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Il gene IGF1 spiega la variabilità di taglia dei cani e ci svela da quale lupo sono originati

Tra i mammiferi i cani sono la specie con la maggiore gamma dimensionale, ben riassunta dal confronto chihuahua e alani.
image credit: Kelly Makielski & Aaron Sarver

Essendo un lupo (Canis lupus) il progenitore del cane (Canis lupus familiaris) la domanda è quando è comparsa la/le mutazione/i all'origine di questa varietà. 
La domesticazione del cane (anche se oggi si pensa l'opposto cioè varianti di lupo con minore timore per gli umani e "pronti alla domesticazione") è avvenuta a più riprese in un periodo intorno a 30 mila anni fa in Eurasia, anche se non mancano indizi che spostano le lancette a qualche millennio prima.
Da considerare però che, anche ammettendo una certa differenza di taglia tra lupo selvaggio e domestico, la vera e propria esplosione della varietà in taglie e tipologie è da collocare agli ultimi due secoli quando sono state poste le basi per le razze canine moderne, che mostrano differenze di taglia fino a 40 volte.
Da circa 15 anni si crede che il gene chiave di tale variabilità sia IGF1 (un ormone della crescita), senza però che questa ipotesi sia stata formalmente confermata; gli studi di segregazione fenotipica identificato il gene come responsabile, ma mancavano le mutazioni (alleli) causali.
Finalmente il problema pare risolto e con la soluzione è venuta anche la riscrittura della radiazione evolutiva del cane: non più originato da un lupo qualsiasi ma da un lupo di piccole dimensioni (vedi sotto).
Lo studio, apparso pochi giorni fa sulla rivista Current Biology, ha infatti identificato in una porzione non codificante del gene IGF1 due alleli che danno origine al fenotipo "grande" e "piccolo".
Come è possibile che questi due alleli siano associati alla porzione non codificante del gene? La risposta è da cercare in un'ampia classe di molecole di RNA che hanno funzioni di regolazione dell'espressione genica, note come long non coding RNA (lncRNA). Nel caso in esame caso la variazione era a livello di un introne, nella zona in cui viene prodotto un RNA (chiamato IGF1-AS) che decorre antinsenso (antiparallelo) al mRNA di IGF1, con cui si sovrappone per 182 nucleotidi. Il risultato è il classico meccanismo di regolazione negativa mediante blocco della traduzione del messaggero e quindi riduzione della quantità di IGF1 disponibile. Riduzione dell'ormone della crescita equivale a riduzione della dimensione dell'animale.

L'analisi comparativa è stata condotta su circa 1430 sequenze geniche ottenute da 13 razze di cani, sia di recente che antico "lignaggio".
In sintesi sono state trovate due varianti di questo IGF1-AS, di cui una sola in grado di appaiarsi (quindi inibire) al mRNA di IGF1. I cani con due copie di tale allele pesavano meno di 15 chilogrammi, mentre due copie identificava i cani di taglia superiore ai 25 chilogrammi. La presenza di una copia ciascuno di entrambi gli alleli si associa alla taglia intermedia. A conferma dell'ipotesi lavorativa, i cani con due copie dell'allele "big"avevano anche più alto livello ematico di IGF1.
Conclusioni simili sono state ottenuti dall'analisi genomica di altri canidi (24 genomi di 11 specie, dallo sciacallo alla volpe); coyote, sciacalli, volpi etc hanno in gran parte due copie della versione "small". Il che fa ritenere che l'allele small sia evolutivamente molto più antico della versione "big". 
Un punto di svolta alla narrazione evolutiva corrente sui cani, è venuta dallo studio del DNA di un lupo siberiano (Canis lupus campestris) di 54 mila anni fa, quindi ben antecedente il periodo in cui si colloca la domesticazione. Anche qui si è trovata evidenza della mutazione "small" ad indicare che l'origine dell'allele "dimensione cane" era preesistente all'esistenza del cane e che, per dirla in senso lato, l'evoluzione ha tenuto da parte questo allele senza selezionarlo né contro né a favore.
Comprensibile che in natura un predatore di maggiori dimensioni (per quanto abituato alla caccia cooperativa) avesse più probabilità di successo con prede di discreta stazza ma è anche vero che questo né diminuisce l'agilità e aumenta il fabbisogno calorico. Per tale ragione il mantenimento nel pool genico della popolazione dell'allele "small" permettesse un equilibrio dimensionale facilmente adattabile (in alcune generazioni) al variare delle condizioni dell'ambiente.
Non è chiaro quando si sia evoluto l'allele "corpo grande". Partendo dal presupposto che era presente nel lupo siberiano e che gran parte dei lupi (antichi e moderni) tendono ad averne due, la conclusione è che questo allele abbia fornito vantaggi competitivi al lupo.

Credit: Jocelyn Plassais et al, Current Biology (2022)

Da qui l'idea che se l'allele small era già presente nel lupo e sia poi stato ereditato dal progenitore del cane, allora è verosimile che i primi lupi che si avvicinarono ai bivacchi umani fossero di piccole dimensioni, diversi dai lupi "classici". Il che ha senso anche come "accettazione" (non pericolo) da parte umana.
Nei millenni successivi (fino all'esplosione degli ultimi 2 secoli) la selezione umana operò per ottenere il cane più utile ai propri bisogni (pastorizia, caccia, guardia, ...) variando in modo inconsapevole la frequenza dell'allele small nella popolazione.

Questione risolta?
Non del tutto. Alla variante ora identificata si deve  il 15% della variazione tra le razze canine, quindi altri geni svolgono un ruolo sinergico.


Fonte
- Natural and human-driven selection of a single non-coding body size variant in ancient and modern canids
Jocelyn Plassais et al, Current Biology (27 Jan. 2022)



Un legame basato sullo sguardo talmente importante da meritare la copertina di Science (ne ho scritto sull'articolo dedicato)



La nuova generazione di vaccini specifici per i linfociti T

Positivo il risultato di studi clinici preliminari per testare il primo vaccino peptidico contro il Sars-CoV-2 (denominato CoVac-1) progettato per indurre l'immunità cellulare (mediata dai linfociti T) invece di quella anticorpale (in cui gli attori principali sono i linfociti B). Dallo studio non sono emerse né criticità di sicurezza né problemi di efficacia, il tutto a fronte della capacità, intrinseca alla risposta cellulare, di essere meno sensibile al rischio varianti virali "invisibili".

Un tale vaccino, se e quando verrà validato da studi clinici più ampi, potrebbe offrire l'opzione di immunizzazione, che oggi manca, ai pazienti con carenze nella risposta linfocitaria B, ai quali i vaccini oggi in uso conferiscono scarsa o nulla protezione. Se usato come richiamo nella popolazione generale già vaccinata, potrebbe minimizzare il rischio di malattia e prolungare il tempo di copertura, essendo l'immunità cellulare meno labile di quella anticorpale.
Il vero vantaggio sarebbe però un'altro: è in grado di far fronte alle varianti del futuro dato che sfrutta molteplici bersagli virali.
Linfocita T (falsi colori). Credit:  Credit: NIAID

Lo studio di fase 1 (condotto su un campione ristretto, solo 36 soggetti) ha mostrato che una singola dose del vaccino inizia la cascata di eventi che porta all'attivazione dei linfociti T CD4+ e CD8+ in modo molto più marcato che in seguito ad infezione naturale e a vaccinazione. Dettaglio quest'ultimo non trascurabile perché sappiamo bene come in entrambi i casi la protezione conferita non sia di lunga durata e i casi di reinfezione non rari.
Da notare che a seguito della vaccinazione, in tutti i vaccinati si è registrata la comparsa di un nodulo indurito nel sito di iniezione; evento in sé innocuo e previsto data la  presenza nel vaccino di un adiuvante (peptide sintetico XS15), che lega, attivandoli, i recettori Toll-like (TLR) 1 e 2 ed è immerso in un emulsionante (Montanide), necessario alla creazione di un deposito a rilascio lento e prolungato dell'antigene.
Riguardo all'antigene, il vaccino contiene sei peptidi risultanti dalla frammentazione del HLA-DR (antigene leucocitario umano DR) e di cinque proteine ​​proprie del SARS-CoV-2 (S, N, M, E e ORF-8); il primo, membro della famiglia MHC, è coinvolto nel riconoscimento del TCR, il recettore sui linfociti T, mentre i 5 rimanenti sono il bersaglio che i linfociti T devono "imparare" (attraverso la selezione che avviene durante la maturazione immunitaria) a riconoscere. 
In prospettiva i vaccini a cellule T potrebbero persino essere in grado di fornire una protezione immunitaria "abortiva" nel senso di essere capaci di bloccare sul nascere l'infezione prima ancora che compaiano i marcatori virali nei test. L'ipotesi formulata dopo la scoperta dell'esistenza di una popolazione di cellule T capaci di riconoscere un cluster di proteine ​​virali non strutturali (RTC), necessarie alla replicazione virale.
Alcuni test sono stati condotti anche su pazienti che non possono sviluppare la risposta anticorpale indotta dai vaccini classici a causa di motivi genetici (agammaglobulinemia legata all'X), cancro (leucemia o linfoma) o per terapie concomitanti (farmaci anti-CD20 o terapie con cellule CAR-T)

Con il fallimento (più che prevedibile) della politica zero-covid mirante alla eradicazione del virus e ad un futuro presente in cui il virus sarà endemico e la popolazione vaccinata nella quasi totalità, arriva il momento di un cambio di obiettivo: da vaccinazione mirante a impedire la diffusione del virus si passerà a booster finalizzati a minimizzare al massimo il rischio di malattia.
I vaccini "a cellule T" potrebbero essere lo strumento ideale sia in termini di efficacia che per il lungo tempo di copertura prevista.

Il vantaggio della immunità basata sui linfociti T (attivati anche da precedenti esposizioni a coronavirus di altro tipo) è nella loro capacità di riconoscere bersagli diversi e diversi tra un individuo e l'altro. Il che renderebbe vana la comparsa di varianti (Nature, 2022).


Fonte
T-cell vaccines could top up immunity to COVID, as variants loom large
Nature/news (01/2022)
- A COVID-19 peptide vaccine for the induction of SARS-CoV-2 T cell immunity






I cani possono essere addestrati a identificare gli infetti asintomatici

In passato si è trattato su queste pagine dell'enorme potenziale associato alla rilevazione di molecole olfattive diagnostiche di sottostanti (e a volte ancora asintomatiche) patologie, una capacità presente nei casi e perfino in alcuni umani.
Sul tema vedi gli articoli sul diabete e Parkinson.
Viviamo nell'epoca della pandemia covid per cui non sorprende che l'interesse "diagnostico" sia volto a cani in grado di identificare le persone infette.
Image credit: University of Florida (FIU) via The Guardian
In quest'ottica assume particolare interesse la scoperta fatta dai ricercatori che quattro dei cani testati si sono rivelati in grado di identificare i biomarcatori associati al virus con una precisione del 97,5%.
Una efficacia di sicuro maggiore dei fallaci controllori nostrani del green pass che MAI verificano la congruenza tra nome sul certificato e ID del controllato (a compendio la recente decisione lombarda di obbligo di esibire la carta d'identità prima di ricevere il vaccino, in quanto ci sono stati casi di persone vaccinatesi per conto terzi).

L'utilizzo dei cani non sorprende. Dato il loro senso dell'olfatto fino a 100.000 volte più sensibile di quello umano, i cani sono stati impiegati come "sniffatori" professionisti capaci di rilevare qualsiasi cosa, dal contrabbando al denaro, dalle muffe del raccolto fino a malattie come il cancro.
Credit: Image: Neil Pollock via medicaldetectiondogs.org.uk


Alla fine del 2021, i ricercatori della Florida International University pubblicarono uno studio in doppio cieco sul rilevamento del Covid, in cui i quattro cani partecipanti dimostrarono la loro efficacia olfattiva con i valori percentuali sopra menzionati; valori notevoli anche all'interno dei cani da fiuto.
Una capacità confermata da altri due studi indipendenti condotti in Inghilterra e in Germania, con valori attorno al 82-94% e del 95%, rispettivamente.

I cani sono in grado di generalizzare gli odori che sono stati addestrati a riconoscere, il che significa che possono rilevare tutte le varianti di Covid-19 attualmente conosciute, in modo simile a come possono riconoscere tutti i tipi di esplosivi quando vengono addestrati.

Con la diffusione della variante Omicron, anche i protocolli di addestramento sono cambiati. Prima di questa variante, i cani venivano addestrati ad avvicinarsi a una fila di persone e ad annusarne le mani o i piedi, sedendosi di fronte a coloro che identificavano come positivi. La ragione è che fino alla variante Delta il virus tendeva a infettare l'apparato respiratorio profondo (polmoni) e da li diffondeva in altre aree, lasciando tracce olfattive nel nostro sudore. Con Omicron i polmoni (tranne nei casi gravi) sono poco coinvolti e a cascata anche le tracce nel sudore diminuiscono; per tale ragione le persone da controllare devono essere annusati a livello della mascherina.


Un esempio di utilizzo di questi cani (e del limite intrinseco) viene dall'azienda americana Bio-Detection K9 che prima della pandemia era specializzata nell'addestramento allo scopo di rilevare le piante e colture malate (ad esempio colpite dalla muffa). Lo scorso anno alcuni dei loro cani sono stati utilizzati per monitorare il backstage e le zone riservate, in occasione di eventi come le corse  Nascar e i concerti dei Metallica.
Questi cani sono in grado di controllare da 200 a 300 persone all'ora e richiedono pause ogni 20 minuti per mantenere alto l'entusiasmo (perché solo in questo modo svolgono tale compito) per il lavoro. Un monitoraggio focalizzato non tanto sui musicisti o piloti (e nemmeno sul pubblico, impensabile dati i numeri) ma su tutti i tecnici etc che transitano nei luoghi "protetti" mantenendo così la bolla protettiva.
Il costo per una squadra di cani è di 5 mila dollari al giorno

Una delle teorie spiega perché i cani sono particolarmente abili nel trovare virus a causa di una predisposizione biologica a identificare ed evitare malattie tra i loro ranghi. La logica è che un lupo in natura è naturalmente interessato alla salute del proprio branco.

Il fenomeno si sta diffondendo se perfino distretti scolastici regionali come quello di Freetown-Lakeville nel Massachusetts, sta collaborando con la FIU per convertire i propri Labradors dai compiti di sicurezza a "ispettori" del covid nelle scuole.

Manca ad ora l'approvazione formale (come strumenti diagnostici) da parte della FDA, per cui ogni soggetto taggato come positivo dovrà comunque fare un test antigienico o molecolare per avere la conferma. Alcune ricerche indicano che i cani sono perfino più sensibili dei test molecolari (basati sulla PCR) riuscendo ad identificare gli individui infetti anche prima che abbiano accumulato una carica virale sufficiente per dare positività.


Di seguito il video della FIU che mostra i cani in azione


L'eruzione al largo delle Tonga

L'eruzione vista dal satellite

Ogni tanto uno dei vulcani che forma il cosiddetto anello del fuoco che circonda il Pacifico, torna a farsi sentire.
I vulcani (solo alcuni attivi) che delimitano l'anello di fuoco.
I vulcani attivi ... prima che si risvegliasse quello delle Tonga

Non sorprendente data la dinamica di scorrimento della placca tettonica pacifica che impatta le adiacenti creando zone di subduzione (ad esempio quella al largo delle Filippine in corrispondenza della fossa delle Marianne), di scorrimento o divergenti.
In rosso le zone di subduzione della placca pacifica 

La zona di divergenza che poi provoca la subduzione nel pacifico nord-orientale

La recente eruzione è avvenuta in una zona molto più a sud, al largo dell'arcipelago delle Tonga, in prossimità di un'altra zona di subduzione. Il vulcano è noto come Hunga Tonga–Hunga Haʻapai e coincide con una caldera (vulcano un tempo attivo, poi collassato su se stesso). L’eruzione è considerata paragonabile a quella del Pinatubo del 1991 ma "solo" il 2% come potenza rispetto alla famosa esplosione del vulcano Krakatoa (non lontano da Jakarta in Indonesia) nel 1885.




La zona di subduzione passa proprio sotto le Tonga.
Come spesso accade con eruzioni sottomarine, il risultato è stata la comparsa di una nuova isola nata sulle spoglie della caldera.

Il rilevamento satellitare (vedi gif in apertura) ben riassume la potenza del fenomeno, i cui effetti (onde, fortunatamente non enormi) sono arrivate in Nuova Zelanda e in California. Il suono dell’esplosione è stato invece percepito fino in Alaska. Per comparazione l'esplosione del Krakatoa produsse un'onda sonora che fece 7 volte (udibile) il giro del pianeta

Di seguito il video ripreso da una isola vicina all’evento, poi evacuata, che mostra le onde e sullo sfondo l’eruzione

(se non vedete il video --> youtube.com/...)




La "diretta" degli ultimi giorni di vita di una stella prima di diventare supernova

Gli ultimi giorni di vita di una stella prima di diventare supernova (e poi buco nero o stella di neutroni, ancora non si sa)

Tra i vantaggi di avere telescopi (orbitali e terrestri) che monitorano incessantemente lo spazio c’è quello di rilevare eventi non cercati e, a volte, usare i dati registrati come sorta di macchina del tempo per tornare agli eventi precursori dell’evento osservato. Altre volte sono invece indizi di qualcosa di anomalo in atto (vedi il caso di Betelgeuse) che inducono gli astronomi ad “accendere i riflettori” in una particolare direzione.

In genere le supernova vengono scoperte quando avvengono e solo dopo si guarda a come era la stella prima del collasso. Il caso recente di una supergigante rossa che ha generato una SN di tipo II rappresenta un caso direi unico della testimonianza “in diretta” degli ultimi giorni di vita di una stella distante 120 milioni di anni luce da noi, sita nella galassia Ngc 5731.

L’osservazione è avvenuta mediante due telescopi situati alle Hawaii e lo studio è stato pubblicato su The Astrophysical Journal con un titolo che inizia con “Final Moments of (…)”.
La galassia NGC 5731 e la supernova SN 2020tlf
(Immagine sfondo: Donald Pelletier (CC per 4.0). Riquadro V.V. Jacobson-Galan et al.)

Inutile qui ricapitolare dettagli base sulla evoluzione stellare, facili da trovare online. Mi limito solo con il dire che il destino di una supergigante rossa è segnato dal suo “DNA” cioè dalla sua massa di partenza che (al netto di eventi esterni come la fusione con altre stelle) la porta diretta alla supernova, dai cui resti emergerà una stella di neutroni o un buco nero a seconda della massa residua. Altra notazione importante è che non vanno confuse le giganti rosse (fase in cui transiterà anche il nostro Sole) con le supergiganti rosse che originano (in tempi ben più brevi) da stelle con massa tra 8 e 30 masse solari (Ms). Nel primo caso si originerà una nana bianca, nel secondo una supernova di tipo II, vale a dire un’improvvisa e immensa eiezione di massa ed energia che renderà l’oggetto celeste miliardi di volte più luminoso, lasciando al centro un residuo ancora più “esotico”.

Image credit: R.N. Bailey (immagine in HD --> wikimedia)

Gli indizi che stava per accadere qualcosa ad una stella risalgono all’estate 2020, in cui venne osservata una massiccia emisssione di materia (e luce) da parte di una supergigante rossa di massa circa 10 volte il Sole. Pochi mesi dopo, in autunno, dove c’era la stella è apparsa una supernova (chiamata  SN 2020tlf) le cui caratteristiche spettrali sono state analizzate grazie al Low Resolution Imaging Spectrometer (Lris). Dall’analisi si sono ottenute le prove dirette della presenza di materia densa attorno alla stella al momento dell’esplosione, probabilmente lo stesso gas espulso ad inizio estate.

Oltre all’interesse in sé di una osservazione in diretta, i dati raccolti hanno permesso di aggiornare le precedenti teorie su come le supergiganti rosse si comportano appena prima di esplodere. L’idea comune era che le supergiganti rosse fossero relativamente quiescenti prima della loro morte, senza prove di eiezioni violente o emissioni luminose; idea contraddetta da quanto ora osservato che dice che, almeno alcune di queste stelle, subiscono una massiccia esplosione degli strati esterni di gas poco prima di iniziare il collasso (veloce) che porterà alla supernova.

Di seguito il video dell'animazione dal titolo esplicativo "Red Supergiant Star Goes Supernova"


Fonte
Final Moments. Precursor Emission, Envelope Inflation, and Enhanced Mass Loss Preceding the Luminous Type II Supernova 2020tlf
W. V. Jacobson-Galán et al, (2022), The Astrophysical Journal





Scienza per i più giovani

Schermature di litio e "bio-stampanti" 3D per i futuri viaggi spaziali

Schermature di litio e "bio-stampanti" 3D per i futuri viaggi spaziali: schermatura e tessuti su misura per prevenire e affrontare le emergenze biomediche

Viaggiare nello spazio, anche "solo" verso il pianeta più vicino, non è cosa per tutti e, da un punto di vista meramente salutistico, non è una attività invidiabile.
Il viaggio, specie quelli prolungati al di fuori dell'ombrello protettivo della magnetosfera terrestre, esporrà gli astronauti ad una serie di pericoli (sia concreti che potenziali) su cui la NASA e l'ESA stanno lavorando da molto tempo con progetti dedicati (vedi gli articoli precedenti dedicati al tema e lo studio in Antartide).
Aaron Chen via Flick

Al netto di malfunzionamenti o incidenti (ad esempio collisioni con microasteroidi), per loro natura difficili da cancellare, si lavora per minimizzare i problemi reali con cui verosimilmente gli astronauti dovranno confrontarsi: radiazioni (cosmiche e solari); solitudine e coabitazione forzata in spazi ristretti;  prolungata assenza di gravità (e a cascata la demineralizzazione ossea, etc) e ogni tipo di problema medico che dovesse sorgere la cui risoluzione non potrà venire dal ricovero al pronto soccorso o dall'intervento di un dentista. Vero che nell'equipaggio sarà sempre presente un responsabile medico ma questa persona dovrà essere autosufficiente con la strumentazione disponibile (ridotta per ovvie ragione di spazio) così da affrontare emergenze.

L'esempio delle radiazioni è il più semplice da visualizzare.
Gli astronauti che viaggeranno alla volta di Marte saranno esposti a dosi di radiazioni fino a 700 volte più alte di quelle sul nostro pianeta. 
Credit: ESA
Si stima che  in un viaggio di sei mesi verso il pianeta rosso un astronauta potrebbe essere esposto ad almeno il 60% della quantità di radiazione massima totale oggi stimata lungo tutta la sua carriera.
Una volta arrivati sul pianeta le condizioni saranno solo un poco migliori (in assenza di rifugi sotterranei o adeguatamente schermati) data l'assenza di campo magnetico sul pianeta; i dati ottenuti da Mars Odissey indicano una dose di radiazione 2.5x e 50x quelle sulla ISS e sulla Terra rispettivamente. 
Mappa globale di Marte che mostra i dosaggi stimati di radiazioni da raggi cosmici che raggiungono la superficie (image credit: nasa)

Sebbene in un primo momento la componente radiazione solare sia stata minimizzata rispetto a quella cosmica c'è sempre il rischio imprevedibile legato ai brillamenti solari e la conseguente emissione di particelle ad alta energia, tutto concentrato in un breve lasso di tempo. 
Gli astronauti che risiedono sulla ISS possono proteggersi da questi brillamenti perché una volta rilevata l’emissione dal centro di controllo, questi vengono fatti spostare verso aree ad alta schermatura all'interno della stazione e in caso di necessità si possono attuare manovre per posizionare la ISS in una orbita più interna, meglio schermata dal campo magnetico terrestre.
Quando ci si trova in viaggio nello spazio profondo non ci sono vie di fuga e l’unica copertura è quella della nave.
Il rischio, in assenza di opportune contromisure, di sviluppare tumori e malattie neurodegenerative è reale. Su questo aspetto i ricercatori della NASA lavorano da lungo tempo con studi comparativi sugli astronauti di cui quello sui gemelli (uno a terra e l'altro sulla ISS) ha rappresentato il meglio per la presenza del miglior controllo interno. Mancano però studi sull'effetto a lungo periodo.
L'ESA ha attivato una serie di collaborazioni con vari istituti europei che ospitano acceleratori di particelle, con lo scopo di riprodurre le radiazioni cosmiche. 
Credit: ESA

Bombardando cellule e materiali biologici con  particelle ad alta energia a velocità prossime alla velocità della luce si sono messi alla prova vari materiali utilizzabili per il rivestimento della navetta. I risultati hanno indicato nel litio uno degli elementi più interessanti.


Dato che radiazioni e assenza di gravità favoriscono la demineralizzazione ossea, il rischio di fratture (o altro) causati da "banali" incidenti, aumenta, il che mette in evidenza la necessità di sviluppare trattamenti adeguati.

Tra i rimedi allo studio la stampa 3D di tessuti umani con cui produrre tessuti epiteliali (essenziali in caso di ustioni) e pezzi ossei disegnati ad hoc per trattare le fratture ossee conseguenza della osteoporosi.
Esempio di un osso prodotto mediante la stampa 3D
(Image credit TUD via ESA)
Il progetto, sponsorizzato da ESA e da Blue Horizon, e sviluppato da un team dell'università di Dresda (TUD), ha ottenuto i primi risultati con la produzione di di "biostampe" di pelle e ossa.

Senza entrare in troppi dettagli tecnici le cellule della pelle possono essere "stampate" usando il plasma sanguigno umano come un "bio-inchiostro" ricco di nutrienti, che ha il fondamentale pregio di essere prelevabile dagli stessi astronauti.
Il processo di "stampa" della pelle (video credit: TUD e ESA)

Lo svantaggio del plasma è nell'alta fluidità che lo rende difficile da usare in condizioni di assenza di gravità; per aumentarne la viscosità i ricercatori hanno aggiunto metilcellullosa e alginato, prodotti facilmente ottenibili da piante e alghe, la cui presenza è prevista nei futuri viaggi spaziali per garantire all'equipaggio autosufficienza alimentare oltre che produzione di ossigeno.

Per quanto riguarda la stampa del campione osseo, si sono utilizzate cellule staminali immerse nel suddetto bioinchiostro in presenza di fosfato di calcio con la funzione di supporto e cemento; una volta iniziata la crescita il calcio verrà riassorbito dalle cellule stesse.
La stampa del campione osseo (video credit: TUD e ESA)
L'osso in fase di crescita (Image credit: TUD e ESA)

In mancanza di test condotti sulla stazione spaziale orbitale, i ricercatori hanno provato a stampare i tessuti artificiali in laboratorio ma "sottosopra" in modo da verificare la tenuta in condizioni sfavorevoli (vedi video seguente).
(video credit: TUD e ESA)
 
Il grande vantaggio di queste tecniche è nella assoluta biocompatibilità della biostampa, in quanto i mattoni  costituenti saranno le cellule dell'astronauta stesso.. 

Si tratta solo di un primo passo nell'ambiziosa tabella di marcia per rendere le biostampe in 3D una realtà anche su una navicella spaziale.
La ricerca avrà ricadute anche sulla clinica terrestre permettendo di avere a disposizione pezzi di ricambio in tempi minori rispetto a quelli solitamente necessari per trovare un donatore compatibile.

Fonti
- Vedi i link associati al testo


Il libro di Andy Weir è molto più di un romanzo di fantascienza. Meglio definibile come hard-SF per il suo contenuto tecnico (forse troppo per chi non è del campo) ma che ben rende l'idea della complessità della sfida marziana per un futuro colono






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