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Schizofrenia. Mutazioni de novo durante l'embriogenesi

La schizofrenia è un importante disturbo psichiatrico che si manifesta all'inizio dell'età adulta e interessa una persona ogni 300. I sintomi comprendono deliri, allucinazioni, ritiro sociale e un progressivo deterioramento della capacità di prendere decisioni, di provare piacere, mantenere o stabilire affetti.
Le cause esatte della schizofrenia sono piuttosto incerte in quanto hanno una componente genetica ma anche fattori ambientali diversi tra loro, che vanno da traumi infantili o al momento del parto fino a infezioni virali e l'uso (non necessariamente abuso) di sostanze psicoattive ((cannabis, cocaina, LSD, anfetamine).
Non è invero chiaro se sia l'uso di droghe a causare i sintomi nelle persone a rischio o se siano le persone suscettibili alla schizofrenia più a rischio di far uso di droghe.
Alcune persone con predisposizione alla malattia possono manifestare l'evento psicotico anche in seguito ad un singolo episodio emotivamente intenso o se sottoposti a stress quotidiani sopportati senza problemi da individui "normali". Stessa variabilità si manifesta tra individui predisposti, per cui solo alcuni di loro manifesteranno i sintomi.

Fattori terzi
Tra le cause terze (oltre a quelle citate in apertura) non molto comprese, diversi studi hanno evidenziato come le persone affette da schizofrenia avessero una maggiore incidenza di complicazioni prima o subito dopo la nascita come peso inferiore alla norma, parto prematuro, eventi di asfissia durante il parto, ... a suggerire il loro coinvolgimento nella genesi di (sottili) alterazioni cerebrali.

Genetica
La schizofrenia tende ad avere caratteristiche di familiarità sebbene, ad oggi, non sia stato possibile identificare un singolo gene (o gruppo ristretto di geni) responsabile.
Studi su persone affette da schizofrenia hanno evidenziato la presenza di sottili differenze strutturali rispetto ai normali. Questi cambiamenti non sono in verità presenti in tutti i malati e possono anche essere presenti in persone asintomatiche.
Si ritiene che le persone affette da schizofrenia abbiano anomalie nel livello di alcuni neurotrasmettitori cerebrali. A riprova della loro centralità l'azione lenitiva dei sintomi (o del loro esordio) fornita da farmaci che riducono i livelli di neurotrasmettitori, come la dopamina.
L'evidenza di una componente genetica e familiare viene da studi osservazionali sui gemelli. Nel caso di gemelli omozigoti se uno dei due è affetto, l'altro ha il 50% di possibilità di sviluppare i sintomi anche nel caso in cui siano cresciuti in ambienti diversi. Al contrario nei gemelli non identici la possibilità che l'altro fratello sviluppi la malattia è di 1 su 8, valore in ogni caso maggiore rispetto alla frequenza nella popolazione generale dove la probabilità è di 1 su 100: la componente genetica è importante ma non è l'unico fattore in gioco.
Probabile invece che sia la combinazione di più varianti in diversi geni a rendere le persone a rischio. A rischio non vuol dire (come invece nel caso di mutazioni nei geni BRCA) la certezza di malattia proprio perché esistono dei "trigger" (inneschi) ancora poco compresi.
Nel 2014 lo Schizophrenia Working Group pubblicò i risultati di uno studio di tipo GWAS (associazione genome-wide) basato sull'analisi di 37 mila pazienti e 113 mila controlli, con l'identificazione di 108 loci genici in cui sussisteva una associazione statisticamente significativa con la presenza della malattia.
Si trattava però di associazioni riferite ad un numero di pazienti abbastanza basso (il 4% del totale) ad indicare la complessità sottostante del fenomeno (in quanto sia a varianti geniche ignote che ad eventi ambientali), fatto questo che minava anche le potenzialità diagnostiche. Dati in ogni caso nettamente migliori rispetto a quelli ottenuti dallo studio di altre patologie neuro-psicologiche (ad esempio il disturbo depressivo maggiore su cui una mega-analisi del 2013 fallì nell'identificare varianti geniche associate al rischio malattia.
A complicare il quadro il coinvolgimento di questi stessi geni in altre patologie neurologiche, come l'ADHD e l'autismo, e la presenza delle stesse varianti anche nel gruppo di controllo.
Ad esempio una delle varianti geniche identificate (pur se con statistica affidabile) era presente nell'86,4% dei pazienti e nell'85% del gruppo di controllo. 
Ciò significa che tutti noi portiamo varianti di rischio di schizofrenia anche se non siamo a rischio malattia sia perché devono (verosimilmente esserci nello stesso individuo molteplici varianti di n geni che l'esposizione ad eventi induttori.

Ed eccoci infine arrivare allo studio pubblicato pochi giorni fa da un gruppo di Harvard sulla rivista Cell Genomic, in cui si riporta l'identificazione di un paio di variazioni genetiche sono associabili al rischio malattia in individui senza familiarità per la malattia.
La particolarità della scoperta è che si tratta di mutazioni somatiche (non trasmesse per via germinale e apparse durante le prime fasi dell'embriogenesi) identificate dall’analisi genetica su campioni di sangue (13 mila adulti affetti da schizofrenia e 12 mila controlli).
Anche in questo caso un (basso) numero di pazienti (ma nessun controllo) si è rivelato essere portatore di mutazioni nelle cellule ematiche. I geni coinvolti ABCB11 e NRXN1.
Nota. La non origine germinale della mutazione si evince dalla assenza della stessa in altre cellule, correlate o meno, dello stesso individuo. In questo particolare caso le mutazioni di NRXN1 sono state trovate in una percentuale di cellule ematiche compresa tra il 14 e il 43%. Tale valore indica che la mutazione deve essere avvenuta nei primi giorni di sviluppo dell'embrione quando si stavano formando i precursori (staminali) che avrebbero poi, oltre ovviamente alle cellule coinvolte nel cablaggio neurale, il sistema emopoietico,
Il gene NRXN1 codifica per una proteina che regola il numero e la densità di connessioni tra neuroni ed è quindi importante per l'apprendimento (ecco perché altre cellule, come quelle ematiche, pur essendo portatrici della mutazione non mostrano alterazioni funzionali). La mutazione identificata è funzionalmente distruttiva.

A carico del gene ABCB11 sono state trovate mutazioni nel 18-27% delle cellule del sangue di sei partecipanti con schizofrenia, che avevano la peculiarità di appartenere ad un sottogruppo di pazienti non responsivi al trattamento con il farmaco clozapina.
Il gene ABCB11 codifica per una proteina che facilita il trasferimento di sali digestivi al fegato. La proteina è però prodotta anche nei neuroni che producono dopamina, che sono uno dei bersagli principali dei farmaci contro la schizofrenia. La mutazione (distruttiva) in questo gene potrebbe, in un modo ancora poco compreso, rendere queste cellule insensibili al trattamento. Un dato, se confermato, che potrebbe aprire la strada per farmaci alternativi per soggetti noti per essere portatori di questa mutazione.

Data la complessità della malattia ogni finestra informativa che si apre, rappresenta una possibilità di intervento aggiuntivo e molto più mirato.

Fonti
Schizophrenia-associated somatic copy-number variants from 12,834 cases reveal recurrent NRXN1 and ABCB11 disruptions.
Eduardo A. Maury et al. (2023) Cell Genomics

- Specific genes involved in schizophrenia identified for the first time
UCL / news (2022)

Schizophrenia’s strongest known genetic risk deconstructed
NIH /news (2016)


***



Anche l'esercito in guerra contro i vampiri volanti

 L’università della Florida difende i soldati dalle zanzare.

Nell’ambito di un progetto finanziato dal programma Deployed Warfighter Protection del dipartimento della Difesa, i ricercatori hanno lavorato ad un sistema di protezione che non richieda calore o elettricità o l’essere applicato sulla pelle. 
Tra i rischi del mestiere di soldato c’è anche l’operare in ambienti ricchi di insidie volanti o acquatiche. Le zanzare sono il miglior esempio di organismi universalmente detestati contro i quali si provano da anni rimedi che vanno da quello tramandato dalla nonna a braccialetti con (improbabili) funzioni di amuleto. Quando questi rimedi devono essere usati dai soldati è evidente che devono essere privi di effluvi che li rendano individuabili.
Il nuovo dispositivo sperimentale, che un giorno magari sarà presente anche nelle tasche dei civili, è a forma di tubo e lungo circa 2,5 cm. Contiene due tubi più piccoli riempiti di un insetticida potente ma sicuro per chi non è una zanzara, la transflutrina.
Credit: University of Florida
I test sono consistiti nell’installare 70 di questi dispositivi all'interno di un grande accampamento militare, seguiti dall'immissione nell’area diverse specie di zanzare allevate allo scopo. I risultati sembrano positivi nel senso che entro 24 ore dall’inizio i vampiri volanti sono stati respinti o annientati e la protezione è durata per 1 mese. 
Vantaggio principale l’avere eliminato la necessità di spruzzare l’insetticida nell’area contaminando così le piante circostanti e, a cascata, gli impollinatori e altri insetti. 

Fonte
Small, convenient mosquito repellent device passes test to protect military personnel


Di seguito due articoli pubblicati precedentemente sul tema "lotta ai vampiri volanti". Li ripropongono tali e quali per comodità di lettura

***

Le zanzare ti troveranno. Sempre.
 Le basi neurologiche della loro efficienza 
Tempo fa avevo affrontato il tema delle basi scientifiche (spesso assenti) di alcuni rimedi antizanzara, palesando la difficoltà intrinseca nel difendersi da questi vampiri volanti (l'articolo è riportato in calce al presente).
Oggi torniamo sul tema per grazie ad un articolo pubblicato poche settimane fa sulla rivista Cell, centrato sulla neurofisiologia del sistema di rilevamento umano delle zanzare. 

Quando le zanzare femmina cercano un essere umano da usare come autogrill, si basano sulla rilevazione di un cocktail unico di odori corporei che noi diffondiamo. Le molecole "odorifere" stimolano i recettori  presenti nell'antenna delle zanzare attivando a cascata il segnale che dirotta la sanguisuga volante verso il bersaglio.
Modalità d'azione dei repellenti per insetti. (A) Artropodi come le zanzare usano segnali chimici (in verde) per trovare un ospite e nutrirsi. I repellenti topici (in rosso) agiscono a distanza ravvicinata o al contatto interrompendo il comportamento di attrazione. I repellenti spaziali esibiscono il loro effetto a distanze molto maggiori. (B) Alcuni repellenti come il DEET (N,N-diethylmeta-toluamide) interagiscono con più gruppi di recettori sensoriali (recettore dell'odore, OR; recettore gustativo, GR e recettore ionotropico, IR) distribuiti su varie appendici di artropodi. È possibile che i futuri repellenti per insetti saranno disegnati per interagire con altre famiglie di recettori 
(image credit: Jonathan D Bohbot)

Gli autori dell'articolo hanno provato ad eliminare i recettori preposti a specifiche (e note per fungere da segnale) molecole allo scopo di verificare se tali modificazioni rendessero gli umani invisibile alla zanzara. Il risultato ha evidenziato una importante differenza rispetto ai nostri neuroni olfattivi; mentre la maggior parte degli animali ha neuroni olfattivi mono-funzione (i neuroni esprimono un solo tipo di recettore e la capacità di percepire molti odori è legata alla varietà neuronale) quelli delle zanzare sono ad ampio spettro.
Nello specifico pur avendo eliminato il recettore per la molecola (tipicamente umana) 1-otten-3-olo, questi recettori rimanevano capaci di riconoscere altri segnali "umani" (di tipo amminico) attivando la zanzara verso il bersaglio.
L'evoluzione ha dotato questi animali di sistemi ridondanti nel loro sistema olfattivo che ne assicurano la funzionalità.

Qualsiasi tentativo di sviluppare repellenti (ad esempio molecole in grado di bloccare i loro recettori "umani") deve fare i conti con questa ridondanza funzionale

Sistemi simili (pluri-recettori) sono presenti in altri insetti come i moscerini della frutta.

(a) Aedes aegypti e Toxorhynchites sono evolutivamente separati da 40 milioni di anni . Entrambi gli insetti possono utilizzare l'octenolo in contesti diversi e sovrapposti. La zanzara propriamente detta ha sviluppato la capacità di rilevare gli umani (credit: Nature)


Fonte
- Non-canonical odor coding in the mosquito
Margaret Herre et al, Cell, 2022; 185 (17): 3104


***

Alimenti come repellenti per zanzare? Solo fumo
(29/4/18)

Con l'arrivo della bella stagione iniziano le visite di ospiti volanti indesiderati: le zanzare.
Sia che si stia facendo un giro in bici prima del crepuscolo che si opti per il leggere un libro nella penombra dell'appartamento, arriverà il fastidioso ronzio a cui seguirà la comparsa di bitorzoli sulla cute. 
Credit: University of Sidney
E' innegabile che alcune persone siano più a rischio di altre come bersaglio e questo ha dato adito a modi di dire come "il tuo odore non piace" o "hai il sangue non di loro gradimento". In tutto c'è un fondo di verità come ben sanno coloro che durante l'assunzione dei farmaci si trovano improvvisamente risparmiati (o bersagliati  in altri casi) da queste sanguisughe volanti.
Prima dell'avvento dei repellenti chimici ad uso topico (alcuni dei quali molto efficaci se usati correttamente, vedi l'Autan Xtreme da me usato in Vietnam) si faceva affidamento o a rimedi della nonna (erbe e unguenti) o a consuetudini alimentari ancora oggi suggerite dal conoscente di turno, capaci di rendere il nostro odore sgradito alle preferenze culinarie della zanzara.
Certamente l'idea di sfuggire al vampiro ronzante solo mangiando l'equivalente dell'aglio per i vampiri ha un che di affascinante e molti sono pronti a giurare che nel loro caso tale approccio funzioni.
Per chi fosse nemico di ogni trattamento repellente sulla pelle, sia esso spray o unguento, sembrerebbe esserci solo l'imbarazzo della scelta (condizionale d'obbligo perché l'efficacia reale è meno che opinabile). Basta fare un giro sulla rete per trovare braccialetti antizanzara, fumigatori e dispositivi ad ultrasuoni, fissi o portatili, che promettono meraviglie; se fate un giro sullo store di Android troverete perfino delle app che promettono di trasformare il vostro smartphone in un emettitore di onde capaci di fare fuggire gli insetti (--> The Indipendent). Gli unici efficaci sono i fumigatori.
I ricercatori australiani dell'università di Sidney hanno cercato di capire quanto ci fosse di vero nella capacità di alcuni alimenti di tenere lontane le zanzare. Cominciamo da un dato di fatto cioè che più che una dieta particolare ad essere determinanti sono i nostri genitori, cioè il background genetico; è innegabile che alcune persone sono, a parità di altre variabili ambientali e culinarie, nettamente più a rischio di altre di essere punte.
Fatta tale premessa, analizziamo alcuni cibi o bevande a cui è stata in passato attribuita una capacità protettiva.

Un gin & tonic al giorno toglie la zanzara di torno?
credit: NotFromUtrecht
C'è stato un tempo in cui questo ameno trattamento aveva una sua indubbia utilità specialmente per combattere le febbri malariche. Più che sul versante alcolico la sua azione era legata all'acqua tonica tra i cui ingredienti, in passato, figurava il chinino. Derivato dalla corteccia di un albero di china, il chinino ha ricevuto conferma scientifica della sua efficacia negli anni '60 dopo secoli di utilizzo (importato nel '600 in Europa dalle americhe da un gesuita). Sebbene sia stato oggi soppiantato dalla clorochina come trattamento di prima linea è tornato in auge dopo la comparsa di ceppi di plasmodio resistenti ad essa. 

È importante sottolineare che sebbene la "tonica" fosse tossica per il plasmodio veicolato dalla zanzara, non ci sono evidenze sulla sua capacità deterrente contro la zanzara stessa. Se a questo aggiungiamo il dato che nell'acqua tonica oggi in commercio la quantità di chinino è molto inferiore e sotto i livelli "terapeutici" possiamo ragionevolmente accantonare questa opzione.
Nota. Se volete monitorare la presenza di chinino nell'acqua tonica è sufficiente illuminare la bottiglia con una luce ultravioletta; se compare fluorescenza questa è dovuta al chinino, eccitato a quella particolare lunghezza d'onda.
Un apericena per la zanzara
Di sicuro l'alcol può diminuire la tua sensibilità alla puntura ma solo perché diminuisce la tua percezione della puntura e NON perché la zanzara rifugga l'alcol. Anzi probabilmente avviene proprio il contrario; studi condotti in Africa hanno dimostrato che bere birra rende le persone più a rischio di puntura rispetto ai controlli a cui era stata data da bere acqua.
La ragione non è chiara ma si è escluso che l'effetto sia correlato a variazioni anche minime di temperatura cutanea (l'alcol provoca vasodilatazione) o di anidride carbonica emessa. Qualcuno ha suggerito anche che la coevoluzione millenaria uomo-zanzara abbia favorito l'attrazione delle seconde verso le persone ubriache in quanto ... meno capaci di percepire la zanzara e quindi di ucciderla. Una ipotesi strampalata fino a un certo punto se si pesano debitamente le forze in gioco nell'evoluzione.

Banane
Uno degli alimenti che la vulgata associa all'aumentato rischio puntura è la banana. In realtà non è stata trovata alcuna conferma, anche solo indiretta, di tale nesso.

Aglio
Vero che noi equipariamo le zanzare a mini vampiri volanti ma a differenza del conte transilvano, le zanzare non sono così schifiltose da evitare i mangiatori di aglio. Vero che il nostro alito puzzerà un poco dopo un pasto a base di aglio, ma uno studio ha dimostrato che al più terremo lontani gli amici ma non le zanzare. Il che, a volte e con alcune persone, potrebbe essere una ottima idea.

Vitamina B
Tra i rimedi moderni più di moda vi è quello di assumere integratori o cibi ricchi di vitamina B. Rapporti aneddotici in tal senso abbondano ma le evidenze scientifiche sono meno che scarse. Già studi risalenti agli anni '40 non erano riusciti a fornire alcuna evidenza di protezione, un dato confermato più recentemente da uno studio del 2005 confrontando gruppi di volontari che avevano o meno assunto integratori a base di vitamina B. Questo non sembra turbare il marketing come evidenziato dall'abbondanza di "pillole anti zanzare" tra gli scaffali dei supermercati. 
I prodotti commercializzati come repellenti ad uso orale per insetti non hanno mai ricevuto alcun riconoscimento ufficiale da alcuna agenzia governativa, data la mancanza di prove convincenti a sostegno di tale effetto.

La realtà è che le zanzare sono vere intenditrici e che l'unica ragione per cui decidono di non usarci come banchetto self-service è la percezione di anomalie ematiche o di farmaci tali da farci uscire dal loro menù. Fino a quando non si scoprirà quale è il "driver" che ci rende bersagli preferiti rispetto ad altri l'unica salvezza sarà nell'utilizzare repellenti testati o, se uno preferisce le soluzioni non chimiche, fare come alcuni animali (ma anche alcuni indigeni che vivono in aree ad alto rischio) cioè cospargersi di terra e fango in modo da coprire il nostro aroma.
Pittoresco di sicuro, ma per il momento preferisco uno spray e magari un gin&tonic.

Fonte
-  What can I eat to stop mosquito bites?
The University of Sidney / news

***

Alimenti come repellenti per zanzare? Solo fumo

Con l'arrivo della bella stagione iniziano le visite di ospiti volanti indesiderati: le zanzare.
Sia che si stia facendo un giro in bici prima del crepuscolo che si opti per il leggere un libro nella penombra dell'appartamento, arriverà il fastidioso ronzio a cui seguirà la comparsa di bitorzoli sulla cute. 
Credit: University of Sidney
E' innegabile che alcune persone siano più a rischio di altre come bersaglio e questo ha dato adito a modi di dire come "il tuo odore non piace" o "hai il sangue non di loro gradimento". In tutto c'è un fondo di verità come ben sanno coloro che durante l'assunzione dei farmaci si trovano improvvisamente risparmiati (o bersagliati  in altri casi) da queste sanguisughe volanti.
Prima dell'avvento dei repellenti chimici ad uso topico (alcuni dei quali molto efficaci se usati correttamente, vedi l'Autan Xtreme da me usato in Vietnam) si faceva affidamento o a rimedi della nonna (erbe e unguenti) o a consuetudini alimentari ancora oggi suggerite dal conoscente di turno, capaci di rendere il nostro odore sgradito alle preferenze culinarie della zanzara.
Certamente l'idea di sfuggire al vampiro ronzante solo mangiando l'equivalente dell'aglio per i vampiri ha un che di affascinante e molti sono pronti a giurare che nel loro caso tale approccio funzioni.
Per chi fosse nemico di ogni trattamento repellente sulla pelle, sia esso spray o unguento, sembrerebbe esserci solo l'imbarazzo della scelta (condizionale d'obbligo perché l'efficacia reale è meno che opinabile). Basta fare un giro sulla rete per trovare braccialetti antizanzara, fumigatori e dispositivi ad ultrasuoni, fissi o portatili, che promettono meraviglie; se fate un giro sullo store di Android troverete perfino delle app che promettono di trasformare il vostro smartphone in un emettitore di onde capaci di fare fuggire gli insetti (--> The Indipendent). Gli unici efficaci sono i fumigatori.
I ricercatori australiani dell'università di Sidney hanno cercato di capire quanto ci fosse di vero nella capacità di alcuni alimenti di tenere lontane le zanzare. Cominciamo da un dato di fatto cioè che più che una dieta particolare ad essere determinanti sono i nostri genitori, cioè il background genetico; è innegabile che alcune persone sono, a parità di altre variabili ambientali e culinarie, nettamente più a rischio di altre di essere punte.
Fatta tale premessa, analizziamo alcuni cibi o bevande a cui è stata in passato attribuita una capacità protettiva.

Un gin & tonic al giorno toglie la zanzara di torno?
credit: NotFromUtrecht
C'è stato un tempo in cui questo ameno trattamento aveva una sua indubbia utilità specialmente per combattere le febbri malariche. Più che sul versante alcolico la sua azione era legata all'acqua tonica tra i cui ingredienti, in passato, figurava il chinino. Derivato dalla corteccia di un albero di china, il chinino ha ricevuto conferma scientifica della sua efficacia negli anni '60 dopo secoli di utilizzo (importato nel '600 in Europa dalle americhe da un gesuita). Sebbene sia stato oggi soppiantato dalla clorochina come trattamento di prima linea è tornato in auge dopo la comparsa di ceppi di plasmodio resistenti ad essa. 

È importante sottolineare che sebbene la "tonica" fosse tossica per il plasmodio veicolato dalla zanzara, non ci sono evidenze sulla sua capacità deterrente contro la zanzara stessa. Se a questo aggiungiamo il dato che nell'acqua tonica oggi in commercio la quantità di chinino è molto inferiore e sotto i livelli "terapeutici" possiamo ragionevolmente accantonare questa opzione.
Nota. Se volete monitorare la presenza di chinino nell'acqua tonica è sufficiente illuminare la bottiglia con una luce ultravioletta; se compare fluorescenza questa è dovuta al chinino, eccitato a quella particolare lunghezza d'onda.
Un apericena per la zanzara
Di sicuro l'alcol può diminuire la tua sensibilità alla puntura ma solo perché diminuisce la tua percezione della puntura e NON perché la zanzara rifugga l'alcol. Anzi probabilmente avviene proprio il contrario; studi condotti in Africa hanno dimostrato che bere birra rende le persone più a rischio di puntura rispetto ai controlli a cui era stata data da bere acqua.
La ragione non è chiara ma si è escluso che l'effetto sia correlato a variazioni anche minime di temperatura cutanea (l'alcol provoca vasodilatazione) o di anidride carbonica emessa. Qualcuno ha suggerito anche che la coevoluzione millenaria uomo-zanzara abbia favorito l'attrazione delle seconde verso le persone ubriache in quanto ... meno capaci di percepire la zanzara e quindi di ucciderla. Una ipotesi strampalata fino a un certo punto se si pesano debitamente le forze in gioco nell'evoluzione.

Banane
Uno degli alimenti che la vulgata associa all'aumentato rischio puntura è la banana. In realtà non è stata trovata alcuna conferma, anche solo indiretta, di tale nesso.

Aglio
Vero che noi equipariamo le zanzare a mini vampiri volanti ma a differenza del conte transilvano, le zanzare non sono così schifiltose da evitare i mangiatori di aglio. Vero che il nostro alito puzzerà un poco dopo un pasto a base di aglio, ma uno studio ha dimostrato che al più terremo lontani gli amici ma non le zanzare. Il che, a volte e con alcune persone, potrebbe essere una ottima idea.

Vitamina B
Tra i rimedi moderni più di moda vi è quello di assumere integratori o cibi ricchi di vitamina B. Rapporti aneddotici in tal senso abbondano ma le evidenze scientifiche sono meno che scarse. Già studi risalenti agli anni '40 non erano riusciti a fornire alcuna evidenza di protezione, un dato confermato più recentemente da uno studio del 2005 confrontando gruppi di volontari che avevano o meno assunto integratori a base di vitamina B. Questo non sembra turbare il marketing come evidenziato dall'abbondanza di "pillole anti zanzare" tra gli scaffali dei supermercati. 
I prodotti commercializzati come repellenti ad uso orale per insetti non hanno mai ricevuto alcun riconoscimento ufficiale da alcuna agenzia governativa, data la mancanza di prove convincenti a sostegno di tale effetto.

La realtà è che le zanzare sono vere intenditrici e che l'unica ragione per cui decidono di non usarci come banchetto self-service è la percezione di anomalie ematiche o di farmaci tali da farci uscire dal loro menù. Fino a quando non si scoprirà quale è il "driver" che ci rende bersagli preferiti rispetto ad altri l'unica salvezza sarà nell'utilizzare repellenti testati o, se uno preferisce le soluzioni non chimiche, fare come alcuni animali (ma anche alcuni indigeni che vivono in aree ad alto rischio) cioè cospargersi di terra e fango in modo da coprire il nostro aroma.
Pittoresco di sicuro, ma per il momento preferisco uno spray e magari un gin&tonic.


Fonte
-  What can I eat to stop mosquito bites?
The University of Sidney / news

Nuove variazioni luminosità di Betelgeuse

La stella rossa di Betelgeuse è una delle più luminose del nostro cielo.
Immagine di Betelgeuse ripresa da ALMA  (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array). 


Betelgeuse, la stella supergigante sita nella costellazione di Orione, aveva mostrato nel 2019 una riduzione di luminosità apparente che aveva fatto pensare all'imminenza della fine della sua (breve, come per tutte le stelle massicce) vita. 
Di questo fenomeno e della successiva attribuzione ad un offuscamento causato da un'enorme espulsione di materia stellare, ne scrissi a suo tempo, tema poi ripreso in un aggiornamento del 2022, articoli a cui rimando.
Per avere una idea delle sue dimensioni ecco un grafico preso dal sito ESO in cui si confronta Betelgeuse con il sistema solare.
image credit: eso.org

Ad aprile 2023 la sua luminosità era tornata al suo valore standard, per poi aumentare negli ultimi mesi a quasi il doppio. Una variabilità che fa parte del suo essere definita una stella variabile semiregolare pulsante, vale a dire con una certa periodicità nei suoi cambiamenti di luminosità, benché con ampiezze non costanti
Le variazioni di luminosità rilevate nell'ultimo secolo
Image credit:  Joyce et al. 2020 via bfcspace.com


Betelgeuse ha mostrato che la sua luminosità varia con un ciclo di 400 giorni, ma i suoi recenti cambiamenti di luminosità sono stati anormali e questo ha rinforzato l'idea che potrebbe diventare una supernova in prossimo futuro.
Per essere precisi, è certo che Betelgeuse darà luogo ad una supernova (per le sue caratteristiche di massa), il problema è quanto presto. Se fosse giunta nel suo stadio finale (vedi sotto) l'evento potrebbe avvenire in un intervallo (molto piccolo su scala stellare) di "un qualunque momento nelle prossime migliaia di anni"
Un recente articolo prodotto da un gruppo di ricerca dell'università giapponese di Tohoku ha rinforzato l'idea che Betelgeuse sia entrata nelle fasi finali, stato caratterizzato dal raggiungimento nella fornace stellare di eventi di fusione nucleare che coinvolgono il carbonio (possibile solo in stelle con massa iniziale di almeno 8 masse solari). Una volta raggiunte le condizioni per il verificarsi della fusione del carbonio si passa velocemente (in termini stellari) si ha la produzione di neon, sodio e magnesio. Segue l'utilizzo, come carburante nucleare, di neon, ossigeno e infine silicio, l'ultima fase che permette un rilascio netto di energia. Una volta formatosi un nucleo di ferro-nichel qualunque reazione di fusione sarà di tipo endotermico, per cui non potendo più essere liberata energia la stella verrà privata della pressione idrostatica e collasserà su se stessa (l'evento finale dipenderà dalla sua massa residua).

Per avere una idea dei tempi sempre più veloci che caratterizzano le ultime fasi della vita di una stella gigante vi rimando a questa figura.
 
Con il crearsi delle condizioni (e il consumo del carburante più leggero spostato sempre più all'esterno) le stelle massicce riescono ad arrivare all'ultima fase energicamente sostenibile, quella che coinvolge il silicio.
Quindi per stimare l'intervallo di tempo in cui attendersi l'esplosione di Betelgeuse è necessario capire in che fase del ciclo stellare si trova, o meglio se ha raggiunto condizioni di temperatura e pressione interne da attivare le reazioni di fusione degli elementi più pesanti. In modo semplicistico se la stella ha finito l’elio ha una aspettativa di vita di un migliaio di anni mentre se si trova nella fase di fusione del carbonio la vita rimanente si conta in centinaia di anni (qui un articolo - in PDF - specialistico sull'argomento).

Su questa stima le ipotesi divergono. Mentre lo studio del gruppo giapponese (vedi sotto) propende per una Betelgeuse moribonda, un gruppo di ricercatori ungheresi sostiene che la stella si trovi ancora nella prima fase  di combustione dell'elio stimando così la data della supernova entro i prossimi 100 mila anni. Evento che in ogni caso vedremo solo parecchie centinaia di anni dopo che è avvenuto dato che la distanza (stimata) è di circa 700 anni luce.
Il valore impreciso della distanza nasce dalla sua luminosità variabile che rende la misurazione, basata sul parallasse, alquanto complicato. A questo si aggiunga il problema che le stelle più luminose saturano i sensori. Una stima la pone a circa ∼200 parsec (1 psc corrisponde a 3,26 anni luce)


Lo studio giapponese stima che Betelgeuse abbia 8,5 milioni di anni e al momento della sua formazione avesse 19 masse solari, 8 delle quali siano oramai state perse (“usate o eiettate”). 

La stima della massa iniziale non è pura accademia ma determina il destino stesso della stella; tanto più massiccia era alla nascita e tanto più rapido sarà il suo ciclo vitale.

Altra variabile difficile da valutare ma essenziale per stimare l'età della stella è che in origine Betelgeuse potesse essere parte di un sistema binario (gran parte delle stelle è tale, con il sole rara eccezione) per cui la stella potrebbe essere diventata massiccia solo in seguito alla fusione delle due stelle originarie (ne ho scritto in un precedente articolo)


Siamo ad una distanza di sicurezza? Tutte le stime concordano in tal senso sia per la distanza che per la presenza dello scudo fornito dalla nostra magnetosfera.


Fonte
- The evolutionary stage of Betelgeuse inferred from its pulsation periods
Hideyuki Saio et al, (2023) arXiv





L'Asgard che ci interessa come eucarioti

Il parente più prossimo dell'antenato degli eucarioti sono gli Hodarchaeali, membri del superphylum Asgard, regno Archea

In un precedente articolo (in calce al presente) si è parlato dell’origine degli eucarioti e di come il gruppo di Archea che va sotto il nome di Asgard rappresenti (i discendenti oggi viventi del) l’anello di congiunzione tra eucarioti e protoeucarioti. Un’analisi complicata dal fatto che non esistono fossili di eucarioti più vecchi di 2 miliardi di anni fa, il che fa pensare che prima esistessero solo vari tipi di batteri.

È di qualche giorno fa un articolo che aggiunge un tassello alle nostre conoscenze con la ricostruzione filogenetica di questo “antenato”.

Nei dibattiti in corso sull'eucariogenesi - la serie di eventi evolutivi che portano all'emergere della cellula eucariotica da antenati procarioti - i membri dell'archaea di Asgard sono stati identificati come i parenti arcaici più stretti degli eucarioti. Rimane tuttavia poco compresa la natura e l'identità filogenetica dell'ultimo antenato comune tra “noi” e gli Asgard archae.
Un indizio viene da un articolo pubblicato su Nature in cui si riporta l’analisi di centinaia di genomi da vari ceppi di Asgard e il risultante profilo dell’antenato comune. Il risultato vede gli eucarioti collocati come un clade annidato all'interno di Asgard archaea e il “gemello” ancora esistente di quello da cui sono emanati gli eucarioti negli Hodarchaeali, un nuovo ordine proposto all'interno di Heimdallarchaeia.
L'albero filogenetico. Notare gli Eukarya e gli Hodarchaecales
Image credit: Laura Eme et al, (2023) Nature 


Gli Hodarchaeali sono stati scoperti nei sedimenti dei fondali oceanici e presso diverse sorgenti termali. Ad oggi si è riuscito a coltivare in laboratorio due ceppi; dall’analisi genetica si è potuto inferire il loro metabolismo che suggerisce che l’antenato comune fosse un chemolitotrofio termofilo mentre quello da cui poi sarebbero sorti gli eucarioti si sia adattato a condizioni mesofile acquisendo anche il potenziale genetico per uno stile di vita eterotrofico.

Fonte
- Inference and reconstruction of the heimdallarchaeial ancestry of eukaryotes
Laura Eme et al, (2023) Nature  




Articoli precedenti sul tema
- Alla ricerca di LUCA (articolo copiato in calce)







*** Alla ricerca di LUCA ***
(febbraio 2023)

Alla ricerca di LUCA (Last Universal Common Ancestor) si è trovato un organismo con caratteristiche simili al proto-eucariote

Ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi della classificazione linneana degli organismi (per non parlare di Aristotele) quando ancora la genetica era un non-concetto e mancavano quindi gli strumenti di tracciamento che andassero oltre alla mera comparazione funzionale e strutturale.
In tempi più recenti si era giunti ad una classificazione degli organismi in 2 domini (Monera e Eukaryota) che però si scoprì in fretta essere troppo semplicistica. Il dominio Monera era tutto fuorché uniforme e si giunse presto a capire che al suo interno erano raggruppati due domini tanto diversi tra loro quanto i Monera dagli eucarioti. Si deve a Carl Woese nel 1990 la ripartizione del primo nei due domini Bacteria e Archaea, che vanno così ad aggiungersi agli eucarioti.

A scompaginare quella che sembrava una classificazione “finale” fu il problema dell’origine degli eucarioti che, seguendo una ipotesi formulata negli anni 60 da Lynn Margulis, sarebbero il risultato di una relazione endosimbionte seriale tra un ipotetico proto-eucariote ed un batterio. Evento avvenuto in più riprese come l’esistenza stessa di plastidi (in piante e alghe) e mitocondri (in tutti gli eucarioti) dimostra e spiegabile unicamente con una simbiosi estrema tra il "predatore" e un batterio non digerito dotato di funzionalità fotosintetiche o di fosforilazione ossidativa basata sull’ossigeno, a seconda del tipo.
Se questo spiegava la presenza e le caratteristiche del DNA in questi organelli e la forte somiglianza metabolica e della sintesi proteica tra un Archea e un eucariote, rimaneva da spiegare il mistero del nucleo.
Questa la ragione per cui oggi si preferisce posizionare gli Archea come un "ramo" separatosi molto precocemente da un proto-eucariote invece che come un terzo "ramo".
Il nucleo, elemento caratterizzante la cellula eucariote è infatti dotato di doppia membrana come i plastidi e mitocondri; ma se la doppia membrana dei primi era spiegabile come “il residuo” del processo di fagocitosi avvenuto eoni fa, questa ipotesi perdeva di senso per il nucleo a meno di ipotizzare la cattura del genoma da un altro ipotetico antenato, divenuto poi dominante (idea francamente poco  sostenibile).
La struttura di mitocondri e cloroplasti ha in comune l'essere dotata di doppia membrana
(image credit: biologyexams4u)

Il nucleo è dotato di una doppia membrana di cui quella esterna in continuità con il reticolo endoplasmico

A dirimere il nodo alcuni articoli apparsi nell’ultimo biennio, capaci di spiegare sia l’evento di cattura dei batteri che sarebbero poi diventati i plastidi e i mitocondri, che la doppia membrana nucleare.
Punto centrale, l’identificazione di un Archea in cui si notano chiaramente lunghe protrusioni (simili agli pseudopi degli eucarioti) usate per catturare il cibo dall’ambiente, finora mai osservate negli archea.

Comprendo che il tema non sia semplice.
Questa la ragione per cui ho deciso di ripescare un vecchio articolo in cui trattavo di una classe di Archea con caratteristiche molto simili a quelle del proto-eucariote, modificandolo in modo sostanziale sia in queste righe introduttive che nella parte finale contenente i vari aggiornamenti. Il risultato, qui riproposto è un articolo nuovo, lungo ma unico con cui avere una panoramica (poco tecnica) dell'argomento. Nell'ultimo paragrafo ho inserito il riassunto degli argomenti toccati.

Nota. Il processo endosimbiontico è avvenuto più volte nel corso dell'evoluzione. Di seguito una figura riassuntiva
Le piante sono il risultato di almeno 3 eventi di endosimbiosi


***

Loki, Asgard e Midichlorian
Dai fumetti i nomi di batteri con ruolo chiave nell'evoluzione

Tutto nasce da un curioso intreccio tra biologia e Star Wars, citazione non casuale se si pensa ad un Archea che deve il suo nome ai Midi-chlorian, la fonte stessa della Forza nella narrazione dell'universo di Lucas) al cui articolo rimando prima di continuare questo.

Loki, AsgardMidichlorian, i microbi allla base della Forza in Guerre Stellari
Usare questi nomi come incipit di un articolo potrebbe fare pensare al repentino reindirizzamento del blog verso tematiche comics in salsa Marvel o SF in genere. Non che sia immune a tale fascinazione ma … no, si rimane sempre in ambito biologia.
Non solo mitologia norrena ma anche nomi di batteri (credit: Uppsala University)

I nomi evocativi di cui sopra sono stati infatti usati per identificare particolari microorganismi particolarmente interessanti da un punto di vista filogenetico (studio delle linee di discendenza nell'evoluzione della vita).
Se qualcuno avesse chiesto un secolo fa ad uno scienziato di fare una distinzione macro degli organismi viventi, questi avrebbe certamente usato quella tra animali e vegetali. Distinzione poi superata (piante e funghi hanno ben poco in comune) in favore di quella tra cellule prive di nucleo (procarioti o Monera cioè i batteri) e con nucleo (eucarioti).
Una distinzione molto generica (e non più corretta) che sottintende organismi molto diversi tra loro
Alla metà degli anni '70 del secolo scorso la tecnologia fornì strumenti di indagine innovativi che permise ai ricercatori, tra cui Carl Woese, di analizzare la sequenza del RNA ribosomale e di usarla per determinare i rapporti di parentela tra i vari organismi. L'analisi mostrò che i procarioti presentavano una eterogeneità tale che alcuni di loro erano più simili ad un eucariote (pur non avendo il nucleo) rispetto ai loro "consimili".
Si passò quindi, tra non poche discussioni, ad un albero della vita con 3 domini, due dei quali originati da quello che prima erano i procarioti: gli archeabatteri (oggi noti come Archea, batteri che vivono in ambienti estremi, che richiamano molto le condizioni della Terra primordiale); gli eubatteri (o semplicemente Bacteria, i batteri propriamente detti) e gli eucarioti (Eucarya, che comprendono i 5 regni Animalia, Fungi, Plantae, Protista, Chromista).

Lo scontro "ideologico" era tra il modello a tre domini di Woese e quello a due domini (vedi figura sotto).
Il cladogramma in accordo con le osservazioni di Woese. Il cladogranma collega tutti gli organismi viventi al LUCA (il tronco nero nella parte inferiore). Questo grafico è derivato dalla sequenza del RNA ribosomico.
(Image credit:  Eric Gaba - NASA Astrobiology Institute)

La differenza tra il modello proposto da Woese (in alto), detto a 3 domini, e quello proposto da altri (in basso) detto a 2 domini è nel dove collocare gli eucarioti (cioè noi): originati a un antenato comune con gli Archaea oppure "figli", cioè emersi da un sottogruppo di Archaea?
(image credit: Crion via wikipedia)

Una versione recente (2017) e dettagliata del modello a due domini della precedente figura
(image credit: Laura Eme et al, Nat. Microb.)

Domanda che sorge spontanea è cosa si intenda per LUCA.
La parola è l'acronimo di Last Universal Common Ancestor, un termine che non deve ovviamente essere preso al singolare (organismo unico) ma come comunità di quasi-organismi protocellulari da cui sarebbero sorte le cellule propriamente dette.
Cosa e come fosse questa protocellula o quello che c'era prima ancora è solo frutto di ipotesi. Probabile che la transizione chiave sia avvenuta con il passaggio da materiale genetico "libero" e dotato di attività catalitica (come possono essere i ribozimi) ad una protocellula in seguito all'inglobazione di tale materiale in una vescicola lipidica micellare, definendo così un ambiente "interno" da uno "esterno".
Scegliere il modello corretto tra quello a 2 o a 3 domini implica capire se gli eucarioti siano originati dagli archèobatteri (definibili come sottogruppo di essi) oppure da un proto-archèobatterio (quindi siano diversi).

Oltre a questo è necessario capire come e quando sia avvenuto il passaggio da una cellula senza nucleo (e senza organelli) ad una con nucleo e mitocondri (più cloroplasti, il tipo di plastidi più noti ai più, nel caso delle cellule vegetali).
Almeno per quello che riguarda mitocondri e cloroplasti la teoria oggi accettata è quella della endosimbiosi proposta a fine anni '60 da Lynn Margulis.

In estrema sintesi le attuali cellule eucariote sarebbero il prodotto di una simbiosi tra un protoeucariote anaerobio dotato di nucleo in cui è racchiuso il genoma e una cellula batterica aerobica, priva di nucleo, capace di utilizzare l'ossigeno; con il tempo quest'ultima si trasformò nella centralina energetica della cellula grazie alla sua capacità di coniugare la neutralizzazione dell'ossigeno con una elevata produzione di energia chimica (sotto forma di ATP) grazie alla fosforilazione ossidativa.
In verità più che simbiosi, l'evento sarebbe da attribuire ad un pasto "indigesto" con il quale il protoeucariote inglobò il batterio senza però riuscire a ucciderlo e a digerirlo, portandoselo appresso nelle generazioni successive. Negli eoni che seguirono il rapporto tra i due divenne così vantaggioso per entrambi da culminare in una migrazione di molti geni batterici nel genoma del nucleo (che quindi prese il controllo della "ex" cellula batterica). Questo "ex" batterio divenne il mitocondrio (ancora oggi ha un suo genoma "essenziale" ed è capace di divisione autonoma) ed è stato l'elemento discriminante che ha permesso alla cellula eucariote di "evolvere" fino agli organismi multicellulari: il possedere una propria centrale energetica (in numero fino al migliaio come negli spermatozoi) fornisce un chiaro vantaggio al possessore.
La simbiosi si è spinta talmente da essere oggi di fatto "obbligata". Tra gli eucarioti esiste solo un protista appartenente al genere Monocercomonoides che è privo di mitocondri. Negli organismi pluricellulari alcune cellule decidono di farne a meno semplicemente "perdendoli" durante il processo differenziativo; l'esempio classico sono gli eritrociti (globuli rossi) che si spingono talmente in là nel loro processo minimalista tutto dedito al trasporto di ossigeno che oltre ai mitocondri perdono perfino il nucleo, cioè il loro DNA. Per approfondimenti l'articolo --> "The origin of mitochondria" su Nature
Ed ecco che arriviamo ai Midi-chlorian.
Il nome, coniato nell'episodio 1 di Guerre Stellari, indica gli esseri microscopici da cui "emana" la Forza (presente in tutti i viventi ma solo alcuni individui ne possiedono un numero così elevato da fare emergere questa "energia"). Chiaramente era solo un escamotage narrativo per spiegare un fenomeno che non voleva essere percepito come magico e come tale appartenente al regno del fantasy.
Fu solo in seguito, con la identificazione di alcuni batteri che avevano molte caratteristiche che richiamavano gli antenati dei mitocondri (cioè i batteri inglobati e sfuggiti al pasto) che si decise di usare questo nome nella scienza "ufficiale". Del resto quale nome migliore di quello da cui origina la "forza" per indicare il progenitore delle centraline energetiche delle cellule?
Se il "fossile vivente", discendente della famiglia da cui originarono i mitocondri è oggi associato al Midichloria mitochondrii, mancava all'appello il discendente (sempre che esistano tuttora) del proto-eucariote che prima tentò di papparsi il batterio e poi finì per stringere con esso una alleanza, anzi una "dipendenza", mutualmente necessaria.
Il batterio più strettamente imparentato con l'antenato dei cloroplasti è invece il cianobatterio (capace di fotosintesi) Gloeomargarita lithophora. Il processo endosimbiontico sembra essere avvenuto altre volte, dopo quello fondante che ha originato le cellule vegetali circa 1,5 miliardi di anni fa; si parla di endosimbiosi secondaria o terziaria nota anche come kleptoplasty che letteralmente indica il rubare il plastidio da una fonte di cibo (eventi noti in dinoflagellati ad esempio).
L'organismo ricevente, cioè il proto-eucariote, era con ogni probabilità un Archea.

Ed eccoci arrivati ai nomi  Loki e Asgard.
Tutto nasce con il sequenziamento del genoma dei microbi prelevati dai fanghi dei fondali marini della Groenlandia. L'analisi, fatta da Anja Spang e Thijs Ettema, rivelò la presenza di strani Archea, che per alcune loro caratteristiche fuorvianti furono chiamati Lokiarchaeota (Loki nella mitologia norrena è il Dio dell'inganno e della confusione) e classificati come proteoarchaeota e nel superphylum Asgard.
La loro caratterizzazione ha riacceso un dibattito che si pensava sopito tra i fautori della divisione a due domini e chi propendeva per quella a tre domini. I Lokiarchaeota, pur chiaramente archeabatteri possiedono infatti alcuni geni (175, poco più del 3%) coinvolti in importanti funzionalità caratteristiche degli eucarioti. Tra questi i geni per:
  • i sistemi proteici di membrane intracellulari;
  • i pori nucleari; 
  • la fagocitosi; 
  • la duplicazione del DNA; 
  • l'ubiquitina (il sistema di degradazione delle proteine) 
  • ... e altro ancora. 
Non meno importante la presenza in questi Archea di una struttura interna alla cellula che somiglia ad un nucleo che in effetti delimita la zona in cui è localizzato il DNA genomico (--> Michaela M. Salcher et al - 2019).

I dati sembrano spingere verso il modello a due domini e con esso il claim "siamo tutti Archaea" diventerebbe una caratteristica intrinseca a tutto ciò, noi compresi, che non è batterio e non è virus (dal protozoo all'elefante; nota i virus sono meglio definibili come quasi-organismi).
Dato che l'universo Marvel e quello di Lucas sono ben forniti, non stupitevi se in futuro sentirete in ambito scientifico altri nomi derivati dal mondo comics et similia.  

Un altro modo per vedere graficamente l'evoluzione dal LUCA ai suoi discendenti (image credit: Maulucioni via wikipedia) Un cladogramma più accurato --> QUI

***

Identificato il gruppo di Archea con caratteristiche "idonee" a rappresentare il proto-eucariote ancestrale il quadro era ben lungi dall'essere completo sia per l'assenza di caratteristiche essenziali per spiegare come fosse avvenuto il processo di cattura che avrebbe portato all'endosimbiosi che per l'impossibilità di spiegare la doppia membrana nucleare.
Nota. Quando scrivo dell'identificazione di organismi con caratteristiche compatibili a quelle dell'antenato ancestrale, questo non vuol che questi organismi coincidano con l'antenato. Il paragone più semplice si riferisce a noi e alle scimmie, nostri "cugini" prossimi che sono tuttavia ben diversi dall'antenato in comune che è scomparso nello stesso momento in cui hanno cominciato ad accumularsi le differenze tra le varie linee evolutive che poi avrebbero portato ai primati attuali.
Studiare gli Archea non è semplice di suo e la difficoltà si amplifica quando si vuole esplorare la consistenza della teoria dell'endosimbionte in questi organismi. La spiegazione è che questi organismi vivono in nicchie ecologiche talmente particolari (letteralmente da Terra primordiale) da rendere difficile sia riprodurre le condizioni esatte in laboratorio, trovando i nutrienti corretti, che trovare eventuali "partner" nella catena alimentare necessari alla loro sussistenza. Immaginate poi di dovere studiare al microscopio un organismo che si divide molto più lentamente di altri batteri (condizione derivante dal vivere in ambienti poveri di nutrienti e difficili) anche nelle condizioni per lui ottimali e di farlo in condizioni di sicurezza per l'operatore quando il "brodo di coltura" è ad alta temperatura, acido e con effluvi tossici.
Nonostante queste difficoltà, le pubblicazioni su questo gruppo di microbi sono quasi raddoppiate negli ultimi dieci anni.

I modelli per spiegare la transizione tra un gruppo di Archea primordiale e il proto-eucariote differiscono tra loro sul "timing" dell'evento, inteso in quanto questo organismo avesse già acquisito peculiarità strutturali eucariote tipo la presenza di membrane flessibili e compartimenti interni, PRIMA di catturare il batterio che sarebbe diventato il mitocondrio. Se alcuni ipotizzano che queste cellule avessero già "moderni" meccanismi di cattura del materiale esterno (fagocitosi), altri come Sven Gould credono che questo sistema estremamente specializzato si sia sviluppato eoni dopo l'endosimbiosi, e che la cattura sia avvenuta mediante meccanismi più semplici della fagocitosi tipo quelli usate dai batteri.

Ma c'è un terzo modello che chiamiamo modello di Baum dal nome dei proponenti, due cugini.
Il modello di Baum si distingue dagli altri perché non solo spiega la cattura del "proto-mitocondrio" senza la fagocitosi ma anche l'origine della membrana nucleare.
L'idea nasce nel lontano 1984 quando uno dei due era ancora uno studente, formalizzata nel 2014. La riassumo di seguito.
Il processo inizia in un mondo in cui Archea e batteri condividono l'ambiente e con esso le risorse. Si ipotizza la presenza di un gruppo di Archea dotato di una sufficiente plasticità della membrana, capace di estenderne propaggini verso l'esterno in modo da aumentare la superficie, così da massimizzare lo scambio di nutrienti. Durante queste attività alcune propaggini (lunghe e più voluminose del "corpo cellulare") potrebbero avere circondato in modo casuale un più piccolo batterio fino a intrappolarlo in qualcosa di simile ad un  endosoma. Un processo simile potrebbe essere avvenuto con il ritorno della propaggine verso il corpo cellulare (in cui di fatto si trovava confinato il genoma) avvolgendolo; a questo fenomeno sarebbero seguiti la fusione e riarrangiamento delle membrane con il risultato finale di una cellula di maggiori dimensioni, dotata di una membrana nucleare e di un sistema di membrane a delimitare compartimenti interni (immagine a destra della figura sottostante).
Un "percorso" ben diverso da quello associato al modello della fagocitosi, in quanto inizia ipotizzando l'esistenza di una comunità di organismi e in tempi molto più lunghi invece che con un singolo passaggio.

A sinistra il modello classico basato sulla fagocitosi, a destra il modello dei Baum
(image credit: B. Baum & D.A. Baum BMC Biol. via Nature)

Modello affascinante e che riscosse una entusiastica accoglienza tra gli addetti ai lavori ma che mancava di prove sul campo, del tipo trovare un Archea con caratteristiche metaboliche compatibili e dotati di protrusioni di membrana sufficientemente ampie da adempiere allo scopo.

Un tassello che è arrivato nell'ultimo biennio con tre articoli, due centrati sullo studio di proteine essenziali per la divisione cellulare (Pulschen, A. A. et al. Curr. Biol. 2020 e Liao, Y. et al. Nature Microbiol, 2021) e l'altro con la caratterizzazione di un Archea cresciuto per la prima volta in laboratorio dotato di queste protrusioni (Imachi, H. et al. Nature, 2020).

Cominciamo dal lavoro del 2020 in cui viene mostrato un Archea con protrusioni, dal nome temporaneo Prometheoarchaeum syntrophicum, appartenente al gruppo prima citato degli Asgard.
Ci sono voluti 12 anni per riuscire a far crescere questo l'archea della foto, ritenuto simile al protoeucariote ancestrale.
Image credit: Hiroyuki Imachi, Masaru K. Nobu, JAMSTEC via Nature
Un Archea il cui tentativo di coltivazione è andato avanti per 12 anni fino a trovare condizioni giuste anche grazie all'aggiunta di alcuni batteri parte della stessa nicchia. La grande sorpresa arrivò solo quando le cellule smisero di dividersi con la comparsa di protrusioni molto simili a tentacoli usate per scandagliare l'ambiente e recuperare sostanze nutritive, ivi compresa l'interazione con altri batteri.
Una fotografia che entusiasmò i Baum perché spostava il loro modello dal limbo delle ipotesi affascinanti ma non verificabili, al reale.
I due articoli genetico-funzionali, uno dei quali portato avanti dai Baum, forniscono una evidenza genetica basata sull'evoluzione funzionale di proteine  tra Archea ed eucarioti.
Lo studio nasce dalla premessa che il proto-eucariote altro non fosse che un Archea "modificato"; concetto oramai consolidato e ben evidente dal posizionamento del "ramo" eucariote sul ramo degli Archea, quindi dopo la separazione tra Bacteria e Archea.
Per trovare prove dell'evento l'unica possibilità era risalire l'albero evolutivo usando una qualche proteina funzionalmente essenziale (e il suo gene) come tracciante.
Una proteina adatta all'uopo deve essere parte di un sistema condiviso da tutte le cellule, qualunque sia il loro dominio di appartenenza. L'unico tratto funzionale condiviso da tutti è la creazione di copie di se stessi, cioè la divisione cellulare.
Lo studio si è focalizzato su due proteine presenti in tutti i microbi (FtsZ e SepF), essenziali per la creazione dell'anello divisorio tra le due cellule figlie, e negli eucarioti di proteine appartenenti alla classe ESCRT, coinvolte nella formazione di vescicole a partire dalla membrana plasmatica.
Gli Archea usati nello studio sono Haloferax volcanii (amante delle condizioni salmastre, come quelle del Mar Morto; il nome volcanii è fuorviante e deriva dallo scopritore, il microbiologo Benjamin Elazari Volcani) per FtsZ e SepF , e Sulfolobus acidocaldarius (qui il nome calza bene perché ama l'acido e il calore) per la proteina simile a ESCRT.
Lo studio in S. acidocaldarius evidenziò proprio proteine simili alle ESCRT usate però dall'Archea come componente dell'anello divisorio invece che nella formazione di vescicole. I dati suggerivano che quella fosse la funzione primigenia e che il differenziamento funzionale sia avvenuto negli eucarioti per gestire la maggiore complessità dei compartimenti interni assenti sia negli Archea che nei batteri.

I dati ottenuti hanno permesso di ipotizzare che in alcuni Archea ad un certo punto dell'evoluzione, le proteine fondamentali per la divisione cellulare sono andate incontro ad una rimodulazione funzionale passando dall'anello divisorio alle funzioni tipiche delle ESCRT oppure a compiti strutturali divenendo parte del citoscheletro (dalla FtsZ hanno avuto origine le tubuline, fondamentali per cellule strutturalmente e morfologicamente più complesse)


L'insieme di questi dati ha dato linfa vitale alla bella teoria dei Baum tanto che perfino manuali di riferimento classici come Molecular Biology Of The Cell pensano di sostituire la teoria della fagocitosi con questo modello.
In realtà c'è ancora tanta strada da fare per spiegare la formazione del complesso sistema di compartimenti membranosi interni. Una teoria in proposito viene da Sven Gould (fautore della teoria della cattura dei proto-mitocondri prima che gli Archea sviluppassero capacità di estroflettere) secondo la quale, data la capacità dei batteri e dei mitocondri di emettere vescicole è stata questa loro capacità ad avere reso la membrana degli eucarioti più simile a quella dei Bacteria invece che a quella, attesa se si da credito alla fagocitosi, degli Archea.


Riassumiamo i concetti chiave
  • Gli eucarioti sono con ogni probabilità degli "Archea con upgrade" o in altre parole siamo più vicini evolutivamente agli Archea che non ai batteri (e lo stesso vale per il rapporto Archea-Bacteria)
  • Gli Archea oggi esistenti più simili al proto-eucariote di partenza appartengono ad un gruppo noto come Asgard.
  • Tra gli upgrade fondamentali quello chiave è consistito in uno o più endosimbiosi. Tra questi quello che ha permesso la comparsa del mitocondrio è comune a tutte le cellule eucariote, mentre quello/i associati ai plastidi sono unici per le cellule vegetali e alghe unicellulari.
  • Il parente più prossimo dell'antenato del mitocondrio è il batterio Midichloria mitochondrii
  • Il parente più prossimo dei cloroplasti è il cianobatterio Gloeomargarita lithophora.
  • La teoria endosimbiontica finora più accreditata era quella che prevedeva un evento di fagocitosi "fallito" come evento iniziale. La nuova teoria proposta dai Baum sta rapidamente guadagnando posizioni in quanto riesce a spiegare vari eventi altrimenti di origine ignota come la presenza di una doppia membrana nucleare. 
  • A supporto di questa teoria 3 studi che hanno mostrato l'esistenza di lunghe estroflessioni in almeno un Archea, e l'evoluzione dei geni necessari per la separazione delle cellule durante la divisione cellulare in geni utilizzati per funzioni complesse tipiche delle cellule eucariote. 




Articolo associato al tema qui discusso --> "Una endosimbiosi come quella ancestrale, sta avvenendo anche ora"



Fonti
- Asgard archaea illuminate the origin of eukaryotic cellular complexity
A. Spang, TJ Etterna et al, Nature. 2017;541(7637):353-358

- Proposal of the reverse flow model for the origin of the eukaryotic cell based on comparative analyses of Asgard archaeal metabolism.
A. Spang et al, Nat Microbiol. 2019;4(7):1138-1148

- Genomes of Asgard archaea encode profilins that regulate actin
Caner Akıl & Robert C. Robinson. Nature (2018), 562, pp. 439–443

- Researchers discover 'marvel microbes' explaining how cells became complex
Uppsala universitet / news

- Imachi, H. et al. Nature 577, 519–525 (2020)

- Baum, D. A. & Baum, B. BMC Biol. 12, 76 (2014)

- Liao, Y. et al. Nature Microbiol. 6, 594–605 (2021)

- Nußbaum, P. et al, Preprint at bioRxiv (2020)

-  Pende, N. et al. Preprint at bioRxiv (2020)

- Pulschen, A. A. et al. Curr. Biol. 30, 2852–2859 (2020)

- Sagan, L. J. Theor. Biol. 14, 255–274 (1967)

- Spang, A. et al. Nature 521, 173–179 (2015)

- Gould, S. B. et al,  Trends Microbiol. 24, 525–534 (2016)





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