CC

Licenza Creative Commons
Questo opera di above the cloud è concesso sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.
Based on a work at scienceabovetheclouds.blogspot.com.

The Copyright Laws of the United States recognizes a “fair use” of copyrighted content. Section 107 of the U.S. Copyright Act states: “Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work (...) for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching, scholarship, or research, is not an infringement of copyright.”
Any image or video posted is used according to the fair use policy
Ogni news è tratta da articoli peer reviewed ed è contestualizzata e collegata a fonti di approfondimento. Ben difficilmente troverete quindi notizie il cui contenuto sia datato.
QUALUNQUE link in questa pagina rimanda a siti sicuri!! SEMPRE.
Volete aiutare questo blog? Cliccate sugli annnunci/prodotti Amazon (se non li vedete, disattivate l'Adblocker mettendo questo sito nella whitelist. NON ci sono pop up o script strani, SOLO Amazon). Visibili in modalità desktop! Se poi decidete di comprare libri o servizi da Amazon, meglio ;-)
Dimenticavo. Questo blog NON contiene olio di palma (è così di moda specificarlo per ogni cosa...)

Visualizzazione post con etichetta paleobiologia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta paleobiologia. Mostra tutti i post

Nuovi indizi sul legame tra Asgard e proto-eucarioti

In un precedente articolo si era parlato degli Asgard, sottogruppo di Archea, come gli organismi più simili alle cellule che avrebbero originato gli eucarioti.
In estrema sintesi l'albero della vita consta di 3 Domini (Archea, Bacteria e Eucarya), il più recente dei quali il nostro (cioè Eucarya) sarebbe originato dalla "fusione" simbiontica tra un Archea e un batterio. 
Maggiori dettagli negli articoli––> "Asgard" e "Alla ricerca di LUCA". 
Da un ramo degli Archea e una "preda" batterica, l'origine degli eucarioti
Graphic: Florian Wollweber / ETH Zurich
Di particolare interesse sul tema la recente caratterizzazione di un membro degli Asgard, Lokiarchaeum ossiferum, la cui analisi proteica ha permesso di identificare proteine analoghe (funzionalmente omologhe) alle "nostre" actina e tubulina così da fare luce su alcuni dei passaggi evolutivi che hanno accompagnato la transizione tra questi Archea e gli eucarioti.
Lokiarchaeum ossiferum
Image T. Rodrigues-Oliveira, University of Wien

Nella prima dello studio, pubblicato 2 anni fa su Nature, i ricercatori descrissero la struttura cellulare del L. ossiferum, scoperto in Slovenia nei sedimenti di un canale di acqua salmastra, evidenziando la presenza di alcune strutture tipiche degli eucarioti, basate su una proteina molto simile alla actina degli eucarioti.
Questa proteina, chiamata Lokiactin (poi trovata in gran parte degli Asgard), forma strutture filamentose abbondanti nelle protrusioni simili a tentacoli che emanano dal corpo cellulare di questi Archea, che sembrano svolgere un ruolo chiave nel mantenere la architettura cellulare (quello che negli eucarioti chiameremmo citoscheletro).
Il citoscheletro degli eucarioti però è basato (anche) sui microtubuli, polimeri lineari in perenne rimaneggiamento il cui mattone fondante è la tubulina. Questi minuscoli tubi sono importanti per i processi di trasporto all'interno di una cellula e la segregazione dei cromosomi durante la divisione cellulare. L'origine (evolutiva) dei microtubuli è ancora oggi poco compresa essendo (apparentemente) assente negli altri Domini. 
Un recente articolo apparso su Cell pare viene in aiuto a questo mistero riportando la scoperta di proteine (funzionalmente) simili alla tubulina negli Asgard. capaci di assemblarsi a formare microtubuli, sebbene più piccoli di quelli presenti negli eucarioti.
Dato curioso, solo poche cellule di Lokiarchaeum producono i microtubuli. Inoltre, a differenza dell'actina, tali proteine (i geni) sono presenti solo in pochissime specie degli Asgard e non sono state rilevate negli altri Archea.
Graphic: Margot Riggi, Max Planck Institute of Biochemistry
Domanda a cui bisognerà rispondere è perché solo alcuni microbi di Lokiarchaea producono queste strutture e che ruolo rivestono nella funzione cellulare. Come prima anticipato, negli eucarioti i microtubuli sono responsabili dei processi di trasporto all'interno della cellula e vi sono delle proteine ​​motrici che "camminano lungo" questi tubi (chinesina e dineina ad esempio), proteine però mai identificate negli Asgard.
Il fatto che anche nei Lokiarchaea tali strutture siano dinamiche (i monomeri di tubulina si aggiungono ad una delle estremità) rafforzan l'idea che queste svolgano (anche) funzioni di trasporto simili ai microtubuli negli eucarioti.

L'opinione comune attuale è che la comparsa di un citoscheletro sia stato uno dei passaggi più importanti tra quelli che hanno portato agli eucarioti. Possibile quindi che i progenitori di questi Asgard abbiano compiuto, sviluppando queste strutture, il primo passo verso la pluricellularità e la differenziazione funzionale, proprio quando hanno sviluppato strumenti come le "appendici" (protrusioni) cellulari guidate da proteine actiniche con le quali avrebbero catturato e inglobato il batterio dalla cui mancata digestione si sarebbe evoluto un profondo rapporto simbiontico di cui i mitocondri e i plastidi sono testimoni.
Nel tempo, la comparsa del nucleo e dei compartimenti cellulari avrebbe sancito la nascita del Dominio Eukarya.

In sintesi, l'identificazione di proteine e strutture tipo il citoscheletro degli eucarioti (assenti sia nei Bacteria che, in parte, negli altri Archea) rafforza l'ipotesi che tra gli antenati degli Asgard ve ne siano stati alcuni che, dotati della capacità di catturare prede mediante estroflessioni cellulari, abbiano infine dato il via alla fusione simbionte con una preda batterica non digerita. 

Vantaggio ulteriore di queste scoperte è che l'isolamento di queste proto-actine/tubuline permetterà di generare anticorpi specifici utili per scandagliare acquitrini o colture microbiche complesse alla ricerca di nuovi Archea.


Fonte
- Microtubules in Asgard archaea
Wollweber F. et al. (2025) Cell 

- Actin cytoskeleton and complex cell architecture in an Asgard archaeon.




Shirt e libro di testo per veri nerd (Amazon)


La omochiralità degli aminoacidi non è un retaggio del mondo a RNA

La chiralità della molecole, nota dal XIX secolo, è importante in ambito farmaceutico dato che gli enantiomeri, per quando chimicamente identici, non sempre sono funzionalmente equivalenti.

La chiralità è la proprietà di un oggetto di non essere sovrapponibile alla sua immagine speculare. Due molecole chirali possiedono le medesime proprietà fisiche tranne nel potere rotatorio (identico per intensità ma opposto di segno per ognuna di esse) della luce polarizzata.
Chiralità negli aminoacidi
Le molecole chirali, ripeto identiche ma speculari, mostrano lo stesso comportamento chimico nei confronti di sostanze non chirali mentre la loro interazione chimica nei confronti di altre molecole chirali è diversa (esattamente come una mano destra, stringendo un’altra mano, riesce a distinguere se la mano stretta è destra o sinistra). Questo spiega per quale ragione (a volte) due enantiomeri dello stesso principio attivo di un farmaco, a volte, non sono equivalenti nel profilo beneficio/tossicità, conseguenza di quale associazione mirror-twin sia presente tra effettore e bersaglio. 
Esempio di tale differenza funzionale la ketamina, in cui l'enantiomero R- presenta un miglior profilo funzionale e di sicurezza.
Ecco perché  alcuni farmaci possono essere costituiti dalla forma racemica (mix di enantiomeri) del principio attivo mentre altri devono contenere esclusivamente l'enantiomero destrogiro (R-) o levogiro (L-).
L’analisi con cui si stabilisce la chiralità usa la luce polarizzata circolarmente nella quale il campo elettromagnetico ruota in senso orario o antiorario, formando un “cavatappi” destro o sinistro in cui l’asse è lungo la direzione del raggio di luce; la luce "chirale" viene assorbita in modo diverso dalle molecole R- o L-. Effetto piccolo, ma misurabile, perché la lunghezza d’onda della luce è maggiore della dimensione di una molecola: il “cavatappi luminoso” è troppo grande per percepire la struttura chirale della molecola in modo efficiente. Un metodo migliorato per l'analisi si avvale del laser ad impulsi.
Risulta chiara allora l'importanza di individuare e separare "facilmente" i vari enantiomeri specie quando mostrano uguale comportamento, tranne che durante l'interazione con un bersaglio chirale.
In ambito biologico tre sono le (macro)molecole in cui l'importanza della chiralità è evidente e si manifesta con il fenomeno della omochiralità (prevale un solo enantiomero): zuccheri, aminoacidi e acidi nucleici (la chiralità di questi ultimi è invero la diretta conseguenza della presenza del ribosio - monosaccaride pentosio - nell'unità fondante, cioè il nucleotide). Vedi nota** a fondo pagina.

Poiché in genere le caratteristiche chimico-fisiche degli enantiomeri sono identiche, la ragione della dominanza di un enantiomero come costituenti degli organismi terrestri è verosimilmente conseguenza della specificità del macchinario enzimatico/strutturale che ha amplificato con l’evoluzione la rottura della simmetria già ai tempi del mondo prebiotico. Non ci sono altre ragioni infatti per cui gli zuccheri sono nella quasi totalità D- (cosa che si riflette anche nei nucleotidi con il D-ribosio) e gli aminoacidi L-.

Tra le domande rimaste a lungo senza risposta verificare la possibilità che l'affermazione di un solo enantiomero sia stata guidata da vincoli durante la biosintesi. Una ipotesi classica ipotizzava la esistenza di proteine costituite prevalentemente da residui L-aminoacidi (invece di D-) come conseguenza del D-ribosio negli acidi nucleici, secondo uno schema "specchio".
Nota. Durante la sintesi proteica i “mattoncini” (aminoacidi) da assemblare vengono trasportati al ribosoma dal tRNA (mediatore tra la tripletta del codone genetico e l'aminoacido) che viene caricato con il corretto aminoacido da enzimi noti come aminoacil-tRNA sintetasi, enzimi che mostrano una netta preferenza per L-aminoacidi anche in presenza di entrambi gli enantiomeri.

Una sfida sperimentale a questa ipotesi è stata recentemente pubblicata su Nature Communications che non ha potuto confermarla lasciando aperto il dibattito.
I test di laboratorio sono stati fatti su 15 diversi ribozimi (molecole di RNA con attività enzimatica) capaci di catalizzare i passaggi finali della sintesi di aminoacidi a partire da precursori, molecole che potrebbero essere esistite nel mondo (prebiotico) a RNA. Il risultato è stata la produzione di D- e L- aminoacidi in egual misura, a dimostrazione che l’RNA manca di una predisposizione strutturale tale da favorire una data forma di aminoacidi.
L’omochiralità della vita come noi la conosciamo non sarebbe quindi il risultato di un determinismo chimico, ma di una selezione casuale avvenuta successivamente quando emersero “limiti” nell’assorbimento/metabolismo dell’altro enantiomero, conseguenza della struttura delle proteine evolutesi.

Un contributo importante a tale “spostamento dell’equilibrio” potrebbe essere venuto dagli aminoacidi e dai nucleotidi originati dallo spazio, veicolati dal massiccio bombardamento meteoritico subito dalla Terra primordiale. Indizi in tal senso vengono da studi condotti sui meteoriti come quello del 1997 (che mostrò come tra gli aminoacidi trovati sui resti gli L-aminoacidi erano del 2-9% più abbondanti rispetto alla forma D-) ed uno più recente, del 2021.
Altro articolo interessante sull'argomento "Prebiotic chiral transfer from self-aminoacylating ribozymes may favor either handedness" (Nature Communications, 2024) 

** Nota aggiuntiva sulle molecole chirali.
Carboidrati. Il glucosio è una molecola chirale (due enantiomeri, D- e L- glucosio) di cui solo la forma D- è quella prodotta/utilizzata dagli organismi viventi. Pur essendo versioni speculari l’uno dell’altro le nostre cellule (quindi proteine ed enzimi) sono in grado di utilizzare solo la forma D- 

Aminoacidi. Tranne la glicina tutti gli aminoacidi sono chirali. In natura tuttavia la forma nettamente più abbondante (>90%) nell’organismo è la forma L- sebbene in alcuni occasioni ci siano picchi locali di incremento di D-aminoacidi (ad esempio il D-aspartato durante lo sviluppo del cervello).
Occasionalmente si trovano D-aminoacidi sia in forma libera che come “mattoni” delle proteine originati sia dall'azione di enzimi come le racemasi che per eventi di racemizzazione spontanea degli L-aminoacidi una volta incorporati nella proteina. Nella forma libera i D-aminoacidi sono raggruppati in 3 categorie in base alla loro capacità di funzionare come agonisti sui recettori NMDA, di agire in modo indipendente dai recettori NMDA o se inerti. Oltre che per l'azione delle racemasi una importante frazione di questi D-aminoacidi sono assunti dall’esterno (cibo processato da batteri, ad es. formaggi e yogurt). 

Fonte
Prebiotic chiral transfer from self-aminoacylating ribozymes may favor either handedness
Josh Kenchel et al. Nature Communications (2024)


***
Giochi per scienziati di domani (238 esperimenti in una scatola)

... e una lettura interessante per i grandi
"The Vital Question" (Nick Lane)


Dal mondo prebiotico alla vita sulla Terra primordiale

Ricostruire i passaggi che hanno portato da un mondo abiotico alle primissime forme di vita, dando il via all’evoluzione degli organismi unicellulari, è un compito improbo a cui gli scienziati si dedicano fin dai tempi del “brodo di Miller”.
Non solo domande sul "come" ma anche il “dove” sia avvenuto sono oggetto di indagini che negli anni hanno portato alla rimodulazione dalle ipotesi classiche (camini idrotermali sottomarini) alle calme acque in prossimità delle isole (vedi il precedente articolo sul tema e il tag "paleobiologia").
Sul "quando" le stime sono un poco meno nebulose.
Le primissime evidenze della vita sulla Terra risalgono a circa 3,7 miliardi di anni fa (dati basati su rocce verdi trovate in Groenlandia) anche se si stima che la vita fosse già presente 3,9 miliardi di anni fa, quando la Terra iniziò a raffreddarsi fino a una temperatura alla quale esisteva allo stato liquido. La comparsa delle prime cellule (procarioti) è datata intorno a 3,5 miliardi di anni fa mentre per gli eucarioti bisogna bisogna aspettare 1,8-2 miliardi di anni fa (vedi l'articolo "Alla ricerca del LUCA").
Piacevole la sorpresa di trovare un articolo (breve ma adeguato) su un quotidiano che per sua natura, aggravata a volte da faciloneria senza revisione, non è un luogo ideale in cui trovare temi scientifici trattati adeguatamente. Il Foglio ospita una sezione curata da Enrico Bucci che è invece la dimostrazione di come, volendo, sia possibile trattare temi specialistici in modo adeguato.
In questo ultimo Bucci riassume gli studi più recenti centrati sulla dimostrazione della possibilità, nella Terra primordiale, di reazioni spontanee capaci di produrre i "mattoni" della vita e la capacità di questi mattoni di autoassemblarsi in strutture sempre più complesse.
Scopo non è dimostrare COME la vita abbia avuto inizio (impossibile a meno di avere una macchina del tempo) ma che certi eventi siano potuti avvenire.

Prendo spunto dalla bella idea di Bucci per approfondire un poco il tema aggiungendo alcune informazioni e referenze 

Possiamo iniziare il viaggio dalla accertata presenza di molecole organiche complesse come i ribonucleosidi (i mattoni del RNA) durante il primo periodo Adeano. Presenza confermata (anche) dal ritrovamento di queste molecole sui meteoriti, rocce vecchie come il Sistema Solare.
Si ipotizza che i ribonucleosidi possano formarsi anche nello spazio attraverso una serie di reazioni chimiche che coinvolgono semplici molecole organiche come la formaldeide, l'acido cianidrico e l'acqua, tutte molecole presenti sia nelle nubi interstellari che nelle comete. In presenza di radiazione (cosmica o ultravioletta) tali molecole possono essere indotte a reagire formando ribosio, il precursore dei ribonucleotidi.
La scoperta dell'aminoacido glicina in una cometa nostra vecchia conoscenza (vedi qui) ha evidenziato come anche gli aminoacidi possano formarsi nel mezzo interstellare (Ioppolo et al, e S. A. Krasnokutski et al).
Sulla Terra primordiale, condizioni simili potrebbero essere esistite nelle bocche idrotermali grazie alle alte temperature e alla presenza di vari gas e minerali.

Altra ipotesi sulla formazione dei ribonucleotidi è quella sottesa alla ipotesi del mondo a IPA, secondo cui gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) avrebbero svolto un ruolo importante nell’origine della vita, fungendo, nell'ipotetico stadio del "mondo a RNA", da precursori della sintesi di acido ribonucleico. A conferma dell'ipotesi la recente scoperta che tali composti sono estremamente abbondanti nelle nubi molecolari presenti nello spazio (vedi "Un mega idrocarburo nella nube del Toro").

La disponibilità di ribonucleosidi non sarebbe stata però sufficiente. Era necessario che fossero presenti le forme "attive", i ribonucleotidi trifosfato (rNTP) cioè le forme a cui l’aggiunta di tre gruppi fosfato li rende reattivi e idonei per la polimerizzazione. Nella cellula questo processo è mediato da processi che sfruttano l’energia prelevata dal “cibo” (molecole organiche scisse nei componenti base usati per la generazione di energia, conservata sotto forma chimica in molecole reattive come ad esempio ATP). Una volta usato per alimentare una reazione chimica l'ATP perde un gruppo fosfato diventando ADP e deve essere ricaricato usando l'energia chimica accumulata. Stesso discorso per attivare i "mattoni", rNTP e NTP, necessari alla sintesi di RNA e DNA, rispettivamente.
Chiaramente tali reazioni catalizzate da enzimi non potevano esistere nel mondo prebiotico per cui la “attivazione” doveva essere mediata da processi spontanei conseguenti all’interazione tra molecole preesistenti.
Kim e Benner nel 2021 dimostrarono che in condizioni simili a quelli esistenti nell’Adeano, tra cui la presenza di borato, nichel e di un donatore di gruppi fosfato, la sintesi abiotica di rNTP era possibile.
Il ruolo di nichel e borato è catalizzatore e stabilizzatore, rispettivamente. 
Una volta "comparsi" i rNTP  il passo successivo è stato verosimilmente la loro polimerizzazione a formare filamenti di RNA sufficientemente lunghi dal possedere una qualche attività catalitica (vedi in tale proposito il concetto di ribozima). 
Nel 2022 lo studio di Jerome e collaboratori provò che in presenza di materiale vetroso di origine vulcanica (come diabasebasalto e gabbro prodotti in seguito al rapido raffreddamento della lava) i rNTP potevano polimerizzare spontaneamente in catene di RNA di lunghezza fino a 300 nucleotidi.
Processo che, detto per inciso, avrebbe potuto avvenire anche su Marte, un tempo pianeta vulcanicamente attivo.
A questa nozione aggiungiamo i risultati presentati nel 2020 da Tjhung e colleghi che dimostrano che (alcune delle) molecole di RNA prodotte, rientranti nelle dimensioni di cui sopra, erano in grado di sintetizzare copie funzionanti di sé stesse. Il lavoro successivo di Jerome et al. evidenziò attività catalitiche paragonabili ad una ribozima polimerasi e a ribozima ligasi di classe I capaci nel complesso (polimerizzazione e ligazione) di autoreplicarsi
La ligasi è un enzima (o ribozima in questo caso essendo fatto di RNA) capace di catalizzare la formazione di un legame chimico. La polimerasi catalizza la polimerizzazione dei singoli mattoni (monomeri).
La bassa fedeltà di copiatura delle ribozima polimerasi (e in generale delle RNA polimerasi) è un volano di mutazioni che ha conseguenze evolutivamente importanti. Se da una parte i ribozimi "figli" prodotti avranno una certa probabilità di non funzionare (o male) dall'altra l'alta frequenza di mutazioni faciliterà il processo di autoselezione (leggasi evoluzione) di ribozimi più affidabili.  
Punto questo indagato in un lavoro del 2021 (Portillo et al) in cui si sono impiegate tecniche di evoluzione diretta (riproducono in laboratorio la selezione naturale). I ricercatori dimostrarono che erano sufficienti 52 generazioni per ottenere, spontaneamente, ribozimi polimerasi migliorati in efficienza e fedeltà, capaci di generare sequenze di RNA più lunghe. 
Pesiamo questo dato ottenuto in poche generazioni con le decine o centinaia di milioni di anni a disposizione nella Terra primitiva per formare molecole di RNA più complesse ed efficienti nella replicazione (vedi concetto di fitness genetica)
Un articolo del 2022 (Mizuuchi et al) mostra che oltre all’evoluzione verso forme più efficienti si è andata via via affinando la cooperazione tra molecole di RNA che ha portato a ribozimi interdipendenti e a reti di replicatori: l’interazione porta ad un aumento della stabilità complessiva del sistema, favorendo i replicatori coinvolti (vantaggio evolutivo).

Cooperazione che, come mostrato nell’articolo di Müller et al. (2022), avrebbe coinvolto non solo molecole di RNA ma anche corti polimeri di aminoacidi (peptidi), a loro volta capaci di interagire tra loro.
Le molecole ibride RNA-peptide appaiono più stabili e attive rispetto ai singoli RNA o peptidi e come tali avrebbero rappresentato una fase intermedia cruciale nella transizione dal mondo a RNA a un mondo dominato da ribosomi (macromolecole ribonucleoproteiche in cui avviene avviene la sintesi di proteine partendo dall’informazione contenuta nell’RNA) primitivi. 
Un evento chiave per l'emergere del codice genetico e del flusso di informazione RNA-proteine.

I processi ora delineati avvenivano però in un ambiente liquido privo di “barriere”, con il risultato di rendere le interazioni rare e limitate all’instaurarsi di condizioni locali permissive (in una nicchia nella roccia sul fondo dell’oceano o una pozza di acqua calma in una laguna). Riproducibilità e frequenza su tempi non su scala di eoni erano possibili solo se gli ingredienti si fossero trovati all’interno di una struttura protetta; dovevano in altre parole formarsi delle protocellule, ambienti sufficientemente stabili da separarsi dall'instabilità esterna dell’Adeano.
Nulla a che vedere, sia chiaro, con le attuali cellule che anche nella forma batterica hanno un buon grado di complessità. Queste protocellule dovevano essere strutture sferiche delimitate da molecole lipidiche anfipatiche capaci di autorganizzarsi in uno stato energicamente favorevole mediante una  membrana a due strati, delimitante l'interno acquoso in cui erano intrappolati ribozimi e peptidi. Vantaggio della formazione di compartimenti interni era l’aumento di concentrazione locale che rendeva possibile reazioni chimiche anche senza l’ausilio di catalizzatori biologici (enzimi).
Proof of concept verificato nel 2021 nell’articolo di Köksal et al. Fosfolipidi e acidi grassi che dovevano essere presenti nel mondo prebiotico hanno mostrato capacità di auto-organizzarsi come protocellule in presenza di superfici minerali.
Ultimo studio sul tema quello di Saha et al. (2024) in cui si dimostra come l’inglobamento dell’RNA all’interno delle protocellule, oltre a migliorare stabilità e attività catalitiche, accelera l’evoluzione.
Nel dettaglio si è visto che ribozimi incapsulati in vescicole (micelle, liposomi, etc) evolvono più velocemente rispetto a quelli non incapsulati, selezionando forme sempre più attive. Il fenomeno descritto, noto come effetto di Matthew
Effetto di Matthew. Chiunque sia in una situazione di vantaggio (in questo caso, i ribozimi più efficienti) tende ad acquisire più vantaggi rispetto alla concorrenza aumentando così la fitness. Le protocellule come sinonimi di acceleratori/incubatori di impresa o se vogliamo metterla in sociologia "chi più ha, più avrà".

Una ultima notazione riguarda i lipidi che compongono le membrane cellulari. A differenza degli altri "mattoni" della vita che abbiamo dimostrato potere essere sintetizzati anche nello spazio, i lipidi devono essere prodotti. Un importante tassello che manca nel quadro oggi delineato. La soluzione a questo dilemma viene dai cosiddetti condensati biomolecolari, cioè aggregati spontanei e non delimitati da membrane presenti all'interno delle cellule sia nei procarioti che negli eucarioti, e che svolgono ruoli chiave (ribosomi, etc). Questi aggregati avrebbero potuto formarsi nella Terra primordiale creando una sorta di proto-cellule in cui le reazioni di sintesi (anche dei lipidi) diventavano possibili.


***
Alcuni libri sul tema
E. Smith & H.J. Morowitz

D.W. Deamer


Vivere senza mitocondri

Caratteristica condivisa tra tutti gli eucarioti la presenza dei mitocondri, conseguenza (ne ho scritto nell'articolo "Alla ricerca di LUCA" che vi consiglio di leggere prima di questo) di un processo endosimbiotico avvenuto eoni fa tra una cellula proto-eucariotica ed un batterio. 
Evento simile, ma presente solo nel regno vegetale, ha portato alla “unione” tra il proto-eucariote (probabilmente già in possesso dei mitocondri) con un cianobatterio (fotosintetico) ad originare i cloroplasti
Notizia sorprendente quindi la scoperta di eucarioti privi di mitocondri, la centralina energetica con la duplice funzione di utilizzo e neutralizzazione (essendo tossico) dell’ossigeno molecolare per ricavare energia chimica.
Monocercomonoides
(credit: Naoji Yubuki)
Il dato si riferisce ad un genere di protisti che vive nell’intestino di molti animali (dalle termiti ai ruminanti), in cui l'assenza dei mitocondri è quasi sicuramente un evento secondario (evolutivamente).
I protisti sono un (ex) raggruppamento/regno del vivente che comprende organismi molto diversi tra loro, oggi usato solo come termine ombrello per indicare quegli organismi (unicamente) unicellulari che non sono catalogabili come vegetali, animali o funghi (vedi concetto di parafilia).
Lo studio, pubblicato sulla rivista PLOS Genetics, è stato condotto sui Monocercomonoides (protisti dell'ordine Ossimonade) che vivono nelle viscere di animali, organismi quindi evolutisi in un ambiente in cui l’ossigeno è praticamente assente. Vero che precedenti studi avevano mostrato che diversi gruppi di protisti possiedono mitocondri più semplici della versione classica ma si riteneva che fosse impossibile per una specie perderli completamente.
La scoperta che Monocercomonoides exilis (phylum: Preaxostyla - classe: Metamonada) erano privi di mitocondri ha spinto i ricercatori a fare una analisi comparativa del genoma di varie specie di ossimonade allo scopo di comprendere quali siano stati gli adattamenti biochimici che hanno permesso a queste cellule di compensare la perdita dei mitocondri.
L’analisi ha permesso di datare la perdita dei mitocondri ad antenati vissuti circa 100 milioni di anni fa (in piena era dei dinosauri), tempo che coincide con il processo di speciazione delle ossimonadi oggi diffuse.

La "scelta" di fare a meno dei mitocondri, in un organismo evolutosi insieme ad essi, è stata possibile grazie alla rimodulazione della biochimica cellulare con il trasferimento (ovviamente precedente la "perdita") di alcune funzionalità chiave dal mitocondrio al citosol. Lo studio ha dimostrato che questo evento ha coinvolto il trasferimento di reazioni come la sintesi del FeS cluster**, evidente in "cugini" ossimonadi originati da un antenato comune al clade, a dimostrare un preadattamento che ha reso possibile, in alcune specie, la perdita dei mitocondri (il che dimostra anche che tale "modifica" non è stata un adattamento alla perdita dei mitocondri ma la condizione che ha reso possibile tale perdita)

Lo studio di più specie di ossimonadi ha fornito la prova che la profonda riorganizzazione della sintesi del cluster FeS è stata avviata da un trasferimento genico orizzontale della via batterica SUF e da una perdita della via mitocondriale ISC già prima dell'ultimo antenato comune di questo clade (vedi Mitochondrial iron-sulfur clusters: Structure, function, and an emerging role in vascular biology).

Come molti protisti anaerobi, M. exilis non è in grado di sintetizzare ATP mediante fosforilazione ossidativa; l'ATP viene invece sintetizzato tramite glicolisi nel citosol (Karnkowska et al. 2016). Insieme alla perdita di fosforilazione ossidativa, M. exilis non codifica per nessuno degli enzimi del ciclo dell'acido tricarbossilico
M. exilis possiede una via completa dell'arginina deiminasi che gli consente di produrre ATP mediante conversione di arginina in ornitina, NH3 e CO2 (Novák et al. 2016). Dall'analisi del genoma si evince che il protista può generare ATP metabolizzando anche altri amminoacidi, tra cui triptofano, cisteina, serina, treonina e metionina

Fonte
Characterization of the SUF FeS cluster synthesis machinery in the amitochondriate eukaryote Monocercomonoides exilis
Priscila Peña-Diaz et al, (2024) Current Biology

The Oxymonad Genome Displays Canonical Eukaryotic Complexity in the Absence of a Mitochondrion
Anna Karnkowska et al, (2019) Mol Biol Evol.

- Genomics of Preaxostyla Flagellates Illuminates the Path Towards the Loss of Mitochondria
Lukáš V. F. Novák et al, (2023) PLOS Genetics


Note

** I cluster ferro-zolfo (Fe-S) sono cofattori il cui ruolo più noto è mediare il trasferimento di elettroni all'interno della catena respiratoria mitocondriale attraverso i complessi I, II e III al citocromo c, prima del successivo trasferimento all'ossigeno molecolare.. I percorsi dei cluster Fe-S che funzionano all'interno dei complessi respiratori sono altamente conservati tra batteri e mitocondri delle cellule eucariotiche. 
Nei batteri questi cluster sono localizzati in varie sedi cellulari e sono coinvolti in numerosi processi biologici essenziali, tra cui:
Citosol.
  • via metabolica degli amminoacidi e delle purine, e la replicazione e la riparazione del DNA. Sebbene prodotti direttamente nel citosol, non fluttuano “a caso” ma sono subito incorporati in proteine/enzimi specifici, liberi o associati alla membrana, dove partecipano alle reazioni redox. 
  • Nei casi in cui siano utilizzati come mediatori nel trasporto di elettroni (ad esempio nei batteri aerobi) , i cluster Fe-S sono componenti della catena respiratoria, in modo simile a quanto avviene nei mitocondri.
Membrana
  • Nei batteri fotosintetici, come i cianobatteri, i cluster Fe-S sono componenti integrali dei complessi proteici fotosintetici legati alla membrana e dei trasportatori di elettroni.
  • Sistemi di cluster ferro-zolfo (ISC) e fattore di utilizzazione dello zolfo (SUF): questi sistemi sono responsabili dell'assemblaggio e del mantenimento dei cluster Fe-S. Il sistema ISC funziona in condizioni normali, mentre il sistema SUF viene attivato in condizioni di stress come stress ossidativo e carenza di ferro.
  • Batteri fissatori di azoto: nei batteri fissatori di azoto, i cluster Fe-S fanno parte del complesso enzimatico nitrogenasi, che è essenziale per la fissazione dell'azoto.


***

L'angolo dei consigli per gli acquisti
Un modellino didattico del mitocondrio e un libro sull'elusivo mondo dei protisti (link ad Amazon)





Dalla "Pompei" dei trilobiti immagini dettagliate di fossili vecchi 500 milioni di anni

Tra i fossili non “dinosaureschi” più iconici, impossibile non citare i trilobili, alias artropodi marini vissuti nel Paleozoico ed estintisi una decina di milioni di anni prima che i dinosauri (nel Triassico) iniziassero la loro conquista del mondo. 
Nello specifico i trilobiti prosperano in un arco di tempo tra il Cambriano inferiore (530 milioni anni fa) fino al tardo Permiano (250 M anni fa), passando quasi indenni attraverso due estinzioni di massa (Ordoviciano-Siluriano e tardo-Devoniano) per sparire durante la transizione Permiano-Triassico.
Walliserops trifurcatus, una delle tante specie di trilobiti fossili trovati in Marocco
(Jebel Oufatene / Kevin Walsh )
Il nome trilobita indica la ripartizione del corpo “a tre lobi”, uno dei tratti comuni di artropodi peraltro con buon grado di diversificazione, verosimilmente conseguenza dell'occupazione di specifiche nicchie ecologiche. La ragione della loro abbondanza tra i reperti fossili dell’epoca è conseguenza certo della loro ampia diffusione (seppur sempre acquatica) ma soprattutto del loro esoscheletro mineralizzato costituito da materiale chitinoso, un ottimo viatico nel processo di fossilizzazione.

Un recente studio pubblicato sulla rivista Science descrive in modo estremamente dettagliato la struttura di questi antichi organismi grazie all’analisi di alcuni resti sepolti dalla cenere di un'eruzione vulcanica datata circa 515 M anni fa nella regione che oggi corrisponde al Marocco, all’epoca parte del Gondwana, nota per essere ricca di fossili di Trilobiti.

I paleobiologi descrivono l’eccezionale stato di conservazione di questi fossili (che a tutti gli effetti paiono come la “Pompei dei trilobi” per i resti pietrificati dalla cenere) proprio a causa della cenere vulcanica, fine come talco, riuscita a penetrare fino alla parti anatomiche più microscopiche. Perfino il tratto digestivo di alcuni di questi fossili è pieno di questi sedimenti, ingeriti prima della morte. Con il tempo la cenere si è indurita generando calchi 3D giunti intatti fino ad oggi.
Varie le posizioni congelate dalla morte, alcuni raggomitolati a palla, altri in posizione normale e perfino uno ricorperto di bivalvi che usavano i trilobiti per farsi scarrozzare. 

I fossili sono stati analizzati mediante radiografie e versioni miniaturizzate della TAC così da ottenere immagini ad alta risoluzione anche di strutture minuscole e delicate come le antenne e le setole che ne ricoprivano le zampe.

Disponibile anche sul sito CNN


Fonte
Rapid volcanic ash entombment reveals the 3D anatomy of Cambrian trilobites
Abderrazak El Albani et al, (2024) Science, 384(6703) pp. 1429-1435

***

Gadget tematici con link alla pagina Amazon corrispondente




Conservare il DNA in un polimero simile all'ambra


Penso che tutti voi ricordiate come nel film "Jurassic Park", gli scienziati estrassero il DNA dei dinosauri dalle gocce d'ambra in cui era rimasto protetto per milioni di anni. 
Nota. La non idoneità di tale veicolo per tempi così lungo è stata già discussa in questo blog nell'articolo "Pietra tombale sui sogni di Jurassic Park".
Ispirandosi in parte a quel film, i ricercatori del MIT hanno sviluppato il metodo T-Rex (Thermoset-REinforced Xeroconservation) che si basa sull'utilizzo diun polimero vetroso, simile all'ambra, utilizzabile per la conservazione di lungo periodo del DNA, sia esso derivante da biopsie, interi genomi oppure come veicolo per l'immagazzinamento di file digitali tipo foto o musica.
Informazioni digitali e DNA? vedi l'articolo "DNA come memoria digitale del futuro"
In laboratorio, la conservazione del DNA per lunghi periodi avviene a temperature tra i -20C e -80C, condizioni che implicano un notevole consumo di energia e che rende lo stoccaggio problematico o impossibile in alcune parti del mondo. Grazie ad un polimero simile all'ambra, un gruppo di ricercatori ha dimostrato come sia possibile conservare il DNA (sia esso genomico che frammenti creati per immagazzinare informazioni digitali) per un tempo ragionevole anche in condizioni ambientali estreme, per temperatura e umidità.
Cosa ancora più importante il polimero in cui intrappolare il DNA è stato creato in modo da potere essere facilmente eliminato quando si vuole recuperare il DNA.

Lo studio è stato pubblicato sul Journal of American Chemical Society e il team di ricerca ha fondato una start up (spin off del MIT) di nome evocativo Cache DNA.

Il retroterra dello studio
Il DNA è una molecola molto stabile che veicola le informazioni genetiche. Di recente alcuni ricercatori hanno pensato di sfruttare il suo enorme potenziale di stoccaggio dati per archiviare informazioni digitali, siano esse testo, foto o musica, come una serie di 0 e 1. L'informazione binaria può in effetti essere trasferita nel DNA utilizzando i quattro nucleotidi che compongono il codice genetico (A, T, C e G), ad esempio G e C potrebbero essere usati per rappresentare 0 mentre A e T per 1.
Giusto per dare l'idea, immaginate di avere una tazza (tipo per le mug) e di riempirla con DNA, la quantità di informazione veicolata da tutto questo materiale sarebbe superiore a tutti i dati digitali mondiali
Mentre la teoria del trasferimento delle informazioni digitali nel DNA non è una novità, i ricercatori hanno cercato di ottimizzare il processo inserendo dei tag (bandierine identificative) nella resina sviluppata in modo da facilitare l'archiviazione e il recupero mirato anche partendo da uno stoccaggio misto. Il problema era che per "solubilizzare" il polimero era necessario usare l'acido fluoridrico, molto tossico.
Alla ricerca di materiali di stoccaggio alternativi, è stato sviluppato un tipo di polimero (in realtà un mix di polimeri, chiamato polistirene reticolato) che solidifica dopo il riscaldamento, quindi un materiale perfetto in cui inglobare il DNA. Cosa ancora più importante, il polimero contiene legami pensati per essere rotti in modo selettivo con trattamenti mirati (e meno tossici) quando si decide di recuperare il DNA.
Nel dettaglio i monomeri dello stirene e i reticolanti vengono copolimerizzati con monomeri chiamati tionolattoni. I legami possono essere rotti al bisogno mediante trattamento con una molecola chiamata cisteamina.
Image credit: Elisabeth Prince et al (2024) 
Tale materiale termoindurente ha anche il pregio di essere idrofobo così da impedire all'umidità di penetrare e danneggiare il DNA.
Per "catturare" il DNA (molecole idrofila a carica negativa) nello stirene (idrofobo) i ricercatori hanno usato una combinazione di tre monomeri (i mattoni di un polimero) in grado di "solubilizzare" il DNA e di farlo interagire con lo stirene. Ciascun monomero ha caratteristiche diverse dalla cui azione combinata si ottiene una sorta di "salting-out" del DNA (uscita dalla fase acquosa) che dà luogo a complessi sferici tipo micelle invertite (parte idrofila interna che interagisce con il DNA e parte idrofoba esterna che interagisce con lo stirene) 
Una volta riscaldata, questa soluzione diventa un blocco solido simile al vetro, in cui è racchiuso il DNA.
Per ora il processo di inclusione necessita di qualche ora ma è più che probabile che l'ottimizzazione futura del processo abbasserà notevolmente il tempo richiesto
Per recuperare il DNA si procede al trattamento con cisteamina, che rompe il blocco liberando pezzi minuscoli, seguito dal trattamento con un detergente classico come il SDS che permette di recuperare il DNA senza danneggiarlo.

Test finale per confermare la validità del metodo è stato il sequenziamento del DNA allo scopo di verificare l'assenza di errori, caratteristica fondamentale di qualsiasi sistema di archiviazione di dati digitali.
Il polimero termoindurente si è dimostrato capace di proteggere il DNA fino a 75C.

Il nome del metodo è T-Rex, pare quantomeno appropriato data la robustezza dello stesso

Fonte
Reversible Nucleic Acid Storage in Deconstructable Glassy Polymer Networks
Elisabeth Prince et al, J. (2024) Am. Chem. Soc. 146, 25, 17066–17074

***


Che dire? Di sicuro una lampada evocativa (chiaramente non è ambra)
Image: Amazon



La genetica di come i serpenti hanno perso le zampe

Come i serpenti siano diventati tali (a partire da un vertebrato con zampe) è ancora frutto di ipotesi. Non tanto riguardo all'effettiva realtà di questa evoluzione (reperti fossili sono noti) ma sulle mutazioni che hanno reso possibile la regressione degli arti fino a farli scomparire del tutto o all'essere evidenti solo dopo accurata analisi (boa e pitoni hanno arti vestigiali

A fare luce sulla questione arriva ora un ampio studio con l'analisi genetica (e comparativa) tra 14 specie di serpenti (appartenenti a 12 famiglie) confrontati poi con i dati di altre 11 specie precedentemente analizzate. Un campione scelto accuratamente in modo da abbracciare 150 milioni di anni della loro evoluzione
Lo studio è stato pubblicato lo scorso anno su Cell.

L'analisi ha evidenziato una alterazione comune a tutte le specie del gene PTCH1, coinvolto nello sviluppo degli arti. La prova del nove è stata quella di introdurre lo stesso tipo di mutazioni nell’equivalente murino di quel gene. Il risultato sono stati topi cone le ossa delle zampe molto più corte.
Tra i dati emersi anche le possibili (con)cause della bassa capacità visiva e la riprogrammazione degli organi uditivi dei serpenti innescata verosimilmente dalla vita sotterranea dei serpenti primitivi (in un modo dominato dai dinosauri). In questo caso si è tratto di mutazioni che hanno diminuito (o spento) l'attività di alcuni geni. Ad esempio la diminuita attività dei geni associati alla capacità di sentire le alte frequenze potrebbe aver portato alla riconfigurazione delle ossa dell’orecchio dei rettili, rendendoli molto più sensibili alle vibrazioni. 

Ultima (si fa per dire data la mole del lavoro svolto) scoperta riguarda le mutazioni dei geni DNAH11 e FOXJ1, coinvolti nello sviluppo simmetrico dell'embrione, che spiegano la netta riduzione volumetrica (o anche scomparsa) del loro polmone sinistro

Il lavoro rappresenta un passo avanti non solo verso l’identificazione dei geni chiave nello sviluppo dei serpenti, ma anche verso l’individuazione di come lo sviluppo modella altri vertebrati, compresi gli esseri umani, e quindi l’identificazione di ciò che potrebbe andare storto e causare malattie o malformazioni.
In calce un articolo pubblicato nel 2015 sull'antenato "zampato" del serpente

Fonte
- Large-scale snake genome analyses provide insights into vertebrate development
Changjun Peng et al, (2023) Cell 



***

L'antenato a quattro zampe del serpente
Spesso ci si dimentica che anche i serpenti sono tetrapodi come noi e quindi hanno un antenato a quattro zampe.

 Trovare però l'anello di congiunzione tra la linea principale dei rettili (con arti visibili) e il sottordine dei Serpentes (in cui gli arti sono visibili come vestigia ossee) è tutt'altro che banale.
Hemiergis quadrilineatum, un rettile australiano in cui sono ancora evidenti
arti oramai "inutili". Nei serpenti il processo di riduzione si è spinto fino alla
presenza di sole vestigia ossee (credit: reptilesofaustralia)
Oltre a fossili viventi come la lucertola mostrata nella figura a fianco, l'unico indizio fossile del percorso evolutivo che ha portato ai serpenti attuali è la Najash rionegrina, un estinto rettile scavatore in cui era evidente l'osso sacro, l'elemento chiave dei tetrapodi.
Mancava però il fossile di transizione tra animali come le moderne lucertole e la Najash.
Nota. Due sono le teorie attuali, in contrasto tra loro, riguardo l'evoluzione dei serpenti. La prima ipotizza che derivino da animali marini spostatisi sulla terraferma, quindi già "quasi" privi di arti se non come vestigia ossee. La seconda teoria ipotizza invece che si siano evoluti da lucertole scavatrici adattatesi talmente bene alla vita nei cunicoli da avere perso ogni necessità degli arti. 
Si comprende meglio allora l'entusiasmo che la scoperta di un fossile vecchio di 113 milioni di anni di aspetto serpentiforme ma dotato di quattro zampe ha scatenato nel mondo dei paleobiologi; il ritrovamento ha infatti nel campo la stessa valenza che la scoperta dell'Australopithecus afarensis (noto ai più come Lucy) scatenò tra gli antropologi.
Ad essere onesti il fossile era stato portato alla luce alcuni decenni fa, ma nessuno allora si accorse dell'esistenza delle minuscole zampette, finendo così come reperto semi-dimenticato in una collezione privata. Questo fino al casuale riesame compiuto da David Martill, un paleobiologo dell'università di Portsmouth che dopo averne scoperto i mini arti lo ribattezzò Tetrapodophis amplectus, vale a dire "serpente a quattro zampe in grado di afferrare".
Dave Martill/University of Portsmouth cited in wired.uk

Il proto-serpente mostrato nella foto misura 20 centimetri ed è dotato di due arti anteriori di circa 1 cm, completi di gomito, polso e dita. Le zampe posteriori sono leggermente più grosse e lunghe. Il fossile ha un chiaro aspetto serpentiforme con un tronco allungato, coda corta e scaglie ventrali a supporto di una locomozione serpentina. Il cranio e le proporzioni del corpo, così come la riduzione delle vertebre sono anch'esse a supporto di un adattamento scavatore, tutti dati a sostegno dell'ipotesi di un antenato terrestre.
Anche il cranio del Tetrapodophis mostra che si tratta di un animale terrestre adatto a scavare privo degli adattamenti necessari per una vita acquatica. La presenza di denti orientati verso l'interno suggerisce anche che fosse un feroce predatore; a riprova delle sue abitudini carnivore la presenza nelle viscere del fossile di ossa derivanti dal suo ultimo pasto. Le sue tecniche predatorie sono incerte ma la struttura corporea rende possibile che avesse già al tempo capacità di catturare la preda avvolgendosi intorno e magari fermandola con i mini arti.

Secondo l'autore il fossile dimostra che quando, durante l'evoluzione, il proto-serpente "smise di camminare" (ovviamente una frase sintetica che riassume milioni di anni di processi adattativi), i suoi arti non divennero inutili vestigia ma furono probabilmente utilizzati oltre che per afferrare la preda anche per trattenere il partner durante l'accoppiamento

Il luogo del ritrovamento (Brasile) e l'età del fossile (Cretaceo inferiore) indicano nel supercontinente del Gondwana l'area in cui è avvenuta la transizione.

(articolo precedente sul tema --> "Reperti ossei dell'antenato dei serpenti")

Fonte
- A four-legged snake from the Early Cretaceous of Gondwana
David M. Martill et al, Science (2015) Vol. 349 no. 6246 pp. 416-419

Tardigradi fossili nell'ambra vecchia di 16 milioni di anni


Image Credit: NJIT/Harvard

I tardigradi sono animaletti microscopici, noti anche come orsi d'acqua, famosi per la resistenza alle condizioni più estreme e non è un eufemismo considerando che sono sopravvissuti all'esterno della Stazione Spaziale Internazionale
Quando le condizioni diventano proibitive i tardigradi si "trasformano" in una palla disidratata, entrando in uno stato di animazione sospesa, noto come criptobiosi, in cui il metabolismo è messo in pausa. Possono rimanere in questo stato fino a che le condizioni tornano favorevoli come ben esemplificato dai tardigradi rimasti congelati per 30 anni nel muschio antartico.

Ma per quanto sia duro a morire (altro che il Willis di Die Hard) e di antico lignaggio (ben prima della caduta dei dinosauri), la vera impresa è trovare un suo fossile. Ad oggi ne sono stati trovati solo due (entrambi risalenti al Cretaceo) pur essendo presenti in quasi ogni habitat in cui sia presente acqua.

Notizia importante quindi il ritrovamento nell'ambra vecchia 16 milioni di anni di un terzo fossile completamente preservato. Lo studio è apparso poche settimane fa su Proceedings of the Royal Society B
La dimensione microscopica certo non aiuta nella loro ricerca. Non a caso il nuovo ritrovamento si trovava in una inclusione nascosta nell'angolo di un pezzo di ambra che conteneva tre diverse specie di formiche (vedi la figura in apertura). Non ci si è accorti per mesi che dentro il campione c'era anche un tardigrado.
L'esemplare scoperto è il fossile meglio conservato, con dettagli a livello del micrometro dell'apparato boccale e degli artigli aghiformi, 30 volte più sottili di un capello umano. Lo studio si è avvalso di microscopia confocale laser a fluorescenza (una tecnica utilizzata in biologia cellulare, e non in paleontologia).

I corpi microscopici non biomineralizzati dei tardigradi si prestano alla conservazione nell'ambra  (un derivato della resina), che permea e protegge mini e microorganismi, batteri compresi, dall'usura del tempo.

Il fossile, per quanto simile alle specie oggi esistenti (almeno 1300 quelle note) ha caratteristiche uniche nella parte anteriore dell'apparato digerente, sufficienti per definire un nuovo genere.


Uno studio pubblicato pochi giorni fa ha analizzato nel dettaglio il genoma di varie specie di tardigradi cercando di trovare i geni responsabili di alcune delle loro (di alcuni di loro) peculiarità come la resistenza al disseccamento.



Fonte
- A tardigrade in Dominican amber
Marc A. Mapalo et al, (2021) Proceedings of the Royal Society B

- The Evolution of Temperature and Desiccation-Related Protein Families in Tardigrada Reveals a Complex Acquisition of Extremotolerance
JF Fleming et al, (2024) Genome Biology and Evolution. Volume 16, Issue 1

Esempio di un insetto preservato nell'ambra vecchia insetto ambra 40 milioni di anni
(image: Levon Biss)

***

L'angolo del Nerd

Che dire? Di sicuro una lampada evocativa (chiaramente non è ambra)
Image: Amazon



L'Asgard che ci interessa come eucarioti

Il parente più prossimo dell'antenato degli eucarioti sono gli Hodarchaeali, membri del superphylum Asgard, regno Archea

In un precedente articolo (in calce al presente) si è parlato dell’origine degli eucarioti e di come il gruppo di Archea che va sotto il nome di Asgard rappresenti (i discendenti oggi viventi del) l’anello di congiunzione tra eucarioti e protoeucarioti. Un’analisi complicata dal fatto che non esistono fossili di eucarioti più vecchi di 2 miliardi di anni fa, il che fa pensare che prima esistessero solo vari tipi di batteri.

È di qualche giorno fa un articolo che aggiunge un tassello alle nostre conoscenze con la ricostruzione filogenetica di questo “antenato”.

Nei dibattiti in corso sull'eucariogenesi - la serie di eventi evolutivi che portano all'emergere della cellula eucariotica da antenati procarioti - i membri dell'archaea di Asgard sono stati identificati come i parenti arcaici più stretti degli eucarioti. Rimane tuttavia poco compresa la natura e l'identità filogenetica dell'ultimo antenato comune tra “noi” e gli Asgard archae.
Un indizio viene da un articolo pubblicato su Nature in cui si riporta l’analisi di centinaia di genomi da vari ceppi di Asgard e il risultante profilo dell’antenato comune. Il risultato vede gli eucarioti collocati come un clade annidato all'interno di Asgard archaea e il “gemello” ancora esistente di quello da cui sono emanati gli eucarioti negli Hodarchaeali, un nuovo ordine proposto all'interno di Heimdallarchaeia.
L'albero filogenetico. Notare gli Eukarya e gli Hodarchaecales
Image credit: Laura Eme et al, (2023) Nature 


Gli Hodarchaeali sono stati scoperti nei sedimenti dei fondali oceanici e presso diverse sorgenti termali. Ad oggi si è riuscito a coltivare in laboratorio due ceppi; dall’analisi genetica si è potuto inferire il loro metabolismo che suggerisce che l’antenato comune fosse un chemolitotrofio termofilo mentre quello da cui poi sarebbero sorti gli eucarioti si sia adattato a condizioni mesofile acquisendo anche il potenziale genetico per uno stile di vita eterotrofico.

Articolo successivo sul tema Il quasi citoscheletro degli Asgard

Fonte
- Inference and reconstruction of the heimdallarchaeial ancestry of eukaryotes
Laura Eme et al, (2023) Nature  




Articoli precedenti sul tema
- Alla ricerca di LUCA (articolo copiato in calce)




Shirt e libro di testo per veri nerd (Amazon)




*** Alla ricerca di LUCA ***
(febbraio 2023)

Alla ricerca di LUCA (Last Universal Common Ancestor) si è trovato un organismo con caratteristiche simili al proto-eucariote

Ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi della classificazione linneana degli organismi (per non parlare di Aristotele) quando ancora la genetica era un non-concetto e mancavano quindi gli strumenti di tracciamento che andassero oltre alla mera comparazione funzionale e strutturale.
In tempi più recenti si era giunti ad una classificazione degli organismi in 2 domini (Monera e Eukaryota) che però si scoprì in fretta essere troppo semplicistica. Il dominio Monera era tutto fuorché uniforme e si giunse presto a capire che al suo interno erano raggruppati due domini tanto diversi tra loro quanto i Monera dagli eucarioti. Si deve a Carl Woese nel 1990 la ripartizione del primo nei due domini Bacteria e Archaea, che vanno così ad aggiungersi agli eucarioti.

A scompaginare quella che sembrava una classificazione “finale” fu il problema dell’origine degli eucarioti che, seguendo una ipotesi formulata negli anni 60 da Lynn Margulis, sarebbero il risultato di una relazione endosimbionte seriale tra un ipotetico proto-eucariote ed un batterio. Evento avvenuto in più riprese come l’esistenza stessa di plastidi (in piante e alghe) e mitocondri (in tutti gli eucarioti) dimostra e spiegabile unicamente con una simbiosi estrema tra il "predatore" e un batterio non digerito dotato di funzionalità fotosintetiche o di fosforilazione ossidativa basata sull’ossigeno, a seconda del tipo.
Se questo spiegava la presenza e le caratteristiche del DNA in questi organelli e la forte somiglianza metabolica e della sintesi proteica tra un Archea e un eucariote, rimaneva da spiegare il mistero del nucleo.
Questa la ragione per cui oggi si preferisce posizionare gli Archea come un "ramo" separatosi molto precocemente da un proto-eucariote invece che come un terzo "ramo".
Il nucleo, elemento caratterizzante la cellula eucariote è infatti dotato di doppia membrana come i plastidi e mitocondri; ma se la doppia membrana dei primi era spiegabile come “il residuo” del processo di fagocitosi avvenuto eoni fa, questa ipotesi perdeva di senso per il nucleo a meno di ipotizzare la cattura del genoma da un altro ipotetico antenato, divenuto poi dominante (idea francamente poco  sostenibile).
La struttura di mitocondri e cloroplasti ha in comune l'essere dotata di doppia membrana
(image credit: biologyexams4u)

Il nucleo è dotato di una doppia membrana di cui quella esterna in continuità con il reticolo endoplasmico

A dirimere il nodo alcuni articoli apparsi nell’ultimo biennio, capaci di spiegare sia l’evento di cattura dei batteri che sarebbero poi diventati i plastidi e i mitocondri, che la doppia membrana nucleare.
Punto centrale, l’identificazione di un Archea in cui si notano chiaramente lunghe protrusioni (simili agli pseudopi degli eucarioti) usate per catturare il cibo dall’ambiente, finora mai osservate negli archea.

Comprendo che il tema non sia semplice.
Questa la ragione per cui ho deciso di ripescare un vecchio articolo in cui trattavo di una classe di Archea con caratteristiche molto simili a quelle del proto-eucariote, modificandolo in modo sostanziale sia in queste righe introduttive che nella parte finale contenente i vari aggiornamenti. Il risultato, qui riproposto è un articolo nuovo, lungo ma unico con cui avere una panoramica (poco tecnica) dell'argomento. Nell'ultimo paragrafo ho inserito il riassunto degli argomenti toccati.

Nota. Il processo endosimbiontico è avvenuto più volte nel corso dell'evoluzione. Di seguito una figura riassuntiva
Le piante sono il risultato di almeno 3 eventi di endosimbiosi


***

Loki, Asgard e Midichlorian
Dai fumetti i nomi di batteri con ruolo chiave nell'evoluzione

Tutto nasce da un curioso intreccio tra biologia e Star Wars, citazione non casuale se si pensa ad un Archea che deve il suo nome ai Midi-chlorian, la fonte stessa della Forza nella narrazione dell'universo di Lucas) al cui articolo rimando prima di continuare questo.

Loki, AsgardMidichlorian, i microbi allla base della Forza in Guerre Stellari
Usare questi nomi come incipit di un articolo potrebbe fare pensare al repentino reindirizzamento del blog verso tematiche comics in salsa Marvel o SF in genere. Non che sia immune a tale fascinazione ma … no, si rimane sempre in ambito biologia.
Non solo mitologia norrena ma anche nomi di batteri (credit: Uppsala University)

I nomi evocativi di cui sopra sono stati infatti usati per identificare particolari microorganismi particolarmente interessanti da un punto di vista filogenetico (studio delle linee di discendenza nell'evoluzione della vita).
Se qualcuno avesse chiesto un secolo fa ad uno scienziato di fare una distinzione macro degli organismi viventi, questi avrebbe certamente usato quella tra animali e vegetali. Distinzione poi superata (piante e funghi hanno ben poco in comune) in favore di quella tra cellule prive di nucleo (procarioti o Monera cioè i batteri) e con nucleo (eucarioti).
Una distinzione molto generica (e non più corretta) che sottintende organismi molto diversi tra loro
Alla metà degli anni '70 del secolo scorso la tecnologia fornì strumenti di indagine innovativi che permise ai ricercatori, tra cui Carl Woese, di analizzare la sequenza del RNA ribosomale e di usarla per determinare i rapporti di parentela tra i vari organismi. L'analisi mostrò che i procarioti presentavano una eterogeneità tale che alcuni di loro erano più simili ad un eucariote (pur non avendo il nucleo) rispetto ai loro "consimili".
Si passò quindi, tra non poche discussioni, ad un albero della vita con 3 domini, due dei quali originati da quello che prima erano i procarioti: gli archeabatteri (oggi noti come Archea, batteri che vivono in ambienti estremi, che richiamano molto le condizioni della Terra primordiale); gli eubatteri (o semplicemente Bacteria, i batteri propriamente detti) e gli eucarioti (Eucarya, che comprendono i 5 regni Animalia, Fungi, Plantae, Protista, Chromista).

Lo scontro "ideologico" era tra il modello a tre domini di Woese e quello a due domini (vedi figura sotto).
Il cladogramma in accordo con le osservazioni di Woese. Il cladogranma collega tutti gli organismi viventi al LUCA (il tronco nero nella parte inferiore). Questo grafico è derivato dalla sequenza del RNA ribosomico.
(Image credit:  Eric Gaba - NASA Astrobiology Institute)

La differenza tra il modello proposto da Woese (in alto), detto a 3 domini, e quello proposto da altri (in basso) detto a 2 domini è nel dove collocare gli eucarioti (cioè noi): originati a un antenato comune con gli Archaea oppure "figli", cioè emersi da un sottogruppo di Archaea?
(image credit: Crion via wikipedia)

Una versione recente (2017) e dettagliata del modello a due domini della precedente figura
(image credit: Laura Eme et al, Nat. Microb.)

Domanda che sorge spontanea è cosa si intenda per LUCA.
La parola è l'acronimo di Last Universal Common Ancestor, un termine che non deve ovviamente essere preso al singolare (organismo unico) ma come comunità di quasi-organismi protocellulari da cui sarebbero sorte le cellule propriamente dette.
Cosa e come fosse questa protocellula o quello che c'era prima ancora è solo frutto di ipotesi. Probabile che la transizione chiave sia avvenuta con il passaggio da materiale genetico "libero" e dotato di attività catalitica (come possono essere i ribozimi) ad una protocellula in seguito all'inglobazione di tale materiale in una vescicola lipidica micellare, definendo così un ambiente "interno" da uno "esterno".
Scegliere il modello corretto tra quello a 2 o a 3 domini implica capire se gli eucarioti siano originati dagli archèobatteri (definibili come sottogruppo di essi) oppure da un proto-archèobatterio (quindi siano diversi).

Oltre a questo è necessario capire come e quando sia avvenuto il passaggio da una cellula senza nucleo (e senza organelli) ad una con nucleo e mitocondri (più cloroplasti, il tipo di plastidi più noti ai più, nel caso delle cellule vegetali).
Almeno per quello che riguarda mitocondri e cloroplasti la teoria oggi accettata è quella della endosimbiosi proposta a fine anni '60 da Lynn Margulis.

In estrema sintesi le attuali cellule eucariote sarebbero il prodotto di una simbiosi tra un protoeucariote anaerobio dotato di nucleo in cui è racchiuso il genoma e una cellula batterica aerobica, priva di nucleo, capace di utilizzare l'ossigeno; con il tempo quest'ultima si trasformò nella centralina energetica della cellula grazie alla sua capacità di coniugare la neutralizzazione dell'ossigeno con una elevata produzione di energia chimica (sotto forma di ATP) grazie alla fosforilazione ossidativa.
In verità più che simbiosi, l'evento sarebbe da attribuire ad un pasto "indigesto" con il quale il protoeucariote inglobò il batterio senza però riuscire a ucciderlo e a digerirlo, portandoselo appresso nelle generazioni successive. Negli eoni che seguirono il rapporto tra i due divenne così vantaggioso per entrambi da culminare in una migrazione di molti geni batterici nel genoma del nucleo (che quindi prese il controllo della "ex" cellula batterica). Questo "ex" batterio divenne il mitocondrio (ancora oggi ha un suo genoma "essenziale" ed è capace di divisione autonoma) ed è stato l'elemento discriminante che ha permesso alla cellula eucariote di "evolvere" fino agli organismi multicellulari: il possedere una propria centrale energetica (in numero fino al migliaio come negli spermatozoi) fornisce un chiaro vantaggio al possessore.
La simbiosi si è spinta talmente da essere oggi di fatto "obbligata". Tra gli eucarioti esiste solo un protista appartenente al genere Monocercomonoides che è privo di mitocondri. Negli organismi pluricellulari alcune cellule decidono di farne a meno semplicemente "perdendoli" durante il processo differenziativo; l'esempio classico sono gli eritrociti (globuli rossi) che si spingono talmente in là nel loro processo minimalista tutto dedito al trasporto di ossigeno che oltre ai mitocondri perdono perfino il nucleo, cioè il loro DNA. Per approfondimenti l'articolo --> "The origin of mitochondria" su Nature
Ed ecco che arriviamo ai Midi-chlorian.
Il nome, coniato nell'episodio 1 di Guerre Stellari, indica gli esseri microscopici da cui "emana" la Forza (presente in tutti i viventi ma solo alcuni individui ne possiedono un numero così elevato da fare emergere questa "energia"). Chiaramente era solo un escamotage narrativo per spiegare un fenomeno che non voleva essere percepito come magico e come tale appartenente al regno del fantasy.
Fu solo in seguito, con la identificazione di alcuni batteri che avevano molte caratteristiche che richiamavano gli antenati dei mitocondri (cioè i batteri inglobati e sfuggiti al pasto) che si decise di usare questo nome nella scienza "ufficiale". Del resto quale nome migliore di quello da cui origina la "forza" per indicare il progenitore delle centraline energetiche delle cellule?
Se il "fossile vivente", discendente della famiglia da cui originarono i mitocondri è oggi associato al Midichloria mitochondrii, mancava all'appello il discendente (sempre che esistano tuttora) del proto-eucariote che prima tentò di papparsi il batterio e poi finì per stringere con esso una alleanza, anzi una "dipendenza", mutualmente necessaria.
Il batterio più strettamente imparentato con l'antenato dei cloroplasti è invece il cianobatterio (capace di fotosintesi) Gloeomargarita lithophora. Il processo endosimbiontico sembra essere avvenuto altre volte, dopo quello fondante che ha originato le cellule vegetali circa 1,5 miliardi di anni fa; si parla di endosimbiosi secondaria o terziaria nota anche come kleptoplasty che letteralmente indica il rubare il plastidio da una fonte di cibo (eventi noti in dinoflagellati ad esempio).
L'organismo ricevente, cioè il proto-eucariote, era con ogni probabilità un Archea.

Ed eccoci arrivati ai nomi  Loki e Asgard.
Tutto nasce con il sequenziamento del genoma dei microbi prelevati dai fanghi dei fondali marini della Groenlandia. L'analisi, fatta da Anja Spang e Thijs Ettema, rivelò la presenza di strani Archea, che per alcune loro caratteristiche fuorvianti furono chiamati Lokiarchaeota (Loki nella mitologia norrena è il Dio dell'inganno e della confusione) e classificati come proteoarchaeota e nel superphylum Asgard.
La loro caratterizzazione ha riacceso un dibattito che si pensava sopito tra i fautori della divisione a due domini e chi propendeva per quella a tre domini. I Lokiarchaeota, pur chiaramente archeabatteri possiedono infatti alcuni geni (175, poco più del 3%) coinvolti in importanti funzionalità caratteristiche degli eucarioti. Tra questi i geni per:
  • i sistemi proteici di membrane intracellulari;
  • i pori nucleari; 
  • la fagocitosi; 
  • la duplicazione del DNA; 
  • l'ubiquitina (il sistema di degradazione delle proteine) 
  • ... e altro ancora. 
Non meno importante la presenza in questi Archea di una struttura interna alla cellula che somiglia ad un nucleo che in effetti delimita la zona in cui è localizzato il DNA genomico (--> Michaela M. Salcher et al - 2019).

I dati sembrano spingere verso il modello a due domini e con esso il claim "siamo tutti Archaea" diventerebbe una caratteristica intrinseca a tutto ciò, noi compresi, che non è batterio e non è virus (dal protozoo all'elefante; nota i virus sono meglio definibili come quasi-organismi).
Dato che l'universo Marvel e quello di Lucas sono ben forniti, non stupitevi se in futuro sentirete in ambito scientifico altri nomi derivati dal mondo comics et similia.  

Un altro modo per vedere graficamente l'evoluzione dal LUCA ai suoi discendenti (image credit: Maulucioni via wikipedia) Un cladogramma più accurato --> QUI

***

Identificato il gruppo di Archea con caratteristiche "idonee" a rappresentare il proto-eucariote ancestrale il quadro era ben lungi dall'essere completo sia per l'assenza di caratteristiche essenziali per spiegare come fosse avvenuto il processo di cattura che avrebbe portato all'endosimbiosi che per l'impossibilità di spiegare la doppia membrana nucleare.
Nota. Quando scrivo dell'identificazione di organismi con caratteristiche compatibili a quelle dell'antenato ancestrale, questo non vuol che questi organismi coincidano con l'antenato. Il paragone più semplice si riferisce a noi e alle scimmie, nostri "cugini" prossimi che sono tuttavia ben diversi dall'antenato in comune che è scomparso nello stesso momento in cui hanno cominciato ad accumularsi le differenze tra le varie linee evolutive che poi avrebbero portato ai primati attuali.
Studiare gli Archea non è semplice di suo e la difficoltà si amplifica quando si vuole esplorare la consistenza della teoria dell'endosimbionte in questi organismi. La spiegazione è che questi organismi vivono in nicchie ecologiche talmente particolari (letteralmente da Terra primordiale) da rendere difficile sia riprodurre le condizioni esatte in laboratorio, trovando i nutrienti corretti, che trovare eventuali "partner" nella catena alimentare necessari alla loro sussistenza. Immaginate poi di dovere studiare al microscopio un organismo che si divide molto più lentamente di altri batteri (condizione derivante dal vivere in ambienti poveri di nutrienti e difficili) anche nelle condizioni per lui ottimali e di farlo in condizioni di sicurezza per l'operatore quando il "brodo di coltura" è ad alta temperatura, acido e con effluvi tossici.
Nonostante queste difficoltà, le pubblicazioni su questo gruppo di microbi sono quasi raddoppiate negli ultimi dieci anni.

I modelli per spiegare la transizione tra un gruppo di Archea primordiale e il proto-eucariote differiscono tra loro sul "timing" dell'evento, inteso in quanto questo organismo avesse già acquisito peculiarità strutturali eucariote tipo la presenza di membrane flessibili e compartimenti interni, PRIMA di catturare il batterio che sarebbe diventato il mitocondrio. Se alcuni ipotizzano che queste cellule avessero già "moderni" meccanismi di cattura del materiale esterno (fagocitosi), altri come Sven Gould credono che questo sistema estremamente specializzato si sia sviluppato eoni dopo l'endosimbiosi, e che la cattura sia avvenuta mediante meccanismi più semplici della fagocitosi tipo quelli usate dai batteri.

Ma c'è un terzo modello che chiamiamo modello di Baum dal nome dei proponenti, due cugini.
Il modello di Baum si distingue dagli altri perché non solo spiega la cattura del "proto-mitocondrio" senza la fagocitosi ma anche l'origine della membrana nucleare.
L'idea nasce nel lontano 1984 quando uno dei due era ancora uno studente, formalizzata nel 2014. La riassumo di seguito.
Il processo inizia in un mondo in cui Archea e batteri condividono l'ambiente e con esso le risorse. Si ipotizza la presenza di un gruppo di Archea dotato di una sufficiente plasticità della membrana, capace di estenderne propaggini verso l'esterno in modo da aumentare la superficie, così da massimizzare lo scambio di nutrienti. Durante queste attività alcune propaggini (lunghe e più voluminose del "corpo cellulare") potrebbero avere circondato in modo casuale un più piccolo batterio fino a intrappolarlo in qualcosa di simile ad un  endosoma. Un processo simile potrebbe essere avvenuto con il ritorno della propaggine verso il corpo cellulare (in cui di fatto si trovava confinato il genoma) avvolgendolo; a questo fenomeno sarebbero seguiti la fusione e riarrangiamento delle membrane con il risultato finale di una cellula di maggiori dimensioni, dotata di una membrana nucleare e di un sistema di membrane a delimitare compartimenti interni (immagine a destra della figura sottostante).
Un "percorso" ben diverso da quello associato al modello della fagocitosi, in quanto inizia ipotizzando l'esistenza di una comunità di organismi e in tempi molto più lunghi invece che con un singolo passaggio.

A sinistra il modello classico basato sulla fagocitosi, a destra il modello dei Baum
(image credit: B. Baum & D.A. Baum BMC Biol. via Nature)

Modello affascinante e che riscosse una entusiastica accoglienza tra gli addetti ai lavori ma che mancava di prove sul campo, del tipo trovare un Archea con caratteristiche metaboliche compatibili e dotati di protrusioni di membrana sufficientemente ampie da adempiere allo scopo.

Un tassello che è arrivato nell'ultimo biennio con tre articoli, due centrati sullo studio di proteine essenziali per la divisione cellulare (Pulschen, A. A. et al. Curr. Biol. 2020 e Liao, Y. et al. Nature Microbiol, 2021) e l'altro con la caratterizzazione di un Archea cresciuto per la prima volta in laboratorio dotato di queste protrusioni (Imachi, H. et al. Nature, 2020).

Cominciamo dal lavoro del 2020 in cui viene mostrato un Archea con protrusioni, dal nome temporaneo Prometheoarchaeum syntrophicum, appartenente al gruppo prima citato degli Asgard.
Ci sono voluti 12 anni per riuscire a far crescere questo l'archea della foto, ritenuto simile al protoeucariote ancestrale.
Image credit: Hiroyuki Imachi, Masaru K. Nobu, JAMSTEC via Nature
Un Archea il cui tentativo di coltivazione è andato avanti per 12 anni fino a trovare condizioni giuste anche grazie all'aggiunta di alcuni batteri parte della stessa nicchia. La grande sorpresa arrivò solo quando le cellule smisero di dividersi con la comparsa di protrusioni molto simili a tentacoli usate per scandagliare l'ambiente e recuperare sostanze nutritive, ivi compresa l'interazione con altri batteri.
Una fotografia che entusiasmò i Baum perché spostava il loro modello dal limbo delle ipotesi affascinanti ma non verificabili, al reale.
I due articoli genetico-funzionali, uno dei quali portato avanti dai Baum, forniscono una evidenza genetica basata sull'evoluzione funzionale di proteine  tra Archea ed eucarioti.
Lo studio nasce dalla premessa che il proto-eucariote altro non fosse che un Archea "modificato"; concetto oramai consolidato e ben evidente dal posizionamento del "ramo" eucariote sul ramo degli Archea, quindi dopo la separazione tra Bacteria e Archea.
Per trovare prove dell'evento l'unica possibilità era risalire l'albero evolutivo usando una qualche proteina funzionalmente essenziale (e il suo gene) come tracciante.
Una proteina adatta all'uopo deve essere parte di un sistema condiviso da tutte le cellule, qualunque sia il loro dominio di appartenenza. L'unico tratto funzionale condiviso da tutti è la creazione di copie di se stessi, cioè la divisione cellulare.
Lo studio si è focalizzato su due proteine presenti in tutti i microbi (FtsZ e SepF), essenziali per la creazione dell'anello divisorio tra le due cellule figlie, e negli eucarioti di proteine appartenenti alla classe ESCRT, coinvolte nella formazione di vescicole a partire dalla membrana plasmatica.
Gli Archea usati nello studio sono Haloferax volcanii (amante delle condizioni salmastre, come quelle del Mar Morto; il nome volcanii è fuorviante e deriva dallo scopritore, il microbiologo Benjamin Elazari Volcani) per FtsZ e SepF , e Sulfolobus acidocaldarius (qui il nome calza bene perché ama l'acido e il calore) per la proteina simile a ESCRT.
Lo studio in S. acidocaldarius evidenziò proprio proteine simili alle ESCRT usate però dall'Archea come componente dell'anello divisorio invece che nella formazione di vescicole. I dati suggerivano che quella fosse la funzione primigenia e che il differenziamento funzionale sia avvenuto negli eucarioti per gestire la maggiore complessità dei compartimenti interni assenti sia negli Archea che nei batteri.

I dati ottenuti hanno permesso di ipotizzare che in alcuni Archea ad un certo punto dell'evoluzione, le proteine fondamentali per la divisione cellulare sono andate incontro ad una rimodulazione funzionale passando dall'anello divisorio alle funzioni tipiche delle ESCRT oppure a compiti strutturali divenendo parte del citoscheletro (dalla FtsZ hanno avuto origine le tubuline, fondamentali per cellule strutturalmente e morfologicamente più complesse)


L'insieme di questi dati ha dato linfa vitale alla bella teoria dei Baum tanto che perfino manuali di riferimento classici come Molecular Biology Of The Cell pensano di sostituire la teoria della fagocitosi con questo modello.
In realtà c'è ancora tanta strada da fare per spiegare la formazione del complesso sistema di compartimenti membranosi interni. Una teoria in proposito viene da Sven Gould (fautore della teoria della cattura dei proto-mitocondri prima che gli Archea sviluppassero capacità di estroflettere) secondo la quale, data la capacità dei batteri e dei mitocondri di emettere vescicole è stata questa loro capacità ad avere reso la membrana degli eucarioti più simile a quella dei Bacteria invece che a quella, attesa se si da credito alla fagocitosi, degli Archea.


Riassumiamo i concetti chiave
  • Gli eucarioti sono con ogni probabilità degli "Archea con upgrade" o in altre parole siamo più vicini evolutivamente agli Archea che non ai batteri (e lo stesso vale per il rapporto Archea-Bacteria)
  • Gli Archea oggi esistenti più simili al proto-eucariote di partenza appartengono ad un gruppo noto come Asgard.
  • Tra gli upgrade fondamentali quello chiave è consistito in uno o più endosimbiosi. Tra questi quello che ha permesso la comparsa del mitocondrio è comune a tutte le cellule eucariote, mentre quello/i associati ai plastidi sono unici per le cellule vegetali e alghe unicellulari.
  • Il parente più prossimo dell'antenato del mitocondrio è il batterio Midichloria mitochondrii
  • Il parente più prossimo dei cloroplasti è il cianobatterio Gloeomargarita lithophora.
  • La teoria endosimbiontica finora più accreditata era quella che prevedeva un evento di fagocitosi "fallito" come evento iniziale. La nuova teoria proposta dai Baum sta rapidamente guadagnando posizioni in quanto riesce a spiegare vari eventi altrimenti di origine ignota come la presenza di una doppia membrana nucleare. 
  • A supporto di questa teoria 3 studi che hanno mostrato l'esistenza di lunghe estroflessioni in almeno un Archea, e l'evoluzione dei geni necessari per la separazione delle cellule durante la divisione cellulare in geni utilizzati per funzioni complesse tipiche delle cellule eucariote. 




Articolo associato al tema qui discusso --> "Una endosimbiosi come quella ancestrale, sta avvenendo anche ora"



Fonti
- Asgard archaea illuminate the origin of eukaryotic cellular complexity
A. Spang, TJ Etterna et al, Nature. 2017;541(7637):353-358

- Proposal of the reverse flow model for the origin of the eukaryotic cell based on comparative analyses of Asgard archaeal metabolism.
A. Spang et al, Nat Microbiol. 2019;4(7):1138-1148

- Genomes of Asgard archaea encode profilins that regulate actin
Caner Akıl & Robert C. Robinson. Nature (2018), 562, pp. 439–443

- Researchers discover 'marvel microbes' explaining how cells became complex
Uppsala universitet / news

- Imachi, H. et al. Nature 577, 519–525 (2020)

- Baum, D. A. & Baum, B. BMC Biol. 12, 76 (2014)

- Liao, Y. et al. Nature Microbiol. 6, 594–605 (2021)

- Nußbaum, P. et al, Preprint at bioRxiv (2020)

-  Pende, N. et al. Preprint at bioRxiv (2020)

- Pulschen, A. A. et al. Curr. Biol. 30, 2852–2859 (2020)

- Sagan, L. J. Theor. Biol. 14, 255–274 (1967)

- Spang, A. et al. Nature 521, 173–179 (2015)

- Gould, S. B. et al,  Trends Microbiol. 24, 525–534 (2016)





Powered By Blogger
"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
Clive S. Lewis

"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper