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Betelgeuse. L'alta velocità di rotazione eredità di fusione di un sistema binario?

Betelgeuse (credit: universetoday.com)
Non è difficile vedere Betelgeuse nelle notti d'inverno, tra le 10 stelle più brillanti dei nostri cieli.
Basta guardare nella costellazione di Orione, cercare la "spalla" sinistra del cacciatore o semplicemente la seconda stella piu luminosa dal colore rosso-arancione.
credit: [Bob King / Sky & Telescope] via medium.com
Il colore è la luminosità sono già indizi che si tratta di una supergigante rossa, una stella dall'evoluzione e destino ben diversa rispetto al nostro Sole  che, tra alcuni miliardi di anni, transiterà nello stadio gigante rossa prima di divenire una nana bianca.  Betelgeuse potrebbe oggi essere nella fase Carbonio - Neon - Ossigeno) quindi nella fase finale della supergigante.
Nota. Per dare l'idea delle sue dimensioni, se spostassimo Betelgeuse al posto del Sole, occuperebbe un volume fin quasi all'orbita di Giove.
credit: focus.it
Al contrario, Betelgeuse si accomiaterà dai vicini in modo molto appariscente e violento, una supernova di tipo II, come tipico di una stella supermassiccia dotata di una vita breve (sulla scala temporale dell'universo) e turbolenta. La supernova sarà visibile ad occhio nudo anche dalla Terra e non dovrebbe mancare molto (in questo caso su scala temporale terrestre, con stime che vanno dal secolo al milione di anni); questo almeno è quanto si evince dalle caratteristiche spettrali e dalla variazione di luminosità osservate negli ultimi anni, con oscillazioni dovute a pulsazioni stellari con periodo tra i 2070 e i 2355 giorni.
Nota. Data la distanza che ci separa, 600 anni luce, Betelgeuse potrebbe anche essere già esplosa, solo che il "messaggio" luminoso non ci è ancora arrivato. Per comprendere i problemi interpretativi sulla difficoltà di prevedere l'imminenza di una esplosione in base alla variazione di luminosità (l'unico elemento facilmente quantificabile) vi rimando ad un articolo di qualche mese fa del sempre ottimo Ethan Siegel (--> "This Is Why Betelgeuse (Probably) Isn't About To Explode"). Altra stella candidata ad imminente esplosione è V Sagittae.
Tale variabilità è tipica delle fasi finali della stella quando il "carburante" atomico standard (idrogeno ed elio) per la fusione nucleare comincia a non essere più sufficiente per generare l'energia necessaria a contrastare la caduta gravitazionale della massa soprastante; la stella subisce improvvisi "crolli" sufficienti per innalzare la temperatura in modo da innescare reazioni di fusione nucleare con atomi pesanti (carbonio,...). Questi cicli si ripetono fino a che si arriva al limite del ferro, oltre il quale ogni reazione è energicamente sfavorevole. Quando l'energia prodotta non sarà più sufficiente, tutta la massa soprastante precipiterà repentinamente verso il centro provocando una serie di eventi nello stato della materia locale che culmineranno in una supernova dalle cui "ceneri" residuerà una stella di neutroni.
Perché non un buco nero? Pur essendo Betelgeuse una stella massiccia (15-20 masse solari - Ms) non lo è a sufficienza perché la massa del core residuo dopo l'esplosione possa generare un buco nero. Vale a dire che la massa non basta perché la gravità consenta di concentrare la materia al di sotto del limite detto raggio di Schwarzschild, un valore che segna il punto di non ritorno nella formazione di un buco nero. In soldoni se il nucleo finale residuo (ripeto il nucleo RESIDUO, non la massa iniziale prima dell'esplosione) è inferiore a 1,40 Ms si originerà una nana bianca, sotto le 3 Ms una stella di neutroni mentre valori superiori porteranno ad un collasso "senza fine" dentro un buco nero
Ma non si vuole qui parlare dei processi di nucleosintesi stellare per cui esistono eccellenti libri divulgativi, quanto di una teoria pubblicata poche settimane fa circa l'origine di Betelgeuse.
L'articolo in cui tale teoria è stata formulata è "Is Betelgeuse the Outcome of a Past Merger? " ed è stato pubblicato da Manos Chatzopoulos sul sito arXiv.org.

Vediamone i punti salienti.
Betelgeuse è probabilmente una stella in fuga, essendo stata espulsa dal suo luogo d'origine, noto come l'Associazione Orion OB1. Attualmente si muove attraverso il mezzo interstellare (ISM) a circa 30 km/sec, un movimento che crea un enorme shock di prua che si estende per oltre quattro anni luce, nel punto in cui il vento stellare prodotto da Betelgeuse si scontra con l'ISM (qualcosa di simile alla eliopausa attraversata qualche mese fa dalla sonda Voyager).
Betelgeuse ha inoltre due caratteristiche "strane": una velocità di rotazione troppo elevata per le sue dimensioni e una luminosità mutevole.
Velocità di rotazione. Il classico esempio usato per spiegare la correlazione inversa tra velocità angolare e dimensioni è quello della pattinatrice che per aumentare la propria velocità mette le mani al petto raccogliendosi su se stessa così da diminuire il momento d'inerzia. Un concetto alla base della conservazione del momento angolare.
Per la stessa ragione per cui una pattinatrice può variare la sua velocità, a parità di massa, variando la propria estensione spaziale,  così una stella (o altro) aumenta la velocità di rotazione al diminuire della dimensione. Nel caso di Betelgeuse sembra che sia avvenuto l'opposto data la sua velocità di rotazione di circa 5,5 km/secondo contro i 2 km/sec del molto più piccolo Sole.
Il momento angolare di un sistema deve rimanere costante … sempre che ovviamente non intervengano forze esterne a mutarlo.
Potete approfondire il tema con un esercizio centrato sulla rotazione delle nane bianche --> chimica online 
Se una stella diminuisce di raggio ma non cambia di massa (come è il caso di una stella che si espande perché è variata la fase di nucleosintesi) dovrebbe automaticamente diminuire la velocità di rotazione.
Nota. nel caso di una stella di neutroni la elevata velocità iniziale, tipica di una stella di dimensioni ridotte (ricordo che alla densità tipica di queste stelle, una stella di massa solare occuperebbe lo spazio dell'isola di Manhattan), tende con il tempo a diminuire a causa del raffreddamento e della trasformazione della materia che acquisisce caratteristiche di superfluido (bassa viscosità e attrito)
Luminosità variabile. Secondo alcuni queste variazioni sono l'indicazione esterna che qualcosa sta avvenendo "dentro" la stella e che sono prodromiche dell'esaurimento del combustibile nucleare, quindi preannunciano la supernova. Vi rimando a fine articolo per dati appena pubblicati che spiega la diminuita luminosità con la presenza di macchie sulla superficie stellare.
Video di inizio febbraio 2020 che confermava la sospetta variazione di luminosità di Betelgeuse

Concentriamoci per il momento sulla anomala velocità di rotazione
Dall'analisi di queste tre caratteristiche gli autori dell'articolo arrivano ad ipotizzare uno scenario in cui l'alta velocità di rotazione sia la somma della sua velocità di crociera causata dall'espulsione più una ulteriore "accelerata" causata da un evento di fusione stellare.
In parole semplici, la stella "espulsa" doveva essere inizialmente un sistema binario successivamente fusosi in una unica entità stellare, la Betelgeuse attuale. Un evento quello della fusione che non può essere avvenuto troppo in là nel tempo (siamo nell'ordine di alcuni milioni di anni) visto che permane una alta velocità angolare.
Tre le ragioni che hanno portato a questa ipotesi:
  • la rotazione aggiuntiva impressa alla stella dopo l'espulsione dalla "culla stellare" non bastava a spiegare la velocità angolare attuale. Betelgeuse ruota più velocemente di quanto dovrebbe.
  • I dati accumulati nel tempo sulle stelle massicce indicano che il 60% di queste sono parte di un sistema stellare binario
  • Un numero non irrilevante di queste stelle ha una elevata velocità di rotazione. Le osservazioni fatte con il telescopio satellitare Keplero indicano l'esistenza di stelle giganti con una velocità di rotazione 18 volte quelle solari, con punte che arrivano all'incredibile valore (per le dimensioni sottese) di 450 km/s. 
Se a questo aggiungiamo che molte stelle massicce in tali sistemi binari mostrano interazioni con un terzo corpo stellare, la possibilità che le loro velocità "eccessive" siano frutto di una fusione stellare diventa ragionevole.
Probabilmente qualche milione di anni fa, Betelgeuse e il suo compagno binario furono espulsi per qualche ragione dalla Orion OB1 Association. La stella primaria doveva avere circa 16 Ms, quella secondaria circa 2-3 Ms.
Mentre la stella più grande lasciava la sequenza principale ed evolveva nella fase supergigante rossa, la sua espansione volumetrica la portò a raggiungere 200-300 raggi solari con il risultato di inglobare la stella compagna più piccola. La velocità teorica della nuova stella, ottenuta da questo evento (incremento di massa), è compatibile con l'attuale rotazione di Betelgeuse.
Gli autori forniscono calcoli interessanti anche sulla rapidità dell'evento che fece "precipitare" in una spirale "mortale" la stella secondaria dentro quella maggiore. Sarebbero state sufficienti meno di 175 orbite per il contatto e meno di 5 giorni perché le forze mareali del nucleo di elio della stella primaria distruggero e inglobassero la stella secondaria.
Una conferma indiretta viene dalla quantità di azoto insolitamente alta presente nell'atmosfera di Betelgeuse. Secondo i ricercatori, anche questo può essere spiegato dalla fusione: mentre la stella compagna veniva consumata, gli atomi di azoto presenti nel nucleo della stella maggiore venivano spostati verso l'esterno.
Due fotogrammi da una delle simulazioni presentate nell'articolo. L'immagine a sinistra mostra la configurazione originale del sistema stellare binario a massa diseguale; l'immagine a destra mostra la disgregazione della seconda ad opera delle onde mareali della prima. [credit: Chatzopoulos et al. 2020 via aasnova.org]

A conclusione dell'articolo gli autori scrivono che le fusioni stellari sono "una caratteristica prevalente nell'Universo e che rappresentano un modo coerente per spiegare la formazione di stelle giganti e supergiganti ad alta velocità di rotazione ...".
Non escludono tuttavia una spiegazione alternativa del fenomeno, di cui però mancano conferme: Betelgeuse era si parte di un sistema binario ma in seguito all'esplosione come supernova del suo "partner" venne sbalzata verso la direzione attuale mantenendo parte dell'energia "di spinta" sotto forma di rotazione.

Fonte
Is Betelgeuse the Outcome of a Past Merger?
E. Chatzopoulos et al (11 maggio 2020 arXiv.org)


*** 
E' di pochi giorni fa un articolo che spiega in modo soddisfacente l'origine del repentino calo di luminosità di Betelgeuse.
A formulare la spiegazione un team del Max Planck Institute for Astronomy che indica nella comparsa di macchie stellari la causa prima di questo calo.
Quello che aveva stupito all'inizio gli osservatori non era tanto la variazione di luminosità, comune nelle giganti rosse, ma la sua entità, circa il 40%, rilevata nell'ultimo anno a partire da ottobre 2019.
Credit: ESO / M. Montargès et al. via phys.org
Per comprendere il fenomeno gli astronomi hanno sviluppato diversi scenari, dalla presenza di polvere interstellare fino all'imminenza di una supernova. L'ipotesi ora formulata è che le variazioni di temperatura nella fotosfera (la superficie luminosa della stella) sono la causa del calo di luminosità; nello specifico la causa va cercata nella presenza di macchie "fredde" che coprono il 50-70% della superficie.
Come scritto in precedenza queste stelle sono soggette a pulsazioni, un periodico alternarsi di contrazione ed espansione, attribuibile all'esaurimento del carburante nucleare.
Ricordiamoci che la fase di gigante rossa è la fase espansa di una stella originariamente più piccola ma con massa sostanzialmente identica. Per tale ragione l'attrazione gravitazionale sugli strati più esterni sarà minore di quella presente nella stella primigenia. A cascata ne deriva che tali strati saranno più facilmente persi nello spazio durante le periodiche oscillazioni della attività stellare.
Per ragioni analoghe ragione la gigante rossa collassata a stella di neutroni eserciterà una attrazione gravitazionale enormemente maggiore sulla superficie e nelle immediate vicinanze.
Le pulsazioni sommate alla minore forza gravitazionale superficiale rendono relativamente facile l'espulsione degli strati esterni. Il gas così rilasciato si raffredderà generando composti che gli astronomi chiamano polvere. Questa nozione aveva reso quasi ovvio attribuire alla polvere interstellare la causa prima della riduzione di luminosità.
Nota. Questo è il motivo per cui le giganti rosse sono, insieme alle supernova, la principale fonte degli elementi pesanti nell'Universo, alla base dell'esistenza stessa dei pianeti e, infine, degli organismi viventi
Per verificare tale ipotesi i ricercatori si sono avvalsi di particolari telescopi per quantificare la radiazione nella gamma spettrale delle onde submillimetriche (radiazione terahertz), una radiazione mille volte maggiore di quella della luce visibile ma invisibile all'occhio umano.
Il metodo è particolarmente adatto alla rilevazione della polvere interstellare perché (specie alla basse temperature dello spazio) emette luminosità proprio a queste lunghezze d'onda, una volta irradiata dalla stella "alle sue spalle"
Il risultato sorprese non poco i ricercatori. Betelgeuse appariva il 20% più scuro del previsto anche nella gamma delle onde submillimetriche. L'ipotesi che vedeva la polvere come causa dovette quindi essere accantonata.
La variazione di luminosità doveva quindi essere cercata in una variazione radiante della stella stessa.
La fisica ci insegna che la luminosità di una stella dipende dal suo diametro e soprattutto dalla sua temperatura superficiale.
  • Se diminuisce solo la dimensione della stella, la luminosità DEVE diminuire in modo uniforme su tutte le lunghezze d'onda. 
  • Al contrario se la causa sono cambiamenti di temperatura, l'effetto sulla radiazione luminosa sarà diverso a seconda della lunghezza d'onda misurata.
Sa riduzione luminosa altera in modo diverso la luce visibile e le onde submillimetriche, la conclusione sarà che la causa deve essere riduzione della temperatura superficiale media di Betelgeuse.
Il risultato conferma questa supposizione. A questo punto due possibilità:
  •  La causa potrebbe essere attribuita al calo di 200K su tutta la superficie
  • oppure di 400K solo nelle aree delle macchie, dato che queste coprono il 50-70% della stella. Questa sembra essere l'ipotesi che le osservazioni avvalorano.
Poco si conosce circa i cicli delle macchie in questi astri, a differenza della enorme mole di informazioni disponibili sulle macchie solari.

Le osservazioni nei prossimi anni ci daranno maggiori informazioni sulla correlazione tra le macchie e le oscillazioni luminose di Betelgeuse.

Un ulteriore aggiornamento sul fenomeno che ha interessato Betelgeuse lo trovate su "Betelgeuse perde i pezzi".

Articolo successivo su fenomeni simili nelle stelle massicce --> "Non c'è solo Betelgeuse"

Fonte
-Betelgeuse Fainter in the Submillimeter Too: An Analysis of JCMT and APEX Monitoring during the Recent Optical Minimum
Thavisha E. Dharmawardena et al. (2020) The Astrophysical Journa







Covid-19. Algoritmo predittivo dei pazienti a rischio peggiormanento

Siamo ben lontani dall'avere superato l'emergenza covid19 e il periodo di quiete che stiamo vivendo ora è solo frutto delle condizioni meteo non particolarmente adatte a questo tipo di virus. In attesa che arrivino i risultati degli studi campione sulla sieropositività della popolazione nelle regioni colpite, vale la pena quindi seguire gli studi miranti a massimizzare l'efficacia del triage verso le ICU, utili qualora dovessimo affrontare di nuovo la crisi dei mesi passati.
Detto per inciso il test sierologico dovrebbe essere esteso a tutti i prelievi di sangue fatti per altri motivi e in generale a tutti coloro che hanno lavorato durante la quarantena anche in ambiti non ospedalieri. Il dato certo è che solo ieri sono risultati positivi al tampone poco meno di 300 persone; sebbene il titolo virale sia basso (minimo rischio contagio) e i soggetti asintomatici si tratta di un chiaro segnale dell'esistenza di serbatoi del virus che oggi sono contenuti solo dalle condizioni climatiche non favorevoli a questo virus (fortunatamente diverso dall'agente causale della MERS). Una panoramica dei focolai in giro per l'Europa la trovate --> QUI.
Uno studio interessante a tal proposito viene dalla università di Yale (citata su queste pagine qualche settimana fa) al momento disponibile sul sito MedRxiv in attesa che venga completata la peer review.
Oggetto dello studio, lo sviluppo di uno strumento diagnostico predittivo che permetta, usando una serie di parametri clinici, di identificare tra le persone sintomatiche che si presentano al pronto soccorso, quelli che hanno maggiore probabilità di subire un repentino aggravamento delle condizioni di salute.
Articoli tematici curati dalla università di Yale --> qui

Un tratto distintivo di COVID-19 è l'imprevedibilità del decorso della malattia una volta sviluppati sintomi che superino la soglia di "malessere stagionale". Un fatto questo ben noto agli operatori sanitari che hanno notato in un numero non secondario di persone il non prevedibile aggravamento delle condizioni circa 24h dopo il ricovero.
Il conseguente trasferimento dei pazienti ai reparti di terapia intensiva si accompagna a diverse criticità. Dal lato gestionale espone gli operatori a rischi supplementari di esposizione al virus e ad una non facile gestione dei posti letto disponibili che, come abbiamo visto nei mesi passati, porta ad una rapida saturazione delle ICU. Dal lato paziente l'entrata nei reparti di terapia intensiva si associa ad un aumento del rischio di complicazioni legato alla particolarità dei trattamenti e della immobilità forzata a cui sono esposti.
Prevedere in anticipo chi potrebbe aggravarsi avrebbe un duplice vantaggio: pianificazione espansione posti necessari; intervento rapido che potrebbe impedire l'aggravamento e con esso il trasferimento ai reparti ICU.

Lo strumento sviluppato, chiamato indice di gravità COVID-19, permette di valutare il rischio individuale con il semplice inserimento da parte degli operatori di tre parametri base rilevati al momento del ricovero: frequenza respiratoria, livello di saturazione ossigeno e quantità di ossigeno supplementare somministrato mediante cannula nasale.

Per sviluppare l'algoritmo diagnostico, i ricercatori hanno utilizzato i dati di 1000 adulti positivi al COVID-19 trattati dal 1 marzo al 22 aprile in nove reparti di emergenza nell'area afferente a Yale-New Haven.
Sono stati esclusi dal campione coloro che le cui condizioni si sono rivelate critiche entro le prime 4 ore dal ricovero. Tra i soggetti del campione "approvato" il numero di pazienti che ha manifestato un peggioramento critico della funzionalità respiratoria è di circa il 12%. E' sulla distinzione intrinseca tra questi individui e il resto del campione che si è focalizzata la domanda dello studio: tra i parametri raccolti durante l'anamnesi ve ne sono di utili per prevedere il decorso?
L'ampia mole di dati raccolta (dai dati demografici a quelli clinici) è stata sottoposta a vari metodi di apprendimento automatico che ha permesso di identificarne i tre principali di cui sopra.

I medici stanno pianificando uno studio multi-ospedaliero per convalidare ulteriormente l'indice ed è per questo che l'hanno reso disponibile online (l'algoritmo si trova su covidseverityindex.org)


Fonte
- Development and validation of the COVID-19 severity index (CSI): a prognostic tool for early respiratory decompensation
Adrian Haimovich et al (2020) medRxiv

Diagnosi precoce della depressione mediante PET

Un recente studio finlandese pubblicato sulla rivista Neuropsychopharmacology, rivela come particolari cambiamenti della attività cerebrale in soggetti con sintomatologia dubbia siano utili per una corretta diagnosi.

In termini neurobiologici la depressione e l'ansia sono alterazioni dell'umore asssociate a diminuita capacità di provare appagamento. Gli oppioidi endogeni svolgono un ruolo centrale nella regolazione delle sensazioni di dolore e piacere nel cervello, da cui l'ipotesi associativa tra alterazioni del sistema oppioide e i disturbi dell'umore.

La novità dello studio è che i sintomi associati alla depressione e all'ansia potrebbero essere validati attraverso una misurazione oggettiva di alcuni parametri cerebrali quando ancora i soggetti non sono clinicamente "malati". In particolare i ricercatori hanno rilevato che minore l'espressione dei recettori degli oppioidi cerebrali e maggiore il rischio e l'entità della sintomatologia depressiva e ansiogena sviluppabile.
Il livello di espressione di questi recettori è influenzato da diversi fattori, interni (genetici e fisiologici, legati alla produzione dei peptidi oppioidi endogeni) ed esterni (utilizzo o abuso di farmaci oppioidi).
Lo studio ha coinvolto 135 volontari a cui è stata iniettata una piccola dose di un tracciante capace di legarsi ai recettori di tipo Mu (MOR), i più diffusi e quelli che mediano la maggior parte degli effetti farmacologici degli analgesici oppiacei. . Il legame e il decadimento del segnale è stato quantificato mediante tomografia a emissione di positroni (PET). La presenza/insorgenza di sintomi depressivi e ansiosi è stata invece misurata mediante questionari e altri test.

Il punteggio BDI-II misura la depressione mentre STAI-X l'ansietà (credit: Lauri Nummenmaa et al)
I punteggi nell'intervallo subclinico, sia nel caso di ansia che di depressione, hanno mostrato una associazione negativa con la  presenza di MOR nelle aree corticali e subcorticali, in particolare nelle regioni di amigdala, ippocampo, striato ventrale e nelle cortecce orbitofrontali e cingolate.
Un risultato che conferma la correlazione tra il livello di MOR e i disturbi dell'umore e che si spera potrà essere utilizzato per una corretta e tempestiva diagnosi quando si è ancora nella fase sub-clinica.

Fonte
- Lowered endogenous mu-opioid receptor availability in subclinical depression and anxiety
Lauri Nummenmaa et al,  Neuropsychopharmacology  (2020 May 30)

Covid19. Le ultime dal campo: i farmaci anti-ipertensivi diminuiscono il rischio di complicazioni?

Uno studio condotto dalla univesità di Yale suggerisce che tra le persone anziane risultate positive al SARS-CoV-2, il tasso di ospedalizzazione (quindi gravità dei sintomi) era inferiore nei soggetti in tratttamento con farmaci anti-ipertensivi della classe ACE-inibitori.
Le persone anziane e con altre patologie sono quelle a rischio ma anche quelle che usano più farmaci. La domanda è se qualcuno di questi farmaci abbia "involontariamente" protetto questi soggetti da un decorso più grave
Come noto il virus utilizza come "porta" di ingresso il recettore ACE2, presente nelle pareti arteriose, cardiache, renali e intestinali, ma particolarmente abbondante nelle cellule alveolari dell'epitelio polmonare. 
Nota. I  livelli di ACE2 aumentano in chi fuma (ma non pare persistere in chi ha smesso) e in chi soffre di COPD, un dato che indica la loro maggiore suscettibilità all'infezione.
Il recettore ACE non pare invece essere riconosciuto dal virus ma è esso stesso il bersaglio dell'attività di ACE2 che controbilancia l'azione vasocostrittrice tipica di ACE.
Image credit: The Conversation (CC BY-SA)
Tale funzionalità di ACE spiega il razionale dell'utilizzo di farmaci ACE-inibitori nel trattamento della ipertensione (per dettagli sul meccanismo d azione di tali farmaci vi rimando al --> sistema renina-angiotensina).
Per precisione due sono le classi di farmaci che agiscono su questo sistema: molecole che bloccano il recettore della angiotensina (ARB, angiotensin receptor blockers, agenti sui recettori AGTR-1 e -2) e molecole che agiscono sul ACE (angiotensin-converting enzyme, che catalizza la formazione di angiotensina 2, l'effettore della vasocostrizione). I primi sono in genere preferiti perché con meno effetti collaterali.
Image credit: The Conversation (CC BY-SA)
Farmaci che agiscono su un sistema "hackerato" dal coronavirus hanno da subito sollevato l'interesse dei ricercatori. L'idea di partenza era capire se qualcuno dei farmaci già in uso e ampiamente diffuso nella popolazione fosse associato ad una variazione (in positivo o negativo) del rischio di ammalarsi di covid-19.
Proprio il lavoro condotto da un team di ricercatori di Yale che hanno incrociato i dati tra le prescrizioni di questi farmaci e il tasso di ricovero per sintomatologie acute da coronavirus.
Lo studio, preliminare in quanto ancora non sottoposto a peer-review, è stato pubblicato sul sito medRxiv in attesa di passare al vaglio di riviste specializzate del settore.

In breve questi i dati.
Lo studio retrospettivo ha riguardato circa 10 mila pazienti affetti da ipertensione (con almeno una prescrizione per farmaci ARB o ACE) risultati positivi al SARS-CoV-2.
Dal confronto tra tasso di ospedalizzazione e trattamenti in essere, i ricercatori hanno notato che chi usava gli ACE-inibitori aveva un tasso di ricovero inferiore del 40% rispetto ai non trattati o a chi usava farmaci di classe diversa.
  • L'effetto protettivo non è generale ma si riferisce SOLO ai pazienti anziani".
  • Nessuna "protezione" aggiuntiva appare associata all'uso di ARB.
  • In nessun caso le due tipologie di farmaci alterano il tasso di mortalità tra gli individui ospedalizzati.
In conclusione sembra che l'azione protettiva agisca sulla "riduzione" del rischio ospedalizzazione per le persone anziane che già assumono ACE-inibitori, e NON nel decorso della malattia nei casi più gravi.

Il dato è interessante non per lo sviluppo di terapie preventive (devi essere già sotto trattamento ed essere anziano perché l'effetto emerga) ma come strumento di stratificazione del rischio nella popolazione.
Se confermato in studi su larga scale, potrebbe incentivare lo studio dei meccanismi d'azione che spiegano tale effetto protettivo in modo che possa essere esteso anche a soggetti con patologie diverse da quella ipertensiva.

Fonte
- Association of Angiotensin-Converting Enzyme Inhibitors and Angiotensin Receptor Blockers with the Risk of Hospitalization and Death in Hypertensive Patients with Coronavirus Disease-19
Rohan Khera et al, posted on medrxiv May 19, 2020





Covid19. Le ultime dal campo: diagnostica

Negli ospedali londinesi è sempre più utilizzato un nuovo kit per la rilevazione della positività al SARS-CoV-2.
La ragione è semplice: affidabile; veloce e utilizzabile senza bisogno di un laboratorio attrezzato.
La cartuccia viene inserita in un dispositivo portatile e a quel punto bisogna solo aspettare il risultato. Video del test e intervista all'ideatore disponibile --> cgtn.com (credit: dnanudge.com)

Il kit diagnostico è stato sviluppato dalla DnaNudge, uno spin-out dell'Imperial College di Londra, grazie al lavoro del team di Chris Toumazou.

Il test si basa sulla tecnica della RT-PCR ed è pensato per essere ready-to-go: inserisci il campione nella cartuccia tester e aspetti il risultato. I punti di forza e che fanno la differenza sono:
  • risultato disponibile in 1 ora contro 1-2 giorni attuali;
  • sensibilità del 98% e specificità del 100%;
  • l'esecuzione del test non necessita di un laboratorio pur assicurando una precisione da test diagnostico;
  • non richiede pre-processamento o manipolazione del campione dato che questo viene inserito tal quale nel dispositivo. Caratteristica questa fondamentale perché minimizza al massimo il rischio per l'operatore.
  • Infine ha una caratteristica unica nel suo genere. Possiede una  funzione di controllo che indica l'affidabilità del tampone usato e se sia necessario eseguire un nuovo test.
Il punto di svolta è venuto a fine aprile con l'approvazione da parte della MHRA (Medicines and Healthcare Products Regulatory Agency, l'agenzia britannica preposta al controllo di farmaci e dispositivi medicali). Semaforo verde ottenuto dopo aver superato con successo i test clinici di affidabilità.

Le prime prove sul campo sono iniziate a marzo con circa 10 mila "cartucce" (al cui interno è come se ci fosse un mini laboratorio diagnostico) a cui ne sono seguite altre 70 mila dopo l'intervento del governo.

Il principale campo di applicazione di questi test veloci sono quelli della medicina d'urgenza e nei casi in cui avere risposte rapide è essenziale: pronto soccorso; ostetricia; reparti di oncologia e di terapia intensiva.
Il prodotto è un esempio di veloce adattamento di competenze già acquisite nel campo reindirizzate a nuove "domande". Si è trattato infatti di un adattamento del servizio di test del DNA che la DnaNudge aveva reso disponibile ai consumatori già lo scorso anno.
Chiaramente al momento del lancio le finalità del test erano diverse, centrate sulla nutrigenomica; in parole semplici la creazione e l'analisi del profilo genetico degli utenti per evidenziare le loro caratteristiche metaboliche e sviluppare piani alimentari ottimali per ciascuno. Il test, eseguito una tantum permetteva ai clienti mediante una app montata sul proprio smartphone/smartband di scansionare i codici a barre dei prodotti nella maggior parte dei principali supermercati del Regno Unito e scoprire se il tale prodotto alimentare era adeguato a quel dato profilo genetico.
Fonte
- Lab-free COVID-19 test trialled in London hospitals
Imperial College London / news




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