CC

Licenza Creative Commons
Questo opera di above the cloud è concesso sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.
Based on a work at scienceabovetheclouds.blogspot.com.

The Copyright Laws of the United States recognizes a “fair use” of copyrighted content. Section 107 of the U.S. Copyright Act states: “Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work (...) for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching, scholarship, or research, is not an infringement of copyright.”
Any image or video posted is used according to the fair use policy
Ogni news è tratta da articoli peer reviewed ed è contestualizzata e collegata a fonti di approfondimento. Ben difficilmente troverete quindi notizie il cui contenuto sia datato.
QUALUNQUE link in questa pagina rimanda a siti sicuri!! SEMPRE.
Volete aiutare questo blog? Cliccate sugli annnunci/prodotti Amazon (se non li vedete, disattivate l'Adblocker mettendo questo sito nella whitelist. NON ci sono pop up o script strani, SOLO Amazon). Visibili in modalità desktop! Se poi decidete di comprare libri o servizi da Amazon, meglio ;-)
Dimenticavo. Questo blog NON contiene olio di palma (è così di moda specificarlo per ogni cosa...)

Il PEG è la causa dei (rari) effetti collaterali nei vaccini anti-covid19?

Febbraio 2021. Un articolo su JAMA analizza le rare reazioni anafilattiche osservate con il vaccino Pfizer

***
Partiamo da un presupposto scientifico: un farmaco agisce sul corpo modificandone il funzionamento e come tale può causare sintomi o effetti collaterali; alcuni ineludibili perché parte dell'azione farmacologica, altri imprevisti perché conseguenti a specificità individuali (sensibilità specifica, assunzione di altri farmaci, genetica, ...).
Trattamenti millantati in passato come terapeutici (ma mai approvati come tali) che aggiungevano a corollario "assenza totale di effetti collaterali rispetto ai farmaci" erano tali per la semplice ragione che non facevano nulla; a dosi omeopatiche oppure privi in toto di alcun principio attivo.
Discorso simile vale per i vaccini il cui scopo è "mostrare" una copia inoffensiva (o "pezzi") del patogeno al sistema immunitario in modo che questo attivi le contromisure che porteranno alla neutralizzazione dello stesso non appena si presenti.
Minaccia inesistente (si tratta di una versione morta o incapace di replicarsi) ma risposta vera, questa la ragione per cui il vaccinato - potrebbe - sperimentare i sintomi tipici di un sistema immunitario che si prepara alla battaglia; sintomi che vanno dall'infiammazione locale nel punto di iniezione ad uno stato di leggero malessere. La soglia di accettabilità dei sintomi associati (o collaterali, due cose ben diverse) dipende sempre dal rapporto rischio-beneficio quindi dalla gravità della malattia; per un vaccino pensato per un virus altamente letale (o una terapia anti-tumorale) si potrà accettare un rischio maggiore rispetto, ad esempio, al vaccino contro l'influenza stagionale o una terapia farmacologica per l'acne.
Il rischio reazioni indesiderate è quasi sempre legato ad una risposta eccessiva del ricevente, evento che può capitare quando lo stesso sia stato esposto in passato a stimoli simili. Si tratta di una ipersensibilizzazione che porta ad una eccessiva risposta immunitaria come avviene in alcune (ripeto ALCUNE) persone quando dopo essere stati punte da un ape possono andare incontro a shock anafilattico alla successiva puntura. Questa eventualità è stata discussa nel precedente articolo "Vaccini in studio contro il SARS-CoV-2" nel paragrafo sul  potenziamento dipendente da anticorpi.
Nel caso dei vaccini oltre al "principio attivo" (termine errato ma solo per rendere l'idea di un farmaco) ci sono altre componenti che giocano un ruolo chiave,  in misura variabile a seconda del tipo di vaccino: gli adiuvanti e il veicolo. 
  • Gli adiuvanti sono delle sostanze che vengono aggiunte ai vaccini per «potenziare» la risposta del sistema immunitario all'antigene ed aumentarne la durata. In alcuni casi è una vera e propria necessità perché alcune molecole sono poco immunogene e necessitano di essere associate ad altro per essere "viste" dal sistema.
  • Il veicolo, nel caso specifico dei 2 vaccini a RNA appena approvati, sono le nanoparticelle lipidiche entro le quali viene inglobato l'acido nucleico, affinché non venga distrutto dagli enzimi nel plasma e arrivi a destinazione. Per una panoramica degli studi che hanno portato allo sviluppo delle nanoparticelle (e all'utilizzo del PEG) vi rimando all'interessante articolo "No RNA vaccine w/o lipid shells".
Gli effetti collaterali (rari) riscontrati nel caso del vaccino di Pfizer potrebbero essere dovuti proprio alle nanoparticelle o come vedremo ad alcune modifiche dei lipidi componenti.
Gli effetti collaterali osservati e la loro frequenza. Sono temporanei e alla peggio simil-influenzali (del resto i sintomi influenzali non sono dovuti tanto al virus ma all'organismo che attiva le risposte). A scopo precauzionale il soggetto dopo avere ricevuto la vaccinazione anti-coronavirus deve rimanere per almeno 30' in ambulatorio, un tempo più che sufficiente a rilevare sintomi di shock (come ben sanno le persone allergiche, ad esempio alla buccia di pesca, dopo averne assaggiato una punta (credit: CDC

Alcune persone (8 nel momento in cui scrivo) hanno però sviluppato qualcosa di più serio cioè reazioni di tipo allergico; secondo i ricercatori la causa è il polietilenglicole (PEG) presente sia nel vaccino di Moderna che in quello di Pfizer
Nota. In data 30/12 il CDC ha prodotto una linea guida dove si dice di non vaccinare le persone che abbiano avuto reazioni allergiche a qualcuno degli ingredienti presenti nei vaccini Pfizer e Moderna. La maggior parte degli esperti concorda che invece le persone con allergie anche gravi ad alimenti o altri farmaci possono essere vaccinate purché tenute in osservazione per 30' e in strutture attrezzate per trattare gli shock.
 
PEG (credit: )
Vediamo la ragione della presenza del PEG nei vaccini.
Come sopra scritto i 2 vaccini contengono mRNA "immerso" in nanoparticelle lipidiche (LNP) che fungono sia come veicolo che come protezione. Il PEG, legato ai lipidi che delimitano la parte esterna della LNP, serve a conferire stabilità al vaccino e a cascata contribuisce alla sua efficacia.

Il PEG è legato ai lipidi esterni della LNP (credit: V. Kotelianski et al.) 


Altro esempio di nanoparticella usata come veicolo. Per i dettagli vedi il precedente articolo (Image credit: S. Yonezawa et al.) 

Esempio generico delle varie nanoparticelle, nella forma classica, LNP e lipidi modificati (es. PEG). Image Credit:  biochempeg)

Sebbene il PEG sia una molecola ben nota in ambito farmaceutico, non è mai stato (a mia conoscenza) utilizzato prima in un vaccino. 
Si trova in molti farmaci, certo, e in molti prodotti di uso comune (dentifricio, shampoo e persino, in passato, nei lassativi). Occasionalmente ha causato reazioni allergiche anche gravi; non frequentemente e in modo generico, ma in alcuni soggetti predisposti. 
Ed è proprio in questo suo utilizzo ad ampio raggio che alcuni allergologi e immunologi identificano il potenziale fattore di rischio: alcuni utenti esposti al PEG avrebbero sviluppato anticorpi contro di esso, "settando" così il sistema immunitario ad una reazione immediata ed eccessiva (shock anafilattico) in seguito al contatto con il PEG presente nel vaccino.

I dubbi sollevati hanno indotto il NIAID (National Institute of Allergy and Infectious Disease) a mettere in programma uno studio in collaborazione con la FDA volto ad analizzare la risposta al vaccino nelle persone che hanno alti livelli di anticorpi anti-PEG o che hanno già sperimentato risposte allergiche, gravi, a farmaci o vaccini.

Le reazioni anafilattiche possono verificarsi con qualsiasi vaccino, ma sono estremamente rare nell'ordine di una ogni milione di dosi.
Al 19 dicembre i casi di shock dopo il vaccino anti-covid19 sono stati 8 di cui 6 negli USA e 2 in UK (su un totale di 272 mila vaccinati), numeri sufficienti perché la FDA si attivasse.

La domanda ovvia è: come mai gli studi clinici di Pfizer e Moderna che hanno coinvolto decine di migliaia di persone non hanno mai evidenziato effetti collaterali gravi?
La risposta è semplice ed è implicita in come gli studi clinici sono disegnati, cioè l'utilizzo di un campione "omogeneo" condizione necessaria per raggiungere una sufficiente potenza statistica. E' quando terminano gli studi clinici e si entra nella fase 4 (il "mondo reale") che la combinazione di numero elevato di soggetti trattati e la loro eterogeneità (nelle condizioni di salute e background genetico) può far emergere fattori di rischio sottesi.
Torniamo allora allo studio clinico del vaccino. Durante la fase del reclutamento dei volontari per lo studio sono stati esclusi tutti coloro che soffrivano di allergie gravi o avevano uno storico di reazioni avverse evidenti ai componenti del vaccino.
Nulla di strano, anzi perfettamente corretto.
Dallo studio non sono invece state escluse le persone con intolleranze alimentari o allergie classiche, ma c'è il dubbio che possano essere sotto-rappresentate, fatto che avrebbe minimizzato la rilevazione dei fattori di rischio.

Quanto sicuro è il PEG? 
Per anni si è ritenuto che fosse assolutamente inerte ma già dal 2016 cominciarono ad emergere evidenze che tale assunto non era del tutto corretto. Uno studio in particolare rivelò che il 72% delle persone "comuni" aveva anticorpi contro il PEG, presumibilmente conseguente all'esposizione a cosmetici e prodotti farmaceutici. Il 7% del campione studiato aveva livelli di anticorpi sufficientemente elevati da renderli a rischio di reazioni anafilattiche se esposti a dosi sufficienti di PEG.
In verità si sa ancora poco sui meccanismi alla base della reazione anafilattica al PEG; ad esempio non coinvolge le IgE (le immunoglobuline responsabili delle allergie) ma le IgM e le IgG (e a cascata il sistema del complemento). Per questa ragione si è preferito coniare un nuovo termine, reazioni "anafilattoidi", invece di anafilattiche
Ma se torniamo ancora più indietro nel tempo troviamo uno studio illuminante. Nel 1999 János Szebeni descrisse un nuovo tipo di reazione indotta da farmaci che chiamò pseudoallergia correlata all'attivazione del complemento (CARPA - Complement activation-related pseudoallergy), una risposta immunitaria aspecifica a farmaci contenenti nanoparticelle, spesso PEGilate, che vengono scambiate dal sistema immunitario per virus (vedi anche uno studio del 2014).

Nel 2014 arrivò una conferma del problema quando uno studio clinico di fase 3 su un anticoagulante sperimentale a base di RNA (un aptamero PEGilato) dovette essere interrotto dopo che circa lo 0,6% dei partecipanti (1600 persone) manifestò gravi risposte allergiche (tra cui un decesso). Lo studio che ne seguì evidenziò che tutti coloro colpiti da shock avevano livelli elevati di IgG anti-PEG.
Prova conclusiva dunque? No perché altri partecipanti che pure avevano alti livelli di IgG non manifestarono alcun reazione avversa.
Il titolo anticorpale anti-PEG non è quindi una condizione sufficiente, necessaria forse ma non sufficiente, per il rischio anafilassi in presenza di PEG.

Un ulteriore elemento che complica l'analisi è che la quantità di PEG (sotto forma di lipidi PEGilati) usata nei vaccini a mRNA è alcuni ordini di grandezza inferiore rispetto a quella in farmaci già approvati, alcuni dei quali somministrati per via endovenosa. Ebbene nessuno di questi ha mai manifestato un rischio reale di reazioni anafilattiche. Per di più il vaccino anti-covid viene somministrato per via intramuscolo, una procedura che diluisce nel tempo la penetrazione della molecola nel circolo sanguigno, dove si trova la maggior parte degli anticorpi anti-PEG.

Un serio grattacapo quello di chi in queste settimane sta pianificando la copertura vaccinale e che deve tenere conto dell'ottimizzazione delle condizioni di sicurezza.
L'opzione screening di massa pre-vaccinazione per la rilevazione degli anticorpi anti-PEG è stata scartata subito. Si sa già che questi sono diffusi e che non sono univocamente predittivi. 
Si è invece optato per una soluzione più controllabile, come escludere dalla vaccinazione tutte le persone a rischio allergia e aggiungere un periodo di monitoraggio di 30' post vaccinazione per valutare l'insorgenza dei reazioni anafilattiche. 
Per il momento è una scelta corretta e con un rapporto rischio beneficio ottimale visto il periodo pandemico e il sottostante problema sanitario.

L'NIH ha iniziato uno studio, i cui risultati dovrebbero arrivare entro la fine dell'estate, con il quale si potrà comprendere meglio chi sono (e perché) i soggetti a maggior rischio di reazioni allergiche ai vaccini Pfizer e Moderna (--> comunicato NIH). 
Il caso AstraZeneca è diverso come tipologia di rischio e dato l'utilizzo quasi esclusivo nei paesi europei e collegati, è verosimile che uno studio analogo verrà svolto dall'EMA o da enti britannici (EDIT: si ipotizza che possa essere l'EDTA la causa del rischio trombosi e trombocitopenia)



Articolo precedente sul tema covid19 --> "Cosa sappiamo della nuova variante inglese".



Fonte
- Suspicions grow that nanoparticles in Pfizer’s COVID-19 vaccine trigger rare allergic reactions.
Science (21/12/2020)
- COVID-19 vaccination



Da un sistema a 300 anni luce una conferma della validità ipotesi Pianeta 9

Concludiamo oggi il discorso iniziato nello scorso articolo sulla ricerca del pianeta 9.
Se nel precedente ho riassunto l'ipotesi più borderline cioè la possibilità (o meglio uguale possibilità) che questo elusivo pianeta sia in realtà un buco nero primordiale (PBH), torniamo qui all'ipotesi originaria cioè un pianeta con caratteristiche di super Terra come causa delle anomalie orbitali di alcuni oggetti transnettuniani (TNO).
Immagine artistica dell'elusivo Pianeta 9
(Credit: R. Molar Candanosa & S. Sheppard / Carnegie Institution for Science
)

Trovare visivamente il responsabile non è banale come potrebbe sembrare, in quanto corpo che non emette luce visibile (semmai infrarosso, vedi in proposito il discorso sulla black body radiation …) e non ne riflette in modo significativo data la distanza dal Sole.
 
Per avere una idea delle distanze ricordiamoci che ci sono voluti 36 anni e circa 19 miliardi di chilometri perché Voyager 1 uscisse dalla eliosfera e si addentrasse in una zona "ignota" (genericamente nota come fascia di Kuiper) in cui abbondano corpi celesti ghiacciati (catalogati per semplicità come TNO o anche KBO).
Alla fine del 2018, ad esempio, gli astronomi annunciarono la scoperta del TNO conosciuto più distante chiamandolo in modo ufficioso (il nome vero è 2018_VG18) FarOut. Nome poco furbo se si pensa che solo pochi mesi dopo, nel 2019, gli stessi scienziati annunciarono urbi et orbi la scoperta di un TNO ancora più distante, FarFarOut (se vanno avanti di questo passo il nome diventerà uno scioglilingua).
Edit 02/2021. E' arrivata la conferma che FarFarOut è il TNO più lontano ad oggi noto, almeno in alcuni momenti. Questo perché il planetoide ha un'orbita molto ellittica che lo porta da 27 UA (quindi interno rispetto a Nettuno) fino a 175 UA il che vuol dire più di 3 volte la distanza massima in cui può trovarsi Plutone.
Ciò che qui più importa è che mentre FarFarOut aveva un'orbita tutto sommato normale, quella di FarOut (e di una dozzina di altri TNO) era ben strana dato il loro quasi identico punto di perielio (zona di massima vicinanza al Sole). La loro distanza pari a circa 100 UA escludeva la gravità di Nettuno come la causa prima di queste orbite anomale (vedi l'articolo precedente per gli indizi addotti a prova di una "massa mancante")
Le orbite anomale di alcuni KBO e la "necessità di ipotizzare un Pianeta 9 come spiegazione (image credit: Nrco0e). Clicca QUI per l'immagine ad alta risoluzione.

Vista laterale dell'orbita di FarOut per mostrarne inclinazione ed eccentricità (image credit: NASA - JPL)


Da un punto di vista tecnico gli strumenti per trovare il pianeta ci sono, sempre che si capisca "dove" guardare. Un grosso aiuto viene dal TESS, il telescopio orbitale che dal 2018 ha sostituito il veterano Keplero e che è in grado di identificare oggetti con magnitudine 21 nell'infrarosso vicino. Secondo i ricercatori il Pianeta 9 dovrebbe avere una magnitudine tra 19 e 24, per cui è anche probabile che TESS lo abbia già "visto" (ha già scandagliato tutto l'emisfero sud) e il dato debba essere solo recuperato.


Un aiuto in questa ricerca potrebbe venire da molto (ma molto) lontano cioè da HD 106906b, un esopianeta di tipo gioviano che si trova a 336 anni luce di distanza da noi. La caratteristica interessante di questo pianeta è nella sua orbita così eccentrica (in senso letterale "ex centrum") e lontana che il suo periodo di rivoluzione è di 15 mila anni. Per contestualizzare il tutto al nostro sistema è come se l'orbita di Giove fosse fuori dalla fascia di Kuiper e avesse un'orbita inclinata di 30 gradi rispetto agli altri pianeti. 
Immagine artistica di HD 106906b in orbita eccentrica attorno al sistema binario
(credit: ESA/Hubble, M. Kornmesser via INAF)

La scoperta del pianeta risale al 2013 ma ci sono voluti anni di osservazioni del telescopio Hubble per raccogliere dati sufficienti alla caratterizzazione dell'orbita. Altre due note di interesse sono che il pianeta orbita attorno a 2 soli (sistema binario) e la giovane età del sistema (stimato in soli 15 milioni di anni) cosa che lo rende simile ad una macchina del tempo con cui guardare a come potrebbe essersi formato il sistema solare.
Le stelle al centro sono state schermate per potere identificare i pianeti orbitanti. Immagine ottenuta grazie al telescopio Hubble
(Credit: NASA, ESA, M. Nguyen, R. De Rosa & P. Kalas via phys.org)


L'esistenza stessa di HD106906b è importante in quanto supporta la possibilità di un pianeta orbitante ad una tale distanza dalla stella. Al momento si possono solo formulare ipotesi su cosa possa avere "esiliato" il pianeta a tale distanza. L'ipotesi più gettonata è quella classica: il pianeta potrebbe essere stato espulso dalla sua orbita originaria a causa degli effetti gravitazionali delle due stelle, per poi stabilizzarsi dopo essere entrato in contatto con un altro corpo celeste che ne ha corretto l'orbita, evitando che la sua fuga lo portasse a vagare per sempre nel nulla (a divenire cioè Rogue Planet).

La caccia al Pianeta 9 continua... sempre che esista (-->"E se l'ipotesi del pianeta 9 fosse solo frutto di errore di campionamento?")

Articolo successivo sul tema --> "Ancora risultati negativi nella caccia al pianeta"


Fonte
- First Detection of Orbital Motion for HD 106906 b: A Wide-separation Exoplanet on a Planet Nine–like Orbit
Meiji M. Nguyen et al, The Astronomical Journal (12/2020)


Alla ricerca del Pianeta 9: un buco nero primordiale?

Torno dopo qualche mese sulla annosa domanda "esiste l'elusivo Pianeta 9?" (vi rimando al primo articolo sul tema per maggiori dettagli --> Planet 9).
Credit: Caltech/R. Hurt (IPAC)
Per quanto questa incertezza possa sembrare strana al giorno d'oggi in cui si analizzano le caratteristiche dei pianeti in altri sistemi stellari (--› esopianeti) e si studiano galassie lontane, il dubbio sull'esistenza di questo pianeta nella estrema periferia del sistema solare (nella parte esterna della fascia di Kuiper) permane.
credit: NASA
 
I motivi sono vari e vanno dalla difficoltà di vedere un corpo che non emette luce (né la riflette, data la distanza dal Sole) nel buio dello spazio, alla totale incertezza sulla sua massa reale. La sua "esistenza" fu ipotizzata per spiegare le anomalie delle orbite dei corpi transnettuniani più esterni (eTNO), troppo distanti da Nettuno perché questo ne fosse responsabile (Plutone non ha massa sufficiente); doveva quindi esistere una "massa mancante" sita nella zona esterna.

Parlare di massa mancante dice poco in sé. Potrebbe essere un pianeta magari delle dimensioni di Giove (il Pianeta 9 appunto), una miriade di planetoidi oppure, ipotesi abbozzata nel 2016 e tornata in auge nel 2019, addirittura un mini buco nero (vedi sotto)
 
Facciamo un breve riassunto.
L'ipotetico Pianeta 9, descritto come "l'anello mancante del sistema solare", fa parte del lessico astronomico dal 2014, rispolverato nel 2016 dagli astrofisici del Caltech Mike Brown e Konstantin Batygin. Nell'ottobre 2017 la NASA non solo rilascia una dichiarazione dove ipotizza che il Pianeta 9 potrebbe trovarsi in una orbita 20 volte più lontano dal Sole di Nettuno, ma afferma "ora è più difficile immaginare il nostro sistema solare senza un Pianeta 9 che con uno".
 
M. Brown e K. Batygin della Caltech

Due studi pubblicati a marzo 2019 hanno offerto supporto alla sua esistenza, tuttavia, uno studio separato pubblicato a settembre 2019 ha suggerito che l'oggetto teorico potrebbe non essere un pianeta gigante nascosto dietro Nettuno (una delle prime ipotesi), ma piuttosto un buco nero primordiale (vedi sotto)
Nel primo studio si legge
"To date, the only two suggestions for the cause of these apparent clusterings have been either the effects of observational bias or the existence of a distant giant planet in an eccentric inclined orbit known as Planet Nine".
In esso gli autori analizzando i dati orbitali quantificano in 1/500 la possibilità che la sua esistenza sia un falso (nota. nella scienza si calcola la probabiltà di errore e NON quella di ipotesi corretta).

Il secondo studio, "The Planet Nine Hypothesis", attraverso migliaia di nuovi modelli di simulazione al computer, indica che il pianeta "mancante" è più piccolo e più vicino al Sole (400 UA) di quanto previsto in precedenza.

Arriviamo infine ad uno studio di gennaio 2019 in cui si sostiene che l'orbita dei corpi celesti più lontani nel nostro sistema planetario non sono influenzati dall'ipotetico Pianeta 9 ma da una miriade di altri oggetti la cui massa complessiva è pari a quella del pianeta (ipotesi che non ha invero attecchito nella comunità scientifica).
 
Quali le "prove" dell'esistenza di  pianeta nove?
Secondo Konstantin Batygin (Caltech) esistono almeno 5 evidenze:
  • Sei oggetti conosciuti nella fascia di Kuiper, tutti con orbite ellittiche che puntano nella stessa direzione.
  •  Le orbite degli oggetti sono tutte inclinate allo stesso modo; 30 gradi "verso il basso".
  •  Simulazioni al computer evidenziano che ci sono più oggetti "inclinati  del previsto rispetto al piano solare" 
  • Il pianeta nove potrebbe essere responsabile dell'inclinazione dei pianeti nel nostro sistema solare; il piano dell'orbita del pianeta è inclinato di circa 6 gradi rispetto all'equatore del Sole.
  • Alcuni oggetti della fascia di Kuiper orbitano nella direzione opposta rispetto a qualsiasi altro corpo nel sistema solare.
 
 
Il pianeta 9 è un buco nero?
Nell'articolo odierno parto dall'ipotesi buco nero, sia perché concettualmente nuova, che per la suggestione che sempre accompagna queste particolari aree dello spazio dove la gravità è tale da non permettere nemmeno alla luce di uscire. Nel prossimo articolo riprenderò le ipotesi planetoidi e "vero" Pianeta 9.

 
L'ipotesi di un "buco nero primordiale" (PBH) ai confini del sistema solare viene da un lavoro pubblicato su arXiv nel settembre 2019 (l'articolo definitivo è apparso nel 2020 su Phys. Rev. Lett.). 
I PBH sono buchi neri vecchi e relativamente piccoli comparsi "poco" dopo il Big Bang, con una origine diversa da quelli successivi (buchi neri stellari). Mentre questi ultimi sono il risultato del collasso gravitazionale di una stella massiccia giunta a fine vita (o successiva alla fusione di un sistema binario di stelle a neutroni o altri eventi che permettono alla massa nella fase di collasso di superare una certa soglia critica, vedi il raggio di Schwarzschild), i PBH non hanno vincoli di massa, noti infatti anche come micro buchi neri, e sono stati previsti come risultato di fluttuazioni di densità nell'universo primordiale.

Concetto apparentemente astruso quello di micro variazione di densità ma che, ad esempio, è alla base del Big Bang come conseguenza di fluttuazioni quantistiche nell'inflatone.

I PBH con massa più bassa sarebbero oramai evaporati (ulteriori dettagli --› radiazione di Hawking e le --› prime prove della sua esistenza) mentre quelli più grandi potrebbero ancora esistere sebbene non siano mai stati osservati direttamente.
Gli astrofisici americani autori dell'articolo, ipotizzano che un PBH potrebbe trovarsi anche nelle vicinanza del sistema solare ed essere  l'ipotizzato Pianeta 9.

Nota per gli ansiosi: un buco nero non è mai da pensare come una idrovora che aspira tutto ciò che si trova intorno ad esso ma, come avverrebbe per un pianeta/stella, solo quello che entra nel suo campo gravitazionale, e senza possibilità di fuga solo se entrasse nel suo orizzonte degli eventi (--› qui la prima immagine di tale area).
Per il resto non disturberebbe chi "transita" nei dintorni a distanza di sicurezza. Anzi secondo molti modelli un pianeta potrebbe orbitare tranquillamente per "l'eternità" intorno ad un buco nero quiescente.
Nel loro articolo analizzano la possibilità che l'elusivo Pianeta 9 nella forma di un PBH possa trovarsi tra le 300 e 1000 UA, quindi nella parte più esterna della fascia di Kuiper (distante tra le 50 e 1000 UA).  

Nell'affrontare la loro intrigante ipotesi, i ricercatori si sono concentrati su due irrisolte anomalie gravitazionali: le orbite dei cosiddetti oggetti transnettuniani (TNO) e un eccessivo fenomeno di microlente gravitazionale
Tornerò prossimamente sui TNO. Per ora basta sapere che sono le orbite di un oggetto chiamato FarOut e quelli di un'altra dozzina di corpi, ad avere orbite difficilmente spiegabili in assenza di un Pianeta 9.
Entrambi questi fenomeni possono essere attribuiti alla presenza di un corpo (o insieme di corpi celesti) con massa stimata tra 0,5 e 20 masse terrestri (Mt). Nell'articolo si dimostra che la probabilità che tale massa sia dovuta ad un rogue planet (un pianeta vagante catturato dalla gravità solare o uno "solare" espulso ai margini) oppure alla presenza di un PBH sono comparabili. In altre parola l'ipotesi PBH non è meno improbabile del Planet 9 (per chi non fa scienza questo suonerà strano, ma si deve sempre ragionare in termini di dimostrazione che una ipotesi è falsa più che nella prova della sua correttezza).
Il vero problema tuttavia rimane ed è dimostrarne la presenza.
 
Un ipotetico PBH, con una massa 5 Mt avrebbe un raggio pari a 5 cm e una temperatura di Hawking di 0,004 K (più fredda della radiazione cosmica di fondo). Pertanto, la potenza irradiata da un tipico PBH da sola è minuscola e ben difficilmente rilevabile. 
Tra i suggerimenti proposti il cercare segnali di annichilazione degli aloni di materia oscura come indizio della posizione di un PBH; per farlo si dovrebbero tracciare le deflessioni dei raggi cosmici ad alta energia. 

Il metodo proposto si basa sulla scansione delle parti esterne del sistema solare per trovare i segni tipici (bagliori di luce visibile) di un buco nero che "divora" una cometa o altro oggetto transitato troppo vicino. Una tale scansione diventerebbe possibile nei prossimi anni con l'entrata in funzione del nuovo LSST (Osservatorio Vera C. Rubin) in Cile.
Un contatto del genere non dovrebbe essere "raro" se si pensa alla quantità di comete ghiacciate (nell'ordine di miliardi) presenti nella nube di Oort. 
Credit: Hubble Space Telescope

Se LSST dovesse individuare un bagliore, imputabile ad un PBH, un altro telescopio di sensibilità simile potrebbe essere puntato su quella posizione per molto più tempo, probabilmente catturando migliaia di bagliori in più, e con esse informazioni chiave.
I ricercatori ipotizzano di riuscire ad ottenere queste informazioni nei primi due anni dall'entrata in funzione dell'osservatorio.


Nessun timore anche se venisse scoperto: se anche esistesse, questo PBH sarebbe lì da prima che il Sole (e la Via Lattea) si accendesse e sarà lì, immutato, quando il Sole si spegnerà. Il vero plus sarebbe che la sua scoperta accenderebbe l'entusiasmo di molti scrittori di fantascienza che potrebbero "usarlo" come materiale narrativo (ad esempio come uno stargate … a patto di rimpicciolirsi sotto i 5 cm ... ma di sicuro qualche escamotage narrativo lo si trova).

Un eccellente articolo divulgativo sulla possibile correlazione tra PBH (buchi neri primordiali) e materia oscura la trovate su "Dark horses in the cosmos"

Articolo successivo sul tema --> "Il Pianeta 9 è possibile. C'è lo dice un esopianeta".

Potrebbe anche interessarti l'articolo sul --> "Buco nero nell'universo primordiale"

 
Fonti
-  What if Planet 9 is a Primordial Black Hole?
Jakub Scholtz, James Unwin Phys. Rev. Lett. 125, 051103 (2020)
- Physicists Argue That Black Holes From the Big Bang Could Be the Dark Matter
QuantaMagazine (09/2020)
- What are primordial black holes?
-Is Planet Nine a black hole or a planet? Harvard scientists suggest a way to find out.

 
Una formuletta finale giusto per meglio definire la radiazione di Hawking



Un pianeta veramente infernale

La scoperta di un pianeta dove piove roccia fusa e con oceani di lava che si muovono "verso la luce" merita l'aggiornamento del vecchio articolo "I pianeti più bizzarri finora scoperti". 

In realtà questa immagine artistica si riferisce a CoRoT-7b ma rende lo stesso l'idea dell'ambientino de pianeta (credit: Credit: ESO/L. Calçada)

Indubbiamente questo pianeta ha i numeri per detronizzare pianeti come CoRoT-7bKeplero 10b e Keplero 78b come rappresentanti della categoria "hellish planets".

Il nuovo entrante si chiama K2-141b e con un periodo orbitale di 7 ore già ci dice che si trova pericolosamente vicino alla sua stella (di classe K, quindi "arancione"). Oltre a questa incauta promiscuità ha la sventura di essere  in tidal locking, vale a dire uno stato in cui il corpo orbitante (pianeta o luna) mostra sempre la stessa faccia al suo partner (stella o pianeta, rispettivamente) in quanto la sua rotazione coincide con il tempo orbitale. 

Screenshot dal sito exoplanets.nasa.gov dedicato a K2-141b (credit: NASA)

Per chi si è un vero nerd e si diverte con le formule è possibile calcolare quanto è tempo necessario affinché la reciproca azione di due oggetti tra loro orbitanti causi il locking. La formula semplificata la trovate --> timescale, una versione più ragionata nel thread dedicato su  --> astronomy.stackexchange .

Il risultato ovvio di questo riscaldamento "unilaterale" perpetuo è che la parte esposta alla stella è così calda che la roccia si trasforma in un gas e scorre sul lato opposto dove alle temperature più basse "piove"  incandescente nuovamente sulla superficie da dove, in forma di un oceano di lava profondo più di 100 km ritorna sul lato illuminato. I venti generati da questo gradiente di temperatura sono dell'ordine degli 8 mila km/h.

In realtà il pianeta è noto dal 2018 ma solo ora, grazie ad uno studio condotto alla York University di Toronto mediante sistemi di analisi al computer derivati dai dati planetari e orbitali di K2-141b, si è potuto avere informazioni dettagliate sullo "stato" del pianeta distante circa 200 anni luce da noi. L'interesse  dei ricercatori per questo sistema planetario viene dalla stella; le stelle di classe K sono potenzialmente adatte (per le loro caratteristiche radianti e di stabilità) ad ospitare pianeti in cui potrebbe sorgere la vita. Chiaramente K2-141b (massa 5 volte la Terra) non è uno di questi ma del resto non lo è nemmeno Venere. 

Ma forse c'è qualcuno che potrebbe ancora non escludere (ipotizzare è una parola grossa) la possibilità di vita su un pianeta del genere. Mi viene in mente infatti il libro di Feinberg e Shapiro, "Life Beyond Earth: The Intelligent Earthling's Guide to Life in the Universe", in cui gli autori immaginano esseri tipo "lavobes" e "magmobes", organismi con una chimica basata sul silicio, capaci di sfruttare i gradienti termici e la chimica locale per ricavare energia. Certo il libro è oramai vecchio (1980) e sorpassato ma rappresenta decisamente una lettura interessante perché ragionato (esiste anche l'edizione italiana "La vita nel cosmo").
Se invece vi chiedete "come sarebbe vivere su un pianeta in tidal locking con la sua stella" (ipotizzando però una distanza di tale da non essere vaporizzati) vi consiglio il semplice articolo "Life on a tidally­locked planet"

Mi aspetto ora che la NASA aggiunga il pianeta alla sua celeberrima e collezione di "locandine per viaggi interstellari", un divertissement ispirato ai pianeti che sarebbe bello (se possibile) potere visitare.

Fonte
- Modelling the atmosphere of lava planet K2-141b: implications for low and high resolution spectroscopy
Monthly Notices of the Royal Astronomical Society 






La scoperta di DNA denisovano in una grotta tibetana

Torno oggi sul tema Denisovani e in particolare sul loro contributo genetico a popolazioni attuali come quella tibetana, in seguito alla scoperta e caratterizzazione di alcuni resti fossili in una grotta tibetana.

Per chi non avesse mai sentito parlare dell'Homo denisova e la relazione genetica con alcune popolazioni che vivono ad alta quota rimando ai precedenti articoli sul tema (Homo denisova. Un nuovo membro da aggiungere all'album di famiglia; L'aspetto dell'Homo denisova; I tibetani e i geni denisovani. Il contributo di un ramo estinto a popoli attuali). Articoli che vi invito a leggere in ogni caso perché nei prossimi paragrafi darò per acquisiti tutta una serie di dati. 

Il possibile aspetto di un Homo denisova. Vedi articolo precedente
(credit: Maayan Harel via sciencemag)

Un ramo laterale della famiglia sapiens afferisce ai cosiddetti Homo denisova, nome derivato dalla località russa in cui i (mini) resti furono scoperti. Come del resto vero per i neanderthal, il nome non è veramente indicativo di una specie (quindi diversa dal sapiens) in quanto, biologicamente, questo avrebbe presupposto l'impossibilità di originare una progenie fertile. Poiché oggi sono innegabili i contributi genetici nei sapiens moderni dei neanderthal (sebbene non in tutte le popolazioni, vedi ad esempio tutti gli africani subsahariani) e dei denisova (popolazioni estremo oriente e in particolare alcune tribù nelle Filippine) è chiaro che il processo di speciazione al momento degli incroci non si era ancora completato (--> Una unione non priva di problemi). Una fortuna per i nostri antenati, che ricevettero geneticamente parte degli adattamenti evolutivi dei cugini "Homo" che avevano colonizzato (e si erano adattati) da millenni alle aree in cui i sapiens iniziavano ad abitare. 

Ora si scopre che una grotta montana, utilizzata da secoli come santuario buddista tibetano, ospitava da decine di migliaia di anni resti denisovani. La notizia viene da un recente studio pubblicato sulla rivista  Science, in cui vengono rivelate nuove informazioni sugli scarsamente caratterizzati popoli che vivono sul tetto del mondo da decine di migliaia di anni e sui processi adattativi a quelle condizioni estreme.

La scoperta della grotta (o meglio dei resti) non è in realtà notizia recente ma va datata al 1980 quando un monaco rinvenne una mandibola fossilizzata nella grotta carsica di Baishiya (sita nella parte nord-orientale dell'altopiano tibetano, nella provincia de Gansu). Il "proprietario" della mandibola è noto come "Xiahe Man".

La grotta diBaishiya Karst in Tibet (credit: Han Yuanyuan / The Conversation)

Solo molti decenni dopo si potè non solo datare la mandibola (160 mila anni) ma anche determinare il proprietario, come un Denisovano. Una scoperta molto importante per due motivi: si ebbe la conferma della presenza dei denisova in altre aree dell'Asia oltre alla grotta russa in cui furono scoperti; si tratta del fossile denisovano più grande finora trovato.

La mandibola denisovana (credit: Han Yuanyuan / The Conversation)

Il vero limite era che in assenza di altri reperti archeologici atti a contestualizzare la mandibola solitaria, sarebbe stato complicato risalire da questo singolo fossile al processo di adattamento che avrebbe contribuito alla sopravvivenza della popolazione tibetana. Era impellente trovare altri reperti nella grotta di Baishiya. Ci vollero decine di sopralluoghi per identificare, sul pavimento roccioso, i primi, indiscutibili, manufatti in pietra attribuibili, con ogni probabilità, ai denisovani.

Questa era solo la prova necessaria per giustificare ulteriori studi specialmente se si considera che la grotta era sacra per i buddisti tibetani e ai ricercatori non era stato permesso scavare (o anche solo raschiare) al suo interno.

Un limite a dire il vero sorprendente se si considera la politica cinese in Tibet e in altre aree periferiche (Yunnan e Xinjiang ad esempio) ben poco propensa ad ogni minima rivendicazione che esuli "dall'interesse cinese". Ma forse, come vedremo poi l'interesse cinese era "monetario" cioè i soldi dell'indotto turistico alle grotte buddiste (vedi su temi analoghi il caso del --> Il parco divertimenti a tema islamico i Cina, pensato per catturare anche quella nicchia di turisti ... ma privo di visitatori).

Ci vollero due anni due anni di discussioni con le autorità tibetane e lunghe trattative con i custodi buddisti del tempio perché i ricercatori ottenessero il permesso di scavare una zona limitata all'interno della grotta e a precise condizioni: di notte e solo durante il gelido inverno quando il flusso di pellegrini e turisti era minimo). I racconti degli studiosi sembrano arrivare da altri tempi con loro che ogni notte devono attraversare il fiume ghiacciato, punteggiati solo dalla debole luce delle lampade portatile, arrampicarsi fino alla grotta per scavare e rientrare prima del sorgere del sorgere del Sole. Così per settimane ma in un clima di entusiasmo per una opportunità unica. Alla fine i loro sforzi furono premiati con la scoperta di manufatti in pietra e ossa di animali sepolti nei sedimenti che formavano il pavimento della grotta.

Il lavoro di campionatura nella grotta (Photo credit: Han Yuanyuan)


Infine, nel 2019, fu consentito loro di lavorare anche di giorno (sempre a dicembre, però) e questo portò a nuovi ritrovamenti riassumibili in manufatti in pietra, ossa di animali e resti di fuochi, tutte prove cruciali che quella grotta era attivamente usata.

Rimanevano molte domande a cui bisognava ancora rispondere: 

  • chi viveva in quella grotta, chi realizzò questi manufatti e quando?
  • Erano denisovani come lo Xiahe Man di 160 mila anni fa, umani moderni o una combinazione genetica di entrambi?

La domanda sul "quando" venne risolta mediante due tecniche di datazione: la radiodatazione al carbonio permise di datare le ossa degli animali (sia che questi fossero cibo per i residenti che occupanti della grotta) e la datazione dei manufatti in pietra. I più vecchi tra questi ultimi risalgono a 190 mila anni fa e a partire da quel momento sedimenti e manufatti lapidei si sono accumulati fino a circa 45 mila anni fa.

La domanda sul "chi" è un poco più complessa perché ricavabile unicamente dall'analisi del DNA e l'unico reperto umano trovato era la mandibola denisovana di cui sopra. Gli antropologi si concentrarono allora nella ricerca di tracce di DNA umano dai campioni dei sedimenti. Il "bersaglio" migliore da cercare era il DNA mitocondriale, "ideale" in quanto presente in ogni cellula in molte più copie di quello nucleare. E in effetti queste tracce, di natura denisovana, vennero identificate nei sedimenti datati tra 60 e 100 mila anni fa. Dato ancora più interessante quello che i campioni più recenti erano geneticamente più simili di quelli vecchi alla impronta genetica degli abitanti della grotta di Denisova, ad indicare che i Denisovani erano più diffusi di quanto si pensasse inizialmente.

Maggiore diffusione equivale a maggiore possibilità che gli incontri con i sapiens che arrivavano dal medio oriente e dalle steppe eurasiatiche siano stati "produttivi"

Credit to the original poster (by Wikimedia Commons)

L'analisi genetica delle popolazioni moderne esclude un loro contributo "universale" come nel caso dei neanderthal (ad indicare che l'incontro avvenne nelle prime fasi della radiazione umana fuori dall'Africa) ma non di meno è rilevabile in alcune popolazioni asiatiche, quelle i cui antenati incrociarono i denisovani nella loro rotta verso sud-est.

Sarà ora importante cercare di scoprire per quanto tempo rimasero "in giro" i denisoviani che abitavano l'area  intorno alla grotta tibetana, in altre parole se sopravvissero abbastanza a lungo da incontrare gli umani moderni (in caso negativo l'incrocio sarebbe avvenuto altrove) giunti in quelle aree tra 30 e 40 mila anni fa. Uno studio non semplice usando solo il DNA mitocondriale, essendo questo di sola origine materna, dato che non sempre riflette la storia completa della migrazione di un popolo. 

Bisognerà attendere il miglioramento della sensibilità delle tecniche analitiche perché si possa ripetere l'analisi usando, sempre che sia possibile, il DNA nucleare prelevato dai sedimenti della grotta di Baishiya.


Fonte
- Denisovan DNA in Late Pleistocene sediments from Baishiya Karst Cave on the Tibetan Plateau.
Dongju Zhang et al, Science,  30 Oct 2020: 370 (6516) pp. 584-587
- Fossils in a Tibetan cave reveal how early humans adapted to live in one of world’s remotest places
The Conversation/Scroll.in



E se per una volta si facessero regali scientifici (o educational) sia a giovani ...
... che a meno giovani?
Powered By Blogger
"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
Clive S. Lewis

"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper
Controllate le pagine delle offerte su questo blog




















Zerbini fantastici