato che non si può escludere "che la ridotta produzione di dopamina  fosse una condizione preesistente invece che il risultato del consumo di cannabis".
Il problema è intrinseco alla tipologia dei test effettuati in quanto la prova definitiva la si sarebbe ottenuta solo comparando le performance nei test prima e dopo l'insorgenza della dipendenza, un test impossibile da fare per ovvi motivi etici.
D'altro canto se fosse vero che i soggetti avevano in partenza livelli di dopamina inferiori rispetto ai controlli, il dato rafforzerebbe il concetto espresso nell'articolo precedente sul fatto che alcune persone sono più predisposte di altre all'abuso di sostanze psicotrope (-->"Dipendenza da cannabis e depressione").

Per completare il quadro gli autori dello studio hanno misurato anche i livelli di glutammato, il più importante neurotrasmettitore eccitatorio, in una regione essenziale per la formazione della memoria nota come ippocampo. Lo studio nasce dalla conoscenza (ottenuta dall'analisi delle persone che soffrono di schizofrenia) che alti livelli di glutammato in questa regione si associano ad una riduzione di dopamina, e da qui la comparsa di sintomi psicotici. La domanda ovvia era: il consumo di cannabis può essere associato, almeno nei consumatori abituali, ad un rischio di schizofrenia?
Fortunatamente in questo caso la risposta è stata negativa o, per essere più precisi, non ci sono indizi scientificamente dimostrati in merito.

In conclusione per stimolare i circuiti centrati sulla dopamina non c'è niente di meglio (e più salutare) che una bella fetta di torta e lasciare l'utilizzo dell'erba a chi ha patologie per le quali il suo utilizzo non solo è sensato ma anche preferibile rispetto agli oppiacei.

Nota. Qualche settimana dopo avere scritto l'articolo è stato pubblicato uno studio sull'effetto combinato cannabis e nicotina, in cui si osserva che la nicotina minimizza i problemi di memorizzazione tipici della cannabis "pura". Un utile esempio che ci ricorda l'importanza di dissezionare ogni problema nelle sue componenti; nel caso del fumo di sigaretta il danno è legato ai prodotti della combustione che sono cancerogeni e non nella nicotina che ha una azione neurostimolante (sebbene il rischio dipendenza sia un utile memento per evitare abusi). Fonte UCL/news 
Fonti
- Deficits in striatal dopamine release in cannabis dependence
E van de Giessen et al, Molecular Psychiatry (2017) 22, pp. 68-75
- Imaging dopamine transmission in the frontal cortex
R Narendran et al, Molecular Psychiatry (2014) 19, 302-310
- Striatal and extrastriatal dopamine release measured with PET
M. Slifstein et al, Synapse (2010) 64(5): 350–362






Tepui. Le "terre dimenticate dal tempo"

I Tepui sono una "terra dimenticata dal tempo"?

Un"cult"
(meglio del remake)
L'immaginario legato all'esistenza di "terre dimenticate dal tempo", aree isolate e ancora da scoprire che hanno mantenuto intatte le caratteristiche naturali di un mondo preistorico, è da sempre un espediente di successo sia in ambito letterario che cinematografico. In verità è riduttivo etichettarla a puro espediente narrativo essendo l'idea basata sulle molteplici scoperte naturalistiche, il cui esempio più noto sono i dati raccolti da Darwin durante il viaggio intorno al globo a bordo della Beagle.
Invidio profondamente gli esploratori di fine '800 che univano il pensiero positivista e razionale alla esplorazione di territori totalmente ignoti.
Ma esistono territori così isolati da essere divenuti con il tempo dei sistemi biologicamente "chiusi"? Gli esempi non mancano e si riferiscono in genere a isole come le Galapagos la cui particolare flora e fauna è il prodotto sia di una differenziazione locale dopo la separazione dall'antenato comune che di specificità ambientali (assenza di predatori, di competitori, etc).
Tra gli esempi di animali che sembrano provenire direttamente da un lontano passato abbiamo rettili come i draghi di Komodo (una sorta di mini-dinosauri anche se è bene ricordare che i veri discendenti dei dinosauri sono gli uccelli e non i rettili oggi esistenti meglio definibili come lontani "cugini"), gli armadilli (mammiferi corazzati), ornitorinchi ed echidnei (mammiferi così primitivi che ... depongono le uova), dipnoi (pesci con polmoni primitivi) e perioftalmi (pesci in grado di respirare all'aria aperta portandosi l'acqua nelle branchie).
Nota. Giusto per fare un po' di "genealogia", gli antenati degli uccelli appartenevano al clade Paraves da cui originarono anche i velociraptor. Andando più indietro nel tempo troviamo il clade coelurosauria, stessi antenati del T. rex. Per trovare l'antenato in comune tra rettili moderni e dinosauri bisogna invece risalire al thecodontosaurus vissuto nel medio Triassico superiore. Quindi se volete guardare un erede dei dinosauri guardate la gallina e non il coccodrillo. Per l'albero vedi QUI.
Tutti questi curiosi animali, da alcuni definiti fossili viventi, vivono in aree certamente remote (Australia e isole del pacifico) ma non totalmente isolate; manca quindi la caratteristica fondante, almeno da un punto di vista immaginifico, di "terre dimenticate dal tempo".
La domanda allora è quali siano, se ancora vi sono, le aree in cui potrebbero potenzialmente esistere ecosistemi unici arrivati a noi direttamente da un passato remoto. Meglio ancora se con caratteristiche analoghe a quelle immaginate nella narrativa classica ("Il mondo perduto" di Arthur Conan Doyle ad esempio).
--> Amazon
Una ricerca non facile e quasi fuori tempo massimo, con la progressiva antropizzazione ambientale che abbatte molte barriere naturali, ma aiutata dalla mappatura satellitare che ha reso osservabili zone del pianeta che prima necessitavano di spedizioni di settimane dal più vicino avamposto solo per essere raggiunte. Forse sorprenderà scoprire che queste zone esistono e sono veramente una fonte di sorprese scientifiche, sebbene ben difficilmente troveremo in esse dei velociraptor o anche solo delle trilobiti nelle sue acque.
La localizzazione di queste aree è eterogenea: dalle profondità oceaniche ancora così poco esplorate ma ricche di forme di vita inconsuete fino alle gigantesche grotte/laghi sotterranei (leggete --> qui la scoperta di un "lago preistorico" sotto il territorio canadese) e ancora le impenetrabili (per quanto?) aree della giungla amazzonica oppure i Tepui, le torri di roccia che spuntano dalla foresta creando ambienti unici a centinaia di metri di altezza.
E sono proprio i Tepui, portati alla ribalta proprio da Doyle nel 1912, ad avere catturato la mia attenzione. In fondo basta guardare queste formazioni geologiche per immaginare un sistema ecologico "quasi" chiuso ("quasi" in quanto gli uccelli non hanno infatti problemi a usarlo per nidificare). Sistemi non perfetti da un punto di vista immaginifico di un mondo isolato in tutto e per tutto ma sufficienti per stimolare missioni scientifiche.
Una curiosità la mia che sono riuscito a soddisfare solo dall'alto su un Piper e attraverso i resoconti di chi è riuscito a penetrare in quel mondo.***
L'Auyantepui, sito nel Venezuela è uno dei tepui più noti,non il più alto (credit: hdwallpaperbackgrounds.net). Clicca QUI per le coordinate su Google Maps
I tepui, o "montagne del diavolo", poste sul margine settentrionale della foresta amazzonica, sono tra le montagne più notevoli della terra. Queste formazioni geologiche sono circondate da pareti a strapiombo che si innalzano fino a mille metri sopra la giungla circostante. Invece di picchi montuosi i tepui hanno sommità costituite da estese distese pianeggianti ricoperte di vegetazione. Per raggiungere la cime di molti tepui, ci sono solo due possibilità: scalare le pareti o usare un elicottero. Raggiunta la sommità di queste isole nel cielo, si scopre una vegetazione costituita da bassi alberi e arbusti che ospitano una varietà di animali tra cui rane e lucertole. Molte delle specie qui identificate non si trovano in nessun altro luogo del pianeta.

Sebbene "prossime" alle Ande, la storia geologica dei tepui è molto diversa; mentre le prime sono il risultato dell'attività vulcanica derivante dallo scontro tra due placche continentali (età media intorno ai 40 milioni di anni), i tepui sono strutture molto più antiche. Gli strati superiori della roccia sono di tipo sedimentario, originate dalla deposizione della sabbia sul fondo oceanico circa due miliardi di anni fa. Con l'innalzamento delle terre e l'esposizione all'aria queste rocce sono state via via erose e frammentate a partire da 300 milioni di anni fa. Il processo ha portato alla formazione dei tepui che già svettavano sulle terre sottostanti nelle fasi finali dell'era dei dinosauri (70 milioni di anni fa).
Furono proprio queste caratteristiche geologiche, oltre alla particolare inaccessibilità della struttura, a far risorgere, in onore di Conan Doyle, l'ipotesi "mondo perduto" per le specie animali e vegetali qui presenti.

Una miniera d'informazioni naturali così unica non poteva non essere studiata adeguatamente. Ed è così che un team di scienziati della università del Texas ha deciso di catalogare geneticamente (attraverso l'analisi del DNA) le specie qui presenti in modo da risolvere l'annosa questione circa l'origine. Come hanno fatto a raggiungere la sommità? Sono i discendenti di chi si è trovato via via isolato oppure ai primi abitanti si sono sovrapposti dei nuovi arrivati giunti fortunosamente sulla cima?
Un dilemma in parte risolto dall'analisi genetica di piccole rane che vivono sui tepui. La scelta delle raganelle come modello era in un certo senso "ovvia" dato che si tratta di animali che si muovono molto poco durante la loro vita. Una delle specie di raganelle studiate passa le giornate nascosta dentro una specie di pianta carnivora per uscirne solo di notte e andare a caccia di insetti; altro motivo della scelta è il fatto che il 90 per cento delle specie di rana che vivono su queste montagne non si trova in nessun altro luogo e possono così essere confrontate geneticamente con le "cugine" che vivono nella foresta sottostante.
L'analisi genetica offre un modo semplice per testare la distanza evolutiva tra due specie affini: confrontare l'accumulo di mutazioni tra zone omologhe del genoma non sottoposte a selezione equivale ad usare un orologio molecolare, dato che conoscendo il tasso di mutazione per generazione è possibile, una volta note le differenze genetiche, inferire la distanza in generazioni dall'antenato comune.
Dato che i tepui sono vecchi di 70 milioni di anni, la scoperta di una distanza genetica di "soli" 5,3 milioni di anni ha sorpreso i ricercatori; il dato indica chiaramente che, almeno per quanto riguarda le rane, la colonizzazione del tepui sarebbe avvenuta in tempi successivi all'isolamento. Tra le quattro specie analizzate alcune indicavano addirittura tempi di colonizzazione risalenti a poche migliaia di anni fa.
Una impresa, quelle delle rane incredibile, se si considerano l'altezza dei tepui, le abitudini stanziali della rana e la ripidità della salita. Ovviamente questo è solo un tassello di un mosaico ancora da comporre. Roy McDiarmid, un erpetologo presso lo Smithsonian Institute (che consiglio sempre di andare a visitare se passate da Washington), non getta alle ortiche l'idea del "mondo perduto" per le altre specie (animali e vegetali) lì presenti; alcuni dati preliminari ottenuti nel suo laboratorio sui rospi indicano infatti che i loro antenati vivevano sulla cima dei tepui già al momento della loro formazione.

Il vero pericolo è quello che non ci sia più molto tempo per raccogliere i dati. Il riscaldamento globale, evidente anche in queste zone, sta spingendo molte specie a colonizzare aree più fresche, poste ad altitudine maggiore. Il problema è che le specie che già vivono sulla cima del tepui non possono andare più in alto e sono quindi ad alto rischio di estinzione.

EDIT: uno studio pubblicato nel 2021 ha computato il numero di T.rex che la Terra ospitava in un dato momento, basandosi su una somma di dati come la frequenza di reperti, la probabilità di originare reperti, la distribuzione e la nicchia necessaria per la loro sussistenza. La stima è di 20 mila in ogni dato momento nel periodo di massima diffusione e miliardi lungo tutto l'arco dell'esistenza della specie. 

Fonti
- Ancient tepui summits harbor young rather than old lineages of endemic frogs
  Patricia E. Salerno et al, Evolution (2012) 66 (10) 

- It’s Not So Lonely at the Top: Ecosystems Thrive High in the Sky
  New York Times, 7 maggio 2012

Nati prematuri. Iniziare subito l'allattamento è vantaggioso

I bambini nati prematuri pongono al personale ospedaliero una serie di problemi direttamente correlati al grado di prematurità. Problemi che vanno dalla funzionalità respiratoria alla alimentazione. 
(®LosHawlos at Wikipedia)
La trattazione specifica di questi argomenti la lascio al personale medico di riferimento che in Italia è ben distribuita e può contare su strutture di eccellenza.
Il motivo per cui ne accenno in questo blog, che ricordo ha lo scopo di scovare notizie interessanti riportate da fonti validate, è la pubblicazione di uno studio epidemiologico (studio statistico che in questo caso indaga l'efficacia di azioni terapeutiche) condotto dall'università di Oxford. Lo studio mette il punto finale sul quando è meglio passare da una alimentazione per via parenterale alla via "classica ". Per i bambini mediamente prematuri è meglio iniziare già a 48 ore dalla nascita.

Le coliche intestinali, uno dei problemi più comuni nei neonati, sono causate sia dalla assenza di un equilibrio nella composizione della flora microbica (fondamentale per il benessere e la salute) che dalla immaturità dei meccanismi immunitari che nelle prime fasi viene gestito dagli anticorpi materni.
Di fatto si tratta del processo di colonizzazione intestinale da parte dei batteri e del "processo di aggiustamento" che porterà ad un equilibrio dinamico tra composizione della flora, tolleranza immunitaria e "sinergie digestive". 
Un problema ancora più importante nei nati precoci che, al netto dei problemi respiratori, vede nelle infezioni intestinali (che può culminare nella enterocolite necrotizzante) uno dei problemi maggiori. A causa di questo rischio il personale sanitario ha sempre preferito ritardare l'inizio della alimentazione con latte, optando per la somministrazione dei principi nutritivi per via endovenosa. Anche questa tuttavia non è esente da rischi, infezione e infiammazione epatica su tutti.
Mancava però di fatto uno studio comparativo che valutasse quale dei due approcci presentasse un rapporto rischio/beneficio migliore.

Lo studio a cui oggi faccio riferimento, coordinato dall'Unità Nazionale di Epidemiologia Perinatale dell'università di Oxford, ha coinvolto più di 400 bambini nati prematuri (nati almeno cinque settimane prima del termine) in  54 ospedali nel Regno Unito e in Irlanda. La comparazione è stata fatta tra neonati alimentati, parzialmente, con il latte già a partire dal secondo giorno dalla nascita, ed i controlli a cui il latte veniva dato come da prassi a partire dal sesto giorno. Nella grande maggioranza dei casi il latte fornito era quello materno.
I risultati hanno mostrato che il passaggio completo all'alimentazione "normale" (il latte) viene raggiunto prima nei bambini del primo gruppo. Dato importante, non si è riscontrata alcuna differenza nella frequenza di problemi intestinali seri, nei due gruppi.
Afferma Peter Brocklehurst, direttore oggi dell'Istituto per Salute delle Donne presso l'University College di Londra, "un allattamento precoce sembra essere la scelta migliore per i neonati prematuri, quelli a maggiore rischio ". Rischio che deriva sia dall'essere sottopeso che dal necessitare (in almeno la metà dei casi) dell'ausilio di strumenti respiratori di supporto. Inoltre, "un minor ricorso alla alimentazione per endovena elimina una serie di problemi e rende più veloce l'uscita dalla terapia intensiva". Lasciando libero il posto, aggiungo io, a quei bambini prematuri che maggiormente necessitano delle scarse risorse ospedaliere.


Fonti
- Oxford University, news
- Early or delayed enteral feeding for preterm growth-restricted infants: a randomized trial.
  Pediatrics. 2012 May;129(5):e1260-8
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