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Visualizzazione post con etichetta psicologia. Mostra tutti i post
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Una potente droga psichedelica "spegne" i sintomi dello stress post-traumatico

Le droghe psichedeliche come l'MDMA e la psilocibina, il composto allucinogeno presente nei funghi magici, sono da qualche tempo sotto i riflettori per il loro potenziale terapeutico in psichiatria.
Vedi in proposito articoli sul blog come "Rave party, sballo chimico e terapia depressione"
Ora, un piccolo studio condotto su veterani affetti da stress post-traumatico (PTSD) suggerisce che un potente, ma poco studiato, farmaco psichedelico chiamato ibogaina potrebbe trovare impiego per i danni conseguenti a traumi cerebrali (TBI). In estrema sintesi i veterani che si sono sottoposti in autonomia al trattamento hanno mostrato una riduzione dei sintomi di oltre l’80%.

L'articolo, pubblicato su Nature Medicine, ha tuttavia dei forti limiti dovuti sia alle procedure osservazionali che al limitato numero di soggetti coinvolti, oltre alla mancanza di un gruppo di controllo.

L'ibogaina è ricavata dalla corteccia di un arbusto (Tabernanthe iboga) originario dell'Africa centrale, dove viene utilizzato per scopi rituali. Del meccanismo di azione della molecola si sa poco essendo sottoposta a forte controllo in molti paesi e come tale un problema per i ricercatori; a questo si aggiunge il rischio legato a a irregolarità fatali del battito cardiaco. Ad oggi è principalmente usata nella terapia della dipendenza e astinenza da oppioidi.
La mancanza di terapie universali per i pazienti affetti da PTSD ha riportato l'interesse per l’ibogaina.
Uno dei ricercatori coinvolti nello studio aveva sentito parlare di veterani che cercavano l'ibogaina per attenuare i sintomi del trauma cranico (di tipo cognitivo e fisico) seguendone alcuni per monitorare gli effetti da loro sperimentati dopo l'assunzione della droga in una struttura in Messico, dove l'uso del farmaco non era soggetto a restrizioni. Importante sottolineare che i ricercatori non hanno avuto alcun ruolo nella somministrazione del farmaco ma hanno solo registrato i resoconti dei fruitori. A scopo precauzionale i partecipanti hanno ricevuto un integratore di magnesio insieme alla sostanza psichedelica per minimizzare il rischio di effetti collaterali cardiaci.

Un mese dopo il trattamento, i partecipanti mostravano una riduzione media dell’88% dei sintomi di disturbo da stress post-traumatico, dell’87% dei sintomi della depressione e dell’81% dei sintomi dell’ansia. In media, i partecipanti presentavano una disabilità da lieve a moderata prima del trattamento, che scompariva nel mese successivo, come valutato da un sondaggio sulle loro capacità cognitive, mobilità e altre funzioni.

Nessuno dei partecipanti ha manifestato effetti collaterali cardiaci. Lo studio rientra nella tipologia “prova del concetto” sul potenziale del farmaco. Il passo successivo sarà studiare se il farmaco può conferire un beneficio a lungo termine e utilizzare neuroimaging e biomarcatori per valutare come funziona il farmaco.

Gli unici dati in tal senso oggi disponibili vengono da studi sui topi in cui si è dimostrato che l'ibogaina potrebbe riaprire temporaneamente un "periodo critico" (nome dato alle finestre temporali normalmente osservate durante lo sviluppo iniziale in cui il sistema nervoso è particolarmente malleabile). La ibogaina mantiene il periodo critico per almeno quattro settimane, rispetto alle due settimane osservate con una droga simile, psilocibina, ottenuta da funghi allucinogeni.

Dato lo stadio più che preliminare dello studio è verosimile che MDMA e psilocibina, in fase avanzata di sperimentazione, siano candidati migliori nel breve termine mentre l'ibogaina richiederà anni di studio per determinarne l'efficacia e la sicurezza.

Articolo su temi correlati "Farmaci psichedelici e meccanismi ignoti"

Fonte
Magnesium–ibogaine therapy in veterans with traumatic brain injuries
Kirsten N. Cherian et al, (2024) Nature Medicine


Il difficile equilibrio tra creatività e disturbo mentale

Musica e rischio mentale
Tempo fa scrissi del connubio (spesso presente) tra arte e follia (articolo in calce al presente)
Oggi amplio le precedenti tematiche per citare un recente studio circa la correlazione tra propensione/possedere abilità musicali e la predisposizione per alcune malattie mentali. 
Image is in the public domain
È pensiero comune che fare musica sia un toccasana non solo spirituale ma anche come strumento educativo per i giovani e anche per chi soffre di problemi fisici o mentali (vedi la musicoterapia). Altrettanto comune però la conoscenza di musicisti (e non parlo di chi non è ma tale si considera come i Fedez etc) che mostrano comportamenti dal pittoresco al nevrotico/ossessivo/tormentato). Rispetto alle persone “musicalmente inattive”, i musicisti sembrano in effetti più colpiti da depressione e disturbi d'ansia (pur escludendo le “rockstar” i cui problemi possono essere secondari al loro stile di vita).

Per indagare su questa correlazione un team tedesco-svedese che ha portato avanti un primo studio, pubblicato su Scientific Report nel 2019 .
In questo studio i ricercatori coinvolsero 10500 gemelli svedesi a cui chiesero informazioni sia sul loro impegno musicale che sulla loro salute mentale; i dati ottenuti vennero poi incrociati con il registro nazionale dei pazienti e in particolare con la sezione disturbi mentali. L’essere gemelli (mono- o di-zigoti) permetteva di pesare la componenente genetica e ambientale nella frequenza di tali disturbi.
I risultati evidenziarono che i partecipanti musicalmente attivi erano più a rischio, in modo statisticamente significativo, di depressione, esaurimento e altri disturbi psicotici rispetto a chi non lo era.
In particolare l'impegno musicale, come suonare uno strumento o cantare, e i problemi di salute mentale probabilmente non sono correlati in modo causale. Per dirla meglio, le persone non fanno musica in risposta ai loro problemi di salute mentale o viceversa. Piuttosto, il collegamento può essere attribuito a fattori genetici condivisi e/o ad influenze dall'ambiente familiare.

In questi ultimi anni i ricercatori hanno continuato i loro studi, indagando più la parte di genetica molecolare. I risultati sono stati pubblicati qualche settimana fa sulla rivista Translational Psychiatry.
Condensando il tutto in una frase, lo studio ha confermato che le varianti genetiche che influenzano i problemi di salute mentale e quelle che influenzano l'impegno musicale hanno un buon grado di sovrapposizione.
Nel dettaglio il team ha esaminato il legame genetico tra il fare musica e la salute mentale utilizzando il DNA di 5.648 individui. Oltre ai dati sul genotipo, i partecipanti allo studio hanno fornito informazioni sul loro impegno musicale, sui risultati creativi e sportivi e sulla loro salute mentale.
Sulla base delle informazioni così ottenute sono stati “creati” indicatori individuali, chiamati "punteggi poligenici", che racchiudono sia il rischio genetico dei partecipanti per le malattie mentali che la loro predisposizione (genetica) alla musicalità. Il punteggio ha rivelato che gli individui con un rischio genetico più elevato di depressione e disturbo bipolare erano, in media, musicalmente attivi, si esercitavano di più e possedevano un livello artistico più elevato (esercitarsi molto non è sinonimo di essere musicalmente dotati). È interessante notare che le associazioni sussistevano indipendentemente dal fatto che gli individui manifestassero effettivamente i problemi di salute mentale per cui erano geneticamente a rischio.

Allo stesso tempo, i partecipanti con una maggiore predisposizione genetica per la musicalità avevano anche, in media, un rischio leggermente più alto di sviluppare la depressione, indipendentemente dal fatto che suonassero o meno uno strumento. 
Questi risultati forniscono ulteriore supporto all'idea che in parte gli stessi geni influenzino l'impegno musicale e la salute mentale.

La relazione complessiva tra il fare musica e la salute mentale è molto complessa: fattori familiari e genetici possono influenzare sia la musicalità che la salute mentale. Non superfluo sottolineare che questi risultati non escludono la possibilità che il fare musica abbia una influenza positiva sullo stato mentale come ben noto dalla aneddotica medica di persone che trovano sollievo dai loro disturbi solo durante l’attività musicale.

I ricercatori stanno approfondendo le loro ricerche tenendo conto anche delle esperienze di “flow” (flusso). “Flusso” si riferisce all'esperienza di completo assorbimento in un'attività
I risultati iniziali mostrano che le esperienze di flusso possono avere un'influenza positiva sulla salute mentale, anche una volta normalizzati i fattori esperienziali e genetici

Fonti
- "The effects of playing music on mental health outcomes"
Laura W. Wesseldijk et al, (2019) Scientific Reports volume 9, Article number: 12606

- "A comprehensive investigation into the genetic relationship between music engagement and mental health"
Laura W. Wesseldijk et al,  (2023) Translational Psychiatry volume 13, Article number: 15

 
***
 
Il difficile equilibrio tra creatività e disturbo mentale
(22/4/2013)

Pensare fuori dagli schemi è il paradigma di chiunque si caratterizzi come un innovatore nelle arti e nei mestieri. Una caratterizzazione a volte così marcata da generare lo stereotipo dello "scienziato pazzo" o dell'artista "strambo", persone talmente prese dalla loro opera da dimenticarsi del mondo circostante. Non è raro invero imbattersi in artisti (termine qui usato nel senso letterale del termine, chi pratica le ars e svolge quindi attività creative) il cui comportamento supera il confine del peculiare per sforare nel patologico.
(®Dreamstime)

Un dato confermato, numeri alla mano, da una ricerca pubblicata da un team svedese sul Journal of Psychiatric Research. Secondo lo studio, le persone impegnate in professioni creative (ivi compresi noi ricercatori) hanno una incidenza di disturbi mentali, come disturbo bipolare e schizofrenia, superiore alla frequenza media osservata nella popolazione generale. In particolare sembra che tra l'essere scrittori e soffrire di schizofrenia il legame non sia propriamente casuale.

Diciamocelo, il dato in sé non stupisce più di tanto, complice l'immagine dello scrittore alienato immerso in un mondo fittizio il cui comportamento precipita nella follia (uno su tutti il protagonista di Shining, interpretato al cinema dal magistrale Jack Nicholson). Posso altresì testimoniare una uguale presenza di soggetti "curiosi", in alcuni casi francamente alterati, tra i ricercatori che ho conosciuto in questi anni; alcuni dei quali senza dubbio geniali e veri innovatori.
Tornando all'ambito artistico, Van Gogh e Cimabue sono due esempi ben noti anche al grande pubblico. Trovare un artista innovativo con un comportamento nella norma ("normale" è un termine ovviamente inutilizzabile per descrivere le molteplici sfumature del comportamento umano) è più difficile.
Ma forse per comprendere l'associazione bisogna ribaltare la prospettiva, "Creo appunto perchè il soffrire di alcuni disturbi mi rende più facile il pensare oltre gli schemi".

Non voglio approfondire qui la relazione tra arte e follia. Esistono siti e libri molto ben fatti sull'argomento in grado di fornire un quadro ben più esaustivo di quello che le mie competenze sull'argomento permetterebbero (vedi note a fondo pagina).

Genio e follia
Mi interessa oggi riportare le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma, al termine di uno studio su un campione di svedesi estremamente ampio, pari a circa 1,2 milioni di persone. Considerando i controlli (in genere almeno uguali in numero rispetto ai casi) necessari per dare validità statistica all'analisi, il numero di individui inclusi nello studio rappresenta la gran parte della popolazione svedese!!
Ma procediamo con ordine.
Si è partiti con l'analizzare, con garanzia di anonimato e di non rintracciabilità a partire dai dati aggregati, le persone impegnate in attività creative valutando la presenza, in essi e nei familiari fino al secondo grado, di disturbi schizoaffettivi come depressione o ansia, abuso di alcol o droghe, autismo, sindrome da iperattività (ADHD), anoressia nervosa e autolesionismo.
Il tutto stando bene attenti a includere non solo i soggetti ospedalizzati ma anche quelli curati in remoto.
I risultati odierni sommati a quelli di uno studio precedente più  circoscritto indicano che alcune malattie mentali - ad esempio il disturbo bipolare - sono più frequenti tra le persone che svolgono attività creative come ballerini, ricercatori, fotografi e scrittori. Gli scrittori in particolare oltre ad una maggiore incidenza di schizofrenia, depressione, ansia e abuso di sostanze, hanno quasi il 50 per cento di probabilità in più di commettere suicidio rispetto alla popolazione generale.
Secondo Simon Kyaga, consulente in psichiatria e dottorando presso il Dipartimento di Medicina, Epidemiologia e Biostatistica, i risultati inducono a riconsiderare l'approccio terapeutico alla malattia mentale. "Se si ritiene che certi fenomeni associati con la malattia del paziente sono "utili" [percepiti come tali dal soggetto n.d.b], si apre la strada ad un nuovo approccio al trattamento", dice Kyaga. "Il medico e il paziente devono giungere ad un accordo su cosa [sintomi] curare, e a quale costo. Fino a pochi anni fa in psichiatria vi era la tendenza di vedere la malattia in bianco o nero, usando un approccio terapeutico radicale per eliminare qualunque atteggiamento anomalo".
Ridurre tutto ad assenza di sintomi "strani" finisce infatti con l'appiattire la personalità spegnendo la fiamma del genio che necessariamente coincide con il vedere le cose da una prospettiva diversa e,  per alcuni, anormale. Intraprendere un percorso terapeutico mirato INVECE ad eliminare gli aspetti negativi (e vissuti come tali dal soggetto o da chi in famiglia ne condivide le manifestazioni) incanalando le tensioni all'interno di attività catartiche è chiaramente una innovazione importante. Un percorso terapeutico che affronti insieme al soggetto il rapporto rischio (vale a dire ciò che si perde) - beneficio permetterebbe di intervenire in modo mirato sugli aspetti neurologici più opprimenti per il paziente, salvaguardando nel contempo la sua creatività. 
Del resto se come dice un vecchio adagio "nessuno da vicino è normale", la ricerca attuale dice che gli artisti lo sono meno di tutti.



Articolo precedente sul tema "intelligenza" --> Mappare le capacità intellettive

Fonti
- Karolinska Institute, news

- Mental illness, suicide and creativity: 40-Year prospective total population study
  Simon Kyaga, Mikael Landén, Marcus Boman, Christina M. Hultman och Paul Lichtenstein
  Journal of Psychiatric Research, corrected proof online 9 October 2012

- Arte e Pazzia
  Enrico Da Campo, sito web

- La Bella e la Bestia: Arte e Neuroscienze
  Ludovica Lumer, Semir Zeki (Laterza, 2011)

Ricambio annuale alla base Concordia in Antartide. Nuova linfa per nuovi test

Aggiornamento  novembre 2021 (articolo originale del 2015)
Nell'ambito del progetto finanziato dall'Ente Spaziale Europeo (ESA) mirante a studiare il comportamento e la fisiologia in condizioni di isolamento prolungato in posti estremi, sono ora aperte le candidature per il ruolo di medico ricercatore presso la stazione di ricerca Concordia in Antartide per l'inverno 2023. 
 Un breve riassunto di quanto scritto sotto e nel precedente articolo
La base italo-francese Concordia sita a 3233 metri sull'altopiano montuoso noto come Dome C in uno dei punti più remoti dell'Antartide. È una delle tre basi nel continente abitata tutto l'anno da un ristretto team di ricercatori. L'altitudine scelta è "utile" in quanto crea una ipossia ipobarica cronica e lo stesso dicasi per i 4 mesi di buio totale (ovviamente all'esterno della base) con temperature che possono arrivare a -80 °C. Per questo motivo, ogni anno l'ESA sponsorizza un medico per supervisionare gli esperimenti biomedici alla base. 
Attualmente (oramai siamo nell'estate australe) il medico dell'inverno 2021 è Nick Smith (UK) a cui subentra ora Hannes Hagson (Swe) insieme al nuovo team di 12 persone. Lo studio in corso verte su come l'isolamento cambia l'attività cerebrale, il sonno e il sistema immunitario. 
Nella stagione "estiva" si ha il momento di affollamento con circa 60 ricercatori intenti a fare manutenzione delle apparecchiature e dei sensori. Da febbraio si entra  invece nella fase invernale durante la quale rimarranno, per nove mesi, 13 persone.
 

 ***
(Articolo originale di aprile 2015)
E' da poco terminata la lunga notte australe, e con essa il forzato periodo di isolamento semestrale dell'equipe scientifica che lì risiede. Con l'aumento della visibilità e temperature meno proibitive (relativamente parlando) ecco che la base diventa preda di un brulichio di attività coincidenti con il ricambio del personale, la cui ultima tornata in ordine di tempo è appena atterrata.
Dopo 9 mesi ecco i rifornimenti! (credit: m.esa.int)
Se uno pensa ad una base posizionata nel bel mezzo dell'Antartide la prima cosa che immagina è che le ricerche siano di tipo glaciologico, minerario o meteorologico. In realtà questo avamposto franco-italiano è uno dei luoghi prediletti dalla ESA (Agenzia Spaziale Europea) per alcuni test fondamentali per le missioni future nello spazio.
Cosa c'entra la ESA con gli scienziati spersi nel mezzo dell'Antartide?
Di questo ne avevo parlato nel precedente articolo sintetizzabile nel fatto che la base Concordia è sita in un posto ideale sia per lo studio della volta celeste (umidità nulla e quindi cielo limpidissimo) che per studiare le reazioni dell'essere umano alle condizioni estreme, tipiche dei futuri viaggi spaziali.
Gli elementi di stress per chi risiede alla base in inverno sono molti: altitudine (3200 metri, quindi una bassa pressione parziale di ossigeno); isolamento (la base più vicina è la russa Vostok 600 km a nord ed è impossibile per qualunque aereo portare soccorso nei mesi invernali); personale limitato a circa 15 persone costretto all'interno degli edifici a causa di una temperatura media esterna di -80 °C; interazioni forzate che mettono a dura prova la tenuta psicologica degli individui.
L'effetto dello stress sulla fisiologia e sulla psicologia dei residenti è il fulcro delle analisi condotte sia localmente dal medico della base che da remoto in Europa. Beth Healey, il medico attuale, ha ricevuto l'agognato (immagino) ricambio da Floris van den Berg che non solo continuerà i test ma ne aggiungerà altri utili per valutare la stabilità emotiva e la resistenza allo stress.
In ambito fisiologico i parametri monitorati riguardano le variazioni quali-quantitative del sonno, della capacità di movimento ed equilibrio, l'umore, la funzionalità cardio-vascolare, la densità ossea (in assenza di luce solare ci si deve basare o sui lettini a ultravioletti o sulle pillole di vitamina D) e le modificazioni dell'attività cerebrale visualizzate mediante risonanza magnetica, confrontando i tracciati pre- e post- soggiorno.
credit: ESA/IPEV/PNRA–B. Healey.
Tra i nuovi test implementati da quest'anno vi è quello al simulatore della navicella spaziale Soyuz. Il test è particolarmente utile in quanto finalizzato a quantificare il modificarsi della reattività del pilota dopo molti mesi di isolamento e "inattività". Nel caso del viaggio su Marte parliamo di almeno 18 mesi nello spazio; alla base Concordia i test verranno fatti a intervalli di 12 mesi di distanza con o senza allenamento al simulatore.

In attesa dell'inverno australe distante ancora parecchi mesi, sono più di 60 gli scienziati e i tecnici arrivati per svolgere le più disparate mansioni: dalla ricerca glaciologica ai lavori di manutenzione fino alla essenziale opera di rifornimento. Da febbraio in poi la maggior parte di essi lascerà la base dando inizio ad una nuova sessione della fase di isolamento.



Fonti
- ESA/news
- Blog della base Concordia
- Programma Nazionale di Ricerche in Antartide
- domande e risposte su Reddit dal team della base (consigliatissimo)

Anziani e religione. Il ruolo degli ormoni sessuali

Da buon laico, fedele al ragionar di scienza, la notizia non mi stupisce più di tanto anche se andrei molto cauto prima di generalizzare.
Se infatti da una parte è credibile che a parità di condizioni di partenza (status sociale, cultura di appartenza, istruzione, età e sesso - senza questa normalizzazione le variabili diventano dominanti), la sensibilità religiosa possa essere maggiore in persone "psicologicamente" adatte, dall'altra le variabili in gioco sono tali e tante da rendere tali studi un campo minato.
La riduzione dei "fattori confondenti" è un passaggio chiave ben noto a chiunque bazzichi i campi della statistica e della epidemiologia. E' sufficiente un assunto "sbagliato" (nel contesto della ricerca) per falsare i risultati anche se condotti nel pieno del rigore statistico. Un problema tanto più accentuato quanto più il campo d'indagine si accosta alla psicologia. Ad esempio testare l'accettazione del concetto di evoluzionismo usando come campione la popolazione Amish, non potrà che dare risultati negativi perché  la risposta è determinata dal campione usato. 
Se poi, come fatto in questo studio, si cerca di identificare una qualche "concausa biologica" come fattore predisponente la religiosità all'interno della popolazione anziana, predisposta per una serie di motivi intrinseci a tale atteggiamento, i risultati ottenuti dovranno essere pesati con estrema cautela.

Fatta questa doverosa precisazione, passiamo allo studio pubblicato dai ricercatori della prestigiosa McGill University (con eccellente reputazione nel campo delle neuroscienze) sulla rivista Adaptive Human Behaviour & Physiology
I ricercatori hanno usato come materiale di partenza il database del progetto Health and Ageing (NSHAP) gestito dal National Institutes of Health (NIH) americano. I dati sono quelli di migliaia di soggetti che al momento dell'arruolamento nello studio avevano una età compresa tra 57 e 85 anni; le informazioni raccolte sono sia di tipo comportamentale, attraverso questionari anonimizzati, che biomedici, con la raccolta e analisi di campioni di saliva e sangue.
Si tratta quindi di un classico studio retrospettivo con il quale il ricercatore indaga e mette alla prova statistica eventuali legami di causa-effetto.

Alla domanda se vi fosse una qualche relazione tra stato biologico e religiosità, la risposta è stata particolarmente interessante. Al netto dell'educazione ricevuta e dalla psicologia dell'individuo (a sua volta risultato della somma di esperienza e biologia) c'è anche la partecipazione dello stato ormonale, quindi del metabolismo. Nello specifico, sembra che gli uomini anziani il cui livello di ormoni sessuali (testosterone e di deidroepiandrosterone - DHEA) è nella parte alta della curva, sono quelli con una minore tendenza ad indulgere in pratiche religiose (sia praticate che interiorizzate).
image credit: QUORA
La fuga nella religione spiegata da un calo ormonale? 
Forse, e nel caso non sarebbe nulla di inspiegabile. Il calo ormonale che si accompagna all'entrata nella terza (o quarta) età è spesso foriero di cambiamenti neurologici che possono degenerare in depressione o problemi cognitivi che sommati ad altri eventi contingenti (frequenti nelle persone anziane) come la morte di amici o familiari troverebbe terreno fertile in atteggiamenti più intimistici e consolatori. Se la fuga nella religione non è per sé stessa un problema, la validità del dato dovrà essere verificata su individui molto più giovani

Fonti
- Older men with higher levels of sex hormones could be less religious
McGill University / news

- Are Men’s Religious Ties Hormonally Regulated?
Aniruddha Das, (2018) Adaptive Human Behavior and Physiology

- Sex Differences in Anxiety and Depression: Role of Testosterone
J. McHenry et al, (2014) Front Neuroendocrinol. 35(1): 42–57


La molecola che spegne i pensieri non voluti

Mantenere il controllo del proprio pensiero è fondamentale per il benessere mentale.
Quando questa capacità viene meno ecco comparire problemi come ricordi intrusivi, allucinazioni, elucubrazioni e preoccupazioni persistenti. 
Episodi apparentemente insignificanti agiscono come una miccia facendo emergere ricordi spiacevoli che non si riesce a mettere da parte; come dei tarli invisibili continueranno a scavarsi una nicchia sempre più preminente fino a condizionare il nostro quotidiano. Le cause possono essere molte e vanno dalle allucinazioni sensoriali (di natura neuropatologica) capaci di innescare falsi ricordi, ai traumi esperienziali che pur in assenza di anomalie neurologiche pregresse modificano i circuiti neuronali predisponendo il soggetto a episodi di panico e/o aggressività anche in assenza di inneschi ovvi.

Non sempre si tratta di eventi spiacevoli come ben insegna la fase dell'innamoramento dove l'azione combinata di ossitocina e vasopressina gioca un ruolo  chiave nel pensiero chiaramente ossessivo che caratterizza le prime fasi di una relazione. Se avete figlie/i adolescenti capirete bene quanto pervasivo sia questo pensiero anche se scevro di tratti manifestamente patologici. Il precedente esempio ha solo valenza generale; i circuiti coinvolti nella fase "ossessiva" dell'innamoramento e quelli esperienziali traumatici, sono infatti diversi. I primi sono "naturali" in quanto siamo programmati per focalizzarci sul potenziale partner riproduttivo; non a caso si tratta di circuiti molto "antichi", siti nelle parti più profonde del cervello. I disturbi comportamentali da stress sono invece qualcosa di più recente e molte delle anomalie che li riguardano si trovano nelle aree "moderne" del cervello come quelle corticali. Per questa ragione non troverete alcun coccodrillo (o rettile in generale) traumatizzato da esperienze spiacevoli; l'assenza della regione corticale rende impossibile ogni capacità di pensiero se non quello dettato dall'istinto (codificato in quella parte antica del cervello che non a caso è detta "cervello rettiliano").
Il ripresentarsi di un pensiero "non voluto", caratterizzato  da un cronico "ruminare" su episodi del passato, è spesso sintomatico di patologie come la sindrome da stress post-traumatico (PTSD), schizofrenia, depressione o ansia.

Il costo sociale e umano è alto come ben insegnano i comportamenti violenti e imprevedibili dei soldati reduci da teatri di guerra o delle vittime di abusi. Ad oggi non esiste un metodo di trattamento univocamente efficace (sia esso chimico o basato su terapie comportamentali) per minimizzare le recidive. 

Non saremmo in grado di sopravvivere senza la capacità di controllare le nostre azioni. Siamo dotati di riflessi veloci, spesso fondamentali, ma che dobbiamo filtrare per evitare reazioni inconsulte. Gli eventi negativi fanno parte della vita di ognuno di noi ma siamo dotati di "anticorpi comportamentali" che ci proteggono dal pensiero ossessivo. Ci deve essere quindi un meccanismo simile che blocchi l'insorgere di pensieri indesiderati. L'evento o ricordo spiacevole viene accantonato (in modo conscio o inconscio) pensando ad altro.
Eppure questa capacità di salvaguardia non sempre funziona. Limitandoci ai casi di esperienze più gravi solo un certo numero delle persone che le hanno vissute sviluppano i sintomi tipici della PTSD. Capire perché e cosa non abbia funzionato nella capacità compensativa innata del cervello è un argomento che travalica il puro interesse neurologico, dato il costo sociale e umano che tali problemi innestano.

Da questa premessa l'importanza della notizia riguardo l'identificazione della molecola che è alla base della soppressione dei  pensieri indesiderati. Lo studio è contenuto in un articolo pubblicato su Nature Communications da ricercatori di Cambridge.
Corteccia prefrontale
 (credit: DBCLS)
Punto di partenza è che per capire dove sia la differenza tra un circuito neuronale capace di gestire il ricordo e quello "cortocircuitato" è necessario capire la chimica del cervello.
Una delle regioni distintive del nostro cervello "evoluto" è la corteccia prefrontale in cui risiedono i centri di controllo delle azioni, implicati anche nel "filtraggio" dei pensieri. La corteccia prefrontale agisce come una sorta di regolatore di alto livello in grado di controllare l'attività di altre aree come la corteccia motoria (le azioni) e l'ippocampo (i ricordi).

L'analisi è stata condotta su volontari esaminati con il classico test "associa/non associare" usato per misurare la reattività del pensiero associativo; nel nostro caso i ricercatori se ne sono serviti come "faro" per mappare nel cervello la capacità di inibire un dato pensiero. In breve, i partecipanti al test imparano per prima cosa ad associare tra loro parole di senso compiuto ma prive di nesso logico come ad esempio "disavventura" e "scarafaggio" ("ordeal" e "roach" nel test originale). Verificata l'avvenuta memorizzazione si passa alla seconda fase in cui viene mostrata la parola innesco (ad esempio "disavventura") in due colori diversi; se la parola è in verde il volontario dovrà richiamare la parola associata ("scarafaggio") mentre se in rosso dovrà cercare di sopprimere il ricordo dell'associazione (vale a dire pensare ad altro). In due parole, la parola l'innesco in verde richiama il ricordo, quella in rosso lo inibisce.
Durante l'esecuzione del test, il cervello dei volontari viene scansionato mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI) e spettroscopia a risonanza magnetica. Si tratta di tecniche molto informative, ancorché non invasive e innocue, con il quale i ricercatori possono osservare in tempo reale cosa accade nel cervello quando uno stimolo richiama in automatico un ricordo e cosa avviene quando tale ricordo viene forzatamente accantonato.

A fare la differenza rispetto a studi simili condotti in passato è l'utilizzo della spettroscopia grazie alla quale è stato possibile, in aggiunta alla "semplice" mappa dell'attività cerebrale fornita dalla fMRI, indagarne la chimica.
Riassumendo i risultati in una frase, lo studio ha permesso di identificare nel neurotrasmettitore GABA la molecola chiave della inibizione dei pensieri indesiderati e in aree come corteccia frontale e l'ippocampo le regioni chiave.
L'acido γ-amminobutirrico (GABA) è il principale neurotrasmettitore inibitorio in noi mammiferi e come tale ha un ruolo centrale nella regolazione delle reti neuronali. Si stima che quasi il 40% delle sinapsi nel cervello umano abbiano recettori per il GABA, sebbene appartenenti a diverse famiglie. La sua azione inibitoria si attua favorendo l'ingresso di ioni cloruro nel neurone bersaglio, evento che inibisce la comparsa di un potenziale d'azione; in altre parole tiene il neurone spento. Questo è il motivo per cui molti ansiolitici (ad esempio le benzodiazepine) sono progettati per rinforzare il segnale GABA riducendo così l'attività dei circuiti "ansiogeni".
Non deve trarre in inganno la apparente ovvietà tra la nota azione inibitoria del GABA (e all'opposto quella del glutammato come principale neurotrasmettitore eccitatorio) e il suo coinvolgimento nell'inibizione dei pensieri assillanti. I circuiti neuronali sono infatti complessi; ad esempio un segnale inibitorio che agisce su un neurone inibitorio avrebbe di fatto un effetto disinibente.
Lo studio ora pubblicato dimostra un nesso tra i circuiti candidati al "controllo" del pensiero e la presenza di GABA. Tra i dati emersi vi è che la concentrazione di GABA nell'ippocampo - un'area chiave del cervello "profondo" coinvolta nella memoria e "cablata" con la corteccia e l'amigdala- è predittiva della capacità della persona testata di bloccare "a comando" il processo di recupero della parola associata e quindi della sua capacità di prevenire il ritorno di pensieri e ricordi non voluti. Un dato confermato nei pazienti affetti da PTSD che presentano livelli di GABA locali inversamente correlati alla gravità della patologia (pur avendo subito traumi paragonabili).

Da sottolineare che lo studio ha permesso di ampliare il focus delle precedenti ricerche, prima centrato sulla corteccia prefrontale (il centro di comando), includendo l'ippocampo, ampliando così la finestra interventista nella progettazione dei trattamenti farmacologici e nel monitoraggio del loro effetto.

Le ricadute terapeutiche potrebbero espandersi oltre la PTSD toccando la schizofrenia. E' infatti emerso che i soggetti schizofrenici hanno ippocampi iperattivi, il che si correla con la frequenza di sintomi intrusivi come quelli allucinatori. Una ipotesi di lavoro confermata da studi autoptici che hanno rivelato la compromissione dei circuiti neuronali inibitori (basati sul GABA) nell'ippocampo dei pazienti. Una anomalia che "cortocircuita" ogni tentativo della corteccia prefrontale di regolarne l'attività. L'ippocampo, sede della memoria, diviene quindi incapace di bloccare l'emersione di ricordi dal suo "database" che possono, comparendo in modo inopportuno, dare luogo ad allucinazioni percepite come totalmente reali dal soggetto.

Sebbene lo studio non si sbilanci nella formulazione di un nuovo approccio terapeutico, è chiaro che questa nuova finestra conoscitiva espande le potenzialità di intervento in molti disturbi caratterizzati da pensieri ricorrenti non controllabili.

Fonte
Hippocampal GABA enables inhibitory control over unwanted thoughts.
Schmitz, TW et al. - Nature Communications; 3 Nov 2017



Il cervello cancella la percezione del proprio battito non per "abitudine" ma per il nostro bene

Vi è mai capitato di sentire il cuore battere così forte da pensare che la persona vicino a voi potesse sentirlo?
E come mai, nonostante il battito sia facilmente udibile avvicinando l'orecchio al torace, tale suono non giunge di solito all'orecchio del portatore nonostante i tessuti e le cavità interne siano degli ottimi trasmettitori?

I ricercatori svizzeri dell'EPFL hanno cercato di dare una risposta dettagliata in un articolo pubblicato su The Journal of Neuroscience in cui si osserva che il cervello opera una noise reduction ("cancellazione del rumore" come fanno alcuni auricolari attivi) eliminando così la percezione del suono. Secondo gli autori non si tratta semplicemente di una "abitudine al suono" ma di un meccanismo evolutosi già nelle prime fasi dell'evoluzione dei cordati per impedire l'interferenza tra le "sensazioni interne" e la percezione del mondo esterno.
Nulla di strano in tale capacità di filtraggio dal momento che il cuore comincia a battere quando ancora il cervello è solo un abbozzo di cellule ed è quindi da subito esposto al suo "rumore".
Cosa ancora più interessante, le anomalie nel sistema di cancellazione potrebbero facilitare l'insorgenza di disturbi come l'ansia e diminuire la qualità visiva, specie quando lo stimolo visivo si sovrappone temporalmente al battito cardiaco.
La ragione di questa commistione sensoriale è che il nostro apparato visivo (occhi e cervello) funziona in modo concettualmente diverso da quello di una videocamera il cui scopo è catturare ogni immagine (e i dettagli in essa contenute). Nella vista è il cervello a decidere quale delle informazioni catturate passivamente (e non elaborate) a livello retinico siano meritevoli di passare al livello superiore, quello della consapevolezza. Quindi una sovrapposizione sensoriale può pregiudicare la qualità percettiva.

I test condotti su più 150 volontari hanno mostrato che la loro capacità di percepire una forma ottagonale lampeggiante su uno schermo variava a seconda che il "flash visivo" fosse in sincrono o meno con il battito cardiaco; in altre parole se l'apparire dell'immagine era in sincrono con il battito, i soggetti avevano più difficoltà a percepire cosa avevano visto.
Un momento del test (credit: EPFL)
Per analizzare il fenomeno il test fu ripetuto durante la scansione dell'attività cerebrale mediata risonanza magnetica (MRI), dimostrando il coinvolgimento della corteccia insulare. Quando gli stimoli visivi non erano in sincronia con il battito cardiaco del soggetto, la corteccia insulare funzionava normalmente e il soggetto percepiva facilmente l'ottagono lampeggiante. Tuttavia non appena si cambiava fase sovrapponendo i due "stimoli", l'attività dell'insula diminuiva drasticamente ad  indicare che il soggetto era meno (o per nulla)) consapevole dell'input visivo.

Tornando alla correlazione tra diminuito filtraggio e ansia, la consapevolezza del proprio battito cardiaco è frequente nei soggetti con problemi neurologici e in particolare in chi soffre d'ansia. Nelle altre persone la consapevolezza del battito cardiaco si manifesta invece nei momenti di intensa emozione e/o di stress acuto (come la paura ad esempio) quando si ha una iperattivazione sensoriale.
Niente di più probabile allora che una perdita di funzionalità del "filtro" agisca come fattore aggravante o addirittura innescante di alcuni disturbi.

Fonte
- The Insula Mediates Access to Awareness of Visual Stimuli Presented Synchronously to the Heartbeat
Roy Salomon et al, Journal of Neuroscience (2016) 36(18)

- Your brain suppresses perception of heartbeat, for your own good Your brain suppresses perception of heartbeat, for your own good
EPFL / News




Le allucinazioni sono il risultato del tentativo del cervello di dare un senso a informazioni ambigue

Perché alcune persone sono più inclini di altre, al netto di patologie neurologiche, ad avere allucinazioni?
Secondo una nuova ricerca condotta dalle università di Cambridge e di Cardiff, le allucinazioni sarebbero il risultato del tentativo del nostro cervello di dare un senso al mondo ambiguo e complesso che ci circonda.

Date un'occhiata all'immagine in bianco e nero qui sotto e cercate di "comprenderla". 
Credit: Cambridge University

E' molto probabile che l'immagine vi sia apparsa come un abbozzo senza senso di macchie bianche e nere. Confrontatela ora con l'immagine originale e tornate poi ad osservare l'immagine in bianco e nero.
Nota. Cliccate sulla miniatura a lato o direttamente sul link --> http://www.cam.ac.uk/sites/www.cam.ac.uk/files/inner-images/press_colour_smal.jpg)
Miracolosamente l'immagine confusa di prima vi apparirà ora sensata con tutti i tasselli divenuti elementi cardine di una fotografia classica.

La capacità di dare un senso ad un input visivo "non immediatamente comprensibile" è, secondo i neuroscienziati inglesi, la chiave per capire perché alcune persone sono più inclini di altre alle allucinazioni.

Una delle esperienze più terribili associata ad alcune malattie mentali è la psicosi, di fatto una perdita di contatto con la realtà esterna. Terribile in quanto si traduce in una difficoltà di dare un senso al mondo, che di conseguenza apparirà minaccioso, invadente e confuso (non è un caso che nelle fasi iniziali del morbo di Alzheimer i soggetti spesso abbiano reazioni violente dettate dalla paura di un ambiente che improvvisamente appare ignoto). La psicosi è a volte accompagnata da sostanziali cambiamenti nella percezione sensoriale, come cioè le persone vedono, sentono, colgono immagini, suoni, odori e sapori di entità che, il più delle volte, non sono effettivamente presenti. In altre parole, allucinazioni
In alcune persone alle allucinazioni sensoriali si sovrappongono convincimenti profondi, che paiono "ovvi" a chi li vive ma del tutto irrazionali e impossibili da comprendere per tutti gli altri. L'insieme dei due fenomeni spiega perché in un passato appena dietro l'angolo, le persone che soffrivano di allucinazioni venissero relegate ai margini della società, rinchiusi in strutture apposite o, in alcune culture, usati come oracoli viventi capaci di accedere ad una realtà invisibile a tutti gli altri.

Nella ricerca inglese pubblicata poche settimane fa su PNAS, la rivista della American National Academy of Sciences, si è testata l'ipotesi che le allucinazioni fossero il risultato di una eccessiva tendenza del cervello ad interpretare il mondo che ci circonda facendo uso delle conoscenze precedenti.
Per dare un senso e interagire con l'ambiente fisico e sociale in cui siamo immersi, abbiamo bisogno di informazioni adeguate, come ad esempio, la dimensione o la posizione di un oggetto vicino. Se non abbiamo accesso diretto a tali informazioni siamo costretti a interpretare le informazioni disponibili con il rischio di ricavarne estrapolazioni ambigue o incomplete. Questa continua elaborazione viene facilitata combinando gli input sensoriali con le nostre aspettative di un dato ambiente (basate sul ricordo o sulla associazione con situazioni simili). Ad esempio, quando entriamo nel nostro salotto potremmo scorgere con la coda dell'occhio (o perché in penombra) la presenza di una forma nera in rapido movimento che verrà in automatico etichettata come "il nostro gatto che si muove", anche se l'input visivo era poco più di una sfocatura subito scomparsa dietro il divano. L'input sensoriale è stato qui minimo e l'esperienza "gatto" è il frutto quasi totale di una elaborazione per dare un senso a quanto scorto. Difficile che si verifichi se non abbiamo un gatto in casa mentre è molto probabile che si verifichi se lo abbiamo (o lo abbiamo avuto) anche se non è lui l'origine di tale percezione (ad esempio si trova in un altra stanza e la "visione" è solo il risultato di un gioco di luci e ombre.

In un certo senso è il cervello che crea ciò che noi "vediamo"; visione beninteso non in senso fisico ma esperienziale. L'attività elaborativa cerebrale riempie gli spazi vuoti, ignorando gli elementi discordanti e presentandoci così una immagine modificata del mondo, fatta per adattarsi alle nostre attese. Non si tratta di un difetto ma del modo più efficiente per creare un quadro coerente di un mondo altrimenti ambiguo data l'enormità di stimoli sensoriali che riceviamo in ogni istante. Sebbene questo rappresenti un vantaggio fondamentale per la nostra stessa sopravvivenza (sapere cogliere solo gli stimoli "utili" e non perdersi in una elaborazione che rallenterebbe troppo il tempo di risposta è la differenza stessa tra vivere o soccombere ad un predatore) il rovescio della medaglia è che questo nostro filtraggio ed adattamento ci pone in una condizione non troppo distante da quella tipica delle allucinazioni, cioè quella di percepire come reale il frutto di estrapolazioni inconsce.
E' importante a tale proposito ricordare come la percezione sensoriale "alterata" non è presente solo nelle persone con disturbi neurologici. Si tratta in verità di un fenomeno relativamente comune, sebbene in forma lieve; molti di noi hanno avuto una volta o l'altra l'impressione di avere sentito un campanello o di avere riconosciuto nella folla una persona che si crede di conoscere, etc etc. Quello che cambia, e che delimita i confini della psicosi, è la frequenza e la pervasività di tali "false" esperienze.

Nell'articolo i ricercatori hanno esaminato 18 individui affetti da psicosi insieme ad un controllo di 16 volontari sani. A tutti loro furono mostrate immagini ambigue simili a quella mostrata prima, valutando la loro capacità di "capirle"; ad esempio alcune di queste immagini contenevano una persona e lo scopo del test era accorgersi di tale presenza. Come avete potuto osservare voi stessi, la capacità di decifrarne il contenuto non è semplice almeno finché il cervello non capisce cosa cercare.
I risultati del test nelle prime fasi diedero risultati sostanzialmente identici nei due gruppi. Nella seconda fase furono aggiunte anche immagini a colori, tra cui anche la versione "in chiaro" di alcune delle immagini prima viste in bianco e nero.
Scopo del test era dimostrare che se le allucinazioni originavano da una maggiore tendenza a sovrapporre la previsione di quello che si vede a quanto si percepisce, allora le persone predisposte alle allucinazioni sarebbero state più brave ad utilizzare le informazioni delle immagini a colori per estrapolare il contenuto criptico delle immagini in bianco e nero.
Ipotesi dimostratasi vera: le persone con sintomi psicotici ancora nelle prime fasi mostravano performance predittive del contenuto dell'immagine migliori rispetto a quelle dei soggetti normali, il che suggerisce che le prime basavano la loro interpretazione di input "ambigui" su una iper-elaborazione.

Un libro consigliato, tra gli ultimi
del compianto Oliver Sacks
(--> Amazon)
Il test venne ripetuto su un campione più ampio, 40 persone sane, con il risultato di un continuum di risultati che ben si correlavano con l'indice di rischio alla psicosi di ciascun partecipante. In altre parole, il cambiamento del processamento dell'informazione che favorisce la conoscenza "a priori" rispetto a quella mediata dall'input sensoriale durante la percezione è uno strumento operativo che anticipa la comparsa dei primi sintomi psicotici, elemento chiave per finalità diagnostiche. Sintomi che non sono la manifestazione di un cervello "rotto" ma piuttosto di un cervello che ha accentuato la tendenza naturale di dare un senso a dati in ingresso spesso ambigui e che le persone "normali" filtrano, ottimizzando così la comprensione del mondo.
Non è un caso che l'arte, intesa come rappresentazione del mondo, dia risultati straordinari (appunto perché fuori dall'ordinario) in artisti neurologicamente borderline o, nemmeno troppo raramente, chiaramente psicotici.

Sulla correlazione tra intelligenza e "artisticità" e malattie mentali vedi i precedenti articoli (--> "Intelligenza" e "Arte"). Altri articoli che potrebbero interessarvi --> "Déjà-vu" e "Esperienze al rallentatore", "La chimica dei rave-party e gli antidepressivi"


Fonte
- Shift towards prior knowledge confers a perceptual advantage in early psychosis and psychosis-prone healthy individuals
Teufel, C et al.  PNAS; 12 Oct 2015
- How hallucinations emerge from trying to make sense of an ambiguous world.


I gemelli vivono più a lungo grazie ad una maggiore capacità di condividere

I gemelli sono il campione ideale di studio quando il fine è caratterizzare il peso della componente genetica rispetto a quella ambientale nella predisposizione a malattie o in generale al comportamento (in tutte le sue sfaccettature, non solo e non necessariamente di tipo patologico).
Tra le peculiarità osservate (anche se finora su base aneddotica) vi è il fatto  che i gemelli "veri" (intesi come gemelli monozigoti) abbiano una vita media più lunga sia rispetto ai controlli "singoli" che ai gemelli dizigoti, al netto ovviamente dei casi in cui di soggetti con genetica predisponente a qualche malattia. 
A fare luce su questa ipotesi arriva ora uno studio condotto dall'università di Washington che dopo avere valutato la fondatezza statistica di questa ipotesi ne ha ricercato una possibile spiegazione identificandola nel legame "speciale" che unisce i gemelli per tutta la vita. In pratica sarebbe la loro naturale condivisione esperienziale ed emotiva a fornire la marcia in più per ridurre lo "stress esistenziale" (e quindi lo stress tout court).

 Lo studio, pubblicato sulla rivista PLoS ONE, è partito misurando attraverso una analisi retrospettiva l'aspettativa di vita dei gemelli rispetto a quelli di controlli vissuti nella stessa area in modo da minimizzare la componente genetica e ambientale. I dati sono stati ricavati da un database danese (--> The Danish Twin Registry) il più antico e meglio fornito registro sui gemelli a livello mondiale.
 I risultati hanno mostrato che in effetti i gemelli (qualunque fosse il sesso della  coppia) avevano tassi di mortalità più bassi qualunque fosse l'età anagrafica di riferimento (per capirci valori misurati rispetto ai controlli di pari età); non tassi straordinariamente inferiori ma statisticamente significativi.

L'analisi ha preso in esame 2932 coppie di gemelli monozigoti nati in Danimarca tra il 1870 e il 1900, e sopravvissuti oltre i 10 anni (ricordiamoci che i tassi di mortalità infantile nell'Europa di fine '800 erano molto elevati); si sono quindi incrociati i dati sul loro decesso con quelli della popolazione danese (geneticamente omogenea) pesati per età.
Nel caso dei gemelli di sesso maschile si è osservato che il vantaggio massimo in termini di minor tasso di mortalità si aveva intorno ai 40 anni ed era pari a circa il 6 per cento; in altre parole se per 100 ragazzi danesi di partenza quelli ancora vivi a 45 anni era 84, questo numero diventava 90 nel caso dei gemelli. Per le donne il vantaggio massimo lo si aveva poco dopo i 60 anni con un incremento relativo di 10 punti percentuali.

Nella discussione dell'articolo gli autori avanzano l'ipotesi che il vantaggio di sopravvivenza sia una diretta conseguenza di un maggiore sostegno reciproco che si protrae per tutta la vita (e che infatti viene meno nei casi di gemelli separati prima della maturità). 
L'idea che la rete di sicurezza sociale fornita da rapporti stabili fornisca anche vantaggi psicologici e di salute sul lungo periodo non è nuova in quanto già proposta per le coppie sposate (e stabili) da almeno un decennio. Il problema di tale ipotesi è che era difficile capire se fosse veramente il matrimonio a stabilizzare le persone (riducendo i fattori di stress sociale) oppure se non fosse vero il contrario, cioè che le persone sane hanno maggiore probabilità di sposarsi (e di godere dei  benefici di una rete sociale allargata) rispetto a persone meno "appetibili" o meno "stabili" per il matrimonio.
Lo studio sui gemelli permette di superare questo ostacolo teorico per il semplice motivo che le persone non possono scegliere se avere o meno un gemello. 
Il maggior peso protettivo riscontrato nei gemelli maschi fa pensare che la mutua vigilanza e supporto tra i due fratelli funzioni come minimizzatore dei fattori di rischio (alias maggiore "tendenza a cacciarsi nei guai" tipica nei maschi sotto i 30 anni).

Il fatto che i dati confermino l'esistenza di un vantaggio di sopravvivenza dimostra che le relazioni sociali sono benefiche nel minimizzare i rischi della salute
Un risultato che va oltre la casistica sui gemelli.

Fonte
University of Washington, news
- A Twin Protection Effect? Explaining Twin Survival Advantages with a Two-Process Mortality Model
David J. Sharrow & James J. Anderson, (2016) PLoS One, 11(5)



Déjà-vu. Sono le emozioni e non i falsi ricordi la causa del fenomeno

Déjà-vu. Le emozioni, non i ricordi, spiegano un fenomeno, da sempre misteriosamente affascinante

Tutti noi abbiamo sperimentato almeno una volta il déjà-vu e la sensazione quasi metafisica che comporta. Beh, forse non è capitato proprio a tutti (si stima che almeno l'80 % delle persone l'abbia vissuto almeno una volta) ma di sicuro la quasi totalità delle persone conosce il fenomeno.
Peccato che all'aneddotica diffusa non corrisponda una uguale conoscenza scientifica dei meccanismi cerebrali causanti l'alterazione dei ricordi (paramnesia) che ci fa credere di avere già vissuto l'esperienza che stiamo vivendo in quel momento.
Una sensazione quasi metafisica ho scritto perché ci fa pensare ad una circolarità di esperienze molto simile alla preveggenza e che nel passato ha influenzato non poco gli scritti di filosofi e religiosi.
Nota. Il termine  déjà-vu compare per la prima volta nel saggio L’Avenir des sciences psychiques scritto nel 1917 da Émile Boirac. Per un eccellente compendio sul tema consiglio il libro "Piramidi di Tempo" (di Remo Bodei, edizioni Il Mulino).
Se le elucubrazioni filosofiche sulla origine del déjà-vù non sono mai mancate, le ipotesi scientifiche hanno dovuto rimanere tali, cioè mere ipotesi, fino a pochissimo tempo fa stante l'oggettiva difficoltà di analizzare il fenomeno e di riprodurlo sperimentalmente. Difficoltà sia di tipo tecnico (monitorare l'attività cerebrale in modo non invasivo e preciso) che empirico (il fenomeno dura al massimo pochi minuti e non è inducibile "a comando" come invece può avvenire con l'epilessia o l'emicrania, di cui sono noti gli elementi facilitatori).

L'ipotesi più accreditata finora vedeva il déjà-vù come una alterazione mnemonica causata da un “falso riconoscimento di familiarità” in una situazione di fatto nuova. L'errata percezione fungerebbe così da innesco per l'attivazione dei circuiti mnemonico-emozionali legati ad una esperienza passata: il risultato è la convinzione di avere già vissuto quella data esperienza.

A ridefinire il campo ci ha pensato qualche mese fa uno studio italiano, pubblicato sulla rivista Cortex da Angelo Labate dell'Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare (Ibfm) del CNR, in cui si afferma che non si tratta in realtà della creazioni di ricordi fasulli, o almeno non nelle persone sane.

Per spiegare questo concetto Labate distingue due forme di déjà-vu, quello estemporaneo tipico delle persone sane e quello più frequente presente nei soggetti che soffrono di epilessia del lobo temporale.
Se nei secondi il fenomeno può essere inteso come la creazione di un falso ricordo, nei soggetti sani il déjà-vu deriva da un inganno emotivo.
Le aree cerebrali coinvolte sono in effetti completamente diverse. Negli epilettici l'epicentro del fenomeno è l'area temporale mentre nei soggetti sani i circuiti coinvolti sono quelli sensoriali che afferiscono all'ippocampo e all'insula, le aree dove memoria, sensi e aree emotive si incontrano.

L'ipotesi di Labate nasce da una analisi "indiretta" dato che non è possibile misurare il déjà-vu nel momento in cui avviene. Sintetizzando al massimo lo studio, 63 soggetti con storia di epilessia (metà dei quali aveva sperimentato in più occasioni il fenomeno del déjà-vu) e 39 controlli sani (anche qui metà di loro ricordava esperienze di deja vù) sono stati analizzati mediante elettroencefalogramma e risonanza magnetica funzionale e morfologica.
Lo studio è di fatto la continuazione di una analisi fatta da altri ricercatori nel 2012 (pubblicato sempre su Cortex), in cui l'origine del déjà-vu venne "posizionato" in un'area posta tra talamo e corteccia temporale. La lettura dell'articolo accese una "lampadina" in Labate che vide in questi dati una strana correlazione con le alterazioni tipiche dell’epilessia del lobo temporale, il suo campo di studio. Si chiese allora se i soggetti sani analizzati nel 2012 fossero in realtà degli "epilettici asintomatici". Una idea dimostratasi a posteriori corretta.
La conclusione dello studio è che quanto avviene nei soggetti sani è verosimilmente un inganno percettivo e non un errore di memoria; in altre parole sarebbe l'emozione associata al fenomeno che si sta vivendo in quel momento ad attivare una correlazione con eventi passati in grado di attivare uguali emozioni.
Nulla di strano se si pensa che il 90% delle informazioni che registriamo ogni giorno rimangono latenti nel subconscio, e ci ricordiamo di esse solo se richiamate indirettamente.
Se è l'emozione il punto di contatto tra esperienze diverse e se esso può funzionare da innesco in grado di richiamare una memoria "nascosta" sovrapponendola all'evento in tempo reale, si comprende allora per quale motivo il déjà-vu sia così frequente anche nelle persone sane.

Negli epilettici il discorso è diverso.
Si tratta veramente di una falsa memoria che appare reale in quanto l’area coinvolta comprende corteccia visiva e ippocampo, le aree cerebrali responsabili del riconoscimento visivo e della memorizzazione a lungo termine, rispettivamente.

Siamo ancora all'inizio della comprensione del fenomeno ma il quadro comincia ad essere più chiaro.
(Articolo successivo sul tema --> "La natura delle allucinazioni"

 Potrebbe interessarti in questo blog l'articolo --> "Esperienze al rallentatore"

Fonte
- Neuro-anatomical differences among epileptic and non-epileptic déjà-vu
A. Labate et al (2014) Cortex


               

Stimolazione transcranica per combattere l'anoressia

L'anoressia è una disfunzione di tipo neurologico che getta le sue basi, spesso, con la banale decisione di perdere i chili di troppo (veri o presunti che siano) ma che può degenerare in disturbi comportamentali fobici nei confronti del cibo in generale insieme alla dissociazione percettiva tra la realtà della propria forma fisica e quella "vista" allo specchio; in altre parole il soggetto anche quando chiaramente sottopeso vedrà una immagine distorta di sé come se si osservasse attraverso uno specchio deformato.
Il fatto che sui milioni di persone attenti alla dieta vi sia solo una percentuale decimale di soggetti affetti da un disturbo alimentare compulsivo, è indice che non si tratta solo della conseguenza di una moda ma che ci sono soggetti più a rischio di altri (per età, cultura, sesso e condizione psicologica) di ammalarsi. Le fasce più a rischio sono le ragazze tra i 15 e 25 anni, a causa sia dei cambiamenti fisiologici del corpo durante l'adolescenza che delle aspettative (proprie o altrui) di conformità ad uno standard creato dai media.
Il percorso di recupero non è breve né esiste un approccio universalmente valido. Perché abbia successo è necessaria sia la collaborazione fattiva del malato che un approccio multidisciplinare gestito da professionisti diversi tra cui psicologi, nutrizionisti e medici; gli approcci fai da te sono fortemente sconsigliati per il semplice motivo che l'anoressia è una malattia e non un "capriccio" e come tale va trattata in modo clinico.
Il tasso di mortalità "prematuro" riconducibile alle disfunzioni organiche indotte dall'anoressia è superiore al 20 per cento. Un numero che però sottostima le complicanze di lunga durata (sia mediche che sociali) che l'anoressia inevitabilmente produce; dall'osteoporosi ai danni a denti e gengive, dall'interruzione del ciclo agli scompensi cardiaci fino alla estesa gamma dei problemi sociali e, perché no, di efficienza sul lavoro o nello studio.

Un aiuto alla terapia comportamentale potrebbe venire dalla modulazione di specifici circuiti cerebrali in modo assolutamente non-invasivo, grazie alla stimolazione magnetica transcranica (TMS). Il metodo in sé è stato approvato dalla FDA americana in diverse situazioni in cui la chimica farmaceutica o altri approcci non si siano dimostrati risolutivi. Il concetto è semplice e si basa sulla capacità di un campo magnetico di indurre una corrente elettrica locale; dato che i circuiti neuronali si basano sulla trasduzione del segnale con un susseguirsi di chimica (neurotrasmettitori) e corrente elettrica (potenziali di azione), la possibilità di fare un reset o di rimodulare circuiti neurali con attività anomala è apparsa da subito come un approccio molto interessante in disturbi neurologici resistenti ai trattamenti chimici (ad esempio la depressione).
Il metodo è assolutamente non invasivo. Attorno alla testa del paziente viene posta una bobina di ceramica all'interno della quale viene fatta circolare della corrente che crea un campo magnetico il quale influenzerà l'attività elettrica dei neuroni bersaglio. Il trattamento dura in genere 10' e il paziente non percepirà nulla, se non in alcuni casi un arrossamento della cute. Il numero di sedute complessive è variabile (7-10 nel caso della depressione resistente ai farmaci). L'accuratezza della zona trattata viene facilitata dal monitoraggio mediante risonanza magnetica. Diversa cosa è la stimolazione cerebrale profonda (elettrica) che necessita di posizionare un elettrodo all'interno del cervello, condizione questa necessaria in quelle patologie in cui le regioni coinvolte sono troppo in profondità (esempio di utilizzo --> Parkinson)
 I potenziali vantaggi della TMS nel trattamento dell'anoressia nervosa sono stati illustrati in un articolo pubblicato sulla rivista PLoS ONE da un gruppo del King's College di Londra. Si tratta del primo studio randomizzato per valutare i rischi-benefici della TMS nella terapia dell'anoressia.
La zona bersaglio della stimolazione è la corteccia prefrontale dorsolaterale, l'area alla base della pianificazione e organizzazione dei comportamenti complessi e delle capacità cognitive superiori.

I risultati mostrano che una singola sessione di TMS induce un rilassamento della "urgenza" di limitare l'assunzione di cibo e un minor senso di sazietà, della percezione di "grassezza" e delle fobie correlate, facilitando nel contempo un processo decisionale "logico" che incoraggia la paziente a continuare le terapie ricostituenti.
L'effetto "percettivo" è stato testato in due tempi, 20' e 24h dopo il trattamento, esponendo le pazienti a stimoli visivi di cibi appetitosi e chiedendo loro di valutare sia l'aspetto percettivo (sapore, odore e aspetto) che la voglia di mangiarli.
La capacità decisionale è stata anche valutata in senso più esteso monitorando l'intensità dei comportamenti prudenti e di lungo periodo rispetto a quelli di gratificazione istantanea. Anche qui si è osservato che rispetto al placebo le scelte erano spostate verso quella di lungo periodo, ad indicare una maggiore attività del controllo prefrontale.
I risultati sono da considerarsi preliminari in quanto il numero di soggetti testati è troppo basso perché si possa ricavare una statistica affidabile.
E' tuttavia un passo in avanti nello sviluppo di terapie adatte ad una piaga sempre più diffusa nelle ragazze e giovani donne.

Video riassuntivo dello studio (by King's College London)



Fonte
- A Randomised Controlled Trial of Neuronavigated Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation (rTMS) in Anorexia Nervosa 
Jessica McClelland et al,  PLoS ONE, (2016) 23;11(3)

Intelligenza e disturbi mentali. Un legame

La letteratura scientifica e aneddotica sul legame tra arte, genialità e "peculiarità" mentali, giusto per usare un eufemismo, è ampia e di questo ne ho trattato in precedenza in questo blog (--> QUI). Niente di eclatante in fondo visto quanto sono comuni frasi caratterizzanti tipo "è proprio strano ma in fondo è un artista (oppure scienziato o scrittore o ...)".
(©Focus.it / Works/Corbis)
Ad aggiungere un nuovo tassello alla conoscenza del perché sussista tale legame vi è la ricerca pubblicata sul British Journal of Psychiatry, che suggerisce come i gravi disturbi dell'umore, quale il disturbo bipolare, potrebbero rappresentare il dazio evolutivo pagato dagli esseri umani per la comparsa dei tratti caratterizzanti la nostra specie come intelligenza, creatività e competenza verbale.
I ricercatori sono partiti dalla ampia raccolta di informazioni presente nello studio longitudinale AVON su genitori e figli iniziato negli anni '90 (ALSPAC) giungendo alla conclusione che il possedere un alto QI durante l'infanzia è predittivo della comparsa del disturbo bipolare in età adulta.
Il database ALSPAC rappresenta un ottimo punto di partenza per indagini che presentano molteplici (e poco note) varianti grazie alle informazioni contenuti sui partecipanti allo studio (14 mila donne più partner e figli) seguiti nel corso di oltre due decenni grazie ad interviste e analisi periodiche sul loro stato di salute. Per le finalità dello studio di cui sopra i ricercatori si sono concentrati sul grado di correlazione tra i valori di QI misurati all'età di otto anni e la presenza di sintomi maniacali intorno ai  22 anni.
Nota. La valutazione del QI nello studio è basata sia sul QI verbale (VIQ) che di performance (IPU).
In totale sono state identificate 1881 persone che mostravano una associazione tra QI e presenza di episodi maniacali continuati. Nello specifico gli individui che presentavano caratteristiche maniacali nel decile inferiore avevano ricevuto un punteggio QI inferiore di circa 10 punti rispetto ai soggetti le cui caratteristiche maniacali li posizionavano nel decile superiore. In particolare è il VIQ il parametro con miglior valore predittivo di disturbi maniacali futuri.

Il responsabile del progetto, Daniel Smith, riassume così le idee attuali sul tema: "un possibile legame tra disturbo bipolare e intelligenza/creatività è da anni oggetto di discussioni e sono molti gli studi che vanno in tale direzione. Nel nostro studio, abbiamo scoperto che avere migliori punteggi nel test QI all'età di otto [strumento ampiamente usato nelle scuole anglosassoni e orientali. NdB] può prevedere la comparsa di caratteristiche bipolari all'inizio della età adulta. Questo NON vuol dire che un alto QI infantile sia un fattore di rischio concreto ma piuttosto che esista una biologia condivisa tra l'intelligenza e il disturbo bipolare che merita di essere studiata".
Molti sono i fattori in grado di influire pesantemente sul rischio concreto di disturbi maniacali; tra questi la storia familiare di malattie mentali (la genetica), fenomeni traumatici, anche se non percepiti come tali, nella prima decade e infine l'uso/abuso di droghe. 
L'aggettivazione "biologica" usata da Smith è particolarmente interessante in quanto tale pattern (il sapere vedere fuori dagli schemi) potrebbe essere stato selezionato come fattore evolutivamente utile purché a bassa frequenza nella popolazione. Semplificando al massimo, una popolazione in cui fossero dominanti le caratteristiche mentali di persone indubbiamente geniali come il matematico Nash, Einstein o di un Van Gogh, si sarebbe verosimilmente autoestinta in quanto non "adatta alla vita pratica". Di converso se non fossero mai esistite  persone in grado di "vedere oltre" saremmo rimasti confinati nelle savane africane allo stadio di cacciatori-raccoglitori.

Nota. In data 21 marzo 2016, sempre grazie ai dati forniti dallo studio AVON, è stato pubblicato sulla rivista Nature Genetics un lavoro centrato sulla distribuzione degli alleli "autistici" nella popolazione generale (vedi Elise B Robinson et al, Nature Genetics (2016).


Fonte
- Childhood IQ and risk of bipolar disorder in adulthood: prospective birth cohort study
J.D. Smith et al, (2015)  British Journal of Psychiatry Open, 1(1), pp. 74-80
- Is there a link between high childhood IQ and bipolar disorder?
Bristol University/news

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"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
Clive S. Lewis

"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper