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Pipistrelli e virus letali. La "colpa" è nell'avere un sistema immunitario altamente efficiente

L'attuale pandemia con il corollario dei pipistrelli come la fonte naturale (più probabile) del coronavirus, ha rinnovato i quesiti sul perché i virus da essi trasmessi abbiano una alta virulenza per gli esseri umani.
Volpe volante australiana (credit: Linfa Wang via Berkeley.edu)
E' bene però precisare che una domanda così generica, pur se fondata, è mal posta per una serie di motivi.
Cominciamo con il dire che a differenza di Ebola dove il pipistrello della frutta è ancora oggi il serbatoio naturale del virus capace di passare in qualunque momento all'ospite primate, il coronavirus ha avuto bisogno di molteplici contatti tra pipistrelli e umani affinché comparisse la variante virale capace di infettare l'umano in modo produttivo e di generare progenie virale capace di passare direttamente da un umano all'altro.
Quando il virus salta la barriera inter-specie si ha la zoonosi.
Questa "serie di sfortunati eventi" (giusto per citare una celebre serie TV) ha indubbiamente ricevuto un grande aiuto dalla consuetudine asiatica ai wet market. Altro evento sfavorevole il fatto che mentre Ebola si trasmette solo attraverso fluidi corporei, il coronavirus è un virus "aereo" come quelli di influenza e raffreddore, la cui diffusione non necessita quindi di contatto diretto. Non è un caso che le varianti annuali dell'influenza seguano il percorso di molti uccelli migratori le cui deiezioni infettano prima gli animali di allevamento e infine gli umani. 

Che i pipistrelli non siano gli untori per antonomasia di qualunque epidemia, lo possiamo facilmente verificare osservando che sono una "sorgente" minoritaria rispetto a tutte le malattie veicolate da insetti e roditori.
Non di meno è indubbio che oltre alla rabbia, è dai pipistrelli che sono originate le malattie virali di maggior impatto come Marburg, Ebola, SARS, MERS e covid19

Spesso questi virus usano un intermediario prima di arrivare a noi, il che (ma non sempre) è un passaggio adattativo necessario per selezionare il virus più affine ai nostri sistemi. Gli esempi sono vari: la SARS ha usato lo zibetto asiatico delle palme; la MERS i cammelli; Ebola (anche) gorilla e scimpanzè; la rabbia quasi tutti gli animali tra cui i cani.
La ragione della sempre più frequente associazione tra malattie infettive e pipistrelli non è da cercarsi nel loro essere diventati improvvisamente "più pericolosi". La causa è molto più semplice e rappresenta due facce della stessa medaglia: la distruzione del loro habitat naturale legata all'aumentata antropizzazione a cui si somma il loro trasporto nei centri abitati dove vengono maneggiati vivi e macellati direttamente nei wet market.
Non bastassero le maggiori occasioni di contatto (da cui maggior probabilità di trasmissione di  qualunque microbo) c'è anche da sottolineare come l'invasione del loro ambiente ne aumenta lo stress (e con esso la produzione di virus), ne favorisce movimento e a cascata una maggiore dispersione del virus mediante saliva, urina e feci.
Nota.  L'epidemia di Ebola del 2014 è istruttiva. Il paziente zero della epidemia in Africa occidentale fu trovato in chi raccoglieva la frutta nei pressi di un albero abitualmente usato da colonie di pipistrelli, i cui frutti erano sporcati dalle deiezioni del mammifero (trovate un riassunto degli eventi in un precedente articolo --> "L'epidemia di Ebola ad 1 anno dall'inizio").
Fatta questa precisazione, possiamo dire che c'è una ragione se alcuni dei virus più aggressivi arrivano dal serbatoio naturale dei pipistrelli. La ragione è che questi mammiferi hanno un sistema immunitario estremamente efficiente e ben regolato, per cui quando un virus "incappa" in un organismo permissivo e immunologicamente "meno tosto" come gli umani si trova ad agire al massimo del sue potenzialità, come una Ferrari che passi da un circuito con sistemi di sicurezza ad una semplice autostrada deserta; o almeno rimane tale finché, come sta avvenendo negli ultimi mesi, la selezione naturale porta alla comparsa di virus "moderati"
(Ricordo che un virus efficiente è quello che non uccide il proprio ospite, almeno non in tempi brevi, perché così facendo uccide la sua stessa progenie potenziale e con esso diminuisce la probabilità che in futuro esistano suoi discendenti).
A fornire dettagli in merito è uno studio di qualche mese fa pubblicato su eLife da un team della UC Berkeley che mostra come la forte risposta immunitaria dei pipistrelli abbia selezionato virus in grado di replicarsi il più velocemente possibile in modo da generare sufficiente progenie prima di essere neutralizzati.
Tali virus ad azione rapida non sono un problema per i pipistrelli ma possono rappresentare un problema quando quel particolare patogeno mostra una cross-reattività (leggasi presenza di recettore compatibile e capacità di usare il macchinario cellulare) in un nuovo ospite animale, che in questo caso siamo noi.
Quando questi virus "iper-attivi" si imbattono in un mammifero permissivo l'effetto risultante sarà, per l'ospite, catastrofico.
 Questo è ciò che rende uniche le epidemie originate da pipistrelli, l'essere un serbatoio di virus a riproduzione rapida e altamente trasmissibili.

A fare veramente la differenza nella efficienza antivirale dei pipistrelli è la loro capacità di mantenere sotto controllo l'attività antinfiammatoria durante l'ampia mobilitazione immunitaria.
Chiunque abbia una minima infarinatura biomedica sa che sono ben poche le patologie innescate da un patogeno che si rivelano letali per l'azione diretta del patogeno stesso. In gran parte dei casi è la risposta immunitaria eccessiva, una infiammazione fuori controllo acuta o cronica che sia, a causare danni anche irreversibili nel nostro corpo. Gli esempi sono molteplici e vanno dal malessere che si accompagna ai banali raffreddori e influenza (sono le citochine la causa, non il virus), il diabete di tipo 1 (autoimmunitario e, probabilmente in alcuni casi predisposti, innescato da una infezione da Coxsackievirus type B), la sepsi che provoca un collasso multi-organo a causa della tempesta citochinica, fino al covid19 dove non è il virus la causa dell'eventuale decesso ma il collasso della funzionalità polmonare a causa del riempimento di liquido.
Nei pipistrelli questo "eccesso di risposta" e i danni da "fuoco amico" sono minimizzati grazie ad un potente sistema di controllo dell'infiammazione. Il vantaggio è ovvio: accurata e rapida azione anti-patogeno prima che possa causare lesioni rilevanti e pochi danni collaterali (né Ebola, né i coronavirus sono per loro fonte di seri problemi).

Analizzando a monte le ragioni di tale peculiarità, tutto nasce dalla particolare fisiologia di quello che è l'unico mammifero volante. I pipistrelli hanno un metabolismo in volo che è il doppio di quello di un roditore mentre corre. In termini generali, ad una intensa attività fisica e alto tasso metabolico si associano maggiori danni ai tessuti a causa dell'accumulo di molecole reattive come i radicali liberi.
L'evoluzione ha fornito ai pipistrelli dei meccanismi fisiologici per neutralizzare in modo efficiente il sovrappiù di queste molecole distruttive. Un tale sistema trova utilizzo sia nella vita quotidiana (il volo) che quando devono gestire le molecole dannose prodotte dall'infiammazione.
Il che a cascata spiega anche la vita straordinariamente lunga di un pipistrello nell'ambiente naturale (fino a 40 anni) se paragonata a  quella del topo pur nelle "ottime e protette" condizioni di laboratorio (meno di 2 anni).
Una longevità anomala perché è noto che gli animali più piccoli, dotati di battito cardiaco e metabolismo più veloce,  hanno una durata di vita minore rispetto ad animali più grandi, con battiti cardiaci e metabolismo più lenti
Semplificando all'ennesima potenza, pensiamo ad un numero "limite" di battiti del cuore totale prima che si deteriori il tessuto cardiaco; il tempo per raggiungere questo valore è minore negli animali più piccoli.
E' ragionevole pensare che un metabolismo elevato porti ad una maggiore produzione nell'unità di tempo di radicali liberi. Se i meccanismi di controllo fisiologici sono tarati per eliminare questo eccesso, il rischio associato cala.

Senza addentrarci in tematiche immunitarie (do per assodata la conoscenza e i meccanismi di immunità cellulare e umorale, adattativa e innata, detossificazione radicali, etc) uno dei "trucchi" chiave che il pipistrello usa sfrutta la predisposizione al rilascio rapido di una molecola di allarme chiamata interferone-alfa, che dice alle altre cellule "preparatevi alle postazioni di battaglia" perché un virus è stato avvistato in una cellula dell'organismo.

Prendiamo ora come esempio alcune specie di pipistrelli che sono dotate in modo diverso di sistemi di segnalazione "enhanced" per difendersi da virus endemici.
Da una parte abbiamo il pipistrello della frutta egiziano (Rousettus aegyptiacus), un ospite saltuario del virus Marburg, che attiva la trascrizione del gene dell'interferone alfa solo in seguito ad un contatto diretto con il virus. La  volpe volante nera australiana (Pteropus alecto), serbatoio naturale del virus Hendra, si prepara invece in anticipo in quanto le sue cellule hanno già pronto l'RNA per  l'interferone-alfa in attesa di ricevere il comando "traduzione in proteina". Prendiamo ora come "bersaglio ideale" la linea cellulare Vero, derivata dalla scimmia verde africana, incapace di produrre interferone.
Se si compara la risposta delle cellule prelevate da questi tre animali a virus potenti come il Marburg, le differenze sono nette.
Mentre la linea cellulare della scimmia verde viene rapidamente distrutta dal virus, quelle del pipistrello egiziano sono in grado di difendersi grazie alla produzione di interferone ma molto meglio  si difendono le cellule della volpe volante capaci di rallentare al massimo la propagazione dell'infezione. Il virus rimane in alcune "nicchie" cellulari ma "l'ondata di piena" della diffusione del virus è bloccata. A livello dell'animale il virus persisterà in alcune nicchie cellulari dando luogo, spesso, ad infezioni croniche ma di fatto asintomatiche, che spiegano perché esistono serbatoi naturali di virus per noi letali
(Noi stessi siamo portatori di virus come l'HSV o quello del morbillo, di cui non esistono, più, in natura gli ospiti "originari").
I ricercatori hanno simulato al computer la diffusione dell'infezione nelle diverse condizioni, variando l'intensità della risposta immunitaria: l'essere dotati di un robusto sistema di risposta basato sull'interferone facilita in effetti la persistenza del virus, tollerato, in quanto al di sotto della soglia di allarme è permessa la sua esistenza.
(Pensate alle braci che covano in una foresta dopo un incendio domato dai ranger. Il fuoco è spento ma ci sono ancora braci ardenti pronte a diffondersi se trovassero materiale infiammabile o se il sistema di vigilanza venisse meno). 
Finché i virus sono in questo ambiente (o con pompieri addestrati che rilevano ogni anomalia) il problema non sussiste; quando il virus si trova in un ambiente meno preparato ecco che la sua "potenza" selezionata per sopravvivere nel pipistrello ha un effetto dirompente.

Dallo studio di queste vie di diffusione attraverso animali più o meno permissivi si spera di riuscire ad intercettare la fase iniziale della "serie di sfortunati eventi"(utile in proposito il precedente articolo sulla rabbia --> "Prevedere l'epidemia di rabbia in base alla migrazione dei pipistrelli")


Fonte
- Accelerated viral dynamics in bat cell lines, with implications for zoonotic emergence
Cara E Brook et al, (2020) eLife
Lessons from the host defences of bats, a unique viral reservoir
Nature (2021)




Le 9 scoperte astronomiche del 2020

L'anno appena trascorso è stato per forza di cose egemonizzato da tematiche legate alla pandemia ma la scienza è andata avanti in ogni campo. 
Le difficoltà logistiche, tra cui l'obbligo di smart working, hanno paradossalmente creato le condizioni per portare avanti analisi che altrimenti sarebbero state sommerse dalla routine o da altri progetti.
Lo stesso dicasi per chi le notizie le legge. Quale occasione migliore se non il primo mese di un anno si spera diverso per ripercorrere le 9 scoperte (oggi mi limito a quelle in ambito astronomico) più importanti del 2020; notizie di cui non ho accennato in alcun precedente articolo ma che mi ero segnato con l'idea di approfondirle ... in futuro. Il futuro è arrivato, quindi non perdiamo altro tempo



Rilevazione di onde radio “aliene”
Come prevedibile con notizie del genere la maggior parte dei media generalisti ha usato come richiamo sotteso alla parola “onde radio” del comunicato, l’idea alla base del film Contact (esempio di clickbaiting) salvo poi spiegare tra le righe che non era nulla di tutto questo.
Va da sé che le onde radio non sono (solo) uno strumento per trasmettere informazioni ma, semplicemente, onde elettromagnetiche con lunghezza d’onda maggiore di 1 metro prodotte da sorgenti naturali come stelle e pianeti in determinate condizioni.

Rappresentazione artistica del pianeta Tau Boötes in cui è mostrato il campo magnetico
(Image credit: Jack Madden/Cornell University)

Nel caso della Terra il campo magnetico (originato dai moti dinamici del ferro fluido nel nucleo esterno), tra le altre cose, ci scherma dalle radiazioni e dai venti solari (il povero Marte che ne è privo si è visto spazzare via l'atmosfera).
Nel nostro sistema solare ci sono altri pianeti come Giove che, pur privi di un nucleo ferroso, hanno una magnetosfera ed emettono onde radio ... e di sicuro non sono sede di centri di comunicazione. 

Notizia del 2020 è l'individuazione, la prima in assoluto, di onde radio provenienti da un esopianeta, quindi da un altro sistema stellare. Il segnale è stato tracciato su un pianeta gioviano, il gigante gassoso Tau Boötis b, distante 51 anni luce.
Lo studio del segnale fornirà agli astrofisici uno strumento ulteriore (oltre ai metodi classici) per caratterizzare l’atmosfera del pianeta. 





Flash di raggi X che appaiono nella Via Lattea
Mappa a falsi colori delle "bolle" di raggi X (gialle e rosse) che torreggiano sul centro galattico
 
(Image credit MPE/IKI via Quantamagazine)

E' del 2010 la identificazione dei resti di una enorme esplosione avvenuta milioni di anni fa nel centro della Via Lattea; le "cicatrici" sono visibili nella banda dei raggi gamma come due gigantesche “bolle" di materia ad alta energia chiamate bolle di Fermi, che torreggiano sulla galassia per la bellezza di 50 mila anni luce (25 mila su ciascun lato).
Nel 2020, i ricercatori ne hanno identificate un’altro paio nella stessa regione, questa volta nella banda dei raggi X, correlate alle precedenti, battezzate eROSITA dal nome dello strumento usato.
Schematizzazione della figura precedente per mostrare le bolle eRosita (giallo) e Fermi (porpora)
(Image credit: Max Planck Institute)




Il ritorno di un "disperso"

L'animazione mostra l'orbita dell'oggetto 2020 SO, intercettato dalla gravità terrestre l'8 novembre 2020; rimarrà con noi fino a marzo 2021. 
(Image credit: Phoenix7777)
Per qualche mese la Terra si è accompagnata ad un oggetto diverso dal solito meteorite o cometa che vagano nel sistema, in genere provenienti dalla Nube di Oort. Che fosse diverso lo si è visto subito una volta entrato nel mirino dei telescopi.
Image credit: Credit: ZTF/Caltech Optical Observatories
Dopo un attento esame i ricercatori hanno dedotto che non poteva essere un oggetto naturale (oltre alla forma pareva proprio metallico) ma, si rilassino gli amici di Area 51, non di natura aliena. 
Si tratta infatti di una componente di un razzo della NASA lanciato nel 1966 che dopo avere vagato nel sistema solare (e non così lontano come “V’ger”” del film Star Trek) è tornato a farci visita.


Cerchi radio fantasma
L’immagine fantasmatica in blu/verde è la ORC, mostrata sullo sfondo (nello spettro del visibile) delle galassie . Difficile capire se quella arancione proprio al centro sia parte del ORC oppure in background
(Image credit: Bärbel Koribalski / Dark Energy Survey)
La prima ovvia domanda è cosa accidenti sia una ORC. Si tratta del mero acronimo (tendenza comune negli anglofoni) di Odd Radio Circles vale a dire “strani cerchi rilevati nella banda radio”.
Scoperti con il radiotelescopio nel 2019 e resi noti nel 2020, non se ne conosce l'origine. I ricercatori hanno escluso che si tratti di una supernova o di meri effetti ottici come gli anelli di Einstein
Einstein ring. Al centro la galassia che funge da lente gravitazionale mentre l'anello è una galassia sullo sfondo molto più distante la cui immagine è curvata dalla prima (vedi anche foto recente, 2021, ottenuta da Hubble)
Image credit: Lensshoe_hubble.

Qualcuno, non capisco se in vena di celiare, profondamente convinto o dopo avere visto troppe volte Interstellar, ha ipotizzato che potrebbero essere l’ingresso di un wormhole (teorizzati insieme ai buchi bianchi da E. Flamm nel 1916 e formalizzati da Charles Misner and John Wheeler nel 1957, ma a differenza dei buchi neri, mai osservati)


Un milione di nuove galassie
Il sistema di 36 radiotelescopi che forma l’ASKAP (Australian Square Kilometre Array Pathfinder)
(Image credit: Alex Cherney/CSIRO)

L'ASKAP, un sistema di radiotelescopi sito in pieno outback australiano, è riuscito a mappare l'83% dell'universo osservabile dopo circa 300 ore di osservazioni. Insieme alle mappe sono arrivati molti dati tra cui un milione di nuove galassie.
La novità dello studio è che per la prima volta tutti e 36 rilevatori sono stati utilizzati in contemporanea per un singolo progetto.

Questa è solo una preview del tool interattivo che riassume il lavoro di mappatura. Per la versione completa --> atnf.csiro.au.



Indizio di vita su Venere?
Immagine di Venere ottenuta dalla sonda Mariner 10 nel 1974
(image credit: NASA via virginia.edu)
Nemmeno il cacciatore di alieni più fantasioso, o l’esobiologo più audace, potrebbe mai ipotizzare che ci sia vita in un posto infernale (perfino per i nostri batteri estremofili) della superficie di Venere con le sue temperature da forno di pizzeria, una pressione di 92 atmosfere e le piogge di acido solforico (che invero evaporano prima di raggiungere la superficie).
Il record di permanenza funzionale delle sonde che hanno raggiunto la superficie di Venere spetta alla sonda sovietica Venera 13 con 127'.
Tuttavia, come ci hanno insegnato alcuni scrittori di SF la parte superiore dell’atmosfera non è malaccio … a patto di stare su una mongolfiera oppure di essere microbi sospesi.
Da qui il clamore suscitato dalla rilevazione di fosfina nelle nuvole di Venere.
La scoperta nasce per caso, frutto della fase di rodaggio dei telescopi tarati per cercare la fosfina (ritenuto un biomarcatore) e “addestrati” sul pianeta più vicino con l’idea che tanto non si sarebbe trovato nulla, date le condizioni locali (tra cui la radiazione UV) che la distruggerebbero rapidamente.
La scoperta ha fatto sorgere la domanda: se è presente vuol dire che continua a formarsi e se si forma come si forma?
Nota. La fosfina è un costituente dell'atmosfera terrestre sebbene a concentrazioni molto basse e altamente variabili. E’ parte del ciclo biochimico del fosforo, in primis come risultato del processo di riduzione del fosfato nella materia organica in decomposizione. 
Da notare che è stata rilevata anche nell'alta atmosfera gioviana (altro pianeta impossibile per la vita) il che suggerisce cautela prima di fare affermazioni incongrue sulla vita su Venere. La conclusione più ovvia è che mancano tasselli importanti sui processi abiotici capaci di generare questo gas in quantità apprezzabili.
 
Nota. E' di poche ore fa la notizia che i rilevamenti radio di fosfina potrebbero essere un falso segnale causato dall'anidride solforosa (vedi -->INAF


Una nuova magnetar
Nell’immagine catturata dal telescopio spaziale Hubble, è indicata la  zona in cui è stato rilevato l'insolito segnale luminoso, attribuito alla nascita di una magnetar
(image credit: Hubble Space Telescope / NASA)

Il termine kilonova indica una esplosione di enormi proporzioni(*) successiva alla fusione tra corpi superdensi come stelle di neutroni e buchi neri. Eventi talmente potenti da permettere la rilevazione sulla Terra delle increspature gravitazionali e con esse la prova della esistenze di queste onde
(*) Dal punto di vista dell’emissione luminosa siamo invece ad una media di 1/50 rispetto ad una supernova. Valore non a caso inferiore visto che la massa “in gioco” della stella che origina la supernova è maggiore di quella di un buco nero stellare o di una stella a neutroni, entrambi “residui” di precedenti supernova.
Risale allo scorso 12 novembre l’identificazione di una kilonova, attribuita alla fusione di due stelle di neutroni. Di per sé l'evento, pur interessante e raro, non meriterebbe i titoli in prima pagina essendone stati osservati altri in precedenza.
La peculiarità di questa osservazione è nella particolare emissione di luce che è stata spiegata con la nascita di una magnetar.
Una magnetar è in sostanza una stella di neutroni dotata di un enorme campo magnetico che fornisce l’energia per l’emissione di raggi X e gamma. Le magnetar sono una delle tre forme in cui possono presentarsi le stelle di neutroni; l’altra è la pulsar e infine la più rara, una combinazione delle due. La stella di neutroni si forma solo se la stella originaria (o la risultante della fusione tra due in sistema binario) ha massa di almeno 8 masse solari (Ms)
La massa di una stella di neutroni è >1,4 Ms con un massimo di 2,16 Ms (se rotanti possono raggiungere, forse, valori di 2,6 Ms) oltre i quali l’insieme di pressione di degenerazione e di forze nucleari non è più in grado di impedire il collasso gravitazionale e da qui si forma il buco nero.
Il che mi pone un dilemma di comprensione per spiegare la nuova magnetar formata dalla fusione di 2 stelle di neutroni dato che a somma di due stelle di neutroni eccede il limite massimo oltre il quale c'è per forza il buco nero.
Tra le ipotesi che mi vengono in mente la più semplice è che "la massa eccedente" sia stata espulsa durante l'energetico processo di fusione; in alternativa si tratta di una specie “di canto del cigno” di una stella che collasserà verso il buco nero oppure, con molta più fantasia, che sia diventata una stella di Quark, predetta dalla teoria ma mai trovata.


La fonte dei "Lampi Radio"
Nell’illustrazione, una magnetar emette un lampo di radiazioni
(image credit: Sophia Dagnello, NRAO / AUI / NSF)
Le magnetar possono essere tra le sorgenti di lampi di luce tra i più potenti nello spazio. Questi "lampi radio veloci"  (fast radio burst - FRB), di durata media sotto il millisecondo e nella banda radio, hanno disorientato per anni gli astronomi, intenti a capire come possa essere emessa in così breve tempo una quantità di energia paragonabile a quella emessa dal Sole in più giorni (e senza che tale emissione si associ ad un evento distruttivo della stella come nel caso della supernova).
La quasi totalità delle FRB proviene da altre galassie per cui l'identificazione nel 2020 di una FRB proveniente dalla nostra galassia, a circa 30 mila anni luce da noi, è stata accolta con entusiasmo soprattutto perché ha permesso di scoprirne la stella d'origine, una magnetar.
Questo vuol dire che tutte le FRB originano dalle Magnetar? Per ora non ci sono risposte


Gli alieni che potrebbero vederci
(image credit: NASA / NOAA)
La ricerca di esopianeti ha compiuto passi da gigante da inizio millennio con la conferma di oltre un migliaio (4341 ad oggi) di pianeti confermati, per molti dei quali, oltre ad orbita e caratteristiche strutturali, si può perfino inferire la presenza e le caratteristiche dell'atmosfera. Non attraverso l’osservazione diretta (perfino per i pianeti del nostro sistema sono servite sonde inviate in loco per studiarne i dettagli) ma mediante tecniche terze come la spettroscopia associata al metodo del transito; una procedura possibile solo nel caso in cui il pianeta si trovi in asse tra la sua stella e noi.
Seguendo questo ragionamento gli astronomi si sono chiesti da quali sistemi stellari ipotetici astronomi alieni potrebbero rilevare la Terra e la sua atmosfera. Con questa reverse analysis è stato possibile identificare 1004 sistemi stellari in grado di vedere la Terra da una distanza massima di 326 anni luce. Tra questi c’è una stella distante soli 12 anni luce i cui esopianeti saranno allineati in modo ottimale per "scoprirci" nel 2044.

Ma come disse saggiamente Stephen Hawking sul fatto di mandare segnali e magari trovare qualcuno che risponde: “we should be wary of answering back. Meeting an advanced civilization could be like Native Americans encountering Columbus. That didn't turn out so well”. Anche perchè qualunque entità con una tecnologia capace di coprire questa distanza non potrebbe che vederci che come termiti; organismi capaci di costruire strutture complesse e dotati di una struttura sociale ma con cui nessuno di noi si sognerebbe di scambiare opinioni.
Informazioni aggiornate sul numero e caratteristiche degli esopianeti sono reperibili su Exoplanet Search Program (NASA) o su exoplanetarchive (Caltech). Se invece volete avere un'idea dei metodi usati per identificarli vi rimando alla --> postilla metodologica.
 




Integratori a base di riso rosso. Usarli con intelligenza non è un optional

Integratori a base di riso rosso fermentato ed effetti collaterali o per porre la domanda più in generale, può un integratore alimentare causare danni all'organismo? 

La risposta viene dalla statistica ed è sempre SI, qualunque prodotto venga preso in considerazione (anche il più innocuo).
La differenza tra eventi aneddotici e conclamati allarmi viene non solo dal numero assoluto di segnalazioni ma dalla rilevazione anche di piccole nicchie di rischio causate da un utilizzo erroneo o dall'utilizzo da parte di persone a rischio per sottostanti problemi.

Il potenziale flag sul "riso rosso" nasce da un articolo pubblicato tempo fa sul British Medical Journal.

Nel case report si descrive il caso di una reazione avversa, i dettagli in seguito, attribuibile ad un componente specifico presente nell’integratore noto come riso rosso fermentato (da lievito)
Come noto a molti, il riso rosso fermentato (da non confondere con il riso rosso in vendita nei supermercati, semplice variante del riso) è tra i pochi prodotti non categorizzati come medicinali capaci di abbassare il livello del colesterolo e data la sua azione i medici avvisano che non deve essere assunto da chi è sotto terapia con le statine.
L’integratore è preparato partendo da riso bianco su cui viene fatto crescere il fungo Monascus purpureus, quindi bollito per eliminare fungo e processo fermentativo. E’ il fungo a conferire il colore rosso e questo spiega la confusione potenziale tra questo prodotto e il vero riso rosso (variante naturale dal colore rossastro, non indotta dalla fermentazione). Il riso rosso fermentato è presente sia nella cucina asiatica che nella medicina tradizionale cinese.
Il principio attivo responsabile della azione ipocolesterolemizzante è la monacolina K, presente sia nei farmaci anti-colesterolo propriamente detti (vedi lovastatin) che negli integratori in vendita nei supermercati. In quanto prodotto naturale non è catalogato come farmaco, quindi non è soggetto alle restrizioni alla vendita dei farmaci propriamente detti, il che spiega il rischio di assunzioni errate sia nel metodo che nello scopo.
Monacolina K

Il rischio intrinseco con questa categoria di prodotti (integratori e simili) è di usarli al posto di terapie farmacologiche appropriate. L'unica indicazione in cui tali integratori potrebbe avere un senso è la colesterolemia lieve, dove questo trattamento INSIEME ad una migliore dieta e all'attività fisica quotidiana, può aiutare a riportare i valori nella norma.
I farmaci a base di statine (sotto il cui nome ricade un'ampia classe di molecole) sono ben più efficaci (2-3 volte) nella capacità di ridurre il colesterolo rispetto al "riso rosso" ma sono anche associati al rischio di effetti collaterali per cui il medico stesso tende a limitarne la prescrizione (che di fatto ha carattere continuativo) solo al permanere dei valori di colesterolo al di sopra di certi valori e, colesterolemia famigliare esclusa, non prima dei 50 anni.

Ma anche il “riso rosso” (inteso come summa di monacolina K e, forse, altro) non è esente da problemi potenziali sia in caso di dosaggi eccessivi che, in alcuni soggetti, a dosaggi standard.
Ribadiamo un concetto: se un prodotto genera un effetto allora sta modificando la fisiologia (a livello sistemico, tessutale o cellulare) di chi la assume; se viene indicato come privo di qualunque effetto indesiderato anche remoto allora è una indicazione che quello che assumete è “acqua fresca” o peggio fuffa spacciata per altro. Riprendendo un vecchio detto in economia “non esistono pasti gratis”. Questo ci ricorda anche che i trattamenti fai da te non sono mai da seguire senza previo consulto di personale qualificato, fosse anche il classico farmaco da banco o un integratore.
Torniamo al caso descritto nell’articolo.
Una donna di 64 anni, titubante all’idea di iniziare un trattamento con le statine, aveva scelto la strada degli integratori a base di monacolina K. Ad un certo punto cominciò a presentare sintomi caratteristici di un danno epatico acuto, risoltisi solo dopo ospedalizzazione.
Entrando un poco più nel dettaglio si scopre che la donna aveva optato (errore o consapevolmente?) per un dosaggio inverosimile per 6 settimane.
La paziente assumeva 1200 mg/giorno di monacolina K quando l’assunzione giornaliera indicata su qualunque confezione (1 o 2 pastiglie a seconda dei casi) è di 10 mg (equivalente a 350 mg di riso fermentato). In questi casi il vecchio modo di dire “dose da cavallo” è addirittura riduttivo.
Tra i sintomi riportati (apparsi nelle 2 settimane prima del ricovero) stanchezza, gonfiore e ittero, quest’ultimo il segnale che aveva spinto la donna a recarsi in ospedale. Qui, oltre alle analisi del sangue che avevano indicato il danno epatico, una biopsia (fatta per escludere altre e nefaste cause) confermò il danno come caratteristico da assunzione di farmaci. La terapia che ne è seguita, a parte l'ovvia interruzione dell'assunzione di integratori, un trattamento con steroidi per ridurre il processo infiammatorio, continuato fino al ritorno dei parametri ematici entro l'intervallo di normalità.
La monacolina (che fa parte delle statine) agisce inibendo la sintesi endogena del colesterolo, cosa ben diversa dall'azione degli steroli vegetali che invece inibiscono l’assorbimento intestinale del colesterolo (ulteriori informazioni a fondo pagina su Danacol e simili). 
Schema semplificato della via di biosintesi del colesterolo. Le statine (e la monacolina K) agiscono inibendo la HMG-CoA reduttasi. Poiché tale azione ha anche l'effetto di diminuire il coenzima Q10, gran parte di integratori (e statine) contengono nella formulazione anche tale coenzima
(image credit: Int. J. Mol. Sci. 2019, 20, 3531 )
Oltre al coenzima Q10 viene spesso aggiunta la vitamina B12 di cui è nota la sua azione nel ridurre il colesterolo totale (A. Antonysunil et al (2015)
Tra i rischi legati all'assunzione eccessiva di monacolina, alterazioni strutturali e funzionali dei muscoli e, nei casi più gravi, a reni e al fegato. Un avviso da non trascurare se si pensa che il 30% delle malattie epatiche in USA è legata al consumo di integratori.

Questa la ragione per cui gli addetti ai lavori raccomandano in primis uno stile alimentare corretto e una regolare attività fisica, elementi essenziali per ridurre i grassi nel sangue e aumentare i livelli di HDL, e SOLO dopo queste correzioni, e per i casi più lievi, l’utilizzo di integratori. 
Gli integratori, infatti, generalmente riescono ad abbassare il colesterolo del 5-7%, mentre le statine anche del 20%. Quindi le statine (e in conseguenza la prescrizione medica) sono l'unica terapia possibile quando si parla di vera ipercolesterolemia.


Fonte
- Acute liver injury induced by red yeast rice supplement


*** Nota sui fitosteroli *** 
L'effetto di riduzione del colesterolo da parte degli steroli vegetali è stato in effetti confermato da un trial clinico nel 2008 e a seguire affrontato a livello europeo da parte della EFSA (European Food Safety Authority). Riguardo al "claim" di efficacia di prodotti come Danacol vale sempre la regola del buonsenso di cui sopra dato che l'effetto è inferiore al 10%.
Altro elemento da considerare è che ancora oggi si discute se la sola riduzione dei livelli di LDL si correli ad una significativa riduzione delle patologie cardiovascolari.
- Danacol® and blood cholesterol (The EFSA Journal (2009) 1177, 1-12)
- Plant sterol-enriched fermented milk enhances the attainment of LDL-cholesterol goal in hypercholesterolemic subjects.  N. Plana et al, (2008) Eur. J. Nutr. 47(1):32-9. 
- Danacol® Monograph (SISA (Società Italiana per lo Studio dell'Aterosclerosi - (.pdf)
Riguardo al meccanismo con cui i fitosteroli agiscono, l'ipotesi più probabile è una competizione con il colesterolo a livello dei recettori dell'epitelio intestinale


  1.  Nguyen, Tu T. (1999). "The Cholesterol-Lowering Action of Plant Stanol Esters"The Journal of Nutrition129 (12): 2109–2112. doi:10.1093/jn/129.12.2109
  2. ^ Trautwein, Elke A.; Duchateau, Guus S. M. J. E.; Lin, Yuguang; Mel'nikov, Sergey M.; Molhuizen, Henry O.F.; Ntanios, Fady Y. (2003). "Proposed mechanisms of cholesterol-lowering action of plant sterols". European Journal of Lipid Science and Technology105 (3–4): 171–185. doi:10.1002/ejlt.200390033.
  3. ^ De Smet, E; Mensink, RP; Plat, J (2012). "Effects of plant sterols and stanols on intestinal cholesterol metabolism: suggested mechanisms from past to presentMolecular Nutrition & Food Research56 (7): 1058–72. doi:10.1002/mnfr.201100722



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In attesa di Perseverance, i 3 mila giorni del rover Curiosity su Marte

 Manca poco all'arrivo del rover Perseverance su Marte (atterraggio, anzi ammartaggio previsto il 18 febbraio, QUI la pagina dedicata alla missione) e i tecnici NASA sono in trepidante lavoro per la fase finale, sempre rischiosa e non a caso definita "i 7 minuti di terrore", periodo durante il quale si perdono i contatti.

La strumentazione montata su Perseverance
(credit: NASA/JPL)

L'evento non deve fare dimenticare il predecessore, e ancora funzionante, rover Curiosity che nei suoi 8 anni di attività, era il 6 agosto 2012 quando arrivò nel cratere Gale, ha fotografato e trivellato la superficie marziana.


2012. Il Mars Reconnaissance Orbiter rileva le varie fasi dell'arrivo di Curiosity. Prima il paracadute ...(credit: NASA / JPL-Caltech)

... e infine il molteplice contatto sul suolo marziano 
(credit: NASA / JPL-Caltech)  


8 anni equivalgono a 3000 Sol (i giorni marziani) ed è così che la NASA calcola il tempo della missione. Occasione ideale per celebrare il vecchio pioniere con alcune foto, testimonianza del suo lavoro.

Credit: NASA/JPL
Tutti noi associamo Marte al nome Pianeta Rosso per come ci appare nel cielo notturno. Una diversa prospettiva ci viene da una selezione, datata luglio 2020, dei 29 punti di trivellazione fatti da Curiosity. I sedimenti mostrano una gamma di tonalità dal rosso ocra al grigio blu, che riflettono i minerali e fluidi che hanno contribuito a formare le diverse tipologie di rocce. La limitata profondità di esplorazione (compatibile con il piccolo trapano) è stata sufficiente per superare la superficie esterna, ossidata ed esposta alle radiazioni cosmiche.
Credit: JPL/NASA
Foto del 2018. Molto attesa perché ha segnato la ripresa delle operazioni dopo tempeste di sabbia prolungate (e si sa che su Marte sono estese e durature) e un precedente problema meccanico che avevano fatto temere per il rover. Al centro dell'immagine si intravede il foro di perforazione (noto come Duluth) risalente al 2016 a cui era seguito un danno meccanico del trapano. Problema risolto da remoto dagli ingegneri del JPL che ha permesso al rover di riprendere il lavoro. 

Credit: JPL/NASA
E' il 26 marzo 2019 quando Curiosity cattura questa serie di immagini dell'eclisse causata dalla luna Phobos (l'altra luna è Deimos). 



Una foto già mostrata in precedenza, cioè l'assemblaggio da 1,8 miliardi di pixel (scaricabile --> QUI, pagina della NASA) ottenuto dall'unione di un migliaio di foto. Nella pagina linciata trovate anche la versione con il rover (se volete scaricarla ricordatevi che hanno dimensioni di vari gigabyte)





Per l'immagine in HD cliccate alla pagina --> JPL (credit: NASA/JPL)
Nell'estate del 2020 il team scientifico della missione ha iniziato a guidare il rover verso una nuova zona a maggiore altitudine (il Monte Sharp) per analizzare rocce ricche di minerali solfati. Destinazione importante visto che il Monte Sharp si è formato con la deposizione di strati di sedimenti ad opera dell'acqua (quando c'era) e del vento, per cui più si sale e più sono giovani le rocce. I minerali in quest'area potrebbero essersi formati nel passaggio dall'epoca umida (adatta per la formazione di minerali argillosi) a quella secca con la conseguente formazione di sali di solfato.

Di seguito alcune foto del periodo precedente la salita sui pendi del monte Sharp.xxx
Rocce stratificate indicative di flussi di acqua
(credit: NASA / JPL-Caltech / MSSS via sci-news.com)

Credit: NASA/JPL-Caltech/MSSS
Nella precedente immagine siamo ancora nella parte bassa del Mt. Sharp e la foto rende molto bene la stratificazione rocciosa nell'area nota come Murray Buttes. Si tratta dei resti erosi di antica arenaria  originatisi quando i venti hanno depositato sabbia durante la formazione del monte Sharp (immagine scattata a settembre 2016 = 1454mo giorno marziano della missione)


Stesso giorno (Sol 1454) diversa vista delle Murray Buttes 



(credit: NASA / JPL-Caltech / MSSS)
E' il Sol 2696 quando Curiosity, superato il pendio sabbioso sotto il frontone di Greenheugh, arriva su un'ampia superficie ricoperta da uno strato di arenaria. Tempo di "riposarsi" e il Sol 2729 scatta una foto adatta.



Credit: NASA/JPL
Siamo a Sol 2784 e Curiosity da uno sguardo verso l'alto per cercare Venere e la Terra.




Ogni pixel sono 25 cm, per cui buona visuale del rover.
Credit: NASA/JPL via BBC
Questa foto è ancora più particolare in quanto presa durante il recente lockdown che ha imposto ai tecnici della NASA di lavorare da remoto. 
L'immagine della fotocamera HiRISE (posta sul Mars Orbiter a 266 km di altezza) inquadra il rover e quello che sarà il teatro delle operazioni di Curiosity per i prossimi tre anni. I ricercatori si aspettano di trovare in quest'area minerali ricchi di solfati.

Vento più sabbia uguale "dust devils" alias mulinelli (credit: NASA)
In assenza di pioggia (da eoni assente su Marte), la polvere si accumula sulla superficie. Il riscaldamento solare del suolo è all'origine di vortici e mulinelli d'aria, spesso invisibili. Quando però questi flussi di aria incontrano una superficie sufficientemente polverosa il vortice diventa visibile come nell'immagine sopra (ottenuta dall'unione di foto scattate su un periodo di 4 minuti in data Sol 2847). Il vortice si trova ad una distanza 0,5-1 km, è largo 5 metri e alto almeno 50.

In ultimo la bella immagine panoramica a 360 gradi, assemblata da Elisabetta Bonora e Marco Faccin (sito aliveuniverse.today) usando 149 scatti fatti da Curiosity nella giornata Sol 3048.
Per l'immagine ad alta risoluzione andate sul sito apod.nasa.gov
(Image CreditNASA/JPL-Caltech - ProcessingE.Bonora & M.Faccin/aliveuniverse.today)




Chiudiamo (per ora) con il percorso fatto dal piccolo rover in questi anni
Trovate la mappa interattiva sempre aggiornata su --> where is the rover (NASA)


Foto "cartolina" di novembre 2021
image credit: NASA



Per tutte le notizie attinenti a Marte pubblicate in questo sito, cliccate sul tag --> Missione Marte


Fonte





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