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Ebola. I primi risultati degli studi clinici sull'efficacia dell'immunizzazione passiva

A distanza di due anni dal picco dell'epidemia di Ebola cominciano ad arrivare i risultati dei primi studi clinici sull'efficacia dei trattamenti terapeutici iniziati in quel convulso periodo.
Precedente articolo sull'argomento --> "L'epidemia di Ebola ad un anno dal suo inizio"
Uno degli approcci di cui molti parlarono all'epoca era centrato sull'utilizzo del siero prelevato ai soggetti in convalescenza, guariti più o meno spontaneamente (vedremo poi il senso di questo avverbio). Dal siero ottenuto sarebbe stato poi "facile" estrarre, o anche solo concentrare, gli anticorpi che avevano vinto la sfida contro il virus, per iniettarli nei malati in cui tale risposta non era ancora maturata.
Nota. In assenza di farmaci specifici per il virus, il trattamento dei pazienti era principalmente sintomatico, volto cioè a sostenere l'organismo fintanto che fosse stato in grado di maturare una risposta immunitaria efficace; tra questi, la reidratazione del malato giocò un ruolo chiave per aumentare la probabilità di sopravvivenza. Dato il decorso rapido (fatale nel 90 per cento dei casi entro le tre settimane dall'insorgere dei sintomi) il vero vulnus dei malati era la mancanza di tempo per montare una risposta anticorpale contro un patogeno mai incontrato prima (necessarie circa 3 settimane). I vaccini funzionano proprio su questo principio, cioè fornendo all'organismo versioni innocue (o meno virulente) del patogeno in modo che gli antigeni ad esso associati siano catturati dalle cellule sentinella e usati per istruire i linfociti a montare una risposta specifica contro quel dato patogeno. Una volta cessata l'esposizione acuta all'antigene, i linfociti "addestrati" rimarranno in circolazione a formare una memoria immunitaria (da cui il nome di linfociti B e T di memoria); qualora l'organismo dovesse rincontrare anche a distanza di anni un patogeno contenente antigeni "noti", le cellule di memoria monteranno una risposta efficace nel giro di soli 3 giorni. Tanto meno variabile il patogeno e tanto più efficace l'azione preventiva del vaccino. Come avvenne all'epoca delle epidemie di peste (che uccise il 30% della popolazione europea) solo pochi tra gli individui infettati ebbero la "fortuna" di contrarre una infezione a cui riuscirono a sopravvivere. I motivi di questa "fortuna" sono vari e vanno dall'essere stati infettati da un virus "debole" a caratteristiche genetiche individuali che rendono difficile al virus replicarsi nelle cellule di quel dato soggetto; il risultato netto è che il paziente "resiste" il tempo sufficiente perché il sistema immunitario (una macchina ineguagliabile per capacità di adattamento) riesca a sconfiggere l'intruso.
Cosa ci dice la "biologia" dei sopravvissuti? Per motivi poco compresi il loro sistema immunitario è in grado di produrre linfociti CD8+ diretti contro le cellule infettate (risposta citotossica) e al contempo minimizzano la produzione di molecole immunosoppressive (un meccanismo necessario in condizioni standard per evitare reazioni infiammatorie eccessive). Fonte: Nature.
Tornando alle speranze legate alla trasfusione di plasma come "facile" modalità terapeutica (pratica nota come immunizzazione passiva), c'è da sottolineare che l'illusione di avere a disposizione un facile strumento terapeutico era figlia, oltre che dalla assenza di alternative nel breve termine, di una certa confusione tra realtà e finzione cinematografica; una confusione alimentata, come sempre, dai media impreparati o semplicemente non interessati a trattare la scienza in modo ... scientifico. Molti sono i film che hanno alimentato questa visione semplicistica; tra i tanti cito "Virus Letale", emblematico per la presenza di un fantavirologo (interpretato da Dustin Hoffman) del molto reale Center for Disease Control (CDC) che riusciva a curare centinaia se non migliaia di soggetti partendo dal plasma di un singolo paziente sopravvissuto (e tutto in questo nel giro di pochi giorni, nemmeno il paziente avesse ettolitri di sangue da donare ...).
Nella realtà, il procedimento, sebbene sensato scientificamente, è anche pieno di punti interrogativi legati sia alla ipotizzata omogeneità genetica della popolazione virale nel bacino epidemico (cosa non proprio ovvia se non di fatto falsa come nel caso del variabilissimo virus dell'influenza) che per il rischio di innescare una reazione autoimmune nei soggetti trattati, a causa del riconoscere come estranei gli anticorpi iniettati.
Donare il sangue è meritorio. Ancora di più se chi lo dona è
un sopravvissuto che porta "in dote" gli anticorpi contro Ebola
(image: news.liverpool.ac.uk) 
Nota. Il trattamento basato sulla trasfusione del plasma è stato usato con un certo successo agli inizi del XX secolo per trattare pazienti con parotite, difterite o morbillo, patogeni caratterizzati (non a caso) dall'avere un tasso di variabilità (alias mutazioni) molto basso. L'approccio cadde poi in disgrazia con l'avvento dei farmaci antibiotici o antivirali, nettamente più efficaci ... quando il patogeno è sensibile. Se non ricordo male l'approccio basato sul plasma è ancora oggi in uso per la febbre emorragica argentina.
Arriviamo così al punto saliente, cioè i risultati del primo studio clinico basato sull'utilizzo del plasma sanguigno donato dai sopravvissuti in fase di convalescenza (quando il titolo anticorpale è ancora alto) ai pazienti ancora in lotta. La scelta di usare il plasma invece degli anticorpi purificati dipese da problemi logistici e di "corsa contro il tempo".
Lo studio, condotto da un consorzio internazionale di ricercatori, ha utilizzato il plasma donato dai sopravvissuti di Ebola per darlo a 84 pazienti ricoverati al centro di trattamento gestito da Medici Senza Frontiere sito a Conakry, capitale della Guinea. Ciascun paziente ha ricevuto circa mezzo litro di plasma, diviso in due dosi.
I risultati non sono stati positivi, mancando di ottenere una riduzione statisticamente significativa del rischio di morte rispetto a coloro che avevano ricevuto il miglior trattamento standard (volto a mantenere l'idratazione). Il tasso di mortalità del 31% nel gruppo trattato con il plasma è poco diverso dal tasso di mortalità del 37,8% misurato nel gruppo di controllo di 418 persone ricoverati nel centro 5 mesi prima dell'inizio della sperimentazione. Dopo avere corretto i dati grezzi tenendo conto di variabili come età e carica virale, la differenza tra i due gruppi è circa del 2,6% e non è statisticamente significativa. Sebbene alcuni dati fossero in controtendenza, cioè la straordinaria percentuale di sopravvivenza dei neonati trattati (4 su 5), i numeri sono statisticamente inaffidabili rispetto ai 1523 neonati del gruppo di controllo.
In altre parole, non vi è alcun indizio reale che tale trattamento sia minimamente efficace.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista medica New England Journal of Medicine.

La casistica complessiva dell'ultima epidemia (dati aggiornati a marzo 2016). Credit: WHO

Il futuro.
Per completare lo studio di efficacia di questo approccio, potrebbe essere necessario selezionare, tra i pazienti sopravvissuti e desiderosi di donare il plasma, solo quelli con alto titolo anticorpale e/o somministrare plasma "concentrato".
Nota. L'epidemia di Ebola è ora giunta al termine. Se non ci saranno nuovi casi segnalati alle autorità, l'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarerà l'Africa occidentale libera da Ebola entro la primavera. Bene ricordare però che la Liberia ha visto nell'ultimo anno la comparsa di nuovi casi sporadici dopo una prolungata assenza di nuovi casi (un dato che ci ricorda che la minaccia del virus è sempre attuale e difficilmente debellabile in assenza di un vaccino). Per una cronistoria dell'infezione vedi --> QUI
Fonte
-Evaluation of Convalescent Plasma for Ebola Virus Disease in Guinea
J. van Griensven et al. N. Engl. J. Med. 374, 3342 (2016

- Ebola outbreak in West Africa (2013-2016)
European Centre for Disease Prevention and Control

- Ebola virus disease outbreak
World Health Organization (WHO)

Predire il rischio di melanoma contando il numero di nei sul braccio

I ricercatori del King's College di Londra hanno messo a punto un metodo empirico, utile per predire il rischio di melanoma o tumori della pelle.
Si tratta di un metodo indiretto che parte dall'assunto che il numero di nevi (nei nel linguaggio comune) presente su tutto il corpo sia predittivo del rischio di neoplasie che coinvolgono i melanociti. 
 Nota. Tale correlazione ha validità esclusivamente predittiva dato che solo nel 20-40 per cento dei casi il melanoma origina da un neo preesistente. In altre parole, maggiore è il numero di nei e maggiore è la probabilità che durante la vita ne possa comparire uno nuovo ma con alterazioni da melanoma.
Lentiggini e un neo (credit: BBC)
Il conteggio del numero di nei tuttavia non è una cosa semplice e porta via tempo al medico, diminuendone l'efficienza. La domanda che si sono posti i medici inglesi riguardava la possibile esistenza di una qualche area corporea in cui il numero di nei fosse predittivo (in modo affidabile) del numero di nei totale. 

Alcuni studi precedenti avevano già affrontato il tema arrivando a suggerire che il braccio era l'area del corpo maggiormente predittiva. Il problema era, come spesso succede, che tale conclusione non era supportata da una adeguata forza statistica.
Lo studio attuale, finanziato dal Wellcome Trust, ha utilizzato un campione di volontari molto più ampio dei precedenti con in più la caratteristica vincente di avere dei controlli interni per la componente genetica. I dati di 3594 gemelli (bianchi e donne), raccolti tra il gennaio 1995 e il dicembre 2003 nell'ambito del protocollo di studio TwinsUK, sono stati la piattaforma di studio su cui i ricercatori hanno valutato la correlazione tra numero di nei in 17 aree corporee, il numero totale e la comparsa di tumori della pelle negli anni successivi. Il tutto normalizzato per tipo di pelle, colore di capelli e occhi e la presenza di lentiggini. 
I dati ottenuti sono stati infine messi alla prova su un campione più ampio di partecipanti (compresi i maschi) prelevati da uno studio caso-controllo sul melanoma, pubblicato in precedenza.

Il risultato, statisticamente significativo, indica nel braccio destro l'area ideale su cui effettuare il conteggio dei nei. La correlazione non è perfettamente lineare ma è prevedibile: le donne con più di 7 nei sul braccio destro hanno una probabilità nove volte superiore di averne più di 50 su tutto il corpo e chi ne ha più di 11 ha alta probabilità di averne più di 100 sul corpo.
L'area sopra il gomito destro sembra essere tra le più affidabili per la conta; altre regioni interessanti sono le gambe e, nei maschi, il dorso.

Il risultato potrebbe sembrare minimale ma di fatto è un facilitatore del calcolo del rischio melanoma, particolarmente utile per le persone con carnagione chiara e senza predisposizione familiare.

Fonte
- Prediction of high naevus count in a healthy UK population to estimate melanoma risk.
S. Ribero at al, British Journal of Dermatology (2015)
- More than 11 moles on your arm could indicate higher risk of melanoma
King's College / news


Terapia anti-androgenica e aumento rischio Alzheimer

La riduzione del livello del testosterone, l'effetto voluto della terapia anti-androgenica usata nel trattamento del tumore della prostata, potrebbe aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer (AD).
Il dato emerge da uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Oncology da ricercatori delle università di Stanford e della Penn State, frutto dell'analisi comparativa delle cartelle cliniche di un numero statisticamente significativo di pazienti maschi.
Attenzione però a non fraintendere il senso e la portata dei risultati dell'analisi: l'utilità di ogni terapia si basa sul bilanciamento di beneficio e rischio per il paziente. Se una terapia utilizzata per una malattia potenzialmente fatale nel medio periodo si associa ad un aumentato rischio di una malattia anche invalidante sul lungo periodo, il trattamento sarà legittimo dato che permette di allungare la durata e/o qualità della vita del paziente (parametro misurato dal QoL). Al contrario un trattamento che aumentasse il rischio di una affezione acuta (ad esempio una epatite fulminante) nel trattamento di una patologia cronica ma sostanzialmente stabile e "benigna" non avrebbe alcuna ragione di essere. La domanda a cui bisogna rispondere è quindi "il rischio associato è inferiore al beneficio del trattamento, non ottenibile con terapie alternative e (forse) meno rischiose?"
I ricercatori hanno analizzato le cartelle di poco meno di 6 milioni di pazienti ricoverati nel corso degli anni presso strutture legate a Stanford e al Mount Sinai Hospital. Da questi sono stati selezionati circa 9 mila individui a cui era stato diagnosticato il tumore alla prostata, 2397 dei quali trattati con la terapia di deprivazione degli androgeni.  

I numeri ottenuti dall'analisi indicano che gli uomini che sono stati sottoposti ad una terapia di deprivazione degli androgeni nell'ambito della terapia per il tumore della prostata avevano un rischio quasi doppio (rispetto ad un campione equivalente pesato su età e background genetico) di ricevere una diagnosi positiva all'AD negli anni successivi. Tanto maggiore la durata della terapia e maggiore la probabilità di AD ed egualmente vi è una correlazione tra dose cumulativa e "risposta."
Meglio precisare che i risultati non dimostrano che la terapia anti-androgenica aumenta di per sé il rischio di malattia di Alzheimer (relazione causa-effetto) ma si evidenzia una correlazione in un certo senso non sorprendente; è noto da anni infatti che il testosterone ha una azione protettiva per il cervello e che la "caduta di performance" intellettuale negli uomini che invecchiano è parallela al calo ormonale.
Studi oramai classici hanno dimostrato che esiste una associazione tra bassi livelli di androgeni (in particolare, ma non solo, del testosterone) e impotenza, obesità, diabete, pressione alta, malattie cardiache, depressione e deficit cognitivi. E' anche noto che gli uomini con AD tendono ad avere un livello di testosterone inferiore rispetto agli uomini della stessa età normali. L'analisi condotta sia su topi che su esseri umani sembra indicare che un basso livello di testosterone favorisca il processo neurodegenerativo sia direttamente (aumentata sintesi della proteina beta amiloide) che indirettamente (facilitando condizioni come il diabete e l'aterosclerosi).


Difficile tuttavia stabilire l'entità precisa del rischio aumentato data la natura multifattoriale (in alcuni aspetti ancora poco compresa) della degenerazione cellulare alla base dell'AD. Tuttavia considerando la già alta prevalenza (numero di individui affetti) della malattia di Alzheimer negli uomini anziani, ogni trattamento che aumenti il rischio in una popolazione che invecchia, ha implicazioni notevoli per la salute pubblica (costi sociali e economici inclusi).

Articoli precedenti sul tema --> Alzheimer 

Fonte
- Androgen Deprivation Therapy and Future Alzheimer’s Disease Risk
Kevin T. Nead et al, J Clin Oncol. (2016) 34(6) pp566-71




Ossido di zinco. Dalle creme solari un valido antibatterico per le protesi

Ossido di zinco da laboratorio
L'ossido di zinco, una molecola usata frequentemente nelle creme solari per la sua capacità di filtrare sia gli UV-A che UV-B, potrebbe trovare nuova vita come rivestimento per impianti medicali ad uso interno come pacemaker, protesi, valvole cardiache e articolazioni. Tutto questo grazie alla sua azione antibatterica, finora misconosciuta.
Oltre che nelle creme solari, dove è presente sotto forma di nanoparticelle, l'ossido di zinco è ampiamente usato nelle creme per  le dermatiti da pannolino, le piaghe da decubito e, grazie alla sua azione antiseborroica, l'acne.
La conferma viene da ricercatori della università del Michigan con l'osservazione che un rivestimento di particelle a forma piramidale (su scala nanometrica) di ossido di zinco era in grado di bloccare la crescita di un particolare ceppo di un noto patogeno, lo Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (MRSA), riducendo di oltre il 95 per cento la formazione del biofilm.
Nota. Con biofilm si intende un qualsiasi aggregato di microrganismi in cui le cellule si attaccano l'una all'altra fino a ricoprire con uno strato (film) più  o meno spesso, una data superficie. I microbi, incorporati in una matrice polimerica auto-prodotta, sono caratterizzati da una estrema resistenza alle sostanze ambientali, tra cui gli antibiotici. Val la pena sottolineare che tale resistenza è di diversa natura da quella "classica", causata da mutazioni geniche - o acquisizione di nuovi geni. Si tratta di una resistenza "strutturale" che impedisce la penetrazione dell'antibiotico negli strati interni del biofilm.
Nei soli Stati Uniti il numero di dispositivi medici che dopo l'impianto sono stati causa di una infezione è superiore al milione. In questi casi la terapia elettiva, basata sull'utilizzo di un cocktail di antibiotici, è lungi dall'essere risolutiva sia a causa della resistenza intrinseca del biofilm che degli effetti collaterali del trattamento. La soluzione ultima è quella di rimuovere l'impianto medicale sostituendolo con uno nuovo (o reinserendo lo stesso previa sterilizzazione) dopo avere adeguatamente sanitizzato la cavità in cui era sito. 

La scoperta delle proprietà antibatteriche dell'ossido di zinco è quindi di particolare importanza in quanto permette di pensare a trattamenti preventivi in grado di rendere fin dall'inizio tali impianti "inospitali" per i batteri.

Schematizzazione di un pacemaker rivestito da nanoparticelle
che impediscono l'adesione di un batterio
(credit: Steve Alvey / Un. Michigan)
Tra le informazioni contenute nell'articolo pubblicato sulla rivista Nanomedicine, particolarmente interessante è il ruolo che la forma delle nanoparticelle gioca nella sua azione antisettica. Nello specifico la conformazione piramidale su base esagonale è la più efficiente nel bloccare l'azione di un enzima batterico chiamato beta-galattosidasi necessario per scindere il lattosio nelle  sue componenti di base, glucosio e galattosio, che i batteri preferiscono.
Purtroppo non tutti i batteri patogeni sono ugualmente sensibili all'ossido di zinco; il motivo sembra risiedere nella particolare struttura della parete cellulare che nel caso del patogeno MRSA vede gli enzimi chiave per la sintesi della parete interagire con le nanoparticelle. Una volta stabilito il contatto, l'enzima viene inibito con un effetto a cascata che porta alla lisi del batterio. Se tale contatto non avviene, anche l'azione antibiotica dello zinco viene meno.
Sebbene il rivestimento con lo zinco non sia di per sé in grado di bloccare completamente la crescita dei batteri (efficienza del 95 per cento), tale riduzione potrebbe essere sufficiente per dare il tempo ai trattamenti antibiotici standard di funzionare o al sistema immunitario di prendere il controllo della situazione rimuovendo il focolaio.

Nell'immediato futuro bisognerà studiare più in dettaglio l'effetto dell'ossido di zinco sulle cellule umane adiacenti allo scopo di escludere ogni effetto collaterale.

Fonte
- Zinc oxide nanoparticle suspensions and layer-by-layer coatings inhibit staphylococcal growth.
 Matthew J. McGuffie et al, Nanomedicine (2016) 12(1)33-42
-  Sunscreen ingredient may prevent medical implant infections 
University of Michigan, news

Gli antibiotici nel piatto. Non un problema alimentare ma sanitario

Gli esperti in prevenzione lanciato da tempo l'allarme sulla dilagante resistenza agli antibiotici e sul potenziale baratro che si prospetta davanti a noi se dovesse venire l'arma che ci ha protetti nel corso degli ultimi 70 anni.
Non si tratta di un mero avvertimento ma del serio rischio che tutti noi corriamo di avere armi spuntate contro malattie di origine batterica che credevamo di avere relegato al passato o semplicemente avere reso non pericolose.
L'utilizzo a pioggia di antibiotici nella pratica medica (usati troppo e male, specialmente per il dilagare della pratica dell'automedicazione) è solo una parte del problema. A fare precipitare gli eventi ha giocato un ruolo chiave l'utilizzo massiccio di queste molecole nell'allevamento e nell'agricoltura, e la mancata o carente implementazione di impianti di depurazione idonei a valle dei siti sensibili (ospedali e allevamenti), cosa che ha permesso la sopravvivenza e la diffusione dei ceppi resistenti.
David Paterson (credit uq.edu.au)
A reiterare l'allarme sono stati David Paterson e Patrick Harris, due ricercatori dell'università del Queensland che in un articolo apparso su The Lancet Infectious Diseases hanno alzato l'indice contro due nazioni come India e Cina in cui la disponibilità di trattamenti moderni non è andata di pari passo con lo sviluppo di infrastrutture di smaltimento (o di sanità di base). Soprattutto la Cina, impegnata come nessun altro nello sviluppo di allevamenti intensivi per sostenere la necessità di alimentare il miliardo e passa di abitanti, corre il rischio di innescare una catastrofe sanitaria dalle ripercussioni imprevedibili.

credit: antibioticsfor. com
Nello specifico il problema è che gli antibiotici della classe delle polimixine rappresentano oggi l'ultima difesa funzionante per il trattamento di ceppi multiresistenti e sono per questo particolarmente usati nei reparti di terapia intensiva.
Dov'è il problema? In Cina questi antibiotici sono tuttora ampiamente utilizzati in agricoltura e questo sta generando un effetto a cascata con la diffusione di ceppi resistenti alle polimixine negli animali di allevamento come polli e maiali. Il computo previsto per la fine del 2015 indica in migliaia di tonnellate la quantità di polimixine utilizzate nella sola Cina.
Come prevedibile, la resistenza è arrivata fino ai batteri patogeni (o anche solo opportunistici) per l'essere umano come dimostrano alcune segnalazioni degli enti sanitari locali.
La trasmissione è invero molto semplice e può avvenire maneggiando carni derivate da animali trattati con antibiotici e infettati da uno di questi ceppi batterici o consumando cibi non cotti in modo adeguato. Il fattore rischio assume valori esplosivi quando il batterio resistente raggiunge gli ospedali, dove la facilità di trasmissione aumenta esponenzialmente.

Le conferenze sull'ambiente (ad esempio COP21) sono sicuramente importanti ma oggi il rischio concreto è che l'umanità (a partire dalle aree più densamente popolate) vada incontro a epidemie terrificanti causate non da ceppi particolarmente virulenti di batteri ma dall'essere rimasti indifesi di fronte ad esse, potendo contare solo sul solo nostro sistema immunitario: un sistema eccezionale ed efficiente ma che, come le epidemie di peste bubbonica ci hanno insegnato, impongono un dazio di vite umane enorme prima che la battaglia sia vinta.
Anche senza pensare ad epidemie di tale portata, pensate alle complicazioni infettive associate ad un banalissimo intervento dal dentista qualora la profilassi antibiotica non fosse più disponibile.



Articolo successivo sul tema --> "ossido di zinco e protesi". Per articoli tematici sull'argomento "antibiotici" clicca --> QUI.

Fonti
- Emergence of plasmid-mediated colistin resistance mechanism MCR-1 in animals and human beings in China: a microbiological and molecular biological study
Yi-Yun Liu et al, Lancet Infect Dis. 2015 Nov 18

-  Colistin resistance: a major breach in our last line of defence
 David L Patersonemail , Patrick N A Harris  Lancet Infect Dis. 2015 Nov 18

-   Antibiotic 'last line of defence' breached in China
 CBC news/health (19 nov 2015)

Asma. Paracetamolo in gravidanza e ritorno a scuola sul banco degli imputati

L'asma è tra le malattie respiratorie croniche di natura infiammatoria, quella più diffusa nel mondo industrializzato.
Malattia ad eziologia complessa (genetica, inquinamento, fattori ambientali e l'ipotesi dell'igiene sono i maggiori indiziati) è caratterizzata da un aumento della responsività bronchiale degenerante in episodi ricorrenti (gli ‘attacchi d’asma’).
Nota. La presenza di molti indiziati non è indice di una scarsa conoscenza del fenomeno ma riflette l'intrinseca eterogeneità della patologia. Sulla correlazione sanitizzazione ambientale e aumento rischio allergie --> QUI.
Due nuovi imputati si sono recentemente aggiunti al novero dei sospettati: il paracetamolo e il virus del raffreddore.

Paracetamolo
Paracetamol-skeletal.svgUn team di ricercatori anglo-norvegesi ha mostrato che l'esposizione al paracetamolo durante la gravidanza può aumentare la frequenza di asma nel futuro dei nascituri.
L'articolo, pubblicato sull'International Journal of Epidemiology, è il risultato di una analisi osservazionale condotta nel corso di diversi anni su più di 100 mila donne, seguite dal momento della gravidanza fino alla prima decade di vita dei loro figli (dati ottenuti nell'ambito del progetto Norwegian Mother and Child Cohort Study).
Dallo studio è emerso che la frequenza di bambini con asma, pari a circa il 10%, presenta due picchi di incidenza (comparsa dei sintomi) all'età di 3 e di 7 anni. La ricerca ha trovato un legame coerente tra i bambini con asma comparsa intorno ai tre anni di età e l'esposizione delle madri al paracetamolo durante la gravidanza per affezioni come dolore, febbre e sintomi influenzali. Nessun effetto sul lungo periodo è stato riscontrato sulle madri e tanto meno in caso di assunzione del paracetamolo prima della gravidanza (ivi compreso l'utilizzo del farmaco da parte del padre).

Virus respiratori
Altro dato interessante è la coincidenza notata da alcuni ricercatori americani tra il ritorno a scuola dopo il periodo festivo (inteso come superiore al "semplice" fine settimana) e la comparsa di crisi asmatiche
L'ipotesi proposta è che nei periodi di vacanza viene meno l'esposizione alla miriade di microbi che si concentrano in aree ad alta promiscuità come le aule e gli spogliatoi delle palestre; conseguenza immediata è che il sistema immunitario "si prende una pausa" durante le ferie (dato il minor numero di aggressori rilevati ai confini, cioè sulle mucose). Quando il bambino rientra a scuola il "bombardamento" virale supera velocemente i livelli standard favorendo l'insorgenza di uno stato infiammatorio che nei soggetti predisposti può diventare cronico e/o esacerbare l'asma pregressa.
La frequenza di crisi asmatiche serie (che hanno necessitato di ospedalizzazione) rapportata al calendario scolastico americano. Dopo ogni festività c'è un picco. Image credit: Rosalind Eggo / University of Texas

Se nei bambini il virus in grado di indurre con più facilità le crisi respiratorie è quello del raffreddore, negli adulti il ruolo principale è giocato dal virus dell'influenza.

Fonti
- Prenatal and infant paracetamol exposure and development of asthma: the Norwegian Mother and Child Cohort Study.
Maria C. Magnus et al (2016) International Journal of Epidemiology
- Respiratory virus transmission dynamics determine timing of asthma exacerbation peaks: Evidence from a population-level model
RM Eggo et al, (2016) Proc Natl Acad Sci U S A.


La struttura sociale negli insetti. I feromoni non spiegano tutto

Torniamo oggi sul tema "eusocialità e insetti" come cartina di tornasole di comportamenti complessi alla base di società organizzate e suddivise in caste. Api, formiche, vespe, bombi e termiti sono gli esempi più noti di strutture sociali centrate sulla suddivisione dei compiti e sulla "delega" riproduttiva da parte dei "cittadini" alla femmina nota come "regina".
Nota. Più che una "delega" si tratta in realtà di inibizione riproduttiva mediata da sostanze chimiche (in particolare nel caso delle formiche) causata dalla regina sulle proprie "sorelle".
Image: Linksvayer Lab / Univ of Pennsylvania
I meccanismi che regolano la comunicazione all'interno di queste società sono complessi e poco noti nel dettaglio, sebbene la vulgata comune abbia attribuito alla generica classe dei feromoni la chiave del sistema di controllo. Tra i meccanismi all'opera per definire la posizione di ciascun membro all'interno della società, la più ovvia è la distinzione tra chi si riproduce (la regina e i maschi) e chi no (tutti gli altri); una distinzione molto marcata nelle api ma con confini assai più labili nei bombi e anche in alcune specie di formiche.
Se è vero che la somministrazione continuativa (cioè oltre il terzo giorno dalla schiusa) della pappa reale alle larve delle api ne determina il loro diventare "riproduttivamente competenti", lo stesso non si può dire per insetti della stessa famiglia delle api come i bombi.
A ricordarci che è quanto meno semplicistico pensare ad un unico meccanismo biochimico, arriva l'articolo pubblicato su Proceedings of the Royal Society B da un team della Pennsylvania State University.
Lo scetticismo dei ricercatori americani nasceva dal ritenere improbabile che specie così diverse potessero avere ereditato da antenati comuni (risalenti almeno al giurassico) un meccanismo simile sebbene declinato nelle specificità di ciascun sottordine. L'ipotesi più probabile è invece che il meccanismo di  controllo centrato sui feromoni (e la loro azione inibitoria sulle "operaie") si sia evoluto separatamente; un fenomeno noto come convergenza funzionale.
Già in uno studio del 2014 alcuni ricercatori avevano studiato il fenomeno, analizzando l'effetto delle secrezioni della regina sui bombi operai, scoprendo che il feromone c25 era in grado di indurre una regressione dell'ovaio nelle operaie.
Una colonia di bombi in laboratorio
(credit: Mario Padilla/Penn State)
Nel nuovo studio si è cercato in primis di confermare i dati in un'altra specie di bombo (Bombus impatiens) per poi estendere l'analisi a due altri feromoni, il c23 e il c27. I risultati hanno confermato solo in parte l'ipotesi dell'azione dei feromoni; pur essendo vero che tutti e tre le molecole erano in grado di indurre un certo grado di regressione dell'ovaio, non si riscontrava alcun effetto se ad essere valutate erano la dimensione e il numero di uova prodotte dalle operaie. Una contraddizione de facto risolta con la scoperta che è il semplice atto di deporre le uova ad indurre la regressione dell'ovaio; quindi tanto più precocemente i bombi operai depongono le uova e tanto prima perderanno la capacità di farlo nuovamente.
La conclusione formulata dagli autori dello studio è che, almeno nei bombi, l'effetto indotto dai feromoni è in realtà un epifenomeno.

Sebbene i dati siano parziali, gli indizi suggeriscono che la biologia alla base del controllo riproduttivo nelle colonie degli insetti sociali non è così semplice come si credeva fino a non molto tempo fa. Ogni approccio mirante a trovare una soluzione unica valida per i diversi insetti è destinata quindi, verosimilmente, a fallire.

Fonte
- A conserved class of queen pheromones? Re-evaluating the evidence in bumblebees (Bombus impatiens)
Etya Amsalem et al, Proc Biol Sci. (2015), 2(1817)



Lo strano caso dell'animale che sfrutta la fotosintesi

Faccio outing.
Dopo avere letto una "research news" apparsa sul portale della università di Bristol (UK) ho scoperto l'esistenza di un animale alquanto strano del quale, se qualcuno me ne avesse parlato, avrei vigorosamente negato l'esistenza (non sapendo che la sua scoperta risale al 1891!!).
S. roscoffensis (wikimedia)

Brutta cosa l'ignoranza ma almeno mi consola il pensiero di avere imparato anche oggi qualcosa di nuovo in zoologia e sull'evoluzione dei rapporti simbiontici.
E' proprio sulla simbiosi che verte lo strano caso dell'animale-vegetale di cui parlo oggi.
Avete letto bene. Animale-vegetale. Sembra una antitesi ma questo è la descrizione che più si avvicina all'organismo Symsagittifera roscoffensis, un verme piatto lungo circa 3 mm appartenente al phylum degli acelomorfi (simile ma geneticamente diversi dai "classici" platelminti). Il suo curioso colore verde (da cui il nome comune "mint-sauce" per la somiglianza con un piatto tradizionale --> qui) tradisce la sua strabiliante capacità di sfruttare la fotosintesi come unica fonte energetica.
Chiariamo meglio il concetto sottolineando subito un punto chiave: nessun dubbio che sia un "vero" animale incapace di per sé di fare fotosintesi. La sua capacità viene dall'avere stretto una "amicizia" di lungo periodo (databile su una scala di decine di milioni di anni) con un'alga ospitata nel suo corpo che conferisce all'animale il caratteristico colore e che funge da "pannello fotoelettrico". In cambio dell'ospitalità l'alga fornisce al verme tutti i nutrienti (quindi l'energia) necessaria alla sua sopravvivenza, tanto che il mint-sauce non ha bisogno di andare in cerca di cibo.

S. roscoffensis mentre "prende il sole"
credit: bristol.ac.uk /Dailymail
La S. roscoffensis vive nelle acque poco profonde e sabbiose del Galles e delle Channel Islands ed è solita, durante le fasi di bassa marea, riunirsi in gruppi organizzati sulla spiaggia per "prendere il sole". Quando la marea si alza, si seppellisce sotto la sabbia in attesa della successiva occasione per ricaricarsi.
Oltre alla loro peculiare modalità (per essere animali) grazie alla quale ottengono i nutrienti, si distinguono per le forme spiraliformi che queste colonie temporanee assumono all'aumentare della densità di individui.
Per comprendere l'origine della forma i ricercatori inglesi hanno confrontato riprese video del fenomeno con simulazioni al computer (derivanti da ipotetici modelli aggregativi). Si è scoperto così che queste masse verdi che ricoprono le spiagge del Galles sono il risultato di una interazione attiva tra ciascun individuo allo scopo di ottenere maggiore sicurezza confondendosi in una moltitudine di consimili. Non molto diverso da quello che fanno i pesci che si muovono in enormi banchi o gli uccelli (vedi i caratteristici storni sui cieli romani) per confondere i predatori e facilitare la sopravvivenza, in caso di aggressione.
Image: Nigel Franks via bristol.ac.uk
Una sorta di super-organismo (ecco che torna questa parola --> qui) che ha occupato una nicchia ecologica in cui le classiche macro-alghe falliscono per assenza di punti di ancoraggio.

Questo animale è considerato un modello-sperimentale in molte aree della biologia, tra cui la rigenerazione delle cellule staminali. C'è da scommettere che troverà nuova gloria anche tra chi si occupa di modelli comportamentali.

Fonte
-  Social behaviour and collective motion in plant-animal worms
Nigel R. Franks et al, (2016) Proceedings of the Royal Society B

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