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Marte. Ultima frontiera (e i tanti ostacoli pratici al progetto Mars One)

Marte. Ultima frontiera
Questo potrebbe essere l'incipit delle cronache quotidiane di un futuro dietro l'angolo.
Courtesy of Bryan Versteeg/Mars One/MIT
 La voglia (o meglio l'istinto ineludibile della nostra specie) di esplorare l'ignoto associato ai drammi che la crescita senza freni della popolazione mondiale causerà nei prossimi anni rende obbligata la scelta di trovare nuovi spazi.
E Marte è di sicuro un luogo più adatto della Luna in quanto ad abitabilità potenziale. Potenziale appunto perché allo stato attuale nessuno potrebbe sopravvivere nemmeno un minuto sul "pianeta rosso", fintanto che non saranno approntate strutture adeguate e di lungo termine.
Molte sono le missioni progettate in questi anni e molto si è riuscito a fare (vedi le missioni dei rover). Ma si è solo all'inizio di questa avventura, che sarà sempre più guidata dagli investimenti privati; o almeno questo è vero per l'occidente dato che in Asia (Cina e India in primis) è lo Stato a dirigere gran parte dei progetti. Sia per motivi geopolitici che per consolidare il proprio "potere" presso la locale opinione pubblica.
Tra i progetti in essere cito oggi quello proposto nel 2012 da una organizzazione privata olandese (progetto noto come Mars One) che ha presentato da tempo piani dettagliati per stabilire la prima colonia umana su Marte entro il 2025 (segue video di presentazione).
 Da notare che il progetto prevede inizialmente l'invio di quattro astronauti per un viaggio di sola andata, finalizzato a costruire il primo insediamento umano permanente.
Giacinto De Taranto, uno dei candidati italiani al ruolo di
astronauta per la missione Mars One
(Credit: CorrieredellaSera)
 Il motivo del viaggio di sola andata è che il rientro è ancora più complicato a causa del trasporto del carburante necessario per il decollo da Marte.
Il punto chiave rimarcato dai progettisti è che il progetto fa perno su tecnologie già esistenti e quindi la missione (al netto delle risorse - umane ed economiche - da trovare) è, teoricamente, già fattibile.
Dubbi in proposito arrivato da ingegneri del celebre MIT di Boston che dopo avere simulato la missione sono giunti alla conclusione che la tecnologia attuale non è ancora sufficiente per assicurare la sopravvivenza dei primi coloni. Anche solo per un tempo di permanenza relativamente breve.
Tra i punti critici sollevati, cito i principali:
  • il progetto prevede che tutto il cibo necessario per buona parte del viaggio (la cui durata è stimata in poco meno di un anno) e la permanenza dovrà essere ottenuto da prodotti agricoli coltivati localmente, vale a dire sulla navicella e in serre apposite su Marte. Tale coltivazione genererebbe però  un eccesso di ossigeno che diventerebbe presto tossico per i coloni. Le tecnologie per filtrare l'aria e rimuovere l'eccesso di ossigeno non sono ad oggi disponibili (almeno per i volumi di filtraggio richiesti).
  • La scoperta del ghiaccio su Marte, fatta nel 2008 dal lander Mars Phoenix, è uno dei cardini su cui verte il progetto, cioè potere usare acqua locale. Ma anche qui lo studio del MIT invita alla cautela, dato che l'unica acqua presente è sotterranea e congelata e che per estrarla (e scioglierla) ci vogliono tecnologie adeguate e anch'esse non disponibili.
  • E' inoltre fondamentale che gli astronauti possano contare su voli di approvvigionamento dalla Terra per i pezzi di ricambio. Una necessità sempre maggiore con l'aumentare del numero di coloni. I calcoli fatti ipotizzano che per mantenere una colonia di dimensioni medio-piccole sarebbe necessario attivare un commercio interplanetario di entità pari al 60% del traffico commerciale attuale sulla Terra.
  • Quanti navicelle servono per trasportare i primi quattro astronauti e il materiale di partenza? Secondo le previsioni olandesi servirebbero sei navicelle del tipo "Falcon Heavy", il cui lancio dovrebbe precedere quello della navicella con umani. Secondo l'MIT il numero non è sufficiente e ne servirebbero invece 15. Il costo di trasporto base (riferito cioè solo a questa prima fase) oscillerebbe intorno a 4,5 miliardi dollari, valore destinato ovviamente a salire con in proporzione alla dimensione della colonia.
Differenza tra razzi cargo attuali e futuri (Credit: SpaceX e Universetoday)

Questo non vuol dire che il progetto non sia fattibile ma è precoce pensare all'invio di esseri umani in pianta stabile.
Altrimenti i volontari diventerebbero dei suicidi (inconsapevoli o meno) e la missione sarebbe destinata ad un fallimento certo.
 (leggi anche: "Dove atterrare su Marte?" ; "Il futuro delle missioni marziane"; "Le missioni lunari prossime venture")

Fonte
Mars One (and done?)
  MIT, news
- Il sito del progetto Mars One

Ebola. Possibile il contagio attraverso la pelle ?

Articolo precedente sull'epidemia di Ebola ---> "calcolo del tempo di quarantena")

L'infettività del virus Ebola
Tra le tante domande ascoltate le due classiche sono:
  • può il virus modificarsi e diventare in grado di infettare per via aerea (come il raffreddore e l'influenza)?
  • E' possibile il contagio per contatto cutaneo? Ad esempio per il depositarsi di una gocciolina di aerosol o di liquido sulla pelle priva di abrasioni evidenti. 
Se alla prima risposta si è risposto in un precedente articolo (QUI) il secondo quesito è più semplice ma necessita lo stesso di alcune spiegazioni.

Epidermide (©wikipedia)
La pelle della maggior parte degli animali è una barriera efficace contro le infezioni virali. Lo strato esterno della pelle umana, chiamato strato corneo, è costituito da uno strato di cellule morte cheratinizzate. Essendo cellule morte, nessun virus può, per definizione, replicarsi in esse o anche solo essere trasportato dalla superficie apicale a quella basale.
Nota. Per anni si è dibattuto (e ancora oggi i pareri sono contrastanti) se sia corretto definire un virus un essere vivente. Dato che non possiede tutti i parametri che definiscono la "vita" (vedi qui), ad esempio il metabolismo, il consensus è che un virus sia meglio definibile come una "stringa di informazioni", probabilmente originata da protocellule regredite, incapace di per sé di fare alcunché ma capace, in presenza di un substrato cellulare adatto, di riprogrammare la cellula ospite per produrre altre copie della stringa di informazioni.

Pertanto, qualsiasi virus che "atterri" sulla pelle, li rimane fintanto che non verrà rimosso da eventi esterni (come accade ad una particella di polvere per capirci). Alla domanda "per quanto tempo una particella virale rimane integra o semplicemente attiva" (in grado di modificare una cellula) la risposta è "dipende dal tipo di virus". Alcuni possono rimanere per anni in "standby" mentre altri (ad es, l'HIV) si inattivano dopo solo pochi minuti di esposizione all'aria aperta.

Che il virus possa fare danni dipende quindi dalla possibilità che ha di accedere alle cellule bersaglio. Più facile quindi, se la cellula bersaglio (quindi permissiva e suscettibile) è in prossimità della cute. Tornando all'esempio di un virus depositatosi sulla cute, il rischio aumenta se "casca" (i virus non si spostano autonomamente) all'interno di tagli o abrasioni. Non che siano necessarie ferite evidenti; bastano delle microabrasioni come quelle che derivano da attività quotidiane come la rasatura. Un semplice graffio invisibile può infatti alterare l'integrità della barriera naturale esponendo alla superficie le cellule vive sottostanti lo strato corneo.

Un paziente nelle ultime fasi di infezione da virus Ebola (ad esempio il paziente Dallas) libera nei fluidi corporei elevate quantità di particelle virali. Data la natura della malattia i fluidi arrivano sulla superficie e da li, in assenza di adeguate e rigorose precauzioni, possono entrare in contatto con la cute o peggio con le mucose (zone molte più a rischio) di chi presta assistenza. Anche in presenza di una cute perfettamente integra le mucose (di occhi, naso, bocca) sono prive dello strato cheratinizzato e quindi sono degli "ottimi" canali di accesso per il virus.
Nota. Anche una volta penetrato nell'organismo ospite, il punto chiave perché si abbia una infezione è che il virus raggiunga le cellule bersaglio, spesso molto distanti o irraggiungibili. Ancora una volta, virus diversi hanno un fattore di rischio infettivo diverso
Quanto scritto spiega per quale motivo sia necessario per chiunque svolga mansioni di assistenza a soggetti anche solo potenzialmente infettati, usare tute di contenimento adeguate. Ovunque si trovi.
Non c'è spazio per eroismi inutili (suicidi per se stessi ma soprattutto per la comunità) di chi, tra gli operatori sanitari (ONG o internazionali) ritiene sufficiente usare una mascherina o la propria disponibilità a curare. Serve una solida organizzazione alle spalle, in grado di gestire logistica e sicurezza. Al momento solo l'esercito americano può farlo.

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Altra domanda importante riguarda il pericolo di infezione nel periodo asintomatico.
Il consensus attuale è che il rischio sia praticamente nullo. Le basi di questa convinzione sono riassunte in due punti principali:
  • Il titolo virale (numero di copie di RNA per unità di volume ematico) è inferiore alla soglia di rilevazione (per altro molto sensibile) fino al giorno in cui compaiono i sintomi.
  • Una analisi retrospettiva dei precedenti focolai di infezione (tabella CDC) e la ricostruzione del percorso seguito dal virus per diffondersi (vedi l'albero di diffusione a partire da un "paziente zero" ---> QUI) evidenzia che in nessuno dei casi noti l'infezione è avvenuta per il contatto tra il soggetto x e il soggetto asintomatico. In tutti i casi l'infezione è avvenuta o durante l'accudimento del malato o nelle fasi di lavaggio e vestizione del defunto, come le usanze locali impongono.
Pur considerando questi dati scientificamente validi e non criticabili, non posso non rilevare la presenza di una zona grigia tra il momento in cui si sintomi si manifestano nella loro chiarezza e le ore immediatamente precedenti in cui verosimilmente ci sono avvisaglie di pochissimo conto e non rilevate dallo stesso soggetto. Ad esempio il medico newyorkese ora in terapia intensiva, aveva viaggiato tranquillamente in metropolitana. L'esordio della malattia si è avuto con la comparsa di fenomeni diarroici. Al che la domanda di cosa sarebbe successo se questi sintomi fossero comparsi mentre era in viaggio. Anche in questo caso vale la pena ricordare il motto "prevenire è meglio che curare". Questo andrebbe fatto capire all'infermiera americana che rientrata dall'Africa dove aveva lavorato con pazienti affetti da Ebola, si è vigorosamente rifiutata di entrare in quarantena facendosi fotografare con il marito in bicicletta nelle campagne del New England.

Il dettaglio del tipo di sintomatologia presente con il progredire dell'infezione dal momento in cui diviene manifesta (tra 4 e 21 giorni dopo l'infezione).
La tabella dei sintomi dal giorno 1 al 14.mo spesso associato al decesso



 Come si nota dalla tabella, la presenza di emorragie avviene tipicamente nella fase finale della malattia, e tra l'altro riguarda meno del 50 per cento dei pazienti. Come descritto in un articolo successivo, una delle caratteristiche peculiari dell'epidemia 2014 è la maggiore rilevanza di eventi gastrointestinali (principale causa di disidratazione) e una frequenza ancora minore di sanguinamenti diffusi.
Dove può essere trovato il virus nelle diverse fasi dell'infezione. Da sottolineare la persistenza del virus anche quando il paziente è clinicamente guarito; non a caso le aree in cui è presente sono zone "protette" dall'azione immunitaria . Non si hanno tuttavia evidenze che tale persistenza si accompagni a nuove infezioni. La protezione anticorpale è duratura. Sono ancora presenti gli anticorpi nei soggetti sopravvissuti dopo 11 anni dalla scomparsa dei sintomi (fonte CDC)


Un dato non ancora compreso ma chiaramente indicativo di modificazioni nel ceppo virale (Ebola Zaire) responsabile.

(articolo successivo su Ebola ---> "i numeri dell'epidemia")

Alzheimer. Migliorare lo stato cognitivo e mnemonitco è possibile (forse)

Alzheimer. Migliorare lo stato cognitivo e mnemonitco è possibile (forse)... ma solo se la malattia è in fase iniziale e se verranno confermati i risultati ottenuti da un team della University of California- Los Angeles (UCLA).
(credit: alzinfo)
Il morbo di Alzheimer (AD) è una patologia neurodegenerativa ad alto impatto umano e sociale, destinato a crescere nei prossimi anni a causa dell'aumento dell'età media e per l'assenza di terapie adeguate.
Intendiamoci, invecchiare NON è un accidente imprevisto che possa essere eliminato con una pillolina o una dieta attenta. E' vero che non si tratta di un fenomeno tipico di ogni organismo vivente ma di sicuro l'invecchiamento inteso come decadimento delle facoltà fisiche è una caratteristica comune a tutti i mammiferi (articolo centrato su questo tema, QUI).
Quindi più che combattere l'invecchiamento in sé, è molto più sensato cercare di comprendere quali siano i fattori di rischio genetico e ambientale in grado di spiegare perché il 30% circa degli ultraottantenni sviluppa l'AD mentre i rimanenti, al netto di altre forme patologiche, mantengano capacità intellettive nella norma. Comprendere cause e fattori di rischio di una patologia è il passaggio obbligato per identificare le persone più a rischio e disegnare su di esse trattamenti in grado di  rallentare o bloccare l'insorgere dei sintomi.
Cosa ben diversa questa dal cercare di invertire o bloccare l'invecchiamento tout court.

Una sfida su cui sono da anni impegnati molti laboratori di ricerca ma che finora ha fornito "solo" dati scientificamente interessanti ma troppo "vaghi" per poter essere utilizzati per sviluppare una terapia. Una "vaghezza" (virgolettato non casuale) che non dipende dalla qualità degli studi ma è la diretta conseguenza della complessità di una malattia che poggia su basi eterogenee.
Il 99% dei casi di AD è "sporadico", ossia si manifesta in persone che non hanno una chiara familiarità. Solo l'1% dei casi è causato da un gene alterato che ne determina la trasmissione da una generazione all'altra. Ad oggi sono tre i geni le cui mutazioni sono associate all'AD.

Le differenze tra un cervello sano e quello di un soggetto con Alzheimer avanzato (©wikipedia)
Di particolare interesse uno studio recentemente apparso sulla rivista Aging, prodotto da un team della UCLA guidato da Dale Bredesen, in cui si descrive un approccio su più livelli volto a bloccare sul nascere i sintomi della malattia. Il che è già di suo una notizia dato che al momento NON esiste alcun trattamento minimamente soddisfacente in grado di rallentare la comparsa dei sintomi e tanto meno in grado di produrre dei miglioramenti. Date le premesse, i dubbi con cui mi sono avvicinato all'articolo erano notevoli. Dopo averlo letto ritengo valga la pena commentarlo.
C'è da sottolineare che lo studio è assolutamente preliminare e con nulla significatività statistica essendo stato condotto su un micro campione di pazienti (dieci), ciascuno dei quali è stato sottoposto ad un programma terapeutico personalizzato il cui fine era rallentare la perdita di memoria.
Un obiettivo alquanto ambizioso e su cui era ben difficile scommettere dato che i sintomi dell'Alzheimer (e di gran parte delle altre malattie neurodegenerative) compaiono quando già il danno cerebrale è rilevante. Una volta perse le connessioni neuronali anche la memoria associata viene persa e sperare di avere miglioramenti funzionali quando viene a mancare il substrato cellulare è molto arduo da ipotizzare anche in un organo che fa della plasticità il suo punto di forza.

Tuttavia ... lo studio ha mostrato un miglioramento, soggettivo e oggettivo, in 9 dei 10 pazienti trattati. E questo è un dato di fatto.
Un dettaglio riportato sul sito news della UCLA aiuta a capire meglio il risultato. Al momento dell'inizio dello studio, sei dei pazienti reclutati avevano dovuto congedarsi dalle loro mansioni lavorative (in genere associate a responsabilità organizzative complesse) a causa della oggettiva impossibilità, da loro stessi riscontrata, a svolgere mansioni intellettualmente impegnative. Ebbene, dopo un certo numero di mesi dall'inizio del trattamento tutti e sei hanno potuto riprendere il lavoro dati i miglioramenti conseguiti.
Niente di miracoloso sia chiaro ma un ritorno a sintomi "accettabili".
Quanto tempo è durata la terapia? Meglio riformulare la domanda in altro modo dato che stiamo parlando di malattie progressive con le quali non è ipotizzabile un trattamento una tantum (almeno finché non si agirà sulle cause prime della malattia).
E' come immaginare una barca con una falla invisibile ai nostri occhi ma di cui vediamo l'effetto con il progressivo innalzamento del livello dell'acqua; l'unica soluzione disponibile è quella di svuotare la barca con un piccolo recipiente. Se il livello sale molto lentamente possiamo continuare a navigare per un certo periodo di tempo. Ma non appena smettiamo l'acqua torna a salire.
Meglio allora chiedere dopo quanto tempo dall'inizio della terapia si è cominciato ad osservare un miglioramento.
Il paziente in trattamento da più tempo è sotto terapia da due anni e mezzo, mentre per i primi segnali positivi è necessario attendere (nei soggetti responsivi) almeno tre mesi.
Ricordiamo ancora una volta che i pazienti ammessi allo studio erano nella fase iniziale della malattia, caratterizzata da perdita di memoria, lieve decadimento cognitivo, amnesia o deterioramento cognitivo soggettivo (percepito cioè dal paziente). Dei 10 partecipanti 9 presentavano sintomi lievi ma significativi, mentre il decimo era in fase più avanzata. Non a caso quest'ultimo soggetto è stato anche l'unico a non mostrare miglioramenti degni di nota durante il trattamento.
E' lo stesso Bredesen a sottolineare che sebbene i risultati siano "molto incoraggianti", il numero assolutamente esiguo del campione rende questi eventi "aneddotici". E' semplicemente una indicazione che consente di portare avanti la sperimentazione reclutando un numero molto maggiore di soggetti all'interno di uno studio clinico controllato.

D'altro canto non si può non tenere presente che per quanto aneddotico sia il risultato questo è il primo studio a mostrare che la perdita di memoria nei pazienti può essere invertita.

In cosa consiste allora il programma "riabilitativo"?
In sintesi (vedere l'articolo originale per ulteriori dettagli) si tratta di un programma complesso basato su 36 punti che agisce su molteplici livelli. Seguendo il detto "mens sana in corpore sano", si agisce ANCHE cambiando drasticamente la dieta, promuovendo esercizio fisico e ottimizzazione del sonno. I trattamenti farmacologici ci sono e sono diversi a seconda delle caratteristiche del paziente, e possono prevedere l'uso di vitamine. Infine si sfruttano una serie di altre attività in grado di agire sulla "chimica" del cervello.
Il razionale alla base di questo approccio multi-fattoriale nacque dalla constatazione che "negli ultimi dieci anni sono stati condotti centinaia di studi clinici sull'Alzheimer, tutti senza successo e con costo  superiore a 1 miliardo di dollari [NDB secondo me il dato monetario è fortemente in difetto]".
Mentre i progressi nell'ambito di altre malattie croniche come le patologie cardiovascolari e il cancro (ma anche l'infezione da HIV) sono stati continui e concreti, molto meno rilevanti sono i risultati (in ambito terapeutico) nel campo delle malattie neurodegenerative.

Proprio il fallimento degli approcci classici ha spinto Bredesen a cercare di comprendere meglio la natura fondamentale della malattia percorrendo strade meno battute. Dal lavoro condotto dalla sua equipe nel corso degli ultimi anni sono emerse le prove che l'AD deriva da uno squilibrio nella segnalazione delle cellule nervose e non solo dalla morte delle cellule, che rappresenta il punto finale e senza ritorno.
La "perdita della memoria" è in effetti una modalità operativa assolutamente normale nel cervello sano, un processo che impedisce il consolidarsi di ogni singolo evento sperimentato sensorialmente. E' l'equilibrio tra segnali opposti (che favoriscono o impediscono la stabilizzazione di connessioni sinaptiche) l'elemento cardine del cervello normale: alcuni stimoli favoriscono il consolidamento della memoria, altri (o l'assenza di altri) aumentano la labilità della connessione, evento che impedisce la formazione della memoria.
Nelle persone con AD è l'equilibrio di questi segnali opposti ad essere alterato. Se il processo di consolidamento viene meno, né risulta lo spostamento dell'equilibrio verso la labilità delle connessioni nervose. Proprio quello che avviene nell'AD dove è la capacità di formare nuove memorie la prima ad essere persa.
Un concetto quindi diverso da quello conosciuto ai più, e oramai in parte superato, che vede(va) nell'accumulo delle placche amiloidi la causa della malattia. Bredesen ritiene che il peptide beta amiloide, da cui originano le placche, abbia una funzione assolutamente fisiologica nel cervello, come la hanno tutte le molecole coinvolte nel processo della "fisiologica labilità della memoria". Nell'AD il problema sarebbe non nella beta amiloide ma nell'assenza di segnali di segno opposto, cioè di segnali che favoriscono il consolidamento della memoria.

Guardando alle nuove terapie sperimentate con successo su altre malattie il dato che emerge è che solo raramente (e per malattie monofattoriali) un solo trattamento è risolutivo. Molto più spesso è necessario agire su molti bersagli per avere una ragionevole certezza di efficacia.
Allora forse il punto chiave è proprio nel passare da un approccio univalente (ottimo per malattie monofattoriali) all'uso di terapie combinate in grado di agire su più livelli. Da qui l'idea di sviluppare l'approccio a 36 punti sopra accennato, "cucendolo" però sulle caratteristiche specifiche del paziente.
Nel caso specifico di un suo paziente che svolgeva mansioni lavorative intellettualmente impegnative e che si era accorto un giorno di non ricordarsi più la strada di casa, la terapia provata ha usato solo alcuni dei 36 punti del programma. Di seguito i punti principali:
  • eliminazione dalla dieta di tutti i carboidrati semplici, glutine e alimenti trasformati. Mangiare più verdure, frutta e pesce non d'allevamento.
  • Yoga e attività meditativa finalizzate a minimizzare lo stato di stress (e le conseguenze che questo comporta).
  • Dormire sette-otto ore per notte ma con sveglia prima dell'alba (tra le 4 e le 5)
  • Prendere melatonina, metilcobalamina, vitamina D3, olio di pesce e coenzima Q10 ogni giorno (sul tema "vitamine utili per malattie neurodegenerative?" vai QUI).
  • Curare attentamente l'igiene orale allo scopo di minimizzare gli stati infiammatori.
  • Nel caso specifico essendo una donna, si è riattivata la terapia ormonale sostitutiva, precedentemente interrotta.
  • Minimo 12 ore di digiuno tra cena e prima colazione, e un minimo di tre ore tra la cena e il momento di coricarsi.
  • Almeno 30' di attività fisica giornaliera, 4-6 giorni alla settimana
Il programma non è banale e impone la stretta collaborazione di pazienti, familiari e personale paramedico di supporto. Non a caso nessuno dei pazienti nello studio è stato in grado di rispettare l'intero protocollo; le lamentele più comuni riguardavano i cambiamenti di dieta e di stile di vita, oltre al dover prendere più pillole ogni giorno.
Nondimeno si tratta di un approccio altamente salutista i cui benefici si sono osservati sia con i test cognitivi che medici (migliore indice di massa corporea e quindi minori complicanze. 

E' un metodo scientificamente sensato? Diciamo che male non fa specie considerando che non c'è alternativa e che per quanto anedottici i risultati si sono visti.
Di sicuro ha giocato un ruolo non secondario il fatto che i pazienti reclutati in questo primo micro studio erano tutti soggetti motivati (probabilmente anche grazie al loro livello di istruzione); il fatto stesso di avere percepito loro stessi la comparsa di sintomi che sarebbero stati trascurati dalla maggior parte delle altre persone, ne è la prova e ha permesso l'inizio del trattamento in una fase ideale.
Una alimentazione adatta non è solo utile alle persone anziane con evidenze di Alzheimer ma alla popolazione anziana in generale proprio per prevenire o limitare il declino della capacità cognitive (vedi a tal proposito uno studio del Karolinska Institute di Stoccolma --> QUI)
La parola finale spetta però solo alla clinica e questa verrà solo quando un numero sufficientemente alto di soggetti potranno essere reclutati e i risultati valutati rigorosamente; di sicuro studi randomizzati ma ben difficilmente in doppio cieco, per ovvi motivi.

(per altri articoli sul tema "Alzheimer e ricerca" --> Alzheimer)

Fonti
- Memory loss associated with Alzheimer’s reversed for first time.
UCLA/news (2 ottobre 2014)

- Reversal of cognitive decline: A novel therapeutic program
Dale E. Bredesen, (2014) Aging, 6 (9) pp. 707-717

Ebola. Come si calcola il periodo di quarantena

Premessa. Non esiste una formula magica che permetta di definire a priori il tempo di quarantena perché questo è funzione del patogeno coinvolto e di come si manifesta la malattia indotta. Nei successivi paragrafi cercherò di mostrare la complessità sottostante con tutte le variabili biologiche in gioco.

Prima di entrare nella trattazione dettagliata del problema teorico mostro un modo empirico su come viene quantificato il tempo di quarantena "minimo" nel caso di una epidemia di SARS il cui tempo di incubazione medio è di circa 10gg.
Usiamo la SARS come esempio. Definendo come α la percentuale di soggetti infetti in quarantena che ad un dato periodo t mostreranno i sintomi della malattia, la figura qua sopra ci dice che ponendo α=90 questo periodo sarà di circa 10 giorni. Tempo minimo perché' se venissero dimessi tutti i sani al giorno 11, ci sarebbe il 10% di probabilità che qualcuno di loro manifesti i sintomi nei giorni successivi. Per precauzione si allunga di qualche giorno il tempo di quarantena in modo da appiattire la curva (credit: J. Wu / UHK) 



Passiamo ora ad analizzare per quale motivo determinare il tempo necessario varia tra epidemia ed epidemia. Per farlo torniamo all'epidemia di Ebola del 2015 con la scoperta di un soggetto malato appena rientrato dall'Africa.
Il caso Eric Duncan (QUI il riassunto) è un utile esempio di come un virus fino a ieri confinato alle foreste del centro Africa, possa varcare un oceano nel giro di pochi giorni. Non che questo sia sorprendente. 
La globalizzazione dei trasporti (di persone o cose) è da tempo la corsia preferenziale che virus e affini sfruttano per diffondersi al di fuori delle aree geografiche di origine. Oltre al caso della SARS il precedente più interessante è quello del West Nile Virus che si è diffuso dal Nord Africa grazie al trasporto di pneumatici (vedi il precedente articolo --> WNV).
Il WNV, responsabile di alcune forme di encefalite e meningite, si trasmette mediante la puntura delle zanzare le cui uova sono deposte nei residui di acqua presenti negli pneumatici. Le gigantesche navi portacontainer che attraversano gli oceani in continuazione chiudono la catena di trasmissione.
Minimizzare il rischio di importazione di malattie "esotiche" o almeno limitarne la diffusione è il fronte caldo di una nuova ed invisibile guerra. Se in alcuni casi il rimedio è "ovvio" una volta scoperto il vulnus (nel caso degli pneumatici, gli USA procedono ad una disinfestazione accurata prima di sbarcarli) nel caso di malattie trasmesse dall'uomo il problema è meno semplice.

Tornando all'esempio di Duncan, le ragioni che permisero ad Ebola di varcare l'oceano in poche ore sono riassumibili nelle falle nel sistema di controllo, sfortuna e omessa dichiarazione da parte del soggetto di essere a rischi. Risultato netto è che un soggetto a rischio altissimo che MAI avrebbe dovuto ottenere il permesso di imbarcarsi e tantomeno di passare i controlli frontalieri ... ci sia riuscito.
Riassumiamone i punti critici:
  • non c'erano embarghi per i voli dalle zone focolaio;
  • Duncan non dichiarò di essere stato a strettissimo contatto con malati di Ebola;
  • esiste un periodo di incubazione in cui il soggetto è asintomatico e magari (non nel caso di Duncan) inconsapevole di essere a rischio. Ad esempio, uno qualunque dei passeggeri che avendo volato al fianco di un infettato ancora asintomatico non sa di essere un soggetto a rischio.
Proprio su questo punto (periodo di incubazione) credo che valga la pena spendere qualche parola. Questo è il periodo che intercorre tra l'infezione e la liberazione di particelle virali potenzialmente in grado di infettare un'altra persona. La comparsa dei sintomi è una variabile che attiene "solo" allo stato di salute dell'individuo e non alla sua capacità di infettare terzi. Ma non esiste rapporto univoco: puoi stare bene ed essere contagioso ma puoi anche essere molto malato ma rappresentare per chi ti sta vicino un rischio sostanzialmente nullo.
Il periodo di incubazione non è semplicemente il tempo che intercorre tra il momento in cui il virus penetra nella cellula e quando viene liberata la progenie virale (un tempo di per sé breve). E' qualcosa di più complesso in quanto comprende l'entrata nell'organismo, il raggiungimento della cellula bersaglio sfuggendo ai sistemi di difesa nativi, l'entrata nella cellula, l'attivazione del programma di "dirottamento" dei sistemi cellulari a vantaggio del virus, la liberazione dei primi virus e infine il raggiungimento di aree a contatto diretto o indiretto con l'esterno (fluidi vari, aerosol, lesioni, ...). Solo a questo punto il virus è "disponibile" perché possa infettare qualcuno
In alcuni casi questo è semplice visto che il virus viene liberato con l'aerosol dell'espirato (influenza, raffreddore) o attraverso superfici contaminate (via oro-fecale come i norovirus). In altri casi (epatite B, HIV, Ebola, ...) l'infezione necessita di una esposizione diretta a fluidi corporei.
Il tempo necessario per la comparsa dei sintomi varia nelle diverse malattie e dipende dalla modalità di replicazione del patogeno, dalla risposta immunitaria e da altre variabili specifiche per ogni malattia. In sintesi andiamo da pochi giorni del virus influenzale agli anni che impiega l'HIV a manifestarsi sotto forma di AIDS.

Semplificando al massimo si può dire che tanto più è distante il luogo di replicazione (inteso come tipologia di cellule) dal luogo di entrata del virus e tanto maggiore è il tempo di incubazione.
Nota. I virus in generale non sono di "bocca buona". Per potersi replicare devono utilizzare in toto l'apparato traduzionale (e spesso anche trascrizionale) della cellula. Per riuscirci devono in primis avere le "chiavi" giuste per entrare nella cellula (cellula suscettibile) e inoltre la cellula deve produrre tutto quello che serve al virus per replicarsi (cellula permissiva). Entrambe le condizioni devono verificarsi perché l'infezione abbia successo. Questo il motivo per cui  i virus dell'influenza, della rabbia, l'HIV e gli altri colpiscono non solo una sola o poche specie ma possono infettare un numero estremamente limitato di cellule (epitelio respiratorio, neuroni, linfociti, ….).
Ma come ho detto si tratta di una generalizzazione e non è possibile usare unicamente questo criterio per predire esattamente il tempo di incubazione.
Più utile forse sottolineare che la sintomatologia compare per il verificarsi di almeno uno di due eventi:
  • la presenza di un numero sufficientemente alto di cellule infettate produttrici di nuovo virus;
  • la risposta del sistema immunitario.
Se coinvolge un numero sufficiente di cellule, si associa a profonde alterazioni funzionali del tessuto colpito. Nel secondo caso è proprio la risposta immunitaria la causa dei sintomi che comunemente associamo ad una infezione in corso (fiacchezza, febbre, nausea, …) ed è mediata dagli interferoni.

SE il virus non è prodotto a livelli elevati, SE non vi sono danni estesi e SE il sistema immunitario non si accorge dell'invasione in atto, il soggetto sarà asintomatico.

Quindi essere asintomatici NON implica in assoluto il non essere infettivi. Anche in questo caso dipende dal virus.
Due casi opposti. Una persona infettata con HIV ha sintomi passeggeri (e a volte nemmeno quelli) circa due settimane dopo l'infezione, dopo di che rimane sostanzialmente asintomatico fin quasi alla comparsa della malattia (AIDS) che può avvenire anche a distanza di molti anni (il tempo necessario perché la popolazione linfocitaria scenda sotto i limiti per il il corretto funzionamento immunitario). In tutto questo periodo il virus è immunologicamente invisibile (si nasconde dentro le cellule deputate al controllo), non straordinariamente proliferante ma presenta, in assenza di terapie, una viremia chiara (quindi è in grado di infettare il partner sessuale). Altri virus come l'Herpes Simplex rimangono sostanzialmente spenti e al riparo nei gangli nervosi fintanto che il sistema immunitario rimane efficiente (le lesioni periodiche che caratterizzano questa malattia sono dovuti a momentanei cali di efficienza del sistema di sorveglianza causato da stress, irradiazione solare, farmaci o altro). A differenza dell'HIV il rischio di infezione nel periodo asintomatico è pressoché nullo.

Ed Ebola? Quanto scritto sopra dovrebbe avere chiarito che non è possibile fare ipotesi a priori ma ci si deve basare sui dati disponibili, ottenuti sia dallo studio in laboratorio di modelli animali che dai dati clinici raccolti dalle precedenti epidemie.
I dati dicono che l'infettività nel periodo asintomatico è quasi nulla MA superiore a zero. OMS e CDC raccomandano di tenere in isolamento i soggetti potenzialmente esposti al virus per almeno 21 giorni, questo per evitare che un rischio potenziale diventi reale.

Perché 21 giorni?
Un recente articolo pubblicato su PLoS Current Outbreak da Charles Haas, affronta l'argomento "quarantena" in Ebola comparando i periodi di incubazione calcolati per i focolai precedenti. Epidemie, è bene ricordarlo, molto più limitate geograficamente (e per numero di casi coinvolti) di quella attuale. I dati sono i seguenti:
  • 1976 (Zaire). Tempo medio tra esposizione e malattia per i 109 casi rilevati pari a 6,3 giorni con una distribuzione compresa tra 1 a 21 giorni.
  • 1995 (Congo). 315 casi e 5,3 giorni di incubazione. Una analisi indipendente e posteriore a quella del 1995 ha esteso il tempo di incubazione a 10 giorni
  • 2000 (Uganda). 425 casi e 3,35 giorni di incubazione. Probabile sottostima del tempo data la difficile tracciabilità dei soggetti coinvolti
  • Le osservazioni sul campo riferite ai primi 9 mesi dell'epidemia attuale in Africa occidentale, fanno stimare all'OMS un periodo di incubazione medio di 11,4 giorni, con un limite superiore (e intervallo di confidenza al 95%) pari a 21 giorni. Da qui la definizione del periodo di quarantena richiesto.
  • Haas stima che il rischio di di sviluppare i sintomi dopo i 21 giorni di quarantena di tra lo 0,2% e il 12%. 
Più lungo è il periodo di quarantena imposto, minore è il rischio di agire come diffusori del virus, in caso si sia nella fase di incubazione. Ma protrarre la quarantena per più tempo del necessario ha un costo sia in termini economici che pratici.
Secondo Haas il periodo di quarantena ideale è quello che si ottiene dall'incrocio delle due curve di rischio per il costo-quarantena e costo-rilascio individui esposti (© Charles Haas)

Uno studio recente condotto in Liberia dalla università di Yale mostra che la mossa più efficace sul campo è quella di mettere in isolamento stretto il paziente prima che sia passato il quinto giorno dalla comparsa dei sintomi. I modelli epidemiologici mostrano che attuando questo isolamento su almeno il 75% dei nuovi malati è in grado di bloccare la diffusione della malattia (Yale/news).

Isolare un villaggio è più semplice che isolare ciascuna delle centinaia di passeggeri dei tre voli presi da Duncan, soprattutto e fatto dopo qualche giorno dalla scoperta del caso Nel caso specifico i tre voli presi da Duncan mentre era asintomatico (Monrovia-Bruxelles, Bruxelles-Washington, Washington-Dallas) hanno un profilo di rischio considerato accettabile per la tipologia del virus. Diverso il discorso se si fosse trattato di un virus trasmesso per via aerea come la SARS.
Dei tre voli precedenti il rischio maggiore è Washington-Dallas preso il giorno prima della comparsa dei sintomi.
Rischio espresso sempre in termini relativi: di sicuro il profilo di rischio di chi era seduto di fianco a lui sul volo per Dallas è maggiore di quello di chi ha interagito con Duncan all'aeroporto di Monrovia ma inferiore a quello di un familiare o dell'infermeria che lo ha avuto in cura nel reparto di terapia (infatti è ufficialmente il secondo caso in USA).

I controlli effettuati sui passeggeri del volo per Dallas diedero esito negativo.

 (articolo successivo sul virus Ebola ---> qui)





 Fonte
-  On the Quarantine Period for Ebola Virus
Haas CN. (2014) PLOS Currents Outbreaks. Oct 14. Edition 1. doi: 10.1371

Dolcificanti artificiali e diabete

Dolcificanti. Microbioma. Diabete. 
Una triade insolita ma non su cui vale pena indagare.

Da anni al centro i sospetti, i dolcificanti artificiali sono sempre riusciti a provare la loro innocenza ma … con beneficio del dubbio.
(Wikipedia, Steve Snodgrass)
 Un dubbio ragionevole tutto sommato dato che il giudizio di "non-colpevolezza" (diverso da innocenza) ha come base fondante il "buon senso comune" come l'attenersi alle dosi massime raccomandate. Il che non dovrebbe essere troppo difficile considerando che con una capacità dolcificante anche 200 volte quella dello zucchero, le dosi "necessarie" per ottenere l'effetto dolce sono estremamente basse ed è quindi ben difficile raggiungere la dose massima consigliata (espressa in genere come grammi per kg di peso corporeo).
... Sempre che non con la scusa delle "zero calorie" non si abusi dei prodotti dietetici o ci si dimentichi che molti dolcificanti sono labili al calore (quindi non solo perdono di "dolcezza" una volta cotti ma generano prodotti di degradazione).

E' appunto la mancanza di buon senso a causare i maggiori problemi, direttamente o indirettamente, legati al suo consumo:
  • utilizzare dolcificanti al posto dello zucchero non autorizza a consumare maggiori quantità di cibo. L'esempio classico lo si può osservare nei fast food (non solo in USA) dove predomina tra gli utenti la furbizia di associare bevanda dietetiche a portate più che ipercaloriche.
  • Un consumo eccessivo (ma sempre all'interno della fascia di sicurezza) di dolcificanti può causare problemi intestinali.
  • E' vero che i dolcificanti non sono in grado di attivare direttamente il rilascio di insulina dal pancreas ma bisogna considerare gli effetti indiretti.
Proprio su quest'ultimo punto (correlazione tra uso di dolcificanti e alterazioni metaboliche) verte l'articolo pubblicato pochi giorni fa da un team israeliano sulla rivista Nature.
Il tema è "dolcificanti, microbioma e diabete"; riassumendo il contenuto dell'articolo in due righe quello che emerge è che l'utilizzo regolare e sul medio-lungo periodo di dolcificanti induce intolleranza al glucosio attraverso la modificazione della flora intestinale.
Nota. E' ben noto oramai (e di questo ne ho parlato ampiamente in passato ---> QUI) che esiste uno stretto legame tra microbioma e il nostro benessere. Una relazione biunivoca visto che se da un lato la dieta modifica il microbioma, quest'ultimo ha un'azione importante sul metabolismo. Essere magri o obesi, vegetariani o carnivori, sotto terapia farmacologica o meno, sono tutti fattori che alterano la popolazione microbica da cui derivano a cascata variazioni sul nostro corpo (in un ciclo continuo). A riprova di questo gli oramai classici esperimenti che mostrano come il trapianto di materia fecale/intestinale tra l'intestino di un soggetto normale ad uno "alterato" (ad esempio con sindrome del colon irritabile) abbia un effetto migliorativo sulla sintomatologia.
L'articolo aggiunge un altro tassello a questo quadro, cioè che anche i dolcificanti (saccarina, sucralosio e aspartame) modificano le caratteristiche della popolazione microbica e il profilo metabolico poi. Tre sono i punti chiave:
  • l'effetto dei dolcificanti è annullato se si usano antibiotici. Quindi la componente batterica del microbioma gioca un ruolo chiave.
  • Gli effetti dannosi di una dieta arricchita con dolcificanti possono essere trasferiti in un topo che non ha mai ingerito dolcificanti (e allevato in ambiente asettico), semplicemente grazie ad un trapianto fecale.
  • uguale effetto lo si ha incubando con il dolcificante i batteri prelevati dall'intestino normale, prima di "reimmetterli" nel topo.
Nell'essere umano i dati sono indiretti ma non meno interessanti.
In un gruppo di 381 volontari non diabetici quelli che consumavano regolarmente dolcificanti artificiali (in particolare quelli che dichiaravano un uso maggiore della media) avevano livelli glicemici a digiuno più alti, minore tolleranza al glucosio e un diverso profilo microbico rispetto a quelli che non usavano i dolcificanti. Una differenza non dipendente da parametri come l'indice di massa corporea, fattori di rischio genetici o comportamentali (ad esempio una alimentazione sbilanciata).
Riassumendo:
  • i dolcificanti sono un fattore di rischio aggiuntivo (indipendente dalla dieta) se consumati in modo costante;
  • il microbioma per sé NON è un fattore di rischio (anzi abbiamo visto essere importante come fattore di protezione dal diabete --->QUI). Cruciali sono gli input dall'esterno che alterando l'equilibrio del microbioma si ripercuotono sul metabolismo dell'ospite.
L'uso occasionale o limitato di dolcificanti non è qualcosa di preoccupante per l'utilizzatore saltuario. Il campanello d'allarme deve invece suonare per coloro che indipendentemente dalla dieta seguita, pensano che sostituire gli zuccheri dalla loro dieta con surrogati (naturali o artificiali) sia l'opzione più sicura per evitare disturbi metabolici.
I surrogati anche se naturali non sono meno esenti da rischi come l'esempio del "famigerato" fruttosio insegna (---> QUI).

(Articolo successivo sul tema diabete ---> QUI)

Fonti
- Artificial sweeteners induce glucose intolerance by altering the gut microbiota 
J. Suez et al (2014) Nature 514(7521):181-6.
- Sugar Substitutes, Gut Bacteria, and Glucose Intolerance
The Scientist (17 settembre 2014)

Microbi intestinali e protezione dal diabete

Introduzione
Le malattie autoimmuni sono il risultato di una anomala e mal indirizzata attività immunitaria contro "se stessi"; in pratica anticorpi e in genere le proprie cellule immunitarie identificano come estraneo (non-self) una struttura molecolare (proteina, DNA,  …) che estranea non è, innescando così uno stato infiammatorio che, se non spento per tempo, diventa cronico e deflagra in una vera e propria guerra contro se stessi.
La patologia che ne risulta dipende da quale sia il tessuto attaccato dal "fuoco amico". Diabete di tipo I, sclerosi multipla e lupus eritematoso (LES) sono esempi di malattie ad eziologia autoimmune, i cui bersagli sono le cellule beta del pancreas, la guaina mielinica che ricopre gli assoni e il DNA (insieme a molte altre molecole in verità), rispettivamente.

Distinguere tra il se stessi e tutto il resto è una componente essenziale del funzionamento del sistema immunitario che però non è intrinseco; durante la maturazione delle cellule preposte alla nostra difesa, ogni "nuova recluta" viene testata nella sua capacità di distinguere tra "self" e "non-self".
Un compito fondamentale per un sistema che è "strutturato" per riconoscere invasori sempre nuovi, grazie alla sua capacità di produrre una varietà virtualmente infinita di effettori (recettori e anticorpi), capaci cioè di riconoscere qualunque molecola.
L'eliminazione delle cellule autoreattive, processo noto nei mammiferi come tolleranza centrale, avviene nel timo e nel midollo osseo e coinvolge linfociti T e B, rispettivamente. 
L'eritema a farfalla è uno dei segnali che è quasi sempre diagnostico del LES
(credit: Doktorinternet/wikipedia)
Il timo in particolare gioca un ruolo chiave essendo l'organo in cui avvengono i due processi chiave: prima la selezione positiva nella porzione corticale (sopravvivono solo le cellule in grado di riconoscere il MHC, cioè il complesso di proteine necessario per la presentazione degli antigeni alle cellule immunitarie) e poi la selezione negativa nella parte midollare (con il quale vengono eliminate le cellule autoreattive). Un processo simile, ma limitato alla selezione negativa, avviene nel midollo osseo per i linfociti B. L'essere umano ha una particolarità rispetto agli altri mammiferi dato che il timo regredisce dopo la pubertà diventando assolutamente secondario nel processo selettivo; ne deriva che la fase che va dallo stadio embrionale alla fanciullezza è quella critica per lo sviluppo di un sistema immunitario efficiente (leggi anche QUI).
Se durante il processo selettivo qualcosa va storto (o non avviene in modo efficiente) il rischio concreto è che entrino in circolo cellule poco capaci di attivare la risposta immunitaria quando necessario o al contrario cellule in grado di attaccare i propri tessuti.

Ci sono però altre situazioni in cui il sistema immunitario può attivarsi in modo anomalo. Ad esempio quando fattori di stress come agenti ambientali o virus alterano la struttura cellulare favorendo il rilascio o la presentazione su membrana di molecole per loro natura intracellulari. Molecole fino a quel momento nascoste ai pattugliatori immunitari diventano improvvisamente visibili trasformandosi in potenziali bersagli.
Si ritiene che alcune malattie autoimmuni (diabete e sclerosi) potrebbero proprio essere causate da un fenomeno in parte simile. Un virus con alcune caratteristiche "antigeniche" simili a quelle di una cellula scatena una risposta immunitaria diretta non solo contro il virus ma anche contro proteine antigenicamente simili ma del tutto "normali". L'ipotesi maggiormente accettata al momento è che il fenomeno autoimmune sia una concausa di predisposizione genetica e di cause ambientali/virus. Il problema è tanto più pressante dato il peso crescente nelle società occidentali di malattie "indotte" come diabete di tipo 1 e sclerosi multipla da una parte e l'aumento di allergie dall'altra.
A complicare le cose è la presenza di un terzo attore, il microbiota.
Microbiota. L'insieme dei microrganismi che risiedono in un dato ambiente, nello specifico le aree interne del nostro corpo ma connesse al mondo esterno, come l'apparato gastrointestinale. E' oramai assodato che i microbi che colonizzano stabilmente il nostro apparato gastrointestinale sono in grado di condizionare il nostro benessere. Sia nel bene che nel male. Se infatti alcuni organismi giocano un ruolo positivo (vedi digestione, produzione di vitamine, difesa da organismi patogeni) dall'altro è il mantenimento dell'equilibrio tra i diversi membri di questa variegata popolazione (che permette anche il controllo competitivo dei microbi pericolosi) l'elemento centrale. Equilibrio che può essere perso in seguito ad influenze esterne, come variazioni della dieta o terapie farmacologiche e antibiotiche)
Microbioma. Anche se questo termine viene a volte usato al posto di microbioma, il suo significato corretto è l'insieme dei genomi del microbiota che vive in un particolare ambiente.
(Per altri articoli sul microbioma leggi QUI e QUI o seleziona il tag corrispondente nel pannello a destra)

Il fatto
E' da tempo assodato che l'alterazione del microbioma è strettamente correlata, in modo bidirezionale, con le sindromi metaboliche (obesità e diabete) e con l'efficienza del sistema immunitario: la dieta influisce sui microbi esistenti e i microbi condizionano il metabolismo.
In un articolo di qualche mese pubblicato su Science, Janet Markle ha esplorato in modelli murini il legame tra diabete e microbioma. Quello che emerge è interessante:
  • in topi predisposti l'alterazione della flora intestinale aumenta il rischio di diabete di tipo 1. 
  • I topi femmina sono molto più sensibili alla malattia rispetto ai maschi ma questa differenza scompare nei topi allevati dalla nascita in ambiente asettico.
  • Per contro, una volta trasferito materiale fecale/intestinale (quindi i microorganismi in esso contenuti) dai topi maschi all'intestino di topi femmine, la maggiore suscettibilità della femmine al diabete scompare; una protezione che inizia con la riduzione degli episodi di pancreatite (infiammazione del pancreas) che spesso precedono il diabete.
  • L'effetto protettivo si associa ad una alterazione dei livelli ormonali nel topo femmina, che presenta un'aumentato livello di testosterone.
  • La variazione ormonale è a sua volta centrale. Se si blocca farmacologicamente il recettore del testosterone, l'effetto protettivo del trapianto di microbioma scompare. 
  • Un articolo appena pubblicato mette in evidenza come una dieta ricca di grassi sia pro-cancerogena in topi predisposti indipendentemente dall'essere obesi. L'elemento chiave è, guarda caso, la modificazione della flora batterica indotta dalla dieta (-->Manon D. Schulz et al, Nature 2014)
In conclusione il microbioma regola non solo il benessere dell'individuo ma esercita una azione protettiva contro l'insorgenza di infiammazioni (che spesso precedono fenomeni autoimmuni nei soggetti predisposti) alterando i livelli degli ormoni sessuali.

(prossimo articolo sull'argomento: dolcificanti e diabete)

Fonte
- Sex Differences in the Gut Microbiome Drive Hormone-Dependent Regulation of Autoimmunity
Janet G. M. Markle et al, (2013) Science, 339(6123) pp1084-1088 
- Intestinal Microbiota and Metabolic Diseases: Pharmacological Implications
Liang Shen et al, Trends in Pharmacological Sciences (2015) Volume 37, Issue 3, p169–171


Resistenza agli antibiotici nelle acque reflue. Numeri da incubo

La diffusione di ceppi batterici resistenti agli antibiotici è una seria minaccia che rischia di cancellare i progressi sanitari degli ultimi 80 anni. Le cause sono varie e comprendono sia il loro incontrollato utilizzo in ambito sanitario (e nella automedicazione) che l'uso estensivo (ma obbligato dato il pericolo di contagio legato all'affollamento) negli allevamenti animali.

Per utilizzare al meglio un antibiotico esistono due regole fondamentali: usarlo solo quando veramente serve; non deviare da dosi e durata del trattamento suggeriti.
Il costo che la Natura ci presenta qualora queste regole vengano disattese è la comparsa di ceppi batterici resistenti agli antibiotici.

Maggiore è la frequenza di batteri resistenti agli antibiotici e minore è l'armamentario difensivo a cui possiamo attingere in caso di infezione grave o quando sia necessario proteggere a priori soggetti a rischio (ad esempio immunodepressi).

La diffusione della resistenza può essere monitorata su diversi livelli: per via clinica (empiricamente osservando la non risposta alle terapie antibiotiche standard);  mediante campionamenti in aree sensibili (filtri messi nei condotti di aerazione degli ospedali).
A questi monitoraggi si è aggiunto recentemente un approccio già usato anni fa dall'istituto Mario Negri per monitorare la diffusione del consumo di stupefacenti: il campionamento delle acque di fiume. Mentre lo studio del Mario Negri si era focalizzato sulle acque del Po, nel nuovo studio condotto in Cina si è pensato di andare ad analizzare direttamente le acque reflue negli impianti di trattamento. Una decisione abbastanza ovvia dato che la presenza di batteri resistenti in queste acque riflette direttamente la composizione dell'ambiente in cui viviamo.
Che poi l'analisi sia stata condotta in Cina è tanto più importante in quanto si tratta di zone densamente popolate, ad alto consumo di antibiotici (spesso senza controllo adeguato) e con misure di controllo ambientale scarse.

Lo studio è consistito nella raccolta e analisi di un migliaio di campioni prelevati nelle diverse fasi del trattamento delle acque in due impianti di depurazione nella provincia del Guangdong, Cina meridionale.
Pur limitandosi all'analisi dei ceppi di Escherichia coli (un batterio comune nel nostro intestino), il risultato è stato impressionante: più del 98% degli isolati erano resistenti ad almeno 1 dei 12 antibiotici testati e oltre il 90% erano resistenti ad almeno tre antibiotici.
La resistenza può comparire per mutazione o per acquisizione del "pacchetto genico" per la resistenza direttamente da un batterio che ne è già provvisto, anche se di specie diversa. Esistono diverse modalità con cui avviene il trasferimento del DNA episomale; una di queste è la coniugazione.
Nota. Il DNA episomale (anche noto come plasmide) è DNA extracromosomico, su cui vengono depositati geni non necessari per la "normale" vita del batterio. Questo DNA può in questo modo diluirsi (o diffondersi) rapidamente nella popolazione in assenza (presenza) di pressione selettiva; si tratta pur sempre di materiale in più che il batterio deve portarsi dietro e di cui quando può ne fa volentieri a meno.
Tra i geni coinvolti nella resistenza agli antibiotici, quelli agenti su chinoloni e ampicillina - ampiamente usati in clinica e ricerca - sono stati trovati in ~43% degli isolati.

E.coli (©wikipedia)
Queste percentuali si riferiscono ovviamente alle acque non trattate.
Le procedure di sanitizzazione mediante clorinazione e ultravioletti è in grado di abbattere drasticamente la carica batterica a livelli accettabili. Uno studio analogo condotto negli USA (non ho a disposizione dati italiani) confermato l'efficacia delle azioni di sanitizzazione nell'abbattere del 94 % la carica batterica.
Chiaro che abbattere la carica batterica non altera la percentuale di batteri resistenti. Se il 90% dei batteri presenti nelle acque non trattate era resistente ad uno o più antibiotici, tale rapporto rimane invariato anche se la popolazione batterica complessiva è stata abbattuta del 94%. Da qui l'inefficacia di misure di contenimento della resistenza in assenza di trattamenti "radicali". E' fondamentale quindi che la sanitizzazione avvenga in modo esteso sia nelle aree immediatamente a valle degli impianti ospedalieri che degli allevamenti, zone dove la presenza di ceppi resistenti è particolarmente significativa.
Questo è l'unico modo per evitare che queste aree diventino delle vere e proprie bombe a orologeria biologica.

****
(giugno 2015)
Un articolo pubblicato a maggio 2015 rende ben evidente il problema della diffusione incontrollata (per uso umano o veterinario) degli antibiotici in Cina.
Hexing Wang e colleghi hanno misurato la concentrazione di 18 antibiotici comuni nelle urine di 1064 scolari provenienti da tre aree economicamente e geograficamente distinte della Cina orientale. Il 58,3% dei campioni analizzati conteneva almeno un antibiotico e oltre il 20% dei campioni più di uno.
Fonte: Antibiotic body burden of chinese school children: a multisite biomonitoring-based study - Environ. Sci. Technol. 10.1021/es5059428 (2015)


(Sul tema antibiotici,  tag "antibiotici" nel box qui a destra)
Prossimo articolo sugli antibiotici --> "multiresistenza in India"

Fonti
- Antibiotic resistance, plasmid-mediated quinolone resistance (PMQR) genes and ampC gene in two typical municipal wastewater treatment plants,  
Hao-Chang Su et al. Environ. Sci.(2014) Processes Impacts, 16 pp324-332

-Wastewater treatment plants release large amounts of extended-spectrum β-lactamase-producing Escherichia coli into the environment
Caroline Bréchet et al. Clinical Infectious Diseases (2014), 58(12)1658-1665

Emofilia A. Essere tolleranti conviene ... anche al sistema immunitario

L'emofilia è una malattia genetica caratterizzata da un deficit nella capacità di coagulazione del sangue che si manifesta con emorragie pericolose anche in seguito a banali urti. 
Può presentarsi in tre forme (A, B o C) a seconda di quale sia il gene coinvolto, gene in ogni caso codificante per una proteina chiave nel processo di coagulazione. Le alterazioni associate sono di tipo "loss of function" (perdita di funzionalità) e risultano in livelli nulli o molto bassi della proteina corrispondente, nota come fattore VIII (emofilia A), fattore IX (emofilia B) o fattore XI (emofilia C).
Schema riassuntivo dei fattori coinvolti nella coagulazione (© wikimedia)

Tra queste la forma più grave (e purtroppo comune) è la emofilia A la cui prevalenza è di circa 1 ogni 6 mila maschi.

Sebbene l'unica terapia risolutiva, ma ancora lontana nel tempo, sia la terapia genetica mediante l'inserimento del gene normale nelle cellule del paziente, il trattamento attuale fornisce un certo grado di protezione. Parliamo della infusione a tempi regolari di fattore VIII per ricostituire le scorte di fattore degradato o usato.
Questo trattamento ha un limite intrinseco, deve continuare per tutta la vita, e nel 30% dei pazienti perde di efficacia a causa della produzione da parte del paziente di anticorpi contro il fattore infuso; un vero e proprio rigetto dovuto al non riconoscimento della proteina infusa come propria.
Il lavoro pubblicato da Alexandra Sherman sulla rivista Blood affronta quest'ultimo problema, descrivendo un approccio per insegnare al sistema immunitario a tollerare il fattore VIII infuso.
Nota. Con tolleranza immunologica si intende la perdita di responsività del sistema immunitario contro un antigene; un processo sfruttato in allergologia per minimizzare la risposta agli allergeni ambientali.
Per 2 mesi, i ricercatori hanno inserito nel cibo dei topi di laboratorio foglie di piante, ingegnerizzate geneticamente per produrre frammenti di FVIII. I frammenti sono stati progettati in modo da essere trattenuti all'interno delle cellule vegetali e passare indenni attraverso l'ambiente acido (e ricco di enzimi proteolitici) dello stomaco dei roditori consentendo così il raggiungimento dell'intestino. Qui il FVIII viene liberato è può entrare in contatto con le cellule immunitarie che pattugliano le pareti intestinali (--> microbiota). La cattura, il processamento e la presentazione dell'antigene ad altre cellule immunitarie fa parte del normale processo con cui le cellule immunitarie intestinali portano "alla conoscenza" del sistema immunitario la presenza di nuovi antigeni. Una continua stimolazione con un certo antigene porta alla tolleranza immunologica, fenomeno alla base della presenza di batteri "amici" (in quanto essenziali per il nostro benessere) nell'intestino. Questa "accettazione"spiega il dato ottenuto nei topi, in cui l'induzione della tolleranza verso il FVIII ha portato ad un drastico calo degli anticorpi contro la proteina; un calo che restituisce piena funzionalità al trattamento anti-emofiliaco.

Si tratta al momento solo di una prova di concetto per verificare la validità teorica dell'approccio. Prima di arrivare in essere umano saranno necessari molti altri studi volti a misurare efficacia e sicurezza. Se tutto andrà per il verso giusto si potrebbe pensare di associare il trattamento infusivo a capsule contenenti il fattore VIII, inutili queste ultime a fini terapeutici ma finalizzate ad indurre la tolleranza immunologica.

Fonte
- Suppression of inhibitor formation against FVIII in a murine model of hemophilia A by oral delivery of antigens bioencapsulated in plant cells
Alexandra Sherman et al, (2014) September 4, 2014; Blood: 124 (10)

Ebola in USA. La ricostruzione dettagliata di quanto avvenuto

 Primo caso di Ebola negli USA 
Cosa è successo e si poteva prevenire?
La copertina profetica di una settimana fa.
(Per la discussione dettagliata dell'articolo
presente sulla rivista, vedi in questo blog
---> "Primo caso di Ebola in USA") 
A poche ore dal primo caso di Ebola in USA le autorità hanno fornito una prima ma dettagliata ricostruzione sulle circostanze che spiegano come la malattia sia riuscita a varcare l'oceano. Per il resoconto dettagliato vedere il link a fondo pagina

  • Il paziente zero è Eric Duncan, un cittadino liberiano che quattro giorni prima di partire per gli USA accompagnò in ospedale la figlia incinta della sua padrona di casa, che manifestava gravi sintomi riconducibili a Ebola. La donna, il fratello e tre vicini di casa moriranno nei giorni successivi a causa della malattia. L'ospedale in cui venne portata era pieno di soggetti infetti.
  • Il 19 settembre, giorno della partenza Duncan passò i controlli dell'imbarco per prendere il volo diretto a Bruxelles, e successivamente la coincidenza per Washington. L'assenza di sintomi rese di fatto inutile il primo filtro, quello aeroportuale. Il visto per l'ingresso lo aveva ottenuto ben prima che l'epidemia esplodesse e fu concesso per andare a trovare il figlio che vive negli USA. Un fatto non secondario quello del visto dato che si stima che siano 13500 i visti rilasciati (non si conosce ancora quanti di questi siano ancora utilizzabili) negli ultimi mesi dalle ambasciate americane site nei paesi in cui l'epidemia di Ebola è manifesta (Sierra Leone, Guinea e Liberia).
  • I sintomi comparvero il 24 settembre, pochi giorni dopo essere arrivato a Dallas (e siamo a tre trasbordi aerei). 
  • Il 26 settembre Duncan si presentò in ospedale sottolineando ad una infermiera di essere da poco arrivato dalla Liberia. Nonostante questo venne dimesso dal pronto soccorso dopo prescrizione di terapia antibiotica. A quanto sembra i medici non erano stati informati della sua provenienza recente (esponendoli di fatto al virus). Si tratta di una chiara mancanza sia del personale paramedico che medico dato che i protocolli del CDC raccomandano al personale di chiedere esplicitamente se il soggetto abbia soggiornato in luoghi a rischio.
  • Nei successivi due giorni il soggetto incontrò altri familiari, tra cui cinque bambini che frequentano scuole diverse a Dallas. Il numero di contatti stimato nel periodo a rischio è intorno a 100.
  • Il 28 settembre, dato il continuo peggioramento delle condizioni, tornò al pronto soccorso in ambulanza con sintomi quali vomito. Questa volta fu immediatamente messo in quarantena e la procedura di emergenza attivata (comunicazione ad autorità e al CDC).
  • Il paziente ora è in condizioni serie ma stabili. E' cosciente ed in grado di interagire con il personale medico. Non è stato trattato con ZMapp in quanto le scorte sono esaurite.
  • Un team di investigatori del CDC venne inviato a Dallas il 1 ottobre per raccogliere informazioni dettagliate su tutte le persone venute in contatto con Duncan nella fase contagiosa.
  • Il personale dell'ambulanza è risultato negativo al test, ma per precauzione è stato posto in quella che viene definita "reverse isolation", a casa loro, per una durata non inferiore a 21 giorni. L'ambulanza usata è stata isolata dalle altre in attesa di bonifica totale.
  • Le autorità belghe e liberiane affermano che nessun rischio è occorso ai passeggeri che abbiano viaggiato con Duncan essendo egli al momento del viaggio asintomatico.
  • Ebola è tutto sommato un "buon" virus dato che il suo indice riproduttivo (R0), cioè il numero di persone che viene infettato in media da un singolo portatore, è inferiore a 2, decisamente più basso di quello tipico di altri virus (ad esempio quello del morbillo). Questo è il vero punto debole del virus, che ne ha limitato storicamente la diffusione; limite che però bisogna sapere sfruttare rimuovendo al massimo ogni possibilità di contagio. Non è un caso dicevo che Ebola storicamente non abbia mai rappresentato un vero rischio per le popolazioni locali: bassa infettività vuol dire auto-esaurimento dei focolai in tempi brevi. Per dettagli su indice riproduttivo leggere paragrafo dedicato qui  e un articolo su NPR specifico per R0 su Ebola qui). Particolarmente importante il fatto che il valore di R0 sia diverso nei soggetti con infezione letale (R0 = 2,36) rispetto a quelli che poi sopravviveranno (R0 = 1,73). Una differenza spiegabile dal diverso titolo virale nelle due tipologie di pazienti (vedi figura), indicato dal numero di copie di RNA in unità di volume ematico.
    Valori di R0 per diverse malattie virali (courtesy of Adam Cole)
Quattro sono gli americani finora infettati, tutti volontari coinvolti in missioni sanitarie all'estero, successivamente rimpatriati. Si trovano ora in strutture ospedaliere dotate di aree di isolamento speciali, ad Atlanta e in Nebraska. Un altro dottore in missione in Sierra Leone è stato rimpatriato ed è ora monitorato per precauzione in una struttura equivalente .
I piani per affrontare quella che ora è realtà sono stati preparati durante l'estate e prevedevano le procedure che ciascun ospedale doveva attuare per minimizzare ogni rischio di contagio tra il personale addetto, oltre che per tutelare gli altri degenti.

Il punto nevralgico è tuttavia evitare che la diffusione avvenga verso paesi non dotati come gli USA di strutture sanitarie e logistiche adeguate in grado di gestire situazioni con un numero di infetti anche molto maggiore. Il caso della Sierra Leone descritto nel precedente articolo su questo blog dove l'epidemia ha "seguito" le persone tornate dal funerale di un congiunto morto di Ebola in Guinea è un esempio dell'impatto che può avere l'epidemia se ad assenza di controlli si somma una carenza di strutture sanitarie adeguate.


Tornando al caso americano bisogna chiedersi cosa non abbia funzionato nel sistema di filtri e di monitoraggio. Da questo si può imparare e migliorare. Anche perché falle nei controlli possono essere tamponate in USA, ma lo stesso non si può dire per moltissimi altri paesi, fisiologicamente a rischio.
  • Il punto chiave è stato il mancato riconoscimento del rischio potenziale che i trascorsi del paziente dovevano fare scattare; allarme non partito nonostante il paziente avesse segnalato la sua provenienza. Il soggetto aveva tutti i fattori di rischio possibili che avrebbero dovuto impedirgli l'imbarco (vedi sopra).
  • Le procedure di filtraggio ora in atto non sono adeguate, a detta di esperti di sicurezza e virologi. Al momento il filtro riguarda unicamente le persone che mostrano sintomi della malattia, a cui viene precluso l'accesso a bordo degli aerei. Il caso di Duncan è emblematico di quanto questa procedura sia sostanzialmente inefficace. Dato che il tempo di incubazione massimo è di 21 giorni, l'unico filtro minimo possibile è impedire il trasbordo di chiunque sia entrato in contatto con la malattia in quel periodo
  • Per attuare allora un filtro minimamente efficace dovrebbero essere imposte restrizioni al viaggio da e per i luoghi a rischio. Siano essi viaggi diretti che indiretti. Un fatto questo rilevato da Vincent Racaniello professore di Virologia alla Columbia University "It is puzzling that travel (excluding healthcare workers) out of the affected West African countries is still permitted". Al momento Obama nicchia nel prendere questa decisione per motivi politici. Alcuni paesi africani (Namibia, Kenya e Zambia) hanno invece attivato tali barriere, consapevoli del rischio paese a cui andrebbero incontro qualora il virus arrivasse da loro.
Difficile pensare di contenere una malattia se i medici del pronto soccorso non riconoscono i sintomi e interagiscono con il paziente in modo "incauto". Il caso del Dallas Hospital dovrebbe fare scuola anche nei nostri pronto soccorso.

Limitare gli spostamenti verso i paesi focolaio ha certamente un costo economico ma è di sicuro inferiore al costo (umano ed economico) di quello correlato a dozzine di altri paesi che improvvisamente devono affrontare una epidemia. E non parliamo di paesi come quelli scandinavi dotati di strutture adeguate per gestire epidemie di medio livello ma di paesi dell'Africa subsahariana in primis e del Maghreb poi.
Meno paesi sono coinvolti e piu' efficace sarà lo sforzo di concentrare tutte le risorse disponibili per spegnere i singoli focolai; vogliamo usare gli stessi mezzi (limitati) per cercare di spegnere una foresta in fiamme quando potevamo circoscrivere il focolaio?

Sul tema Ebola consiglio vivamente di leggere anche gli articoli precedentemente pubblicati al riguardo i cui link sono reperibili QUI)

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Aggiornamenti (12/10/2014)
- Il paziente Eric Duncan è morto.
- Una delle infermiere che si è occupata di lui durante il ricovero è ufficialmente il secondo caso di Ebola in USA. Sembra che l'infezione, avvenuta nonostante le tute di protezione, sia avvenuta per il non aver osservato le regole minime di sicurezza durante alcune procedure invasive condotte sul paziente. 

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Aggiornamento 24 ottobre 2014





Fonti
- Descrizione dettagliata degli eventi associati al caso (---> Promedmail e CDC)
- Retracing the Steps of the Dallas Ebola Patient
 New York Times, Ottobre 2014
- Delay in Dallas Ebola Cleanup as Workers Balk at Task
 New York Times, 2 ottobre 2014
- U.S. Ebola patient helped carry convulsing pregnant (...)
The Daily Mail, 2 ottobre 2014
- Dallas hospital diagnoses first patient with Ebola
USA Today, 1 ottobre 2014
Center for Disease Control
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