CC

Licenza Creative Commons
Questo opera di above the cloud è concesso sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.
Based on a work at scienceabovetheclouds.blogspot.com.

The Copyright Laws of the United States recognizes a “fair use” of copyrighted content. Section 107 of the U.S. Copyright Act states: “Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work (...) for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching, scholarship, or research, is not an infringement of copyright.”
Any image or video posted is used according to the fair use policy
Ogni news è tratta da articoli peer reviewed ed è contestualizzata e collegata a fonti di approfondimento. Ben difficilmente troverete quindi notizie il cui contenuto sia datato.
QUALUNQUE link in questa pagina rimanda a siti sicuri!! SEMPRE.
Volete aiutare questo blog? Cliccate sugli annnunci/prodotti Amazon (se non li vedete, disattivate l'Adblocker mettendo questo sito nella whitelist. NON ci sono pop up o script strani, SOLO Amazon). Visibili in modalità desktop! Se poi decidete di comprare libri o servizi da Amazon, meglio ;-)
Dimenticavo. Questo blog NON contiene olio di palma (è così di moda specificarlo per ogni cosa...)

Visualizzazione post con etichetta pharma. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta pharma. Mostra tutti i post

Il boom in borsa dei farmaci antidiabetici che fanno anche perdere peso

Tra le hit di borsa degli ultimi mesi figurano alcune aziende farmaceutiche accomunate dal lancio di farmaci i cui principi attivi paiono ugualmente efficaci come antidiabetici e per perdere peso, due degli elementi chiave per contrastare la sempre più diffusa sindrome metabolica.

Elemento chiave dell'entusiasmo tra gli analisti l'incontrovertibile effetto positivo di questi farmaci contro l’obesità (Zepbound) e il diabete (Mounjaro) ma anche la lunghezza dell'ultimo studio clinico a supporto dei risultati, durato 176 settimane, che dimostra continuità dell’effetto e assenza di rilevanti effetti collaterali. Nello specifico rispetto al gruppo di controllo trattato in doppio cieco con un placebo, i soggetti (in sovrappeso o obesi) trattati con il farmaco hanno mostrato una riduzione media del 94% del rischio di sviluppare diabete di tipo 2 (T2DM), la patologia più comune tra questa categoria di persone, e una riduzione media del 22,9% del peso corporeo.
Alla fine dello studio durato poco meno di 3 anni e mezzo è stato inserito un periodo di 17 settimane senza farmaco così da avere un quadro completo della funzione farmacologica e della durata dell'effetto nei mesi successivi. Vero che al termine del trattamento i pazienti hanno iniziato a riprendere peso mostrando una alterazione dei parametri in senso diabetico ma il fattore di rischio di sviluppare il diabete propriamente detto è risultato inferiore dell’88% rispetto a prima di iniziare il trattamento. Un trattamento che come per tante terapie della sindrome metabolica deve essere continuativo, sebbene (i dati lo confermano) possa essere interrotto senza grossi problemi.
Di nuovi farmaci contro l’obesità ce ne sono stati vari nell'ultimo decennio (molti dei quali ritirati dal mercato) ma ben pochi sono stati accompagnati da studi clinici con risultati così chiari come Zepbound e Mounjaro, prodotti da Eli Lilly, che in comune hanno come principio attivo la molecola tirzepatide, brevettata nel 2016 con finalità di controllo glicemico nei soggetti affetti da T2DM e approvata nel 2021 dalla FDA.
L’effetto dirompente lo si è avuto dopo la conferma che le osservazioni aneddotiche sulla capacità della stessa di indurre perdita di peso erano fondate.
Tali osservazioni avevano convinto molti medici a prescriverla off-label a individui obesi. Ricordo che in assenza di studi clinici dedicati un farmaco (approvato per altro scopo) NON può essere prescritto come terapia per altra patologia. La FDA ha autorizzato l’uso come farmaco per la perdita del peso solo nel 2023, nella formulazione nota come Zepbound.
Ciliegina sulla torta il nuovo studio (ora sotto revisione) dimostra l'efficacia della tirzepatide anche nei soggetti prediabetici con finalità di prevenzione.

La tirzepatide appartiene a una classe di farmaci antidiabetici che funzionano come agonisti del recettore dell'ormone peptidico Glp-1 (glucagon-like peptide 1), molecole con azione simile a quella dell'ormone peptidico Glp-1 prodotto dal corpo per regolare l’appetito
Nei soggetti sani il livello dell’ormone si abbassa durante il digiuno, il che è innesca lo stimolo della fame. Negli individui obesi il livello si mantiene basso e questo spiega la loro ricerca di cibo anche subito dopo avere mangiato. Ulteriori dettagli a fine articolo **.
Nota aggiuntiva. Uno studio recente ha dimostrato come l'atto di ingoiare induca il rilascio di serotonina (ormone associato alla sensazione di piacere) che spiega come, in individui predisposti, il mangiare invece di indurre sazietà porti ad un rinforzo del piacere di mangiare.
In aggiunga al suo ruolo di agonista, la tirzepatide funziona anche come recettore del peptide inibitorio gastrico (Gip), ormone che ha dimostrato di poter migliorare l'efficienza con cui l'organismo scompone gli zuccheri e i grassi attraverso l'aumento della produzione di insulina e del tempo di ritenzione del cibo nello stomaco. I recettori del Gip si trovano, non sorprendentemente, selle cellule beta nel pancreas.

Tutto fa pensare che i farmaci basati sulla tirzepatide diventeranno la gallina dalle uova d’oro per Eli Lilly senza che questo pesi sui conti (statali o personali) dato il costo molto contenuto del trattamento (pesato per la diminuzione dei costi sanitari in assenza di trattamento)

***

Altra azienda molto attiva nello stesso segmento terapeutico è la danese Novo Nordisk, i cui farmaci di punta sono Ozempic (per il diabete ma da usare con cautela come ben insegna quel "genio" di Lottie Moss) e Wegovy (per la perdita di peso). Diverso il principio attivo che qui è la semaglutide, anch’essa una molecola agonista del recettore Glp-1. 


Nota
** GLP-1 (glucagon-like peptide 1) è un ormone che stimola la produzione dell’insulina e inibisce la secrezione del glucagone. Viene rilasciato dall’intestino dopo il pasto quando la glicemia inizia a salire per effetto dei carboidrati assunti. Il che spiega la popolarità degli analoghi del Glp-1, per la loro impossibilità a causare ipoglicemia, rischio invece concreto con le iniezioni di insulina.
Il GLP-1 rallenta inoltre lo svuotamento gastrico il che a cascata aumenta la sensazione di sazietà e riduce l’appetito, agendo direttamente sui centri di regolazione della fame del sistema nervoso centrale. Alcune osservazioni indicano anche una potenziale azione protettiva delle cellule beta del pancreas e del cuore.
Una volta in circolo il GLP-1 viene distrutto dall’enzima DPP-4 (dipeptil-peptidasi 4) e questo spiega perché non sia mai stato utilizzato a scopo terapeutico (sarebbe necessaria una infusione continua…). Da qui la ricerca di molecole equivalenti (dette analoghi) capaci di agire da agonisti sul recettore dell’ormone e più resistenti alla degradazione, meglio ancora se associati a molecole/matrici inserite in dispositivi (es. cerotti o infusori) che rallentano l’assorbimento cutaneo così da allungare la finestra temporale di utilizzo. A seconda dell'analogo la somministrazione prevede iniezioni da 1 volta al giorno a una volta a settimana (dulaglutide)
Curiosità. La prima molecola con tali proprietà, exenatide, venne sviluppata a partire da una molecola estratta dal veleno della lucertola Gila Monster

Elizabeth Holmes condannata a 11 anni per il caso Theranos

link all'articolo sul Sole24


Il caso Theranos è la conseguenza di avere voluto esportare la regola classica delle Newco della Silicon Valley ("Fake it before you make it") alle start-up del settore biomedico. 

Evito di ripetere qui la cronistoria di uno scandalo deflagrato una decina di anni fa e che potete ricostruire leggendo gli articoli sotto citati, a partire da quello di Business Insider.

Link all'articolo del 2018 (aggiornato in questi giorni) su Business Insider 

Riassunto in poche parole, la storia di una imprenditrice da sempre "prodigio" che creò una azienda (Theranos) allettando gli investitori con la pretesa invenzione di un metodo diagnostico innovativo tale da permettere di fare molteplici esami classici con solo un prelievo di sangue. Il tutto senza rivelare alcuno dei procedimenti in uso (scoperto poi essere basato su esami classici) e scoperto solo grazie ad una gola profonda in azienda.


Il punto chiave o take-home message è che lo sviluppo di qualunque metodo diagnostico deve (dovrebbe) essere sempre sottoposto alle stesse procedure rigorose che sottendono lo sviluppo dei farmaci; non millantare promesse di fattibilità senza produrre alcuna prova ma per fare venire l'acquolina in bocca agli investitori (parliamo di 945 milioni di USD di finanziamenti). Non puoi fingere di aver sviluppato qualcosa che non hai, anche se (per pura ipotesi) l'azienda avesse il 99% di probabilità di raggiungere lo scopo; puoi raccogliere investimenti adducendo una sperimentazione e uno studio di fattibilità, ma NON millantare di avere sviluppato test diagnostici di tale sensibilità da necessitare poche gocce di sangue.

Consiglio il documentario andato in onda anni fa su HBO quando iniziarono le indagini.

Un articolo sul Time contiene altre fonti di interesse. Oppure la timeline della vicenda fatta dalla CNN. Infine l'articolo sul NYT dal titolo emblematico "The rise and fall of ..."

***

Non che Elizabeth Holmes sia una mosca bianca. Basta vedere, sebbene su scala minore per i soldi manovrati, il caso dell'azienda che falsificava i risultati dei test COVID non essendo in grado di dare risultati affidabili

"‘Beyond outrageous’: L.A. company faked COVID test results, authorities allege"


Pubblicati i risultati (positivi) dello studio clinico di un farmaco contro la calvizie

Nel 2016 scrissi delle potenzialità (inattese) di un farmaco antiartritico nel trattamento della calvizie, sottolineando l'importanza dell'approccio noto come riposizionamento di un farmaco (drug repurposing).
Sullo stesso tema vedi anche le potenzialità di un farmaco originariamente sviluppato per la psoriasi.
È di pochi giorni fa la pubblicazione sul New England Journal of Medicine dei risultati dello studio di fase 3 del baricitinib, un inibitore delle proteine della famiglia STAT, noti trasduttori di segnale e attivatori dell'espressione genica. I test, condotti su 654 persone con alopecia areata severa, hanno mostrato risultati positivi alla 36 settimana in circa il 38% dei soggetti rispetto al 2% dei controlli trattati con placebo.
Da notare che lo stesso farmaco è stato approvato a settembre 2021 anche per il trattamento del COVID-19, grazie alle sue proprietà immunomodulanti. Ricordo che tra le cause principali della alopecia vi è una reazione autoimmune.

Fonte
Two Phase 3 Trials of Baricitinib for Alopecia Areata
Brett King et al, NEJM,  March 26, 2022


La via tortuosa dei nuovi farmaci contro l'Alzheimer

[Articolo aggiornato e ampliato]
L'innalzamento dell'età media della popolazione pone il problema, tra i tanti legati alla non sostenibilità del welfare e di riduzione del PIL, l'aumento percentuale delle patologie di tipo cognitivo e neurodegenerativo tra cui spicca il morbo di Alzheimer, una delle forme di demenza progressiva e incurabile più note, anche se non necessariamente la più frequente.

Alla domanda crescente di trattamenti, ad oggi solo sintomatici e non terapeutici, la risposta delle aziende farmaceutiche è stata pronta, non fosse altro per l'enorme mercato potenziale che vedrà nei prossimi anni nuovi "clienti" dai popolosi, e sempre più longevi, paesi come Cina e India.

Negli ultimi decenni molti farmaci sviluppati allo scopo si sono persi per strada, nella stragrande maggioranza senza nemmeno essere arrivati alla richiesta di approvazione, per assenza di efficacia. Non si tratta però di fallimenti legati ad una ricerca fatta male ma di limiti intrinseci alle malattie che si vorrebbe curare. Il nostro cervello ha una enorme plasticità neuronale ed è in grado di adattarsi in caso di "corto-circuiti" locali finché non è troppo tardi e questo fa sì che quando il sintomo compare è già troppo tardi.
Un esempio può meglio rendere l'idea: i sintomi legati al morbo di Parkinson compaiono quando oramai più del 80% dei neuroni dopaminergici in alcune aree chiave del cervello sono morti. Perché una terapia possa funzionare deve avere un substrato su cui agire, cosa assente in questi pazienti in cui, al più si può ambire, ad un trattamento che rallenti la perdita dei neuroni rimanenti ma di sicuro NON ad un miglioramento e tanto meno alla cura.
La sperimentazione clinica per farmaci veramente preventivi dovrebbe avvenire su soggetti pre-sintomatici ma "malati", cosa questa molto difficile ancora oggi. Fino a non molti anni fa anche i soggetti con chiare manifestazioni della malattia ricevevano la diagnosi - nel senso QUALE tipo di demenza fosse la causa - solo dopo il decesso.
Prendiamo il caso del compianto Robin Williams.
I medici, e lui stesso ne era molto consapevole, avevano rilevato una patologia neurodegenerativa in atto e l'ipotesi più probabile era che si trattasse di Parkinson. Solo dopo il suo decesso l'autopsia rivelò la causa nella ben più devastante demenza a corpi di Lewy arrivata ad un punto talmente avanzato che solo l'incredibile plasticità neuronale di un artista improvvisatore come Williams era riuscita a compensare.
Quanto scritto permette di riassumere le cause per cui farmaci che apparivano promettenti nelle prime fasi dello sviluppo naufragano non appena si arriva alla clinica: i soggetti sintomatici hanno danni neuronali troppo avanzati perché sia possibile una cura; anche in caso di diagnosi perfetta del tipo di malattia, le cause sottese sono spesso molteplici a causa della eterogeneità della malattia. In assenza di un campione omogeneo e "curabile" (alias con danni non estesi) di soggetti reclutati durante i test clinici, anche il miglior farmaco non supererebbe i test di efficacia.
A volte si ha la "fortuna" di avere soggetti con la forma familiare della malattia (trasmissione ereditaria) e questo consente di attivare studi clinici su soggetti a rischio (per età e genetica) ma ancora asintomatici. La familiarità è nota in alcune forme di Parkinson e Alzheimer ma si tratta sempre di un numero esiguo rispetto al totale dei pazienti e i risultati ottenuti su questi sono spesso non esportabili su altri pazienti in quanto la eziopatogenesi della malattia può differire nei punti chiave rispetto al mare magnum delle forme sporadiche.
C'è poi un secondo problema, propriamente legato alla eziopatogenesi del morbo di Alzheimer. Tra le caratteristiche istologiche classiche (note da anni) rilevate durante l'autopsia vi è l'accumulo extracellulare di ammassi proteici noti come placche amiloidi che portarono alla formulazione della cosiddetta ipotesi amiloide. In questo contesto il tutto nasce da una anomalia della proteina costituente che per varie ragioni (genetiche o ambientali) assume una conformazione anomale che la predispone alla "precipitazione" formando ammassi non funzionali e tossici. Negli ultimi anni alcuni ricercatori hanno sollevato dubbi, ipotizzando che questo evento sia in realtà un epifenomeno che può contribuire alla malattia ma non la causa prima. In effetti in alcuni casi il declino cognitivo precede la formazione delle placche amiloidi.
Alcune delle ipotesi causali formulate nel tempo sono: Tau; vascolare; variazioni isoprenoidi; infiammatoria; etc.
Per una riassunto delle probabili cause che hanno fatto fallire gli studi clinici di farmaci disegnati in accordo con l'ipotesi amiloide vi rimando ad una review pubblicata nel 2019 sulla rivista Biomedicines. Vedi nota a fondo pagina per altre criticità riguardo questa ipotesi.
Arriviamo dunque ai nuovi farmaci la cui sperimentazione, influenzata dai precedenti fallimenti, potrebbe ricevere un semaforo verde dopo il controverso caso aducanumab prodotto dall'azienda Biogen.
Lo scorso giugno la FDA ha preso una decisione che ha sollevato parecchie controversie tra i ricercatori biomedici. Tutto nasce dall'avere dato il semaforo verde alla procedura accelerata dell'anticorpo aducanumab nonostante il voto negativo quasi unanime da parte di un comitato consultivo indipendente (a cui la FDA non è vincolata ma che rispetta quasi sempre) che riteneva i risultati della sperimentazione clinica troppo deboli e controversi.
Secondo alcuni questa decisione ha il merito di dare una spinta allo sviluppo di nuovi farmaci in un'area terapeutica che fatica a trovare farmaci innovativi, mentre altri vedono questa decisione come una macchia sull'integrità della FDA più prona ai desiderata di Big Pharma che al rigore scientifico, e come tale un ostacolo al progresso. La FDA ha concesso l'approvazione temporanea a patto che Biogen conducesse uno studio di conferma (non ancora partito), i cui risultati dovranno essere presentati entro i prossimi 9 anni. Tempo troppo alto secondo molti anche considerando il costo del trattamento per chi volesse usufruirne ora. 
Altro problema che l'applicazione di queste nuove linee guida comporta è l'esposizione dei soggetti trattati agli effetti collaterali (intrinseci in qualunque farmaco) per poche o nessuna possibilità di beneficio. Tra questi il rischio di "gonfiore cerebrale" pur asintomatico nelle conseguenze ma che impone scansioni cerebrali periodiche (costo aggiuntivo) per monitorare possibili complicazioni. 

La FDA, affermano gli scienziati, dovrebbe garantire che l'utilizzo nel mondo reale di qualsiasi farmaco sottoposto ad approvazione accelerata (diverso è il discorso nel caso di pandemie dove il rischio in assenza di terapie è immediato) rimanga allineato ai classici criteri selettivi della sperimentazione clinica.
Il caso si ripropone ora con l'azienda Eli Lilly in procinto di richiedere la valutazione del suo farmaco (donanemab, anche questo un anticorpo) mediante la procedura accelerata.
Il donanemab ha meccanismo di azione simile all'anticorpo della Biogen e una capacità di abbassare i livelli della proteina β-amiloide (il maggior costituente delle placche amiloidi) di quasi l'80%.
La decisione della FDA è  prevista prima della metà del 2022.
In casa Biogen si sta nel frattempo premendo sull'acceleratore per attivare la procedura di approvazione per un altro anticipo, noto come lecanemab.
Il vero problema, come scritto sopra, è se l'ipotesi amiloide come agente causale del morbo di Alzheimer sia il vero motore della malattia e non solo una componente o peggio ancora un epifenomeno. In questi ultimi due casi qualunque farmaco che abbia passato con successo il processo di selezione (ogni studio clinico deve avere un obiettivo predefinito che in molti casi non è la malattia in sé - troppo complicata da misurare - ma un suo biomarcatore predittivo) sarebbe funzionalmente perfetto ma con efficacia terapeutica irrilevante.
Gran parte, se non tutti, gli studi clinici condotti finora miranti a ridurre le placche amiloidi non hanno mostrato significativi miglioramenti nel declino mnemonico e cognitivo. Ma il problema potrebbe essere a monte, cioè in un vizio di partenza del campione usato (soggetti sintomatici), in cui la malattia era -  a causa dei danni accumulati - di fatto irreversibile.
Il che pone due problemi: "cestinare" un trattamento che magari funzionerebbe se solo fosse utilizzato sui soggetti presintomatici (difficili da identificare); caricare il sistema sanitario di un costo per trattamenti "inutili" pari a circa 56 mila USD all'anno (costo del trattamento per l'aducanumab).

La speranza è che il nuovo trattamento della Ely-Lilly riesca a dare prove di benefici tangibili anche grazie alla migliore selezione dei soggetti reclutati per lo studio. Uno di questi studi di fase II durato 18  mesi ha mostrato che le capacità cognitive delle persone trattate diminuivano più lentamente di quelle trattate con il placebo (3,20 punti su una scala di 144 punti).
Non sono così convinti in tal senso altri ricercatori per i quali questo trattamento è battuto da un molto più economico farmaco generico, donepezil (in giro da 25 anni), che agisce sui sintomi senza "toccare" le placche amiloidi.
Lo studio di fase III (su soggetti nella primissima fase sintomatica) è previsto per la prima metà del 2023, quindi DOPO l'eventuale approvazione dell'anticorpo basata "solo" sui risultati nella riduzione delle placche amiloidi.

Alla fine del 2021 la FDA ha dato il semaforo verde anche agli anticorpi gantenerumab (Genentech–Roche), lecanemab (Biogen–Eisai) e donanemab (Eli Lilly)

Fonte
Nature 599, 544-545 (2021)

La formazione delle placche amiloidi, i punti critici e i farmaci in fase di test
(image credit: Nature)

***

Aggiornamento 03/2022
In base a quanto prima scritto la via maestra per comprendere se i farmaci (anticorpi inclusi) anti-amiloide sono utili a scopo preventivo, impone che gli studi clinici siano fatti su soggetti a rischio (per familiarità) malattia ma ancora asintomatici. Il ché vuol dire fare studi prospettici della durata di anni su quarantenni.
La notizia è che questi test sono iniziati su una persona a cui verrà iniettato ogni 2 settimane l'anticorpo gantenerumab. A questo si associano visite mensili per eseguire scansioni cerebrali per monitorare (eventuale) sanguinamento e, una volta all'anno, 4 giorni di test clinici e cognitivi per tenere traccia del suo stato di salute. Se questo vi sembra tanto da chiedere ad un volontario, va ricordato in primis che si tratta di un volontario di 43 anni e che, dato il suo quadro genetico, ha una certezza quasi assoluta di sviluppare l'AD nel giro di pochi anni; questo spiega la sua determinazione a contribuire alla ricerca e magari trarne i benefici se non per lui per i suoi figli.

Nei prossimi mesi, il consorzio DIAN (Dominantly Inherited Alzheimer Network) prevede di iniziare a reclutare 160 portatori di mutazioni, alcuni di appena 18 anni, che non dovrebbero sviluppare sintomi per altri 11-25 anni. Lo studio clinico prevede un gruppo trattato con il farmaco e un gruppo di controllo (trattato con placebo) e durerà quattro anni; in questo periodo verrò monitorato il carico amiloide a intervalli regolari. Passata questa fase i due gruppi verranno uniti e si passerà ad uno studio "aperto"m vale a dire in cui tutti i partecipanti riceveranno il farmaco e si cominceranno a misurare anche altri parametri, tra cui quelli cognitivi.
Nota. La ragione della prima fase è duplice. Monitorare la presenza di eventi avversi legati al farmaco e nel contempo verificare la sua efficacia nelle primissime fasi del trattamento.
È chiaro che non sarebbe pratico condurre lo studio per i decenni necessari affinché tutti i soggetti (a rischio reale) sviluppino i sintomi. Molto meglio monitorare il cambiamento dei biomarcatori che per definizione sono dei parametri legati alla malattia ma che la quantificano in anticipo. Tipico esempio di questi marcatori sono la proteina β-amiloide e la proteina tau.

Il consorzio DIAN non è l'unico impegnato in quesi studi per l'Alzheimer ad esordio precoce. Ad esempio coinvolgendo persone i cui esami hanno rilevato già la presenza di placche amiloidi pur in assenza di sintomi. Ad esempio il farmaco crenezumab della Genentech-Roche è n fase di test sugli individui di una numerosa famiglia colombiana, metà dei quali è portatore di una mutazione nel gene che codifica uno degli enzimi (noti come secretasi) responsabili del taglio della APP. Si stanno anche approntando test sulle persone con sindrome di Down che come noto vanno incontro ad un rapido deterioramento cognitivo (e altro) intorno ai 40 anni (ricordo che il gene APP si trova sul cromosoma 21 e la loro trisomia 21 spiega la loro suscettibilità a questi deterioramenti).

Un altro approccio da citare riguarda l'identificazione nella popolazione generale di coloro che sono ad alto rischio di sviluppare l'Alzheimer "normale" (quello negli anziani). Tra i vari studi cito quello dell'International Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative (presso la UCSF) il cui scopo è registrare la variazione dei biomarcatori dell'Alzheimer tra le centinaia di persone che hanno aderito e seguirne le variazioni durante il normale processo di invecchiamento e (nel caso) in tutte le fasi della malattia. I dati mostrano che circa un terzo delle persone cognitivamente normali di età superiore ai 65 anni ha placche amiloidi nel cervello e che oltre l'85% di loro svilupperà sintomi di Alzheimer entro 10 anni. All'interno di questa iniziativa vi sono almeno tre grandi studi clinici (ciascuno centrato su diverso farmaco/anticorpo e gruppo placebo) ciascuno dei quali coinvolge più di 1000 persone, cognitivamente normali ma con placche cerebrali rilevate mediante PET. In questo caso lo studio durerà 4 anni, periodo sufficiente perché le persone con placche amiloidi comincino a manifestare i sintomi; se i farmaci funzionano si spera di osservare un rallentamento della progressione della malattia.


 
Articoli precedenti sul tema -->Alzheimer 



Aggiornamento Agosto 2022
Oltre ai dubbi sopra esposti circa la validità (nel senso causa-effetto vs. epifenomeno) della teoria amiloide, arriva ora uno studio che mette in dubbio la validità scientifica di alcuni pilastri di questa teoria. I
Il caso è deflagrato poche settimane fa (luglio 2021) con un articolo su Science che riporta pesanti livelli di manipolazione dei dati su uno studio su Nature del 2006 che ha indirizzato il campo versa la suddetta teoria.
L’articolo indicava Aβ*56, oligomero tossico della beta-amiloide, come uno dei mattoni responsabili della formazione nel cervello delle placche amiloidi, tipiche della malattia di Alzheimer (e non solo).

Ad aumentare la gravità del caso, ad essere coinvolti in questa opera di manipolazione non ci sarebbe solo Sylvain Lesné, principale autore, ma la pharma Cassava, che aveva investito nello sviluppo di farmaci contro la formazione delle placche,

Nell’articolo di Science non si parla in modo esplicito di manipolazione ma di dubbi (“expression of concern”) sulla validità dei dati sperimentali. Lo studio si basava sull’iniezione intracerebrale in giovani topi di grosse quantità del suddetto oligomero e nella successiva constazione di deterioramento delle loro capacità mnemoniche. Un test che per loro (e per gli editori) era la prova che la beta amiloide non era una conseguenza della malattia ma la causa.
Fu quello il momento in cui tale ipotesi prevalse sulle altre e la ricerca si spostò verso la prevenzione della formazione delle placche. Approcci che nel corso degli anni si rivelarono infruttuosi se non controproducenti (alcuni farmaci capaci di contrastare la loro formazione sembravano peggiorare la malattia, rafforzando l’idea opposta che le placche fossero invece un modo con cui l’organismo cercava di rimuovere l’eccesso di proteine alterate, neutralizzandole).

L’articolo su Nature è ora sotto riesame

Maggiori informazioni su retractionwatch.



La benda che rilascia il disinfettante solo se la ferita è infetta

Una benda intelligente che evita l'utilizzo di antimicrobici se non strettamente necessario.

Sarà capitato a tanti di noi, dopo cadute anche rovinose durante escursioni o anche solo durante un tranquillo giro in bicicletta (le rotaie del tram sono le mie ... favorite), trovarsi nelle condizioni di medicare le abrasioni apparentemente non così profonde da necessitare una visita al pronto soccorso.
Il punto di partenza è l'impossibilità di dire attraverso la semplice osservazione se una ferita guarirà senza problemi con una semplice medicazione oppure se i batteri penetreranno nel tessuto ferito, infettandola e attivando così il processo infiammatorio. 
In passato la regola aurea era cospargere la ferita con la polvere antibiotica e tinture varie... giusto per sicurezza. Una attitudine non limitata alle automedicazioni ma anche a quelle "professionali" che ha contribuito, oltre che allo spreco di medicinali, alla diffusione della resistenza agli antibiotici.

La soluzione potrebbe venire da bende smart che "decidono" autonomamente di rilasciare il disinfettante solo se rilevano segni di una infezione in atto (tecnica allo studio da tempo per il rilascio controllato di farmaci).
Questo è in effetti il campo di ricerca di un team della svizzera EMPA (istituto svizzero attivo nello sviluppo di tecnologie dei materiali) impegnato nello studio di fibre polimeriche che si ammorbidiscono non appena l'ambiente si riscalda a causa di un'infezione, rilasciando così farmaci antimicrobici.
Image credit: F. Pan et al ACS Appl. Bio Mater (2021)
Per portare in essere tale idea è necessario che la benda contenga già al suo interno i farmaci da rilasciare e che abbia sensori adatti alla rilevazione del segnale di "pericolo". 
Il polimero dermocompatibile adatto allo scopo è stato trovato nel polimetilmetacrilato (PMMA), in uso oggi sia nella produzione di lenti per gli occhiali che nell'industria tessile, associato al Eudragit, una miscela polimerica biocompatibile usata per rivestire le pillole.
La miscela è stata assemblata a formare una sottile membrana fatta di nanofibre a cui poi è stato aggiunto la octenidina, un disinfettante cutaneo. Il tutto assemblato in rapporti tali che la temperatura di transizione vetrosa (la temperatura alla quale un polimero passa da una consistenza solida a uno stato gommoso e indurito) è nell'intervallo di 37 gradi.
In presenza di infiammazione la pelle si riscalda, passando dalla sua temperatura classica di 32-34 gradi, in cui il polimero è solido, a valori superiori ai 37 gradi, ammorbidendosi, permettendo il rilascio del farmaco. Il processo è reversibile, per cui quando l'infiammazione scema anche il farmaco non viene rilasciato; un ciclo ripetibile fino a cinque volte.

I ricercatori sono ora al lavoro per rendere minore l'intervallo di temperature tra la fase "solo benda" e quella "benda a rilascio controllato".

Fonti
- Bioresponsive Hybrid Nanofibers Enable Controlled Drug Delivery through Glass Transition Switching at Physiological Temperature
F. Pan et al ACS Appl. Bio Mater (2021)

Pfizer ha iniziato (concluso) studi di fase 2/3 su un trattamento anti-covid basato su pillole

Aggiornamento. La sperimentazione è terminata con un analisi ad interim i cui risultati sono stati comunicati il 5/11/21 (pfizer.com/news/...). Il farmaco, se assunto per tempo, riduce l'ospedalizzazione del 85%.

***

Non si tratta di un vaccino, come il tanto atteso vaccino mucosale, ma di una pillola da prendere al manifestarsi dei primi sintomi.

La notizia, trapelata già la scorsa primavera con gli studi di fase 1, è stata ufficialmente rilanciata dagli stessi dirigenti di Pfizer nel corso di una conferenza organizza da Morgan Stanley sui temi sanitari.

Domanda spontanea attiene al suo funzionamento.
Si tratta di un inibitore proteasico (PF-07321332), derivato da una molecola sviluppata nel 2003 (vedi nota fondo pagina) da affiancare al ritonavir, usato nella terapia del HIV come “facilitatore metabolico” di altre molecole terapeutiche (blocca la CYP3A4), ma a dosaggio inferiore. 

Alla sperimentazione parteciperanno 1140 adulti che hanno contratto il Covid-19 ma non mostrano sintomi tali da richiedere un ricovero in ospedale. Il ciclo di trattamento per questi pazienti durerà 5 giorni a partire dai primi sintomi di infezione e in ogni caso prima dell’eventuale ricovero in ospedale.
Lo studio potrà fornire anche informazioni sulla sua valenza profilattica dato che includerà soggetti rimasti a stretto contatto con pazienti positivi. Attraverso cicli di prevenzione post-esposizione da 5 o da 10 giorni si potranno ottenere informazioni sulla eventuale azione protettiva e non solo terapeutica, utile per tutte le persone a rischio e con sistema immunitario non idoneo per il vaccino. 
L'etichetta “utile anche a scopo preventivo” potrebbe essere fuorviante dato che in assenza di sintomi si può continuare ad essere (involontariamente) infettivi. Solo i vaccini mucosali, grazie alla produzione di s-IgA potrebbero fornire la chiave di volta per impedire ogni di tipo di infezione. Per approfondire il tema vi rimando a due articoli The role of IgA in COVID-19 e Nasal vaccination against SARS-CoV-2: Synergistic or alternative to intramuscular vaccines?

Nei giorni scorsi alcuni post su vari social avevano associato il nuovo farmaco alla ivermectina, un antiparassitario che era "di moda" la scorsa primavera (vedi sezione dedicata nel precedente articolo "Le terapie farmacologiche in uso per il covid19").
In alto uno dei due omologhi della ivermectina. In basso la nuova molecola di Pfizer


In realtà le due molecole sono strutturalmente molto diverse (dimensioni, catene laterali, polarità, anelli aromatici, ...) il che non sorprende da un punto di vista biochimico: puoi ottenere un effetto "simile" (inibitore proteasi) in modo meccanicisticamente molto diverso. In sintesi avere lo stesso "effetto" non è sinonimo di equivalenza perché il meccanismo di azione (e i potenziali effetti collaterali) può essere totalmente non correlato.



Nota. Come si è giunti a questa molecola?
L'impalcatura dell'attuale molecola risale al 2003. Per arrivare alla formulazione attuale i ricercatori hanno dovuto introdurre molte modifiche strutturali per renderla adatta a contrastare il SARS-CoV-2.
A differenza di farmaci come remdesivir e molnupiravir, frutto del drug repurposing (originariamente destinate al trattamento di Ebola) PF-07321332 è a tutti gli effetti un farmaco "originale" riprogettato ad hoc per SARS-CoV-2.
In precedenza Pfizer ha pubblicato le informazioni sulla libreria di inibitori di proteasi 3CL dei coronavirus sviluppata 20 anni fa.
Inibitori proteasi (image credit:R.L. Hoffman et al J. Med. Chem. (2020))

In questa libreria di molecole era presente il rupintrivir, da cui avrebbero poi creato una serie di derivati tra cui PF-00835231, pensato all'inizio per la SARS (virus SARS-CoV-1) e poi ripescato e ulteriormente modificato l'attuale virus.
Tuttavia, come per il remdesivir, la farmacocinetica del PF-00835231 non era esente da gravi difetti, per cui nel 2020 i chimici dell'azienda dovettero trovare il modo di migliorarlo: traguardo raggiunto con lo sviluppo di un pro-farmaco il cui nome è PF-07304814 (di fatto ha un gruppo fosfato che viene rimosso dalla fosfatasi alcalina cellulare e che lo ritrasforma in PF-00835231, la molecola attiva. 
Image credit: Britton Boras et al. Nat. Commun. 2021

Il PF-07321332 condivide lo stesso "scheletro" ma con modifiche "esterne" sostanziali.
In sintesi, PF-07321332 deriva da un farmaco sviluppato ai tempi della SARS (PF-00835231) che a sua volta deriva dal rupintrivir. Ma alla fine dei lavori di maquillage funzionale le molecole risultati sono alquanto diverse.




Perché la pillola anti-covid non è sostitutiva del vaccino

Perché la pillola anti-covid non è sostitutiva del vaccino ma "solo" un importante strumento terapeutico.

A distanza di pochi giorni dall'articolo dedicato alla sperimentazione clinica della pillola della Pfizer, ecco la notizia del completamento dell'analisi ad interim dello studio di una pillola (diversa come tipologia e funzione) prodotta dalla Merck. 
Per essere precisi la pillola è prodotta da due aziende, la Msd (ovvero Merck & Co.) e  la Ridgeback Biotherapeutics. 
Notizia che i media generalisti hanno rilanciato, in buona parte, con la consueta modalità copia e incolla. A questa lecita operazione di informazione ne è seguita una meno positiva discussione densa di aspettative da parte di chi pensa "non c'è più bisogno ora (o nel prossimo futuro) di vaccinarsi perché la pillola risolve tutto".

L'affermazione sulla presunta intercambiabilità tra i due strumenti non solo non ha valenza scientifica ma non è nemmeno auspicabile se si tiene a mente l'esempio della resistenza agli antibiotici.
Prima di analizzare nel dettaglio i vari punti la cosa che più mi perplime è la preferenza "ideologica" di molti per un farmaco rispetto ad un vaccino con l'idea "fa meno male" o "non contiene porcherie". Ma su questi due punti tornerò nella nota a fondo pagina.

Spieghiamo in modo molto semplificato il principio attivo alla base del farmaco molnupiravir.
Il farmaco è stato sviluppato (con finalità anti-influenzali) nel 2013 da ricercatori della Emory University di Atlanta e nei primi mesi della pandemia fu testato (insieme a tanti altri seguendo la strada del drug repurposing) su modelli animali per verificarne l’efficacia nei confronti del nuovo virus. Gli studi condotti sui furetti (uno dei modelli migliori per studiare i virus influenzali) confermarono la capacità del farmaco di bloccare la diffusione del virus a sole 24 ore dal trattamento. I mesi che seguirono furono usati per i test preliminari su umani positivi al coronavirus sia come efficacia che, soprattutto, per verificare sicurezza e  dosaggio.
Come facile immaginare, il funzionamento del molnupiravir non ha nulla a che fare con l’induzione dell’immunità e/o con il bersagliare la proteina Spike, la "chiave" che il virus usa per entrare nelle cellule. Si tratta infatti di una molecola antivirale.
Il molnupiravir è in realtà un profarmaco vale a dire che per essere attivato (sotto forma di molnupiravir trifosfato o MTP) la molecola deve essere modificata da enzimi epatici. La molecola risultante è a tutti gli effetti un "sosia" dei nucleotidi naturali almeno per la RNA polimerasi-RNA dipendente virale (enzima assente nelle cellule eucariote ed essenziale per la replicazione del virus) che non fa distinzioni tra questo e citosina o uracile. Il risultato è l'induzione di mutazioni in ogni posizione in cui avviene tale incorporazione durante la copiatura del genoma virale.
Il processo mutageno avviene in due fasi: durante la prima copiatura del +gRNA e nella successiva copiatura del -gRNA durante la quale la polimerasi che si trova di fronte ad un templato contenente il nucleotide "M" inserirà nella copia una adenina o una guanina.
Risultato finale, la produzione di copie virali piene zeppe di errori tali da rendere i nuovi genomi inutilizzabili in quanto contenenti informazioni geniche "senza senso".
Figura estratta dall'articolo su Nature Structural & Molecular Biology (B. Malone & E.A. Campbell).
All credits to the authors.

Il meccanismo di mutagenesi in due passaggi del MTP, alla base della catastrofe mutagenica nel virus
(immagine tratta da Florian Kabinger et al, ALL CREDIT to the authors)

Nota. Vero che le mutazioni sono alla base dell’evoluzione ma è altrettanto vero che quando superano una certa soglia (o colpiscono punti critici dell’informazione che codifica una data proteina) l’esito finale è la produzione di una copia di RNA del genoma virale o del messaggero codificante per una data proteina virale con informazione “senza senso” o non funzionante, rispettivamente.

Il fenomeno di induzione di errori durante copiatura che supera una certa soglia (riparabile dai sistemi di proof-reading) è nota come “mutagenesi letale”.

Andando al succo dei risultati dello studio clinico di fase 2/3 condotto su 775 pazienti sintomatici, si è osservato nei pazienti positivi non vaccinati ma a rischio peggioramento a causa di altre patologie/età, il  dimezzamento del rischio di morte o di ospedalizzazione, purché la pillola venga somministrata entro 5 giorni dalla comparsa dei sintomi
Il tutto al costo di 700$. 
Il numero di soggetti studiati non è molto alto se paragonato agli studi classici di fase 3 che coinvolgono molte migliaia di persone, ma ha fornito (come avvenne a suo tempo nella sperimentazione dei vaccini) dati sufficienti per una analisi ad interim.
Nota. La sperimentazione è stata interrotta seguendo i criteri della analisi ad interim, che si utilizza quando ci sono evidenze molto forti che un dato farmaco sperimentale stia producendo i risultati sperati. La logica sottostante a questa analisi anticipata è velocizzare tutta la procedura spostando i soggetti che erano stati randomizzati nel braccio di controllo (placebo o miglior trattamento farmacologico a disposizione, a seconda dello studio clinico) verso il braccio terapeutico così da estendere anche ad essi il trattamento che appare essere il migliore.
I risultati, indubbiamente positivi, verranno ora sottoposti alla valutazione della FDA perché conceda l’autorizzazione provvisoria (di emergenza) all’utilizzo del farmaco.
Premessa l’importanza di avere una pillola simile per minimizzare nei soggetti a rischio il decorso grave, io vedo anche due potenziali criticità.
Per prima cosa il costo che è di molto superiore al vaccino che nel caso di Pfizer, seppur recentemente aumentato, si attesta oggi sui 19,50$ per dose.
Si potrebbe obiettare che il costo cumulativo sarà inferiore data la minor platea dei riceventi. In realtà questo non è il caso sia perché gran parte della popolazione è oramai vaccinata (e chi non lo è PER SCELTA, affari suoi e non del SSN), sia perché se il protocollo operativo diventa quello di eseguire il trattamento in ogni soggetto sintomatico (mettendo in unico calderone sia quelli, maggior parte, che avrebbero avuto un decorso lieve-moderato che quelli gravi da ospedalizzare) i fruitori finali della costosa pillola aumenterebbero esponenzialmente.
Numeri che aumenterebbero ulteriormente se passasse il concetto di “non mi vaccino/non faccio il richiamo perché tanto c’è la pillola”.
Secondo punto il fatto che questo trattamento non previene il verificarsi dell’infezione. Per sua stessa natura la pillola ha senso se il soggetto che la riceve ha un titolo virale (o di cellule infettate) sufficiente a causare i sintomi. Da qui la possibilità che tutti i soggetti asintomatici (per decorso o perché nella fase iniziale dell’infezione) potrebbero continuare a fare da untori e, cosa più importante, a fungere da laboratori in cui si creano e selezionano nuove varianti (ricordo che è oramai provato che è negli infettati cronici che si sono sviluppate le prime varianti ad aumentata efficienza).
In questo senso l’unico trattamento preventivo sono i vaccini mucosali, di cui ho già scritto in un precedente articolo, la cui efficacia è nella capacità di indurre la produzione di s-IgA, in grado di neutralizzare il virus quando ancora si trova nella parte esterna della mucosa respiratoria (per dettagli vi rimando a due articoli The role of IgA in COVID-19 e Nasal vaccination against SARS-CoV-2: Synergistic or alternative to intramuscular vaccines?).

Aggiungerei infine un altro punto, memore dell’attuale problema della montante resistenza batterica agli antibiotici, risultato dell’utilizzo indiscriminato e massiccio degli stessi a partire dagli anni ’50 e fino a pochi anni fa (e tuttora in molti paesi).
Tutti noi ricordiamo i tempi in cui questi venivano venduti senza ricetta e usati (con posologie e tempi errati) perfino per malesseri (o solo il rischio) di natura virale. Il risultato è che siamo passati da una epoca in cui si credeva di avere sconfitto ogni patologia batterica ad un “ritorno al passato” in cui anche infezioni "comuni" possono risultare intrattabili, quindi a rischio sepsi a causa della avvenuta selezione dei superbatteri (vedi gli articoli precedenti sul tema).
A parziale conforto, il meccanismo di azione del molnupiravir dovrebbe minimizzare il rischio della comparsa di virus resistenti: non agisce direttamente su una proteina virale ma si mimetizza come il suo naturale substrato.
Sebbene tra gli antibiotici standard (o antivirali, vedi i farmaci anti-HIV) ve ne siano diversi che interferiscono con il macchinario di decodifica e trasmissione dell’informazione, bersagliando i ribosomi batterici o le polimerasi virali (e di questi sono stati trovati mutanti resistenti), il molnupiravir assomiglia più all’aciclovir, il farmaco di punta contro l’herpes. Simile ma non identico perché l’aciclovir è un analogo nucleosidico che provoca il blocco della replicazione del DNA virale (quindi più a rischio, per quanto basso, di mutanti resistenti) mentre il molnupiravir è un vero e proprio mutageno specifico per i virus (più simile ad alcuni farmaci antitumorali genotossici). 

Quindi, plaudiamo al risultato senza abbassare la guardia rinunciando in modo aprioristico a tutto l’armamentario antivirale (leggasi i vaccini) che abbiamo faticosamente sviluppato.


Fonti
- Mechanism of molnupiravir-induced SARS-CoV-2 mutagenesis
Florian Kabinger et al, Nature Structural & Molecular Biology, (28) pp. 740–746 (2021)

-Molnupiravir: coding for catastrophe
Brandon Malone & Elizabeth A. Campbell Nature Structural & Molecular Biology, (28) pp. 706–708 (2021)

Merck and Ridgeback’s Investigational Oral Antiviral Molnupiravir Reduced the Risk of Hospitalization or Death by Approximately 50 Percent Compared to Placebo for Patients with Mild or Moderate COVID-19 in Positive Interim Analysis of Phase 3 Study

***

Nota finale
Alcune considerazioni circa affermazioni del tipo “meglio un farmaco che un vaccino. Di sicuro contiene meno porcherie”.
La principale differenza tra un farmaco (qualunque) e un vaccino è anche quella che contraddice la precedente frase: mentre il primo produce alterazioni metaboliche nell’organismo ospite il secondo gioca un ruolo passivo che potremmo definire di istruttore.
Un farmaco, per essere tale, DEVE indurre modificazioni biochimiche nel ricevente siano esse a livello sistemico o solo cellulare. Ad esempio un anti-infiammatorio deve spegnere l’attività di alcune cellule e dei loro mediatori, un anti-colesterolemico come le statine inibisce la HMG-CoA reduttasi, il viagra blocca la fosfodiesterasi 5, etc etc fino ad arrivare alla “banalissima” aspirina (acido acetil salicilico) in cui sebbene il bersaglio principale sia la COX-2, inibita in modo irreversibile, gli effetti indotti sono così ampi  e sistemici (analgesico e anti-piretico, -aggregante, -infiammatorio) da essere tuttora non del tutto compresi.
Questo spiega per quale motivo, prima ancora di test di efficacia, la primissima fase dei test su umani di QUALUNQUE farmaco prevede studi di farmacodinamica e farmacocinetica, descrivibili come lo studio degli effetti biochimici e fisiologici del farmaco sull'organismo e di come il metabolismo agisce/altera il farmaco, rispettivamente. Gli effetti collaterali sono in genere il risultato di un eccesso funzionale. 
Tale nozione ci riporta con la mente alle famigerate terapie di casa Stamina o Di Bella (etc) che si facevano vanto di non produrre alcun effetto collaterale. In effetti se uno utilizza acqua o molecole inerti è difficile che possa sviluppare effetti collaterali in quanto manca l'effetto farmacologico (molecole attive assenti o diluite in stile omeopatico).
Nel caso dei vaccini il discorso è ben diverso.
Nella versione più semplice del vaccino (patogeno inattivato o “pezzi proteici” del patogeno) l'idea è quella di presentare all’organismo una copia inerte del patogeno, sufficiente ad indurre la risposta immunitaria e creare una memoria (una specie di foto segnaletica) di tale incontro. Possiamo immaginare il vaccino come uno sparring partner incapace di rispondere se non mimando l'aggressore, ma adatto per addestrare il pugile al vero incontro.
Vero che molti vaccini utilizzano adiuvanti - il più comune sono i sali di alluminio - ma la ragione è che, soprattutto nel caso in cui il vaccino sia fatto da “pezzi di patogeno” è necessario che le pattuglie immunitarie vengano richiamate nel punto dell'iniezione così da "vedere" il loro bersaglio, altrimenti inerte. I classici effetti collaterali che molti sperimentano nei due giorni successivi alla vaccinazione (fatto salvo il caso di vaccini basati su patogeni attenuati) sono il risultato del sistema immunitario che prende atto della sfida e mobilita le difese esattamente come farebbe con una vera infezione (gli stessi sintomi influenzali non sono mai il risultato della replicazione virale ma della reazione dell'ospite che scopre l’esistenza di un intruso).
Ecco allora la ragione per cui negli studi clinici sui vaccini non sono presenti studi di farmacocinetica e di farmacodinamica (il vaccino è passivo, non modifica nulla nel metabolismo) mentre l’attenzione si focalizza su reazioni immunitarie eccessive, quasi sempre dovute a predisposizione genetica, che possono sfociare in uno shock anafilattico (la stessa ragione per cui alcune persone sono a rischio dopo avere ingerito una nocciolina o dopo la puntura di un'ape).

Tra farmaci e vaccini, è facile allora comprendere perché siano i primi quelli “più a rischio” in quanto proattivi.
I vaccini a RNA hanno aggiunto un livello di complessità ulteriore trasformando le cellule nei produttori, temporanei, di copie dello sparring partner. Qui gli studi di sicurezza si sono concentrati sia sul veicolo (le nanoparticelle lipidiche) che su eventuali reazioni immunitarie non previste.
Gli studi però parlano chiaro: la banalissima aspirina ha un tasso di mortalità 10 mila volte superiore (se prendiamo in considerazione “solo” gli effetti collaterali come emorragie gastrointestinali è ancora maggiore) a quella del pur criticato vaccino AstraZeneca (mortalità di 1 per milione) per non parlare del ben più sicuro Pfizer (4,6 casi di anafilassi per milione, e tasso di mortalità molto inferiore dati i trattamenti anti-anafilattici ampiamente disponibili)



Farmaci fotoattivabili: medicina localizzata per minimizzare il rischio di effetti collaterali

La fotofarmacologia è un'area relativamente nuova ma in pieno fermento nell'ambito della farmacologia, centrata sullo sviluppo di farmaci attivati da luce di lunghezza d'onda predefinita. Il vantaggio è chiaro: anche se il farmaco ha una distribuzione sistemica, agirà solo sul tessuto bersaglio quando questo verrà opportunamente illuminato. Un "trucchetto" che minimizza il rischio di effetti collaterali anche nel caso di farmaci particolarmente aggressivi.


Un team dell'Università di Barcellona ha lavorato a tre trattamenti basati su questa tecnologia innovativa: un derivato della morfina che non crea dipendenza e un farmaco contro la psoriasi; un derivato dell'adenosina utilize per studiare le via della trasmissione del dolore.

Morfina che non crea dipendenza
Ad oggi la morfina e altri derivati ​​degli oppiacei sono centrali nel trattamento del dolore. Il loro successo porta con sé un lato oscuro che comprende sia gli effetti collaterali che la dipendenza, diventata negli USA un vero e proprio caso sociale. La cosiddetta epidemia da oppiacei è responsabile di circa 70 mila decessi all'anno, tutti associati all'abuso di questi farmaci da prescrizione.
Alla base dell'abuso e dipendenza, gli oppiacei vi è il fenomeno della tolleranza agli effetti analgesici, che induce al progressivo aumento della dose per mantenere la soglia di efficacia. Il 30% dei pazienti a cui vengo
no prescritti questi farmaci non li assume seguendo le giuste istruzioni, e a cascata il rischio dipendenza finisce per tramutarsi in realtà nel 10% dei soggetti trattati.
Non entro qui nel dettaglio della fisiologia del dolore e dei bersagli farmacologici (vi rimando ad una eccellente review) ma vado subito al sodo sul nuovo derivato fotosensibile della morfina, attivabile nel sito prescelto mediante un impulso luminoso. 
La nuova molecola ha confermato il suo effetto analgesico sui topi con assenza di fenomeni di tolleranza e di comparsa di dipendenza
Lo studio è stato pubblicato su British Journal of Pharmacology.


Una soluzione per la psoriasi
Sulla rivista Pharmacological Research è stato pubblicato uno studio su una molecola in grado di legare, dopo fotoattivazione, il recettore dell'adenosina A3, inducendo un potente effetto antinfiammatorio utile per il trattamento della psoriasi.
Nota. L'adenosina è un neuromodulatore naturale.
La psoriasi è una malattia cutanea cronica che colpisce il 2% della popolazione. Si manifesta con sintomi cutanei come secchezza, prurito, pelle squamosa, macchie e placche anormali, conseguenza di una crescita eccessiva dei cheratinociti e da una risposta immunitaria anomala.
I trattamenti disponibili sono principalmente sintomatici senza colpire le cause prime della malattia che quindi rimane. Nei casi più gravi il trattamento prevede l'utilizzo di modulatori del sistema immunitario che però presentano seri effetti collaterali a causa dell'azione immunosoppressiva sistemica.
Il nuovo farmaco è stato testato in topi con buoni risultati nella prevenzione delle recedive della malattia; la fotoattivazione locale (cutanea) evita inoltre la comparsa di effetti collaterali.


Uno strumento per studiare la trasmissione del dolore
La produzione di un derivato fotoattivabile dell'adenosina (vedi sopra) si è dimostrato utile anche a livello sperimentale permettendo di mappare il contributo dei diversi recettori dell'adenosina nella trasmissione del dolore.
L'adenosina può agire come analgesico endogeno, ma rimangono ancora punti oscuri sulla funzione dei vari recettori dell'adenosina e in particolare quali tra essi svolga l'azione analgesica. I nuovi risultati saranno utili per progettare e sintetizzare farmaci adenosinergici selettivi per la gestione del dolore periferico e centrale.
Lo studio è stato pubblicato su Bioconjugate Chemistry.


Fonti
- Optical control of adenosine A3 receptor function in psoriasis
M. López-Cano et al. (2021) Pharmacological Research 170, 105731, 2021

- Remote local photoactivation of morphine produces analgesia without opioid-related adverse effects
M. López-Cano et al., (2021) British Journal of Pharmacology

- Optical Control of Adenosine-Mediated Pain Modulation 
K. Hüll et al, (2021) Bioconjugate Chemistry

Antibiotico "Lego" come strategia contro i superbatteri

La resistenza agli antibiotici è una minaccia reale per la salute pubblica e, in assenza di strategie mirate, avrà un impatto ancora maggiore dell'attuale pandemia.

Per i non addetti ai lavori tale affermazione potrebbe sembrare una esagerazione ma i numeri parlano chiaro. Negli ultimi decenni la diffusione dei cosiddetti superbatteri (alcuni dei quali resistenti a tutti gli antibiotici noti) provoca ogni anno (e parlo del solo mondo sviluppato, decine di migliaia di morti  riportando le lancette dell'orologio per alcune malattie a prima degli anni '40 quando una qualunque ferita poteva degenerare in infezione fatale.

Numeri esplicativi. I superbatteri sono la quarta causa di morte negli USA e ci si riferisce alle sole infezioni "classiche" (TBC et similia escluse) contratte spesso e volentieri durante il ricovero in ospedale. Uno studio dell'università di Washington del 2018 ha quantificato in 162 mila i decessi correlati, un numero più del doppio di quello causato dall'abuso di oppioidi e farmaci correlati.

I batteri responsabili non sono nulla di esotico ma comuni come lo Staphylococcus aureus o l'Enterococcus faecium la cui infezione era fino a pochi anni fa facilmente gestibile con un singolo trattamento. A questi andrebbero poi aggiunti i batteri (per ora) meno diffusi in occidente come quello della tubercolosi, di cui tuttavia sono noti ceppi resistenti a 7 antibiotici diversi, fenomeno di cui ho scritto nel lontano 2013("Il passato che ritorna: polio e tbc")

Come descritto le cause sono molteplici anche se possiamo identificarne 2 principali (per una trattazione più completa --> "la sfida continua con i microbi"): 
  • l'utilizzo non giustificato, massiccio e spesso incompleto di antibiotici sia negli allevamenti che nell'uso domestico;
  • la ricerca che non ha prodotto nuovi antibiotici in decenni. Un ritardo causato dagli alti costi necessari per un ritorno economico insufficiente a coprire anche solo le spese, deterrente sufficiente a fare scappare le aziende biotech.
Tra i due è il primo a giocare un ruolo chiave in quanto "nursery" di nuove resistenze che da sole vanificherebbero gli sforzi della più efficiente R&D. A questo aggiungiamo la capacità che hanno molte specie di batteri di scambiare tra loro (inteso tra specie non correlate) il materiale genetico responsabile sia della virulenza che della resistenza agli antibiotici; facile capire allora la diffusione a livello globale della resistenza agli antibiotici con la trasformazione in superbatteri di batteri prima "innocui".
In termini tecnici si parla di trasmissione orizzontale oltre alla classica trasmissione verticale. 

Micrografia elettronica a scansione di Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (MRSA) circondato da detriti cellulari. L'MRSA è un tipico esempio di superbatterio
(Image credit: NIAID via UCSF)

Come mai esistono geni per la resistenza?
La maggior parte degli antibiotici (in primis quelli classici) deriva da molecole prodotte da altri batteri (streptomiceti, ...) come arma contro altri tipi di batteri sia come modo di "predazione" che per eliminare la concorrenza dalle risorse ambientali. Ogni batterio sensibile ad un dato antibiotico non ha altra scelta, pena l'estinzione, che "evolvere" delle difese: enzimi in grado di distruggere l'antibiotico (ad esempio la beta-lattamasi); pompe che espellono la molecola dalla cellula oppure modifiche del target dell'antibiotico tale da rendere quest'ultimo inefficace. 

Soluzioni
Il primo, e tardivo, passo è stato cambiare i comportamenti che hanno causato la forte pressione selettiva dei superbatteri: divieto di uso antibiotici senza prescrizione; parsimonia negli allevamenti e impianti di bonifica di tutti i reflui (inclusi quelli ospedalieri).
Occorreva però anche un cambio di paradigma nella R&D per rendere il processo economicamente sostenibile e veloce.
Esattamente quello che è stato fatto dai ricercatori della UCSF con un approccio che potremmo definire in stile "LEGO": riprogettare le molecole antibiotiche esistenti per eludere i meccanismi di resistenza di un batterio, partendo da unità "LEGO molecolari" assemblabili per per formare molecole più grandi e funzionali.
La ricerca è stata pubblicata lo scorso settembre sulla rivista Nature.
L'approccio rientra nel solco di strategie note come directed evolution e dynamic combinatorial libraries finalizzate a sfruttare criteri di auto-selezione di molecole sempre più efficaci partendo da librerie di molecole "messe sotto pressione evolutiva" (qui una ottima review). Per una sintesi degli approcci usati in passato per gli anitbiotici vedi History of antimicrobial discovery.
I ricercatori californiani avevano due obiettivi: ridare vita a classi di farmaci il cui potenziale era andato scemando nel tempo per la perdita di efficacia degli antibiotici o il riposizionamento di farmaci (drug repurposing) in uso per altri scopi ma di cui vi erano indizi di attività antimicrobiche. 
Il valore aggiunto per alcune di queste molecole è l'essere già state testate in esseri umani, quindi con profilo di sicurezza noto.
Il vantaggio reale di questo approccio è che potrebbe, se i risultati saranno all'altezza delle aspettative, eliminare la necessità di inventare nuove classi di antibiotici agendo direttamente sulla molecola per inficiare la resistenza batterica.
Sia chiaro, questo non è un approccio risolutivo perché i batteri (e i virus ancora di più nel caso degli antivirali e dei vaccini) hanno tempi e numeri di replicazione tali da mettere sotto stress contromisure alle nostre contromisure, a cui ci si troverà a dovere rispondere con altre modifiche. Ma questo è un problema ineludibile, parte intrinseca delle sfide evolutive a cui i batteri, in giro da 3 miliardi di anni e presenti in ogni nicchia biologica, da sempre fanno fronte. Il vero scopo è minimizzare il nostro tempo di reazione e (dove possibile, attraverso trattamenti combinati) la comparsa ex ante della resistenza.
Il gruppo guidato da Ian Seiple ha testato l'approccio (vera e propria proof of concept) su una classe di antibiotici chiamati streptogramine. Scelta non casuale se si pensa che le streptogramine sono state per anni un'arma molto efficace contro le infezioni da S. aureus ... finché i batteri non hanno sviluppato un meccanismo per neutralizzarle.
La Virginiamycin M1è un membro dell'ampia classe di streptogramine
(credit:wikipedia)

Un breve accenno a come funzionano le streptogramine. Per dirla in termini semplici è come se "incollassero" la parte catalitica del ribosoma batterico, rendendo loro impossibile la produzione di proteine (azione citostatica, citotossica se associata ad altro antibiotico). I ceppi resistenti hanno evoluto come contromisura la produzione di proteine come le virginiamicina acetiltransferasi (Vats), che riconoscono le streptogramine non appena entrano nella cellula,  disattivandole chimicamente prima che possano interagire con il ribosoma.
I ricercatori hanno pensato che ci doveva essere un modo per apportare modifiche alla streptogramine tale da renderle invisibili alle ​​Vats.
Per testare questa ipotesi, optarono per una sintesi ex novo di varianti di streptogramine invece di usare il metodo classico di apportare modifiche alla struttura preesistente. Per rendere più semplice il processo di sintesi e modifica, la molecola venne "divisa" in sette moduli molecolari (modificabili separatamente) assemblabili facilmente in modo da ottenere varianti dell'antibiotico.
Ottenuti i "mattoncini" costitutivi, il passaggio chiave è stato quello di sviluppare un modo per visualizzare l'effetto di ciascuna modifica sulla capacità di legare il ribosoma e di sfuggire alle Vats, evitando nel contempo test su varianti "inutili". A tale scopo si avvalsero delle informazioni ottenute da tecniche come la microscopia crioelettronica e la cristallografia a raggi X, con cui creare immagini 3D   a risoluzione quasi atomica del farmaco, del suo bersaglio e della sua nemesi (la proteina Vat).

E' stato grazie a questa modellistica molecolare che i ricercatori hanno potuto prevedere quali parti della molecola di streptogramina erano essenziali perché continuasse ad esercitare la funzione di antibiotico e quali erano quelle su cui agire per impedire alle Vats di interagire con il farmaco. Dei sette mattoncini costitutivi usati, due si sono rivelati i migliori substrati su cui effettuare le modifiche.

Le streptogramine varianti così selezionate sono state infine testate contro batteri patogeni prima (test di attività) e, quelle che avevano superato il test, contro il ceppo di S. aureus resistente alla streptogramina inoculati in topi. Alcune delle varianti così testate si sono rivelate 10 volte più efficaci delle molecole di partenza nel neutralizzare i batteri (un processo che può continuare fino ad ottenere l'attività desiderata).

L'approccio non è ovviamente limitato alle sole streptogramine ma, con le opportune correzioni dei mattoncini di partenza, utilizzabile su qualunque altro antibiotico "perso per strada".

Questa intuizione sarà una guida per creare antibiotici a cui i batteri non possono resistere ... o almeno non a breve termine

Altri articoli tematici li trovate seguendo il tag 
Rightwards arrow

Fonte
Synthetic group A streptogramin antibiotics that overcome Vat resistance
Qi Li et al, Nature (2020) v.586, pp. 145–150

***.


In questa lotta potremo avere alleati inattesi, i virus batterici. Organismi perfetti come arme antibatteriche in quanto mirate a ceppi particolari e in grado di coevolvere autonomamente per superare le contromisure di resistenza adottate dai loro bersagli, in una lotta che va avanti dall'inizio dei tempi sulla Terra.
Un esempio delle potenzialità insite nei batteriofagi, il loro utilizzo sul campo per il trattamento di una infezione intrattabile che aveva colpito il marito di una ricercatrice durante un viaggio in Egitto. Il resoconto delle procedure messe in atto è mirabilmente descritto nel libro "The Perfect Predator" (di Strathdee & Patterson) scritto in modo comprensibile a tutti.



Powered By Blogger
"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
Clive S. Lewis

"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper