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Un Gundam (quasi) per tutti

Se avete 3 milioni di dollari che vi avanzano (e un cortile spazioso) ho forse un regalo adatto perfino al più indomito dei Nerd: un robot in stile Gundam.

Il robot, di nome Archax e prodotto della startup di Tokyo Tsubame Industries, non è proprio l’essenza del minimalismo con i suoi 4,5 metri e 3,5 tonnellate di peso. Ha una cabina di pilotaggio dota presenta all’interno della cabina di pilotaggio alcuni monitor, sui quali appaiono le immagini captate da telecamere poste all’esterno. Grazie a questa visuale il pilota (sito nel busto del robot) può manovrare braccia e mani mediante un joystick.


Il robot funziona in due modalità: una verticale e una come veicolo su ruote con velocità fino a 10kmh. Un video esplicativo è presente nella pagina iniziale del sito dell'azienda o di seguito


***

Per chi, come me non ha 3 milioni in eccesso si può ripiegare sul prodotto della LEGO


oppure il modellino di Gundam


Come creare ossigeno su Marte

Nel film Total Recall il buon Schwarzi arriva nel 2084 in un insediamento umano su Marte protetto da una megacupola, fondamentale sia come protezione dai raggi cosmici (l'atmosfera marziana è sottile, priva di ozono, e per di più il pianeta manca di campo magnetico) che per contenere un'atmosfera respirabile.
Paraitepuy Pass su Marte (Credit: NASA/JPL-Caltech/MSSS)
Vero che mancano alcuni decenni ma è verosimile che l'ambiente in cui vivranno le prime generazioni di coloni sul pianeta rosso saranno grotte o insediamenti sotterranei, condizionati con aria respirabile.
Escludendo a priori di trasportare ossigeno su Marte, i coloni dovranno produrlo localmente scindendo la CO2 atmosferica e/o l'acqua sotterranea, congelata o intrappolata nei minerali. Sebbene il processo sia fattibile, pur non in volumi tali da riempire una cupola cittadina, esistono altri fattori limitanti che sono i catalizzatori delle reazioni chimiche per la produzione di ossigeno. Catalizzatori che quindi dovrebbero essere trasportati dalla Terra in un processo continuo, cosa estremamente costosa.
Una soluzione viene da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Synthesis che descrive come produrre i catalizzatori, necessari ad estrarre ossigeno dall'acqua (e altre reazioni utili), direttamente su Marte usando il materiale là disponibile.
L’obiettivo iniziale dei ricercatori era indagare se uno strumento delle dimensioni di un frigorifero e dotato di un braccio robotico per le analisi, fosse anche in grado di ottenere catalizzatori usando come materiale di partenza materiale da meteoriti di origine marziana.
Lo strumento testato dai ricercatori
(Credit: Qing Zhu et al, Nature Synthesis)


Grazie ad una intelligenza artificiale integrata nel sistema il dispositivo ha prima dissolto e frazionato il materiale mediante acidi e alcali, per poi analizzarne le componenti presenti; queste sono state la base su cui applicare quali delle quasi 4 milioni di formule chimiche memorizzate fosse utile per ottenere una sostanza chimica in grado di scomporre l’acqua. Un processo che ad un essere umano avrebbe richiesto 2 mila anni di verifiche sperimentali. L'analisi ha permesso di ottenere un catalizzatore utilizzabile per  ottenere ossigeno dall'acqua.
Video credit: Nature

Per ogni metro quadrato di materiale marziano, il sistema potrebbe produrre quasi 60 grammi di ossigeno all’ora, eliminando potenzialmente la necessità di rifornimenti di ossigeno e catalizzatori per gli astronauti.

In verità, come ha fatto notare un ricercatore del MIT, esiste un modo molto più semplice per produrre ossigeno su Marte partendo dall'aria marziana ricca di anidride carbonica. Il rover Perseverance (vedi precedente articolo sul tema), in missione su Marte dal 2020, ha già montato (pur se di piccole dimensioni) uno strumento utile all'uopo chiamato MOXIE dimostratosi in grado di produrre ossigeno anche se in bassa quantità a causa dei limiti nella potenza erogabile dal rover. In futuro, una versione grande di MOXIE (non ci sono reali limiti tecnici per produrlo) sarebbe in grado di produrre ossigeno più che sufficiente per il fabbisogno di un piccolo insediamento umano. MOXIE potrebbe inoltre essere usato per produrre una quantità sufficiente di gas utilizzabile come ossidante necessario per produrre carburante per lanciare un velivolo per un viaggio di ritorno sulla Terra (le stime attuali sono di poter produrre 2-3 chilogrammi all'ora).
Lo strumento MOXIE montato sul rover Perseverance
(Credit: NASA/JPL-Caltech via Nature)
La strumentazione montata su Perseverance
(credit: NASA/JPL) 

Usare l’intelligenza artificiale per sintetizzare materiali utili in questo modo è una nuova area di ricerca, afferma Cooper, che ha applicazioni oltre i viaggi spaziali.

Fonte
- Automated synthesis of oxygen-producing catalysts from Martian meteorites by a robotic AI chemist
Qing Zhu et al, (2023) Nature Synthesis



Per Nerd e aspiranti tali tre modellini di rover marziani, per tutti i gusti



Letture scientifico-divulgative su Marte e vivere sul pianeta rosso



Tracce di Theia nel mantello terrestre?

https://www.nature.com/articles/d41586-023-03385-9
Image Credit: Hernán Cañellas (via Nature)
L'ipotesi più accreditata sull'origine della Luna è che sia il risultato di una collisione immane, circa 4,5 miliardi di anni fa, tra quella che potremmo chiamare proto-Terra e un pianeta delle dimensioni di Marte battezzato come Theia (vedi in proposito anche l'articolo del 2012 che ho messo in calce al presente).
Un evento postulato per spiegare le particolari caratteristiche geologiche della Luna (assenza di un nucleo metallico, composizione simile al mantello terrestre, assenza di parti volatili, etc) che la rendono una sorta di "estratto" del mantello terrestre volato in orbita 

Tra le più recenti simulazioni fatte con i supercomputer la seguente mostra come il tempo trascorso tra la collisione e la formazione della Luna sia stato di poche ore 

Nuovi dati a supporto dello scontro tra pianeti vengono ora dall'interno della Terra, nello specifico da alcune particolarità di alcune parti del mantello fino ad ora di difficile interpretazione.
Queste "macchie" (formazioni rocciose) rilevate grazie alla studio della propagazione delle onde sismiche (qui più lente), sono lunghe migliaia di chilometri e leggermente più dense dell’ambiente circostante, dato che suggerisce essere costituite da materiale diverso rispetto al resto del mantello.
L'analisi dei modelli al computer suggerisce che una certa quantità di materia proveniente da Theia sia rimasta incastrata nella metà inferiore del mantello terrestre,

L'idea di partenza è che un impatto di tale portata nell'infanzia de nostro pianeta avrebbe dovuto lasciare una qualche traccia e che la stranezza di alcune regioni del mantello potesse essere una vestigia. Ipotesi poi messa alla prova con simulazioni al computer.
La simulazione al computer del rimescolamento del mantello dopo l'impatto
(credit: Nature)

L’energia dello scontro planetario avrebbe parzialmente sciolto il mantello terrestre, formando due strati: una parte superiore fusa e una parte inferiore prevalentemente solida. Lo strato superiore fuso si sarebbe mischiato con quello "alieno" mentre altro materiale proveniente da Theia sarebbe affondato attraverso la parte fusa del mantello depositandosi nello strato inferiore. Nel frattempo parte del materiale sarebbe finito in orbita per originare la Luna.

Fonte
Moon-forming impactor as a source of Earth’s basal mantle anomalies
Qian Yuan et al, (2023) Nature

Se penso alla Luna non posso non associarla alla serie TV cult della mia infanzia "Spazio 1999"
xxx

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Articolo del 2012, parte della Lectio Magistralis di un noto astrofisico ospite alla Milanesiana.

(di ERIC M. GALIMOV)
L’origine e l’evoluzione della vita e l’origine del sistema Terra-Luna sono tra i più ardui problemi scientifici, poiché è difficile sottoporli a uno studio sperimentale, e la loro analisi teorica è ambigua: troppi i fattori coinvolti e alcuni di essi non sono noti (…). Il paradigma dell’origine del sistema formato dalla Terra e dalla Luna è la teoria del mega impatto. Essa ipotizza una catastrofica collisione di due vasti corpi planetari nella storia iniziale del sistema solare. Il risultato fu che la Terra e la Luna ne emersero come corpi magmatici completamente fusi (…).
 
L’ipotesi del mega impatto fu avanzata alla metà degli anni Settanta da due team di scienziati americani. Secondo la loro tesi, la Luna si formò con l’addensamento del materiale fuso espulso nell’orbita circumterrestre in seguito alla collisione della proto-Terra con un altro corpo planetario delle dimensioni di Marte.
Il problema cruciale che si trovano ad affrontare gli scienziati impegnati sull’origine della Luna consiste nella domanda: perché la massa lunare è carente di ferro rispetto alla massa terrestre? Il contenuto di ferro della Terra è del 33,5%, mentre quello della Luna è in una percentuale compresa tra il 10% e il 15%. L’ipotesi del mega impatto fornì una semplice risposta: la collisione da cui nacque la Luna si verificò nel momento in cui la Terra aveva già attraversato il processo di differenziazione e gran parte del ferro si era concentrato nel suo nucleo metallico, e la Luna si formò dal mantello terrestre, carente di ferro.
Un più dettagliato studio al computer della dinamica del mega impatto compiuto all’inizio del Duemila mostrò che il materiale fuso espulso in un’orbita circumterrestre proveniva non tanto dal mantello terrestre ma soprattutto, almeno per l’80%, dal corpo impattante. Poiché l’origine e la composizione chimica del corpo impattante sono sconosciute, ciò privava la teoria dell’impatto di argomenti geochimici. Inoltre, la derivazione della Luna dal corpo estraneo alla Terra rende le affinità tra la Terra e la Luna, come la somiglianza nel frazionamento isotopico, argomenti contrari all’ipotesi del mega impatto (…) 
Un modello alternativo (…) la Luna non si è formata in seguito a una collisione catastrofica, ma tramite la frammentazione di un immenso addensamento di particelle gassose (…). La contrazione di questo addensamento gravitazionale conduce all’aumento della temperatura al suo interno con una conseguente parziale evaporazione delle particelle e dei corpi solidi da cui è formata  (…) conduce alla formazione di due corpi condensati, embrioni della Terra e della Luna. Entrambi sono poveri di ferro ed elementi volatili e ricchi di elementi refrattari.
L’ipotesi proposta sembra quindi piuttosto convincente. Soddisfa i principali requisiti: povertà di ferro sulla Luna, identità isotopica tra Terra e Luna, ricchezza di elementi refrattari sulla Luna e scarsezza di elementi volatili. Supera le principali difficoltà della teoria del mega impatto. Nonostante ciò, la teoria del mega impatto continua a dominare la letteratura scientifica (…). La nuova concezione è incompatibile con la teoria oggi accettata sulla formazione dei pianeti del sistema solare. Il paradigma dice che i pianeti si formarono tramite collisione dei corpi solidi, i planetesimi. Si ritiene che i planetesimi siano cresciuti da qualche metro a centinaia di chilometri. La formazione della Luna dovuta a un mega impatto è coerente con la teoria standard della formazione dei pianeti. A differenza della teoria standard, la nuova concezione ipotizza che la formazione di corpi planetari possa verificarsi da uno stato disperso. Ma questa supposizione non dimostrata rende discutibile l’ipotesi. Dovremmo quindi riconoscere che la nuova concezione, nonostante i suoi vantaggi, non può essere accolta per via della sua parziale imperfezione.



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Tra i recenti contributi allo studio della nascita della Luna, l'articolo pubblicato sulla rivista Science a marzo 2015. L'approccio usato dagli astronomi della NASA è stato indiretto e basato sul fatto che dopo l'impatto della Terra con un pianeta delle dimensioni di Marte sarebbero stati scagliati nello spazio una miriade di frammenti di dimensione intorno al chilometro, parte dei quali sarebbero stati catturati dalla fascia di asteroidi sita tra Marte e Giove. Molti di questi frammenti, fusi con quelli preesistenti, sarebberon poi precipitati nel corso dei miliardi di anni successivi sulla Terra. Lo studio delle caratteristiche di queste rocce ha permesso di datare l'origine della Luna in 4,47 miliardi di anni fa. Un valore simile a quello ottenuto con altri metodi e che quindi ne è la conferma.  
Fonte
W. F. Bottke et al, Science 17 April 2015 

Ig-Nobel 2023: i premi alla scienza che fa ridere ma anche pensare

Anche quest’anno insieme ai Nobel bisogna ricordare i vincitori degli IgNobel, autori delle ricerche più strampalate ma nondimeno del tutto sensate … anche se a volte bisogna essere molto addentro il campo per capirne la logica. In verità, come del resto avviene per i Nobel, le categorie premiate sono varie e includono ad esempio anche la letteratura (per dettagli vi rimando alla lista completa dei vincitori del 2023 in cui potrete anche trovare il link agli articoli premiati). 
Tra le ricerche premiate (i lavori possono essere anche molto vecchi ma devono essere stati pubblicati su riviste peer reviewed) nelle varie categorie ne scelgo alcune

Letteratura
In questa categoria il premio è stato assegnato ad un team multinazionale “per lo studio delle sensazioni che le persone provano quando ripetono una sola parola molte, molte, […] volte”. La ricerca si è basata sul chiedere le sensazione di alcuni partecipanti chiamati a scrivere molte volte alcune parole, fino a raggiungere il punto di … trovarle strane o mai sentite. Un fenomeno opposto al déjà vu detto jamais vu che descrive la sensazione di estraneità a qualcosa di noto. 

Geologia
La ricerca mi ricorda molto il simpatico Brick (il figlio minore della serie TV The Middle) che aveva il vezzo di leccare gli oggetti per conoscerli. Ebbene, qualcosa di simile è stato studiato da Jan Zalasiewicz (University of Leicester) che ha cercato di rispondere al quesito sul “perché ai geologi piace leccare le rocce” (attitudine vera come descritto in questo articolo) il che mi fa pensare anche all’avversione di Sheldon per la geologia e al personaggio di Bert

L'articolo premiato ha il nome esplicativo “Eating fossils in cui si descrive questa arte antica per studiare le rocce (ivi compreso a volte abbrustolirle, bruciarle e bollirle) in assenza di strumenti analitici moderni

Ingegneria
O meglio il premio qui va alla necrobiotica, una variante della robotica che utilizza parti morti di animali in una sorta di cross-over tra Frankenstein e steam-punk. Il premio è stato conferito per aver “rianimato ragni morti come strumenti meccanici da "presa” cioè per avere riutilizzato l’eccellente sistema di locomozione di un ragno (morto) adattandolo a diventare un perfetto strumento da presa in grado di acciuffare oggetti delicati.
Image: newatlas.com

Salute pubblica
Il vincitore è un coreano che lavora alla Stanford University premiato per il lavoro pluriennale nella messa a punto di un wc hgh tech (altro che quelli giapponesi). Nello specifico si tratta di un dispositvo che ​ha incorporato tecnologie tra cui l’analisi delle urine, un sistema per l’analisi visiva della defecazione (argh!!), un sensore per l’impronta anale abbinato a una telecamera di identificazione (altro che analisi dell’iride) e un sistema trasmissione dati. In effetti strumenti simili hanno utilità sia nel monitoraggio a distanza dei pazienti che negli studi clinici.

Comunicazione e neurologia
Vero che ci sono persone capaci di ripetere una parola o perfino di parlare al contrario. Rari e per questo studiati come fatto dagli autori dello studio premiato che ha analizzato la materia grigia in alcune regioni cerebrali di due persone con queste capacità.

Medicina
Il numero di peli nel naso è uguale nelle due narici? La risposta viene da uno studio effettuato su alcuni cadaveri che ha dimostrato che in media ce ne sono 120 a sinistra e 122 a destra. La cosa curiosa è che il punto di partenza della ricerca era per acquisire informazioni per il trattamento della alopecia areata, che oltre alla calvizie presentano un maggiore rischio di allergie e infezioni respiratorie associate alla perdita di peli nel naso.

Nutrizione
Il lavoro premiato è vecchio (risale al 2011) e indagava l’aumento del senso di gusto grazie all’elettricità. Fosse questo sarebbe anche “normale” ma il punto saliente, riportato nelle motivazioni del premio, è “per esperimenti per determinare come le bacchette e le cannucce elettrificate possono cambiare il gusto del cibo”. Grazie a tali strumenti i ricercatori evidenziarono come usando queste bacchette elettriche per mangiare (studio fatto in Giappone, da noi magari avrebbero usato come strumenti forchette elettrificate) i volontari percepissero dei sapori altrimenti nascosti.
Image: newatlas.com

Educazione
Chi non si è mai annoiato a scuola alzi la mano. Ma la noia non è un qualcosa da accantonare, ma la si può studiare. Il premio ai ricercatori è perché hanno scoperto che anche solo aspettarsi che una lezione sarà noiosa la renderà noiosa, ma anche che se gli studenti vedono i loro insegnanti annoiati o li percepiscono come tali saranno meno motivati. Quindi siate pimpanti o voi docenti all’inizio della lezione ed evitate tonalità in stile Marina Massironi quando faceva gli sketch dei bulgari con AG&G

Psicologia
Questo studio risale alla fine degli anni ’60 e la ragione del premio è “per esperimenti su una strada cittadina per vedere quanti passanti si fermano a guardare verso l'alto quando vedono degli estranei che guardano in alto”. Quanti più lo fanno, scrivevano, tanti più si fermeranno e lo faranno.

Fisica
Se è assodato che il sesso in alcuni animali non ha base genetica ma dipende da fattori ambientali come la temperatura (es. le tartarughe) meno noto è l’effetto sull’ambiente dell’attività sessuale. Ecco allora la motivazione “per aver misurato quanto la miscelazione dell'acqua dell'oceano è influenzata dall’attività sessuale delle acciughe” le quali radunandosi in massa durante la stagione riproduttiva possono generare turbolenze e a cascata infuenzare la crescita del fitoplancton (che detto per inciso è il maggior produttore di ossigeno del pianeta e alla base della catena alimentare e della cattura della CO2). Quando si dice “il battito di ali di una farfallo può causare un tornado dall’altra parte del mondo”.


Fonte


Articoli su temi attinenti


La strana genetica delle formiche pazze

Formiche pazze non è (solo) il nome di una squadra di basket dell’Indiana che gioca nella serie cadetta della NBA (Indiana Mad Ants) ma soprattutto il nome di una specie di formiche gialle, le Anoplolepis gracilipes.
Credit: AntWeb, CC BY 4.0
Nomen omen potrei dire visto che devono il loro nome ai movimenti alla rinfusa che viene innescato quando arriva un fattore di disturbo, ad esempio un entomologo curioso.

Si tratta di formiche con una pessima nomea essendo una specie invasiva presente principalmente nel sud-est asiatico e in Oceania, la cui presenza è una minaccia reale per invertebrati e vertebrati (piccoli mammiferi inclusi) autoctoni. Ad esempio nella Christmas Island, territorio australiano a sud di Giava, l’arrivo di queste formiche ha portato alla decimazione dei granchi rossi.
Comprendere la genetica di queste formiche ha sia valenza scientifica che pratica, utile per trovare modi per arginare la loro diffusione. 

Lo studio che oggi riassumo descrive proprio il completamento della loro analisi genetica (conclusione di lavori pubblicati nel 2018) che spiega come mai i maschi apparissero come diploidi (caratteristica insolita negli insetti), dato il possedere due versioni di molti marcatori genetici. 
Come in molti altri insetti, i maschi si sviluppano da uova non fecondate, quindi sono aploidi al contrario delle femmine (diploidi) frutto di uova fecondate. Avere due varianti dello stesso gene fu quindi una scoperta inattesa, per quanto fosse noto che in alcune specie di  formiche si generano occasionalmente maschi diploidi il cui contributo genetico è però nullo essendo sterili.
Trovare una specie di formica in cui TUTTI i maschi erano diploidi sollevò domande sulla loro genetica. 
Primo e fondamentale passaggio nell'analisi fu di studiare il genoma di singole cellule prelevate dai maschi di questa specie di formiche invece del DNA ottenuto dalla formica intera; il risultato rivelò che i maschi erano in effetti aploidi sebbene apparissero diploidi se analizzati come organismo completo. La diploidia apparente era il risultato del chimerismo dei maschi, costituiti cioè da due distinte linee cellulari di partenza da cui poi originava l'intera formica.

Nel dettaglio le (cellule delle) formiche regine hanno due copie di una stessa linea genomica chiamata R (R/R) mentre le formiche operaie (sterili) sono degli ibridi, sono cioè portatrici di un'altra linea (detta W), ragione per cui ogni loro cellula è di tipo W/R.
In altri insetti (ad esempio le api) sia la regina che le operaie sono sorelle geneticamente non distinguibili a priori. La "classe sociale" delle femmine è conseguenza del tipo di alimentazione ricevuta durante la fase larvale. In questa specie di formiche invece la classe è frutto del corredo genetico.
Ne deriva che tutte le uova prodotte dalla regina saranno unicamente rappresentative del genoma R. 
I maschi appaiono anche essi W/R ad una analisi macro come se fossero diploidi. In realtà l’analisi di cellule singole conferma che anche loro (come gran parte dei maschi negli insetti) sono aploidi e che lo status apparentemente diploide R/W è dovuto all’essere chimere cellulari, organismi cioè che hanno nel loro corpo due popolazioni di cellule, una portatrice del solo genoma W e l’altra del solo genoma R. Ne deriva che i loro spermatozoi saranno portatori del genoma R o W
Esperimenti successivi hanno evidenziato che le cellule R e W sono distribuite in modo non uniforme nel corpo dei maschi con il 75% delle cellule somatiche di tipo R. Il rapporto si inverte negli spermatozoi dove il 65% sono cellule W.
Le cellule W e R non sono distribuite in modo uniforme nel corpo e tale distribuzione differisce anche tra gli individui (nell'immagine 5 maschi rappresentativi)
Darras et al /SCIENCE 2023
I gameti maschili (spermatozoi) saranno di conseguenza in gran parte W, utili per generare femmine operaie (o anche maschi, vedi sotto), mentre nel caso in cui lo spermatozoo sia di tipo R nascerà una regina.
I maschi sono, come detto, aploidi per cui non sono il risultato di una vera fecondazione (fusione di due gameti e unione dei due nuclei) ma solo di una interazione che non porta alla fusione dei nuclei. Ecco la ragione per cui i maschi sono degli "eterozigoti mancati" le cui cellule sono derivate dai discendenti mitotici della cellula uovo o dello spermatozoo generando così organismi chimerici.
Importante sottolineare come non esistano evidenze di scambio di materiale genomico (leggasi ricombinazione), processo tipico negli stadi finali della meiosi. Una caratteristica che li differenzia sostanzialmente da altri organismi diploidi (come siamo noi) in cui sebbene siamo portatori dei tratti genetici dei genitori, i cromosomi non sono in realtà uguali a quelli parentali essendo passati attraverso il passaggio di scambio di materiale genetico (ricombinazione) anche noto come crossing-over.
Una modalità riproduttiva questa mai descritta prima in altri organismi, fatto che apre la discussione sul motivo per cui si sia evoluta (ovvero sia stata selezionata) tale variante.
Una possibilità è che dato che il genoma W è veicolato unicamente dal maschio (le operaie sono sterili), il “rifiuto” di una parte delle cellule spermatiche portatrici di W di fondersi con il nucleo della cellula uovo, favorirebbe la sopravvivenza nel pool genomico di questo genoma. L'ipotesi è che queste due linee genomicamente distinte si sarebbero evolute in modo indipendente in due popolazioni di formiche separate che alla fine si sono mescolate.
Ipotesi alternativa è che si sarebbe partiti da una sola popolazione che dopo avere originato due popolazioni distinte, sviluppando tratti diversi, si sia poi "ricongiunta" a formare questo ibrido in cui due pool genomici sono in lotta tra loro (caso estremo di "gene egoista" formulato da Richard Dawkins?).

Per quanto riguarda il vantaggio (o meglio, perché sia stato selezionato questo sistema), potrebbe essere legato al loro successo come specie tra le più invasive al mondo. Infatti dato che la fusione dei nuclei R e W dà luogo solo a operaie sterili, le due linee non potranno mai mescolarsi evitando ogni possibilità di consanguineità, una caratteristica invece presente in altre specie di formiche invasive di minor successo. Sul lungo periodo consanguineità estrema equivale a minori risorse per affrontare cambiamenti nell'ecosistema. 
Nota. Il chimerismo non è una novità assoluta, essendo stata rilevata anche in altre creature, compresi gli umani, ma si tratta in genere di incidenti di percorso e non della norma di una specie. Un esempio di chimerismo negli umani si può osservare nei soggetti affetti da sindrome di Down in cui la trisomia del cromosoma 21 è spesso limitata solo ad una certa percentuale delle cellule, a seconda di quanto precocemente nello sviluppo post-zigotico è avvenuta la mitosi con segregazione anomala (più sono le cellule coinvolte, più marcata la sintomatologia Down)
Si stima che esistano circa 20 mila specie di formiche, gran pare delle quali poco o nulla studiate. Chissà che in futuro si abbiano altre sorprese sulla loro genetica anche considerando l’essere un gruppo di formidabile successo, in giro sul nostro pianeta da circa 160 milioni di anni, ben prima dei dinosauri.

Per chi volesse saperne di più sull'incredibile mondo delle formiche, tre libri di Edward Wilson 


Fonti
Invasive yellow crazy ants create male ‘chimeras’ to reproduce

Genes and genomic processes underpinning the social lives of ants

- Sex determination in Drosophila (e in altri insetti)

La teoria MOND spiega il (fantomatico) Pianeta 9?

Image Credit: NASA/SOFIA/Lynette Cook
Tra le possibili spiegazioni del mistero del pianeta 9, cioè di un pianeta che dovrebbe esistere (per spiegare alcune anomalie orbitali della fascia di Kuiper, ai confini del sistema solare) ma che nessuno strumento è mai riuscito ad identificare, si annoverano buchi neri primordiali (PBH, vedi articolo precedente), pianeti con orbite talmente eccentriche da essere per ora fuori visuale o l’essere questa massa mancante in realtà il risultato della somma di una miriade di piccoli planetoidi come quelli che compongono la nube di Oort.
Nelle scorse settimane ne è stata proposta un’altra, ben più complessa, che è parte della teoria MOND sviluppata come alternativa alla (altrettanto introvabile) materia oscura per spiegare la curva di rotazione delle galassie. Il nuovo sviluppo (pubblicato su The Astronomical Journal) viene dagli astrofici americani Brown e Mathur  che hanno provato a vedere se questa versione modificata della dinamica newtoniana fosse in grado di spiegare gli indizi (e rendere così inutile la proposta della sua esistenza) del Planet Nine.

In parole molto semplici le orbite anomale di alcuni corpi transnettuniani sarebbe un effetto della azione gravitazionale della Via Lattea nel suo complesso che, a certe distanze, si comporterebbe in modo “non-newtoniano”.  Il punto centrale della della Mond, revisione della dinamica newtoniana, è il palesare i suoi effettià dove la forza gravitazionale è molto debole come ad esempio ai confini delle galassie a spirale (dove si trova il sistema solare) o negli ammassi aperti. 
L’idea inziale di Brown era tipica del pensiero scientifico cioè mettere alla prova la teoria Mond verificando una eventuale incompatibilità con i dati che avevano generato l’idea di Planet Nine. Invece la conclusione alla quale giunsero fu che qualche effetto poteva esserci, quindi non solo la Mond non viene “falsificata” da questi dati ma che il clustering di alcuni corpi trans-nettuniani (TNO) sarebbe proprio ciò che la Mond prevede: in tempi su scala di milioni di anni le orbite di alcuni TNO sarebbero stati spinti fino ad allinearsi con il campo gravitazionale della Via Lattea.

Mistero risolto? Aspettiamo la prossima puntata

Fonte
Modified Newtonian Dynamics as an Alternative to the Planet Nine Hypothesis
Katherine Brown e Harsh Mathur, (2023) The Astronomical Journal



Qual è la distanza di sicurezza da una supernova?

Una supernova è la spettacolare esplosione di una stella massiccia giunta a fine vita**, così spettacolare che è raccomandabile guardarla da molto lontano.
Illustration Credit: NASA/CXC/M. Weiss
Tale premessa spiega la domanda che si sono posti alcuni astronomi cioè quale sia la distanza di sicurezza minima. La risposta viene da uno studio basato sui dati ottenuti dall’osservatorio a raggi X Chandra, che pone a 160 anni luce tra noi e la stella perché l'evento sia osservabile senza subirne gli effetti. Studi precedenti avevano fissato il paletto a 50 anni luce dalla Terra e altri avevano descritto gli scarsi effetti di una supernova avvenute a 300 anni luce da noi, non associabili a evidenti cambiamenti della biosfera (o estinzioni di massa) sulla Terra.
L'ultimo evento distruttivo risale alla fine dell'Ordoviciano (500 milioni di anni fa) in cui si ritiene che l'estinzione di massa sia stata innescata, attraverso una serie di effetti a cascata, da GRB (gamma ray burst) prodotti da una non meglio identificata supernova, i cui effetti sono però evidenti nella d'elezione dello strato di ozono dell'antica atmosfera.
Una supernova distante 30 anni luce di distanza produrrebbe gravi danni sulla Terra a causa dell'effetto dei raggi X e gamma sullo strato di ozono, danneggiato il quale aprirebbe la strada all'azione dannosa dei raggi ultravioletti provenienti dal Sole. A questo si aggiungerebbe la ionizzazione dell'azoto e dell'ossigeno atmosferici  portando alla formazione di grandi quantità di protossido di azoto, che tra le altre cose causa l'effetto serra, quindi un forte impatto sul clima.
Tra i primi organismi ad essere colpiti il fitoplancton il cui declino impatterebbe la catena alimentare oceanica e con esso la biosfera in generale.

Fortunatamente (oggi) non ci sono (più) stelle entro un raggio di 30 anni luce che abbiano la potenzialità di originare supernova; discorso simile anche espandendo il raggio a 100 anni e ampliando le previsioni centinaia di milioni di anni da ora; o almeno non ci sono stelle massicce che sono per natura di breve vita e destinate a "esplodere".
** Esistono due diversi tipi di supernova. La supernova di tipo II è una stella massiccia che collassa quando ha esaurito il combustibile nucleare e non è più in grado di produrre energia per controbilanciare la massa soprastante. Non mi risultano esserci stelle massicce entro la distanza di sicurezza di 160 anni luce.
La supernova di tipo I si verifica quando una piccola e debole stella nana bianca collassa avendo raggiunto una massa critica in seguito alla cattura di materiale da una stella compagna in un sistema binario. Queste stelle sono fioche e difficili da trovare, quindi manca una precisa indicazione di quante ce ne siano nelle vicinanze; una stima meramente teorica indica un numero di alcune centinaia entro 160 anni luce, ma non se ne conosce nessuna pronta ad esplodere. La stella IK Pegasi B (parte di un sistema binario) è il candidato progenitore di supernova più vicino conosciuto situato a circa 150 anni luce di distanza.
C'è in effetti una stella gigante (15-20 masse solari) che gli astronomi prevedono esploderà "presto": Betelgeuse. La stella, di cui ho scritto in precedenza, si trova a 430 anni luce da noi e la sua supernova produrrà sarà visibile per diverse settimane anche in pieno giorno.
Nella storia dell’umanità (quindi poche migliaia di anni) non si hanno evidenze di supernova verificatesi entro una distanza inferiore al centinaia di anni luce. La supernova più recente (1987) visibile ad occhio nudo è stata la SN 1987A, distante ben 168 mila anni luce, e la seconda visibile senza strumenti in base ai resoconti storici (la prima è quella di Keplero nel 1604, distante 20 mila anni luce).
La più vicina nell'ultimo decennio è quella avvenuta nella galassia M101, distante ben 21 milioni di anni luce.
Alcune stime suggeriscono che la frequenza di supernove "con effetti potenziali" (per la distanza) potrebbero verificarsi ogni 15 milioni di anni; un altro studio che l’esplosione di una supernova entro 10 parsec (33 anni luce) si verifica ogni 240 milioni di anni. In modo più semplice potremmo rifarci al principio antropico per dire che il fatto stesso che abbiamo la possibilità di pensare a tali eventi è la prova che la Terra si trova in un'area relativamente sicura dove questi eventi sono estremamente rari tanto da aver permesso alla vita di emergere e restare negli ultimi 3,5 miliardi di anni.
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Fonte
X-Ray-luminous Supernovae: Threats to Terrestrial Biospheres
Ian R. Brunton et al, (2023) The Astrophysical Journal



La caffeina riduce il rischio Parkinson, anche nei soggetti predisposizione genetica?

Una nuova ricerca svela una correlazione significativa tra il consumo di caffeina e un ridotto rischio di malattia di Parkinson (PD) per gli individui con varianti genetiche asiatiche legate al disturbo.
Image credit: Neuroscience News

Lo studio è stato condotto a Singapore dal (locale) National Neuroscience Institute.
Una delle ragioni dello studio è che poco meno del 10% della popolazione di Singapore è portatrice di una delle due varianti genetiche asiatiche conosciute, che aumentano il rischio PD fino a 2 volte. 

L'analisi ha coinvolto 4488 soggetti divisi tra portatori della variante genica e controlli. Si tratta di uno studio osservazionale in cui è stata fatta una correlazione tra la frequenza di sintomi in funzione della quantità di caffè abitualmente bevuto; il confronto è sia interno (diverse dosi di caffeina assunta abitualmente negli anni) che con i controlli (soggetti senza predisposizione genetica alla malattia con uguale consumo di caffè).

La quantità di caffeina media assunta giornalmente dai partecipanti è stata di 450 mg, equivalenti a circa 4-5 tazze di caffè locale (per dare una idea una tazzina di espresso contiene intorno 60 mg, mentre una tazzina di Moka può arrivare a 120 mg)

I risultati indicano che il consumo regolare di tè o caffè riduce il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson di 4/8 volte rispetto ai portatori della variante che non assumono caffeina. L'effetto protettivo sembra aumentare all'aumentare della quantità di caffeina assunta sebbene anche un consumo modesto, inferiore a 200 mg al giorno, mostra benefici (termine che, ricordo, vuol dire sintomi minori o assenti rispetto a chi non ha mai assunto caffeina).
L’assunzione di 400 mg di caffeina al giorno è considerata sicura per la maggior parte degli adulti sani. Il dato neuorprotettivo in sé non è inatteso in quanto è da tempo nota l'azione neuroprotettiva della caffeina anche nel contesto di altre condizioni neurodegenerative.

 La ragione di tale protezione sembra essere l'azione antinfiammatoria della caffeina alla base di ridotta neuroinfiammazione e morte neuronale.

Lo studio del PD è un tema di sempre maggiore importanza con l'aumento della età media della popolazione globale. Nella sola Singapore vi sono 8 mila persone affette da PD e si stima che il 26% della popolazione anziana locale presenti almeno lievi segni di parkinsonismo. 

Fonte
- Caffeine intake interacts with Asian gene variants in Parkinson's disease: a study in 4488 subjects
Yi-Lin Ong et al (2023) The Lancet (Reg Health West Pac)

Al lavoro per sviluppare test per la diagnosi veloce di Parkinson dai tamponi cutanei

Diagnosticare (meglio se con largo anticipo) il morbo di Parkinson? Potrebbe in futuro essere possibile usando un metodo totalmente non invasivo analizzando il sebo mediante spettrometri di massa.

Lo studio di fattibilità è stato pubblicato qualche mese fa sulla rivista Journal of the American Chemical Society da un team inglese che ha scoperto che esistono lipidi ad alto peso molecolare più abbondanti nelle persone con il Parkinson.
I test, preliminari, sono stati condotti su un gruppo campione costituito da 79 persone con Parkinson e un gruppo di controllo di 71 persone.

L'idea dello studio viene dallo studio di una persona di cui avevo già scritto in precedenza* come Joy Milne, dotata di olfatto "super" (in termini tecnici iperosmia ereditaria), che si è dimostrata capace di "annusare" la malattia nelle persone prima che questi manifestassero i sintomi clinici.
Joy Milne al "lavoro" (credit: manchester.ac.uk)
* Vi rimando agli articoli del 2019 ("Lo strano caso della donna capace di...") e del 2016 ("Predire il rischio di Parkinson dall'odore").
Il sebo è una secrezione oleosa, ricca di metaboliti, prodotta dalle ghiandole sebacee cutanee collegate al sistema endocrino.
Punto di partenza la nozione clinica che i soggetti affetti da Parkinson presentano una produzione anomala di sebo, da qui l'idea di verificare se alterazioni nella sua composizione potessero avere valenza diagnostica, dall'analisi di campioni prelevati dalla parte superiore della schiena.
Una volta arrivato in laboratorio il campione viene trasferito dal tampone alla carta da filtro, a cui viene poi aggiunta una goccia di solvente. Fatto questo si può procedere all'analisi mediante spettrometro di massa. Si è potuto così dimostrare che tra le più di 4000 molecole uniche presenti, circa 500 erano diversi tra i due gruppi di soggetti analizzati.

La speranza ultima è quella di sviluppare un test diagnostico facile e affidabile che permetta di individuare i soggetti a rischio malattia prima che questa si manifesti (requisito fondamentale per sviluppare e testare trattamenti idonei, visto che quando la malattia si manifesta il danno neuronale è oramai talmente ingente da non potere essere invertito)

Fonte
Parkinson’s breakthrough can diagnose disease from skin swabs in 3 minutes
University of Manchester /news


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Kit per addestrare l'olfatto ... senza pretendere/sperare di diventare super come Joy Milne


Identificati 135 "nuovi" geni coinvolti nella pigmentazione della pelle

I ricercatori identificano 135 nuovi geni della melanina responsabili della pigmentazione
Tra le caratteristiche morfologiche che definiscono la varietà umana è facile citare il colore della pelle, dei capelli e degli occhi. Una variabilità che è dovuta in gran parte alle caratteristiche di un unico pigmento, la melanina.
Nonostante l'apparente semplicità "causale" il sistema di regolazione è estremamente complesso, e poco caratterizzato, per due ragioni principali:
  • nonostante il nome singolo, si tratta di una sorta di termine "ombrello" che raggruppa diverse classi di molecole (in genere originate dall'aminoacido tirosina) accumulati in particolari sacche di cellule come i melanosomi.
  • questa eterogeneità si amplifica a livello genetico a causa del contributo regolatori di molti geni diversi, a loro volta sottoposti al controllo trascrizionale da parte di altri geni. Ne consegue che la produzione di tali pigmenti (quantitativo e qualitativo) è il risultato dell'azione di molti piccoli contributi 
Tale premessa spiega l'interesse del nuovo studio pubblicato sulla rivista Science, centrato sulla identificazione di 135 nuovi geni associati alla pigmentazione.
Nota. Non si parla in realtà di NUOVI geni appena scoperti, ma del coinvolgimento di questi geni, noti magari per svolgere altre funzioni, nel complesso processo che porta alla produzione delle melanine.
La melanina viene prodotta all'interno di strutture speciali chiamate melanosomi presenti all'interno dei melanociti. Sebbene tutti gli esseri umani abbiano lo stesso numero di melanociti, la quantità di melanina prodotta è diversa e dà origine alle varie tonalità nella colorazione della pelle (etc).

Evolutivamente la pigmentazione più scura era quella originaria data l'origine africana (alta irradiazione solare) del genere Homo, necessaria per proteggere la pelle dalle radiazioni ultraviolette. Con l'inizio del processo migratorio che portò gli Homo fuori dall'Africa la diminuzione della quantità di luce associata a minore presenza di cibi ricchi di vitamina D (frutta) rese da una parte meno necessaria la pigmentazione protettiva (essere scuri non serviva) e dall'altra aumentò la richiesta di sintesi endogena di tale vitamina, processo facilità dall'esposizione della pelle alla luce solare (essere scuri era deleterio perché si assorbiva meno luce e quindi era minore la biosintesi cutanea di vitamina D).

Per capire i meccanismi (genetici e, a cascata, biochimici) alla base delle produzione di differenti quantità di melanina negli umani, gli autori dello studio hanno utilizzato la tecnologia CRISPR-Cas9, tecnica che consente di ingegnerizzare geneticamente le cellule. Nello specifico hanno rimosso sistematicamente più di 20 mila geni (la quali totalità del nostro patrimonio), uno per uno, usando centinaia di milioni di melanociti come "portatori" della mutazione (delezione) valutando su ciascuno di essi l'impatto nella produzione di melanina.
Tecniche come la citometria a flusso permettono di quantificare la quantità di pigmento presente e di separare le cellule "portatrici" della differenza cercata dalla massa di cellule (geneticamente) diverse. Una volta separate le cellule di interesse, identificare il gene mancante è "semplice".
Dall'analisi sono emersi 169 geni funzionalmente diversi capaci di influire sulla produzione di melanina, 135 dei quali non noti per avere effetti sulla pigmentazione.
Tra i "nuovi" geni due (KLF6 e COMMD3) sono stati analizzati funzionalmente, vale a dire fatta la caratterizzazione funzionale della proteina.
  • KLF6 è una proteina legante il DNA e "spegne" la produzione di melanina sia negli esseri umani che negli animali
  • La proteina COMMD3 regola la sintesi della melanina agendo sullo stato di acidità dei melanosomi.
L'analisi dettagliata di ciascuno di questi geni apre nuove strade nello sviluppo di farmaci utilizzabili sia a scopo fotoprotettivo (e in ultima analisi dal cancro) per le persone dalla pelle chiara (che lavorano in zone ad alta insolazione) sia per terapie contro la vitiligine e altre malattie della pigmentazione.

Applicazioni che vanno oltre la salute umana essendo le nozioni acquisite utilizzabili anche per identificare i geni che regolano la produzione di melanina in funghi e batteri così da contrastare la loro patogenicità sia su animali che sulle piante coltivate.
La produzione di melanina nei funghi e nei batteri consente loro di essere più patogeni per l’uomo o per le colture. 
Fonte
- The lingering effects of Neanderthal introgression on human complex traits.


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Proteggere la pelle è importante

I geni neandertaliani e l'effetto sulla nostra immunità e metabolismo

È noto oramai da tempo che noi sapiens siamo portatori (e debitori per la sopravvivenza in climi freddi) di geni ereditati dai cugini Neanderthal.
Stime recenti indicano che i geni di Neanderthal comprendono dall'1 al 4% del genoma degli esseri umani di oggi (ma solo quelli che migrarono fuori dall'Africa all'alba della diffusione dei sapiens. Vedi sotto). L'incrocio è avvenuto più volte a partire da circa 50.000 anni fa mano a mano che i sapiens si addentrarono in aree già popolate da decine di migliaia di anni dai Neanderthal che per tale ragione avevano sviluppato adattamenti (a clima e malattie) assenti nei nuovi arrivati.

In uno studio pubblicato a giugno 2023 sulla rivista eLife, i ricercatori hanno aggiunto nuove informazioni su questo fenomeno indicando tra i vantaggi acquisiti quelli a carico del sistema immunitario e del metabolismo. I nuovi dati sono stati resi possibili dallo sviluppo di una nuova suite di strumenti genetici computazionali che hanno permesso di analizzare gli effetti genetici dell'incrocio.

L'analisi si è avvalsa della elevata quantità di dati disponibile nella biobanca britannica, comprensiva delle informazioni genetiche e i tratti somatici di circa 300 mila britannici di origine non africana.  I ricercatori hanno analizzato più di 235 mila varianti genetiche di probabile origine neandertaliana, scoprendo così che 4303 di queste varianti nel DNA svolgono un ruolo rilevante negli esseri umani moderni, influenzando 47 tratti genetici distinti, come la velocità con cui alcuni "bruciano" le calorie o la naturale resistenza immunitaria di una persona a determinate malattie.
Ereditabilità di marcatori genetici neandertaliani associati a particolari tratti fenotipici/metabolici
(image credit:  Xinzhu Wei et al,/ eLife)



Fonte
- The lingering effects of Neanderthal introgression on human complex traits.
Xinzhu Wei et al, (2023) eLife


(Aggiungo in calce a questo aggiornamento gli altri articoli sul tema pubblicati in precedenza. Questo il motivo per cui alcuni concetti potrebbero essere stati ripetuti)  
Tra gli articoli più significativi sul tema rimando al tag che raggruppa temi centrati sugli incroci con neanderthal e denisova e sull'origine di alcune popolazioni umane (--> QUI). Una curiosità sintattica giusto per cominciare: si dice neanderthal o neandertal? Il minuscolo è corretto dato che in italiano, a differenza di tedesco e inglese dove sostantivi sono trattati come i nostri nomi propri, vigi tale regola. Sulla presenza del -th- o meno rimando invece ad un articolo interessante sul sito "talkorigins.com" --> QUI. Io userò preferenzialmente la versione italianizzata del nome.
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 Non solo vantaggi. I geni neandertaliani alla base di alcune patologie odierne ***
(Articolo pubblicato in data febbraio 2016)

Una bambina e una statua che riproduce un uomo di Neandertal. Guardare nel genoma è guardare in noi stessi. (©Neanderthal Museum)
  
Continuiamo la panoramica sulle recenti scoperte in antropologia evolutiva, frutto della enorme potenza informativa "regalataci" dal progetto genoma. In soli 10 anni siamo passati da una antropologia evolutiva basata sui reperti fossili e sulla anatomia comparata ad una antropologia fondata sulla genetica molecolare.
Il presente articolo è un aggiornamento di quanto scritto mesi fa sulle conseguenze genetiche dell'incrocio tra i sapiens e i neandertal (--> QUI). Se infatti tali unioni sono stati la chiave di volta per consentire il rapido adattamento degli africani sapiens al freddo clima eurasiatico in cui vivevano da millenni i neandertal (acquisizione di pelle chiara, capelli più spessi, o la resistenza all'alta quota --> QUI), cominciano ad emergere dati che indicano anche gli svantaggi per la nostra salute di sapiens sapiens derivati da tale unione e riscontrabili in malattie "moderne" come asma, malattie della pelle e forse la depressione.
Nota. Quando si affrontano temi legati all'evoluzione è fondamentale mettere sempre al centro temi come genetica e selezione naturale. Uno dei più grossi errori quando si sente parlare di selezione dai non addetti ai lavori (e i media da sempre sono i peggiori amplificatori di nozioni che non capiscono) è quello di pensare alla "selezione del più forte". Un errore che varrebbe la bocciatura immediata al corso di genetica del primo anno di università. La selezione favorisce sempre e solo individui con la maggiore fitness, un termine che può essere tradotto come "vantaggio riproduttivo": qualunque mutazione che aumenti la probabilità di riprodursi e di originare progenie fertile in grado di arrivare all'età riproduttiva è dominante rispetto ad un eventuale aumentato rischio di patologie nell'età adulta. Semplificando al massimo il concetto, se una data mutazione aumenta anche di poco la resistenza a malattie dell'infanzia o della prima adolescenza, ma nel contempo aumenta enormemente il rischio di patologie cardiovascolari sopra i 30 anni, questa mutazione sarà evolutivamente favorita. Bisogna infatti ricordare che l'età media dei nostri progenitori era verosimilmente inferiore ai 40 anni e la maturità sessuale (che nel caso delle femmine di qualunque specie equivale a generare progenie nei mesi successivi) era intorno ai 12-15 anni. Una volta "figliato" ed essersi dimostrati in grado di proteggere la prole fino al raggiungimento della loro maturità sessuale, il "lavoro" era fatto. Qualunque problema successivo è, da un punto di vista selettivo, irrilevante.
Torniamo ora ai geni "cattivi" per un sapiens sapiens di derivazione neandertal. Le evidenze sulla loro esistenza sono state presentate da diversi ricercatori nel meeting tenutosi a Vienna nell'ambito della Society for Molecular Biology and Evolution sotto riassunte:
  • Corinne Simonti e Tony Capra, della Vanderbilt University hanno incrociato le informazioni cliniche estratte dalle cartelle di 28 mila pazienti con la frequenza negli stessi di alleli neandertal in modo da verificare se esistessero correlazioni pericolose. I dati indicano che alcune varianti geniche di origine neandertaliana aumentano leggermente, ma in modo statisticamente significativo, il rischio di malattie come l'osteoporosi, patologie della coagulazione e perfino la dipendenza da nicotina. A complicare il quadro il fatto che l'effetto non è quasi mai, come atteso, dovuto all'azione di singoli alleli per sé ma è multiallelico; da qui la correlazione tra aplotipi (gruppi di alleli) antichi e "stati" come depressione, obesità e alcune malattie della pelle. Relazioni non unidirezionali sia chiaro; alcune varianti aumentano il rischio, mentre altre lo diminuiscono.
  • Nello stesso meeting Michael Dannemann del Max Planck Institute ha presentato dati sugli alleli neandertaliani o denisovaniani di geni che codificano proteine chiave del sistema immunitario innato chiamate Toll-like-receptor (TLR), il cui ruolo è scoprire patogeni e attivare una rapida risposta difensiva. Esperimenti in coltura cellulare hanno dimostrato che le cellule con alleli neandertaliani esprimono più TLR rispetto a quelli sapiens, il che potrebbe spiegare da una parte la maggiore frequenza di allergie nei moderni portatori di tali alleli (e in generale nelle popolazioni non-africane... vedi articoli precedenti) e dall'altra il loro essere più protetti dall'infezione da Helicobacter pylori (il batterio causa dell'ulcera gastrica).
  • Il maggior rischio di diabete di tipo II notoriamente presente nei i discendenti degli indios sudamericani e in alcune popolazioni orientali è legato ad un aplotipo particolarmente frequente in queste popolazioni che arriva direttamente dai progenitori neandertal (Williams AL et al, Nature 2014).
Una precisazione è dovuta.
E' errato in questi casi parlare di alleli "cattivi" o "buoni". Si tratta di alleli dimostratisi vantaggiosi in determinate condizioni ambientali che gli antenati sapiens dovettero affrontare nel passato (o in altri casi segregati casualmente per motivi legati a deriva genetica, effetto del fondatore oppure a collo di bottiglia genetico). Con il passare dei millenni, e soprattutto negli ultimi due secoli con l'antropizzazione ambientale e la nascita della medicina moderna, l'ambiente è stato plasmato in modo da favorire la nostra sopravvivenza con il risultato che alcuni alleli un tempo utili hanno (nel migliore dei casi) perso utilità diventano "neutri" e in alcuni casi hanno mostrano i loro "effetti collaterali" prima non visibili semplicemente in quanto non vivevamo abbastanza a lungo o più semplicemente perché il rapporto beneficio/danno era alto.
Ciò che era vantaggioso un tempo non è detto che lo sia oggi come ben insegna il caso degli alleli causa di talassemia accumulatisi (sebbene chiaramente "dannosi") in alcune popolazioni in quanto conferenti una maggiore resistenza alla malaria. Scomparsa la malaria (Sardegna, delta ferrarese, paludi pontine, ...) rimane solo la dannosità.
(prossimo articolo sul tema --> "Lucy cadde dall'albero")

 Fonte
- Neanderthals had outsize effect on human biology
Nature,  luglio 2015
- The phenotypic legacy of admixture between modern humans and Neandertals
Corinne N. Simonti et al,  Science Feb 2016: Vol. 351, Issue 6274, pp. 737-74

Articolo recente sugli incroci avvenuti tra sapiens, neanderthal e denisova
- Analysis of Human Sequence Data Reveals Two Pulses of Archaic Denisovan Admixture
S. R. Browning et al, (2018) Cell 173, 1–9

Aggiornamento 01/2019Un recente studio basato sulle varianti geniche trasmesse dal genitore Neanderthal indica un "allungamento" del cranio rispetto a quello più rotondo di un Sapiens "puro". Una conclusione derivante dallo studio funzionale delle varianti geniche presenti solo nel DNA neanderthaliano. Non ci sono prove che tali varianti abbiano influenzato la capacità cognitiva.


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Sapiens e Neanderthal. Una unione non priva di problemi 
Articolo pubblicato a luglio 2014 (QUI)

Non sappiamo se sia stato amore a prima vista o se gli incroci tra Homo sapiens e Homo neanderthalensis siano stati il frutto di incontri casuali o peggio frutto di scorrerie incrociate. Sta di fatto che noi tutti appartenenti alle popolazioni non-africane di Homo sapiens (e il motivo di questa precisazione lo descriverò tra qualche riga) abbiamo, usando un termine banalizzante ma comprensibile ai non addetti ai lavori, "sangue neanderthal". Lo stesso concetto può essere espresso molto meglio scientificamente scrivendo che una parte del nostro genoma è di chiara provenienza neanderthaliana.
Neanderthal (©Museum of Natural History, Vienna)

Tale affermazione non deriva né da speculazioni né da narrativa para-scientifica, ma è il risultato ottenuto grazie alle sempre più avanzate tecniche di caratterizzazione genomica che nell'ultimo decennio hanno permesso di scandagliare sempre più in profondità nel nostro DNA.
Ciò che una volta (e parliamo della fine dello scorso millennio) era un approccio valido al più per costruire film come Jurassic Park, oggi è diventato una realtà: dai fossili del neandertal è stato possibile estrarre DNA sufficientemente integro da essere sequenziato e le stringhe di informazioni "riordinate" in modo coerente (e questo grazie a software molto potenti). La comparazione tra la sequenza nucleotidica dei nostri "cugini" e la nostra indica in modo chiaro la presenza di una eredità neandertal nel nostro genoma. Presenza attribuibile unicamente ad incroci ripetuti avvenuti quando i due Homo avevano intrappreso percorsi evolutivi separati già da molte decine di migliaia di anni.
Queste unioni sono state una fortuna per i nostri antenati "ibridi" dato che hanno fornito loro una "scorciatoia" evolutiva per adattarsi più velocemente ai nuovi ambienti colonizzati, più freddi di quelli originari e ricchi di microbi ignoti al loro repertorio immunitario.
Tutto facile? Non proprio. Come spesso avviene durante gli incroci tra "quasi-specie" è verosimile che le primissime generazioni di ibridi fossero caratterizzate da ridotta fertilità e da tratti non vantaggiosi per non dire deleteri.
Nota. Quando soggetti di una stessa specie si vengono a trovare separati per un tempo sufficientemente lungo è quasi automatico che accumulino differenze genetiche proporzionali al numero di generazioni trascorse e alla differenza ambientale. Le cause di tali differenze sono molteplici e vanno da fenomeni come founder-effect, bottleneck genetico alla selezione positiva/negativa di nuovi alleli vantaggiosi/svantaggiosi in un dato ambiente; esempio classico di selezione di alleli svantaggiosi è quello causante l'anemia mediterranea in grado di conferire, allo stato eterozigote, un vantaggio selettivo nelle zone malariche. Il caso più noto dei problemi legati all'incrocio tra specie diverse ma molto vicine geneticamente è quello tra cavalli ed asini; simili ma sufficientemente "divergenti" da non essere più in grado di generare una progenie fertile. Quando questo avviene si parla di speciazione ed è biologicamente riassumibile come la incapacità di generare una prole fertile.
Un esempio meno estremo (non è avvenuta, ancora, la speciazione) è quello riferito a popolazioni di scimpanzé che vivono da tempo indefinito in aree adiacenti ma separate tra loro da un fiume sufficientemente largo (le scimmie non sanno nuotare). Lo studio del loro genoma ha mostrato la sedimentazione di tratti specifici, pur abitando in aree sostanzialmente identiche (--> QUI), addirittura maggiori di quelli esistenti tra le popolazioni umane (in cui la separazione geografica è durata poche decine di migliaia di anni).
Torniamo all'incipit dell'articolo odierno in cui accennavo alla unione tra neanderthaliani e sapiens. Per comprendere appieno i riferimenti è tuttavia necessario fare un'altra digressione riassumendo alcuni concetti su quanto è avvenuto dopo la separazione dei due rami evolutivi (sapiens e neanderthal) a partire dall'antenato comune. Questi dati sono essenziali per comprendere il motivo per cui il DNA neanderthaliano è presente unicamente nelle popolazioni non africane.
La zona abitata dai Neanderthal prima della migrazione umana

Le diverse tappe temporali della diffusione del sapiens (credit: nature.org)

Alla luce dei recenti ritrovamenti in Grecia (2019) la prima traccia dei sapiens in Europa è stata spostata a 210 mila anni fa. Paradossalmente prima dei Neanderthal, sebbene questo gap sia verosimilmente conseguenza di reperti Neanderthal meno diffusi (image credit: Nature)


La parentela tra Homo sapiens e Homo neanderthalensis risale ad un antenato comune vissuto circa mezzo milione fa. A tale periodo va infatti fatta risalire con ogni probabilità la separazione geografica (e quindi riproduttiva) tra i due gruppi, iniziata con la migrazione dei proto-neanderthal dall'Africa verso il medio oriente prima ed Europa e Asia poi. Una migrazione che li avrebbe portati in territori climaticamente ben diversi da quelli originari e a cui finirono per adattarsi. Ricordo che il termine "adattamento" va inteso geneticamente, come selezione dei caratteri che meglio aiutano a sopravvivere (e a riprodursi in modo "produttivo") in un dato ambiente. In altre parole la fitness genetica.

Bisognerà aspettare altri 400 mila anni (quindi solo 100 mila anni fa) prima che l'Homo sapiens inizi la sua migrazione dall'Africa, staccandosi dai fratelli africani. Una separazione provata dalle differenze genetiche accumulatesi (causa isolamento riproduttivo) tra sapiens africani e non-africani.

Per evitare equivoci vale la pena sottolineare che questo non implica che uno dei due sia migliore (o più evoluto) dell'altro ma semplicemente che per molte migliaia di anni si è avuta una separazione di fatto tra i sapiens rimasti in Africa e quelli da essa emigrati (quindi oltre agli eurasiatici anche gli abitanti di Oceania e americhe).
L'analisi delle varianti del cromosoma Y (--> Poznik G.D. et al. Nat. Genet. 48, 593–599 (2016)) ha fornito nuove informazioni sul "quando" sia iniziata la migrazione del Sapiens fuori dall'Africa. Uno studio reso possibile dalla trasmissione patrilineare di questo cromosoma che è impossibilitato a ricombinarsi durante la meiosi (tranne nella regione pseudoautosomica) come fanno tutti gli altri cromosomi. Questo suo "isolazionismo" lo rende un formidabile collettore di variazioni genetiche, dal computo delle quali è possibile risalire al momento della separazione di due popolazioni. Alcuni numeri: l'antenato maschio a cui possono essere fatti risalire tutti i cromosomi Y odierni è databile a circa 170 mila anni fa; i cromosomi Y non africani (quelli cioè con alterazioni comparse successivamente alla migrazione) sono databili a circa 70 mila anni fa. 
 Gli ominidi non-sapiens (i neandertal sono solo quelli di maggiore successo) risiedevano in Europa ed Asia da almeno 200 mila anni quando iniziarono i primi contatti con i nuovi arrivati sapiens "appena" usciti dal continente africano. Logico pensare quindi che si fossero pienamente adattati ad un clima (e a patogeni) ben diversi da quelli africani grazie a mutazioni adattive. E' più che verosimile che la velocità (in termini evolutivi) con cui i sapiens riuscirono a colonizzare ambienti così diversi dall'originario sia la diretta conseguenza di incroci con gli autoctoni seguita da una selezione continua durata molte migliaia di anni della progenie che meglio "riassumeva" in se i tratti più idonei. In pratica l'appropriazione del DNA dei neandertal è stata per i nostri antenati una scorciatoia evolutiva che ha fornito la marcia in più per la diffusione sui territori vasti ed eterogenei come quelli eurasiatici.
L'evoluzione della specie umana e i contatti con i Neanderthal: una sola famiglia (immagine riportata dal sito della BBC, ma originariamente pubblicata su Science)
In un certo senso il fatto che le popolazioni africane siano prive di elementi neanderthaliani le qualifica come sapiens puri mentre noi non-africani (sia europei che asiatici, etc) siamo il prodotto di una unione con cugini "diversamente" umani, i neandertal.

Come prima anticipato, la genetica ci ha permesso di scoprire, senza alcuna incertezza, che da questo incontro si produssero delle unioni di cui i sapiens non africani conservano le traccie nel 2-3% del genoma.
Ad aggiungere interesse a queste scoperte rese possibili grazie al Progetto Genoma, si aggiunge il dato eccezionale di qualche anno fa (di cui ho già parlato in un precedente articolo--> QUI) riferito alla identificazione di un nuovo "cugino", noto come Homo denisova, un parente prossimo del Neanderthal. I denisoviani avevano colonizzato alcune regioni dell'Asia centrale e si trovarono sulla rotta migratoria dei sapiens già incrociatisi con i Neanderthal. Risultato? Un nuovo incrocio di cui si trovano oggi le tracce unicamente in alcune specifiche popolazioni di Malesia, Filippine e nei tibetani (vedi --> QUI), i diretti discendenti di questo incontro.
A questo punto dovrebbe essere chiaro per quale motivo solo le popolazioni non-africane hanno DNA neanderthaliano. Riassumiamo gli elementi principali:
  • sapiens e neanderthal si sono indubbiamente incontrati e hanno generato della prole;
  • le due popolazioni, nonostante la separazione durata 400 mila anni, non avevano ancora portato "a termine" il processo di speciazione. Come detto in apertura la definizione biologica di specie definisce organismi dal cui incrocio si generano individui ugualmente fertili;
  • la predominanza assoluta del genoma sapiens ci qualifica come "sapiens con tracce di neandertal" e non viceversa, ad indicare che gli incroci sono si avvenuti in modo ripetuto ma "all'interno" della comunità sapiens; altrimenti saremmo "neandertal con tracce di sapiens". Questa unione quantitativamente ineguale potrebbe a sua volta indicare che i neandertal fossero in crisi demografica o troppo sparsi al momento dell'arrivo delle prime ondate di sapiens e/o che i rapporti tra le due popolazioni si siano rivelati da subito poco amichevoli, tale da rendere gli accoppiamenti minoritari sul totale della popolazione. Questo però non permette di comprendere per quale motivo il DNA neandertaliano sia presente in tutti gli appartenenti  a popolazioni non africane. Se ci fosse stata una chiara superiorità numerica o se gli incroci fossero stati rari la logica conseguenza sarebbe la presenza di un numero rilevante di individui privi di DNA neanderthal. Il che, pur in presenza di una certa variabilità, non è stato osservato.
  • Qualcuno potrebbe anche ipotizzare che i neandertal si siano rivelati meno adatti a superare repentini cambiamenti climatici, magari associati alla fine delle grandi glaciazioni. Una spiegazione che non mi convince completamente dato che i neandertal erano sopravvissuti egregiamente per 400 mila anni in Eurasia, un tempo sufficiente per avere affrontato almeno due periodi interglaciali (grafico --> qui).
  • Una valida ipotesi alternativa (non escludente la precedente) è che la progenie ibrida abbia "raccolto" sia elementi positivi (favoriti) che negativi (sociali? di fitness?) su cui la selezione abbia agito con il risultato di un "peso" neandertal/sapiens quale quello attuale.
  • Nel periodo intercorso tra l'arrivo dei sapiens in Europa (~ 45 mila anni fa) e l'invenzione dell'agricoltura e quindi dei primi villaggi stabili (~ 8500 anni fa) la componente neandertaliana del nostro genoma è passata dal 3-6 per cento a meno del 2 per cento; una chiara indicazione di una selezione debole ma continua contro alcuni geni e in favore di pochi altri.
L'elemento centrale su cui concentrarsi è che se le popolazioni moderne non-africane hanno conservato in modo pressoché uniforme parte del genoma neandertaliano, questo indica che tutte queste popolazioni derivano da soggetti ibridi. L'assenza di "sapiens puri" tra i non-africani indica sia che sul lungo periodo i "puri" si siano rivelati non idonei come fitness alla vita in eurasia ma anche che l'ibrido perfetto (o in ogni caso quello con maggiore contenuto di alleli neandertal) era idoneo.
Una ipotesi, quella di uno svantaggio riproduttivo degli ibridi, non peregrina se si tiene a mente quanto detto sopra: le due popolazioni erano rimaste separate per un tempo abbastanza lungo (cosa non più capitata da allora nell'ambito della specie sapiens sapiens) e sappiamo che questo in automatico porta alla selezione e/o alla segregazione casuale di caratteristiche fisiologiche, metaboliche e strutturali (in una parola genetiche) che in un ibrido possono portare ad un considerevole abbassamento della fitness. In particolare è a livello meiotico (il processo alla base della formazione dei gameti) o embrionale che eventuali discordanze cromosomiche o genetiche, rispettivamente, si manifestano. Il mulo è sterile, sebbene sano in tutto il resto, dato che il suo "problema" è nella impossibilità di formare gameti funzionali durante il processo meiotico.
Ed ecco che finalmente arriviamo al tema centrale dell'articolo odierno, che vuole riassumere quanto emerso da due articoli pubblicati sulle riviste Nature e Science, entrambi centrati sulle problematiche di fitness di un ibrido "puro" sapiens/neandertal. Entrambi i lavori hanno usato come punto di partenza l'analisi delle regioni del nostro genoma di ascendenza neandertaliana. Tali aree, che rappresentano meno del 3 % del nostro genoma, non sono organizzate in modo contiguo ma distribuite su tutti e 23 i cromosomi.
L'interesse dei ricercatori era comprendere quali fossero le funzionalità (cioè i geni e le regioni regolatrici) conservatesi durante la successiva 'evoluzione del sapiens e quali invece le zone perse. Se i geni si sono conservati negli ultimi 60 mila anni dall'incontro con l'ultimo neanderthal qualche vantaggio devono averlo fornito. Se si fosse trattato di alleli (o geni omologhi) leggermente svantaggiosi o semplicemente neutri per la fitness, sarebbero stati persi per diluizione nel giro di qualche decina di generazioni. Cosa che ovviamente non è avvenuta.

Nel lavoro pubblicato su Science (Benjamin Vernot et al) è stato confrontato il DNA di 665 europei e asiatici dell'estremo oriente con quello ottenuto dai fossili di neandertal. Il dato più importante emerso è che se è vero che meno del 3% del totale del nostro genoma è neandertal, dall'altra parte la quantità del genoma neandertaliano trasferitasi negli umani moderni è del 20%.
Un dato estremamente interessante che indica come durante il processo selettivo sugli ibridi si sia "trovato qualcosa di utile e/o di non deleterio" nel 20% del genoma neandertal degno di essere selezionato. Tra i geni neandertal "di successo" molti sono funzionalmente correlati alla fisiologia della pelle.

Risultati sostanzialmente in accordo con i precedenti sono quelli pubblicati su Nature dal team di David Reich. I geni neandertaliani emersi come evolutivamente vantaggiosi dal confronto del genoma di 1004 persone con quello neandertaliano, sono funzionalmente correlati con la cheratina, una delle proteine chiave del rivestimento cutaneo. Un dato che indica come la "qualità" della pelle abbia svolto un ruolo chiave nell'adattamento alle regioni con minore irradiazione solare. Non solo maggiore resistenza al freddo ma anche resistenza a patogeni ambientali.  

Tra gli elementi più interessanti emersi da entrambi i lavori vi è il fatto che ci sono larghe porzioni genomiche dei neandertal che sono andate completamente perse nel nostro genoma. Un dato questo che indica l'esistenza di una selezione negativa più che una neutralità selettiva. Un concetto sottolineato da Reich: "i dati suggeriscono fortemente che molti geni neanderthal si sono rivelati dannosi nell'ibrido e in tutti i suoi discendenti. Non a caso sono stati persi in solo poche generazioni successive alla nascita dell'ibrido".
Non sorprende allora scoprire che le regioni genomiche dei sapiens in cui la componente neandertaliana è assente sono anche quelle più ricche di geni a dimostrazione della esistenza di una forte pressione selettiva che ha rimosso le zone "dannose". Ancora meno sorprendente, ma scientificamente eccitante, scoprire che queste zone contengono i geni maggiormente espressi nei testicoli e che il cromosoma X (i cui geni sono particolarmente soggetti a selezione a causa dei problemi di dosaggio genico nei sessi) abbia circa cinque volte meno materiale genetico derivato dai neandertal di quanto osservabile negli altri cromosomi.
Se dovessimo riassumere in una frase il concetto che emerge da questi dati, l'ipotesi è che gli alleli neanderthaliani presenti nei maschi ibridi abbiano portato ad una drastica riduzione di fertilità.
Con il passare delle generazioni la pressione selettiva, volta a favorire i soggetti a maggiore fitness riproduttiva, avrebbe portato a ibridi dotati della minor quantità possibile, a parità di vantaggi generali, di alleli neandertaliani "dannosi". Il fatto che l'equilibrio si sia spostato verso la bassa percentuale di alleli neanderthaliani invece che l'opposto (in fondo era solo l'ibrido "puro" ad avere una minore fitness) è verosimilmente il risultato o di una preferenza per partner "sapiens", voluta o forzata che fosse o di un vantaggio competitivo innegabile per i sapiens.
In entrambi i casi si spiegherebbe la rapida (secondo una scala evolutiva) diluizione del genoma neandertal ma "lento" a sufficienza da permettere la costante presenza di ibridi nella popolazione a svantaggio dei sapiens "puri".
L'evoluzione procede grazie a mutazioni e alla diffusione di queste nella popolazione fino a che un tratto "vantaggioso" emerge e riesce così a fissarsi nella popolazione. Rimanendo in ambito umano le scoperte fatte in questi hanno permesso di disvelare alcuni dei passaggi chiave (molto spesso su geni importanti nella neurogenesi) che hanno accompagnato la separazione degli umani dai primati non umani.
Un esempio tra tutti, la duplicazione del gene SRGAP2B, avvenuta tre volte durante la storia evolutiva del genere Homo e che ha reso possibile l'aumento dimensionale della corteccia cerebrale. Un passaggio che segnò il distacco de facto del genere Homo da quello Australopithecus (vedi questo articolo per approfondimenti)
E infatti oltre ai geni strutturali della cute, nell'articolo pubblicato su Science si legge che tra le regioni ereditate dai neandertal ve ne è una abbastanza ampia che contiene, tra gli altri, il gene FOXP2, fondamentale per l'apprendimento e la capacità linguistica.
FOXP2 è un gene estremamente conservato tra i vertebrati e questo è particolarmente evidente all'interno dei primati. Per capirci la differenza tra la proteina umana e quella nei primati non umani sono solo due aminoacidi (tra noi e i Neandertal la differenza è solo a livello intronico). E sappiamo che è sufficiente una sola mutazione in questo gene per generare forti deficit nella capacità comunicativa (casistica estremamente rara ma nota da un punto di vista clinico grazie alla familiarità del difetto). Vedi QUI per ulteriori dettagli. 
credit: SE Fisher, Current Biology (2019)

Pelle chiara, arcata orbitale pronunciata,
questi alcuni dei tratti neanderthaliani
(ricostruzione al computer)
In conclusione i dati ottenuti sembrano indicare che quando si incontrarono gli umani e i neanderthal erano "ai confini della compatibilità biologica", per usare le parole di Reich, " e per questo motivo gli ibridi risultanti hanno sofferto di un elevato tasso di infertilità" (aggiornamenti sul tema in un successivo articolo -->QUI)

Una  domanda allora sorge spontanea. "Quanto erano diversi i sapiens e i neandertal quando si incontrarono"?
Estremizziamo il concetto e immaginiamo di usare una macchina del tempo e di trasportare un Inuit di cent'anni fa (sicuramente non entrato in contatto da millenni con popolazioni diverse) dall'Artico all'Africa equatoriale. La ridottissima capacità di sudare, legata all'essere il risultato della selezione di individui adatti a vivere in ambienti freddi, avrebbe causato non pochi problemi di dissipazione del calore nel clima equatoriale. Se consideriamo che il tempo di separazione tra un inuit e l'antenato che viveva in climi più caldi è inferiore a 5 mila anni possiamo ben immaginare la divergenza (e l'adattamento) a cui era giunto il neandertal in 400 mila anni dalla sua uscita dall'Africa.  
E a seguire "è verosimile che un neandertal e un essere umano si siano accoppiati anche se avevano intrapreso strade evolutive divergenti"?
Sebbene le differenze tra un neandertal e un sapiens siano evidenti a livello morfologico queste differenze non sono tali da rendere evidente la non "umanità".
William Straus, anatomo-paleontologo statunitense della Johns Hopkins University, è l'autore di una frase rimasta celebre
"Se si potesse trasportare un Neanderthal ai giorni nostri e lo si lasciasse nella metropolitana di New York, opportunamente lavato, sbarbato e modernamente vestito, difficilmente verrebbe notato" (da Quarterly Review of Biology, p. 359)
Ovviamente checché ne pensi Strauss sui frequentatori della metropolitana di New York, "non ci sono in giro Neanderthal, quindi non è possibile fare un esperimento di accoppiamento" ha commentato Daven Presgraves, un biologo evoluzionista presso l'Università di Rochester a New York.
Come apparirebbe un Neanderthal in visita al museo omonimo (sito nel luogo di ritrovamento dei primi fossili) in Germania. (©Neanderthal Museum)

Che non ci fossero barriere di aspetto (o di feromoni) sostanziali devono averlo pensato anche i sapiens quando incontrarono i neandertal (o semplicemente non si posero il problema essendo meno "sofisticati" di noi), sta di fatto che è indubbio che siano accoppiati. Alcuni degli ibridi nati da questo incrocio furono abbastanza fortunati da potere contare sui vantaggi associati a ciascuna specie del genere Homo: da parte neandertal la resistenza al freddo, alle infezioni locali e all'aumentata esposizione alle radiazioni ultraviolette (maggiore ad alte latitudini) e dall'altra le migliori capacità intellettive (linguaggio, astrazione, sociali, di adattabilità, etc) che il sapiens aveva evoluto e che di fatto determinarono l'esito della competizione per la stessa nicchia ecologica tra i due Homo.

Come sia scomparso il neandertal è difficile da dire.
Potrebbero essere stati soverchiati numericamente dai sapiens e quindi integrati, essere usciti sconfitti dalla competizione per la stessa nicchia ecologica finendo relegati in aree geografiche sempre più remote oppure essere stati annientati (magari divenendo cibo) dai nostri antenati.
Di sicuro ne è uscito sconfitto dato che la quantità di suo DNA nel nostro genoma è solo del 2%. Partendo dal presupposto che i neanderthal erano maggioritari quando i sapiens arrivarono nei nuovi territori, il fatto che i sapiens abbiano vinto e che si siano portati dietro "solo" il 2% del genoma dei cugini è indicativo dell'esistenza di un qualche fattore che lo ha reso "perdente" nella competizione.
Guardare nel passato è guardare in noi stessi (©Neanderthal Museum)

Entusiasta delle recenti scoperte è Sarah Tishkoff, una genetista di popolazioni presso l'università della Pennsylvania, che afferma "i nuovi sviluppi della genomica ci hanno permesso di capire molto di più [in dieci anni] di quanto sia stato mai possibile fare con la paleontologia". La scoperta dell'Homo denisova ne è l'esempio eclatante.
Nel prossimo futuro sarà possibile ricostruire in dettaglio l'evoluzione umana sfruttando solo il DNA delle popolazioni umane moderne. In particolare sono le popolazioni africane a stuzzicare la curiosità degli antropologi. La scarsità di reperti fossili da cui sia possibile estrarre DNA in Africa ha di fatto rallentato gli studi sulla diffusione dell'Homo sapiens nel continente africano. La comparazione del DNA tra le diverse popolazioni del continente (in particolare di quelle etnie che sono rimaste geograficamente isolate) potrà fornire un valido strumento di analisi e ci permetterà di sollevare il velo sui nostri antenati.
Neanderthal vs Sapiens (credit: Philipp Gunz via Nature)



(articolo precedente sul tema--> "Neanderthal. Cugini non così primitivi")
Fonti
- Resurrecting Surviving Neandertal Lineages from Modern Human Genomes
  Benjamin Vernot, Joshua M. Akey, Science (2014) 343 (6174) 1017-1021
- Modern human genomes reveal our inner Neanderthal
  Nature (2014) 1038
- The genomic landscape of Neanderthal ancestry in present-day humans
  Sriram Sankararaman et al, Nature (2014) 507 (1038) 354–357
- The genetic history of Ice Age Europe
Nature (2016) 534, pp. 200–205




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