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Un robot che ricrea la camminata di un animale di 300 milioni di anni

Grazie ai resti e alle impronte fossili di un animale vissuto 300 milioni di anni fa, i ricercatori della svizzera EPFL hanno sviluppato un metodo per ricrearne l'andatura grazie ad un robot disegnato ad hoc.
L'innovativo studio nel campo della biomeccanica permetterà di fare luce sull'evoluzione della locomozione nei vertebrati terrestri.

Punto di partenza il fossile di Orobates pabsti, un vertebrato del Permiano che sull'albero evolutivo si pone in un punto non distante dalla biforcazione tra anfibi e rettili. In altre parole un reptiliomorpha (vertebrato più vicino agli amniota che agli anfibi) che deponeva le uova sulla terra, affrancato dall'obbligo della vita acquatica.
Orobates pabsti
(Credit: JA. Nyakatura et al - PLOS ONE , 2015)
Le ragioni della scelta del Orobates sono semplici: è il più antico vertebrato terrestre di cui si ha l'accoppiata impronte sul terreno e scheletro ben conservato.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Lo studio si è sviluppato in diverse fasi, di cui la prima ed essenziale è stata la scansione 3D dello scheletro per creare un modello digitale. A questo sono seguiti studi biomeccanici della postura e motilità di anfibi e rettili moderni (caimani, salamandre, iguane, ...), passo necessario per creare al computer una andatura la più possibile coerente con le possibilità del suo scheletro e le caratteristiche delle orme.
I dati ottenuti sono stati infine utilizzati per costruire un robot, chiamato OroBOT, con il quale testare "nel mondo reale" centinaia di andature potenzialmente coerenti predette dal computer.
Credit: EPFL
Particolare attenzione è stata data a tre aspetti: ventre staccato da terra; motilità della spina dorsale; piegamento relativo delle articolazioni gomito e spalla mentre si muove.

Ciascuna delle andature testate è stata pesata per molteplici parametri come la stabilità del movimento, l'energia richiesta, la similitudine con animali moderni "affini" e ovviamente con la capacità di allinearsi con le orme fossili.

I dati raccolti con le simulazioni hanno permesso di creare un modello online interattivo, disponibile a chiunque, in cui si può visualizzare l'effetto al cambiamento di uno o più parametri --> https://biorob2.epfl.ch/pages/Orobates_interactive/
Screenshot della pagina con il simulatore (credit: EPFL)
Il punteggio più alto ottenuto è quello che richiama il movimento dei caimani il che conferma l'idea che si muovessero con il tronco sollevato da terra e fossero dotati di una buona agilità. Un risultato che anticipa di molto, rispetto alle ipotesi attuali, lo stato evolutivo della locomozione nel Permiano, posizionando quella "sollevata da terra" a prima che iniziasse la radiazione evolutiva che avrebbe dato origine ai mammiferi da una parte e ai rettili dall'altra.

Seguono due video descrittivi prodotti dal team del EPFL
(se non vedi il video -->youtube)

(se non vedi il video -->youtube)


Fonte
- Reverse-engineering the locomotion of a stem amnioteReverse-engineering the locomotion of a stem amnioteReverse-engineering the locomotion of a stem amniote
John A. Nyakatura et al, (2019) Nature, 565, pp. 351–355

- A Three-Dimensional Skeletal Reconstruction of the Stem Amniote Orobates pabsti (Diadectidae): Analyses of Body Mass, Centre of Mass Position, and Joint Mobility
John A. Nyakatura et al, (2015) PLOS-ONE

Grasso è bello ... soprattutto se va a scapito del tumore

No, l'articolo che avete appena iniziato a scorrere non riguarda né il musical Hairspray (da noi inopinatamente titolato "Grasso è bello") né l'avversione ai regimi alimentari fondati sul digiuno (e che fanno vendere molti libri ...).
Verissimo che una alimentazione a basso contenuto calorico sia un viatico per una vita più lunga e un minor rischio di patologie, ma come dicevano i latini "in medio virtus stat": si può scegliere altro tra il fare una vita ascetica e vivere fino a 120 anni rimbambito e il vivere godereccio all'insegna del carpe diem.
Bando alle ciance e vediamo il senso del titolo dell'articolo: la capacità di neutralizzare le cellule tumorali trasformandole in inoffensive cellule adipose (adipociti).

Passo indietro.
Le cellule nelle primissime fasi dello sviluppo embrionale hanno la capacità di dare origine a tutte (totipotenti) o molte (pluripotenti) le tipologie di cellule presenti nei tessuti. Tale capacità viene persa con il passare delle divisioni cellulari fino a che, con la raggiunta maturità (leggasi differenziamento terminale) la gran parte di esse perde la capacità di dividersi entrando in uno stato definito post-mitotico. Molti tessuti conservano una riserva di cellule (dette staminali) che servono per rimpinguare le cellule mature (quindi differenziate) perse per usura o danno; questa riattivazione "condizionata" è un processo fondamentale ad esempio nella cicatrizzazione quando è necessario "riempire" e "rimodellare" le aree lesionate. Non tutti i tessuti hanno tali cellule di riserva e a volte se presenti hanno una funzione limitata: vedi da una parte la incredibile capacità del fegato di rigenerarsi partendo da un lobo a cui fa contraltare la sostanziale non rigenerazione dei tessuti cardiaci (l'esistenza delle staminali cardiache è oggi negata da gran parte dei ricercatori) e quella cerebrale (nonostante siano state identificate staminali neuronali nel SVZ e nel bulbo olfattivo).
Come facile immaginare la riattivazione delle staminali tissutali è un processo altamente regolato. Quando il sistema di controllo viene meno, le cellule proliferano dove non dovrebbero dando luogo ad alterazioni di varia natura (vedi displasia, iperplasia e neoplasia).
La crescita fuori controllo è un problema su più livelli; una summa di perdita strutturale (quindi funzionale) e, come ben evidente nei tumori del sangue, porta ad uno sbilanciamento tra i vari tipi di cellule, alcune delle quali possono "scomparire" a causa di queste alterazioni.
E' opinione comune che le alterazioni che danno luogo al tumore compaiano nelle cellule meno differenziate di un dato tessuto, che non a caso sono quelle con maggiore capacità proliferante e più strettamente regolate. Mutazioni predisponenti che comparissero in cellule differenziate avrebbero scarso effetto proprio perché le cellule sono troppo specializzate per tornare a dividersi.

L'ultimo ventennio ha visto molti gruppi di ricerca concentrare gli sforzi nel cercare di resettare cellule parzialmente differenziate per renderle capaci (all'occorrenza) di trasformarsi in altro. Il motivo? Avere a disposizione per ciascun individuo un serbatoio di cellule da usarsi qualora fosse necessario rigenerare tessuti danneggiati. Un approccio terapeutico con un triplo vantaggio potenziale: elimina il problema del rigetto immunitario (le cellule sostitute vengono dallo stesso individuo); permette di "riparare" anche tessuti privi o poveri di cellule staminali tissutali; evita di dovere fare ricorso alle staminali embrionali.

I risultati sono stati positivi (sebbene ci sia ancora molto lavoro da fare) con prove sul campo della possibilità di utilizzare cellule prelevate dalla cute di un adulto per ricreare neuroni o cellule del sangue.
Il lavoro che ha permesso la creazione di quest tipo di cellule "staminali indotte" (IPS da induced pluripotent stem cell) è stato premiato con il Nobel nel 2012 a John B. Gurdon e Shinya Yamanaka.
Come? Senza addentrarci troppo in un campo specialistico diciamo che la procedura si basa sul trattamento delle cellule espiantate con un cocktail di sostanze e/o di geni che portano alla riattivazione di alcune vie differenziative spente nelle prime fasi dello sviluppo e allo spegnimento di altre.
Potete immaginare il processo dedifferenziativo come una prima fase in cui la cellula (ad esempio) epiteliale perde le proprie caratteristiche morfo-funzionali acquisite con lo sviluppo e "torna indietro nel tempo" fino a trovarsi in uno stato in cui diventa nuovamente responsiva a "stimoli" capaci di guidarla verso altri percorsi di sviluppo (ad esempio un neurone).

In modo non del molto diverso, durante la trasformazione tumorale la cellula "colpita" (e la sua progenie) si incanala attraverso una serie di fasi caratterizzate prima dalla perdita della morfologia cellulare che si ripercuote in una disfunzione tissutale; le cellule sono sia in eccesso che vanno ad occupare una posizione anomala che porta all'invasione di tessuti adiacenti (passano dall'epitelio al tessuto connettivo) entrando così in contatto con i vasi sanguigni. Una volta penetrate nel flusso sanguigno, inizia la selezione metastatica cioè la selezione che "premia" le cellule in grado non solo di attecchire ma anche di proliferare in zone distanti da quelle originarie.
Limitandoci alla prima fase, cioè nel caso dei tumori epiteliali alla invasione del connettivo, il processo chiave è noto come EMT (epithelial-mesenchimal transition), processo durante il quale la cellula perde i connotati precipuamente epiteliali acquisendo, tra le altre cose, un certo grado di motilità, quindi capacità di invadere aree circostanti.
Si tratta di un processo opposto a quello che avviene durante lo sviluppo o la cicatrizzazione (noto come MET - mesenchimal-epithelial transition). Il verificarsi della EMT in un tumore è di per sé un indicatore di cattiva prognosi, associato ad una alta probabilità di metastasi e bassi tassi di sopravvivenza oltre i 5 anni. Per inciso i tumori di origine epiteliale sono quelli più comuni.
Il sacro Gral di molti ricercatori negli anni è stato quello di trovare un modo per interferire con l'EMT in mdo da bloccare il tumore nello stadio iniziale, di solito inoffensivo.

Arriviamo così ad un recente articolo pubblicato su Cancer Cell da Ishay-Ronen e collaboratori.
I ricercatori sono riusciti ad indurre le cellule tumorali metastatiche della mammella a differenziarsi in adipociti, facendole "deragliare" dal percorso EMT, "intrappolandole" in uno stato differenziato senza ritorno. Lo studio è stato condotto in topi.
Il trattamento, basato su un mix di rosiglitazone (un inibitore della proteina PPAR) e da inibitori di una chinasi nota come MEK, oltre ad essere efficace si è rivelato selettivo per le sole cellule tumorali mammarie mesenchimali senza intaccare le cellule epiteliali sane.
Dato molto importante, anche una volta smessa la somministrazione del cocktail di sostanze, le cellule hanno mantenute lo stato differenziato.
Interessante anche il dato che gli adipociti neoformati siano localizzati nella zona di confine tra il tumore e il tessuto sano a conferma di quella che era l'ipotesi di partenza, cioè che la transizione EMT fosse la fase vulnerabile del tumore; il dazio che il tumore doveva pagare mentre "cambiava spoglie".

I risultati benché preliminari e da confermare sul lungo periodo prima di pensare a sperimentazioni umane, hanno mostrato una riduzione di più di 10 volte delle metastasi polmonari (le più classiche con tumore primario alla mammella) rispetto ai controlli non trattati.

Risultato netto: adipociti in più e cellule tumorali in meno. Uno scambio assolutamente gradito.

Nota. Il caso più noto nella letteratura scientifica di trattamenti in grado di forzare un differenziamento "letale" sulle cellule tumorali è quello dell'acido retinoico in pazienti con leucemia promielocitica acuta (APL). Il trattamento, sviluppato una ventina di anni fa da ricercatori italiani, ha reso la APL curabile in modo risolutivo nel 99% dei casi.


Fonti
- Hijacking EMT: Better Fat Than Dead
Cancer Cell (2019), 35(1) 
- Gain fat—lose metastasis: Converting invasive breast cancer cells into adipocytes inhibits cancer metastasis
D. Ishay-Ronen et al (2019) Cancer Cell, 35(1) pp17-32

***





Marte. Addio al rover Opportunity

ok, ok lo so che si tratta "solo" di un rover e di carattere sono tutto fuorché un panteista. Tuttavia il pensiero non può non andare al rover Opportunity oramai fermo sul suolo marziano, in un "riposo" meritato dopo 15 anni di attività (articolo precedente sul tema -->QUI).
E avrebbe potuto andare avanti ancora se non fosse stato per l'enorme (come durata e intensità anche per i parametri marziani) tempesta di sabbia che ha impedito al rover di ricaricare le sue batterie.

E' del 13 febbraio il comunicato della NASA con cui annuncia di avere definitivamente cessato i tentativi di mettersi in contatto con il rover, con ciò sancendo la fine delle operazioni.

Generazioni di rover marziani a confronto. A partire dal basso a sinistra e in direzione oraria i prototipi di: Sojourner; Spirit/Opportunity e Curiosity (image credit: photojournal.jpl.nasa.gov)

La missione di esplorazione e raccolta dati, parallela a quella di Spirit, il rover gemello atterrato 20 giorni prima, avrebbe dovuto durare un minimo di 90 giorni per essere definita un successo. Previsioni ampiamente superate (--> Mars Mission Overview).
Se già Spirit fu un successo con i suoi 2269 giorni e 8 km di distanza coperta, è ora Opportunity a salire sul podio con i suoi 5300 giorni operativi, una distanza di 45 km e il record dei circa 220 metri coperti in un giorno (su terreno, inutile dirlo, non facile con salite fino a 30°).
Immagine del 2014 che  mostra la strada percorsa mentre costeggia il bordo del cratere Endeavour
(credit: NASA/JPL-Caltech/Cornell/ASU). Immagine in HD --> NASA

Cosa ci lascia?
  • Ha portato alla luce dalle sabbie 52 rocce permettendone così l'analisi e ha ripulito, mediante una apposita spazzola, la superficie di altre 72, rendendole accessibili all'analisi spettrometrica e microscopica.
  • Ha trovato tracce di ematite, un minerale che si forma a contatto con l'acqua, fornendo con ciò la prova dell'esistenza di vasti bacini acquiferi nel lontano passato. Conclusioni rinforzate dalla successiva ispezione del cratere Endeavour
    (credit: NASA/JPL/Cornell/ASU/Marco Di Lorenzo/Ken Kremer via universetoday.com)
  • Come compendio alle molte analisi ambientali inviate sulla Terra, ci ha mandato più di 217 mila immagini, tra cui una decina di scatti a 360 gradi. 
    Il percorso coperto da 2004 al 2013
    (credit: NASA/JPL/Cornell/ASU/Marco Di Lorenzo/Ken Kremer via universetoday.com)
Il tutto nonostante una serie di incidenti.
Nel 2005 ci fu un guasto nella capacità di rotazione di una delle ruote frontali e corse il serio rischio di rimanere intrappolato dentro avvallamenti di sabbia.
Nel 2007, una tempesta di sabbia durata 2 mesi impedì la ricarica solare bloccandone gli spostamenti (per darvi una idea ecco il selfie dopo una tempesta di sabbia "minore" nel 2014).
Credit: NASA/JPL-Caltech/Cornell/Arizona State Univ
Nel 2015 si guastò la sua scheda di memoria flash da 256 MB (eggià, quelle che oggi sembrano uno scherzo, nel 2003 erano un lusso da Silicon Valley).
Nel 2017 un guasto mise fuori uso la rotazione dell'altra ruota anteriore.


Quest l'ultimo messaggio inviato sulla Terra poco prima dell'arrivo della tempesta di sabbia, quando il cielo si stava oscurando impedendone la ricarica
"My battery is low and it’s getting dark
Da allora il silenzio e due giorni fa il messaggio della NASA
https://twitter.com/NASA/status/1095870041441140736

Da quel momento è iniziato il tributo sui social al rover (vedi sotto) a cui aggiungo solo
Per aspera ad astra
Credit: NASA/JPL-Caltech

Il video riassuntivo della missione
Se non vedi il video --> youtube

*** dai social***

E per finire un modellino in metallo che non può mancare sulla scrivania di un vero nerd
solo 15€ --> https://amzn.to/2O3bAKY


Articolo successivo sul tema --> Le foto UHD del suo marziano

*** Aggiornamento ottobre 2020 ***
. Sono ora disponibili le foto in HD di Marte catturate dal VMC montato a bordo di Mars Express della ESA. Le foto qualitativamente migliori sono ottenibili selezionando "Processig Level 3" dal quadrante a destra.


Fonti
-  Six Things to Know About NASA's Opportunity Rover 
mars.nasa.gov

- NASA's Opportunity Rover Mission on Mars Comes to End
mars.nasa.gov

- The Mars rover Opportunity is dead. Here's what it gave humankind.
National Geographics 

- Mars Opportunity rover ends its mission
earthsky.org


La decodifica del volto del cervello: 100 msec e un centinaio di neuroni

E' passato poco più di un anno dall'articolo in cui segnalavo lo studio volto a capire come il cervello decodificasse gli input visivi per il riconoscimento facciale (--> "200 neuroni per riconoscere un volto").
credit: Scientific American
Riconoscere un volto non è una cosa ovvia come ben evidenziano i pazienti affetti da prosopagnosia (lo stesso Oliver Sacks) che devono ricorrere ad altri escamotage (voce, aspetto, situazioni, ...) per associare un volto ad uno specifico interlocutore pur essendo per il resto perfettamente in grado di riconoscere gli oggetti. Il processo richiede una interazione multilivello tra la corteccia (in primis l'area visiva primaria, V1, posta nel lobo occipitale) e aree via via più specializzate (V2, V3, V4) che si interfacciano a loro volta con aree del cervello "profondo" come il sistema ventrale visuale-ippocampale.
E mi limito alla sola decodifica del mondo esterno basata sui "rilevatori" di forma, di movimento, (...), di colore (il cui deficit, acromatopsia, è cosa ben diversa dal daltonismo).
L'importanza di questi studi va oltre il mero interesse neurobiologico in quanto pone le basi per sistemi di riconoscimento automatico mutuati, come sempre avviene, dallo studio delle soluzioni adottate in natura.

Torniamo sullo stesso lavoro per vedere i progressi nel campo.
Il lavoro di mappaggio e decodifica (svolto in primis da Doris Tsao di Harvard ora alla UCLA) è partito dallo studio dei macachi in quanto dotati di un sistema visivo e di una organizzazione del cervello molto simile a quella umana.
Doris Tsao (wikipedia)
La percezione del mondo attraverso gli occhi di ogni primate è mediata, dopo il passaggio sui fotorecettori retinici e il nervo ottico, dalla corteccia visiva che strato dopo strato elaborata l'informazione pur "senza comprenderla" (processo che avviene in altre regioni della corteccia). Possiamo immaginare il percorso iniziale come una decodifica del tipo "pixel accesi o spenti" e "colori scuri o brillanti", forme, (...), per poi arrivare, entro 100 millisecondi, attraverso una successiva elaborazione ad un paesaggio 3D "consapevole e riconosciuto" all'interno del quale si trovano oggetti in movimento .
Lesioni in queste aree possono causare disturbi percettivi come la akinetopsia a causa della quale il paziente "non vede" l'oggetto in movimento ma solo un susseguirsi di "immagini" statiche.
La svolta nella ricerca si ebbe quando Doris Tsao, che era ancora uno studente di PhD nel team di Margaret Livingston ad  Harvard, iniziò una collaborazione con Nancy Kanwisher del vicino MIT, che  fornì la chiave di accesso ai meccanismi cerebrali grazie alla risonanza magnetica funzionale (fMRI). Grazie a questa tecnica non invasiva ed estremamente potente fu possibile identificare "visivamente" le aree del cervello umano che si illuminavano quando veniva mostrata l'immagine di un volto; aree inerti quando invece di un volto venivano mostrati oggetti di varia natura come una casa o un cucchiaio, a dimostrare che il riconoscimento "per sé" dell'oggetto è cosa diversa dalla elaborazione e decodifica dell'immagine di un volto.
Il che ha senso evolutivamente per un genere come l'Homo in cui il riconoscimento olfattivo è residuale rispetto ad  altri animali.
Lo studio in esseri umani poneva ovvi limiti dettati dal doversi basare ad una analisi "esterna".  L'unica speranza era che esistesse qualcosa di simile al riconoscimento facciale nelle scimmie in modo da potere testare con elettrodi ultrasottili quali fossero esattamente i neuroni coinvolti
Nota. Ricordo che il cervello è privo di recettori del dolore, in conseguenza gli elettrodi non solo non provocano disagio nell'animale ma non sono nemmeno percepiti. E questa non è una ipotesi ma un dato confermato da studi in umani.
Gli 8 anni successivi all'inizio della collaborazione furono densi di soddisfazioni per i due team. Si scoprì ad esempio che i macachi erano in grado di riconoscere i volti, quindi mostrando loro una foto dietro l'altra di umani o di scimmie si riuscì ad identificare 6 piccole aree distribuite su ciascun lato del cervello nella corteccia IT (temporale inferiore) che apparivano interconnesse: se una veniva stimolata elettricamente anche le altre si "accendevano".
Le aree coinvolte e la capacità di predire un volto "visto" in base alle cellule attivate
(credit: S. Le Chang & D. Tsao via Nature)

Cosa ancora più interessante queste aree mostravano una certa specializzazione "visiva" nel senso che quando i ricercatori mostravano alle scimmie disegni di facce mancanti di qualche elemento (come il naso, le iridi, i capelli, ...) scoprirono di potere predire quali gruppi di neuroni erano coinvolti nel riconoscimento. All'inverso non solo si poteva predire quali elementi erano presenti dato il gruppo di neuroni attivati ma l'intensità dell'attivazione si correlava a quanto "estremo" fosse il dettaglio.
Alcuni dei punti che il cervello "vede" e computa nel processo di scansione di un volto
(credit: S. Le Chang & D. Tsao via Nature)

Ad esempio un neurone "specializzato" nella distanza tra gli occhi si attivava di più nel caso di occhi ravvicinati rispetto a volti con occhi più distanziati.
Nota. La scelta di usare disegni stilizzati di volti invece di fotografie nasceva dalla necessità di avere un completo controllo delle molteplici variabili che definiscono ciascun volto.  
Conclusioni confermate quando alle scimmie furono mostrate non solo foto di volti reali ma anche volti che guardavano in direzioni diverse (cosa che può apparire banale ma estremamente difficile da ottenere con programmi di riconoscimento facciale).
Nel dettaglio alcuni gruppi di cellule nella zona corticale esterna apparivano riconoscere volti orientati in un certo modo, mentre altre cellule più interne si attivavano quando venivano mostrate alle scimmie solo alcuni volti, qualunque fosse l'orientamento (ovviamente purché i volti fossero visibili).

Riassumendo il tutto, i ricercatori riuscirono a identificare 50 variabili nel volto (25 legate alla forma e 25 nell'aspetto) con i quali costruirono un set di 2 mila immagini di volti che differivano in un solo dettaglio. Mostrando ai macachi questi volti e registrando l'attivazione dei neuroni il codice sottostante cominciò a disvelarsi; in altre parole predire il volto monitorando quali neuroni si erano attivati divenne più di una ipotesi.

I risultati più recenti sembrano indicare che la "costruzione" dell'immagine di una persona parte dagli strati più esterni (dimensioni e poi dettagli specifici) fino ad arrivare agli strati più profondi in cui si può arrivare alla situazione che un neurone si attiva solo in presenza di un ben volto ben definito (che in associazione alle connessioni con la zona ippocampale porta al "riconoscimento").
Attenzione, questa è cosa ben diversa dal dire che un neurone identifica, per sé, una persona: il riconoscimento è mediato da una attivazione che coinvolge più neuroni che poi può "scaricarsi" su un numero molto ristretto di neuroni e solo da qui comparire la correlazione volto-neurone.
Già nel 2005 Rodrigo Quian Quiroga aveva scoperto l'esistenza di neuroni che aveva ribattezzato "le cellule di Jennifer Aniston" sebbene sia ovvio che la natura non ci ha programmati per riconoscere la mitica Rachel di Friends. La scoperta venne durante lo studio di pazienti a cui erano stati impiantati elettrodi nel cervello per cercare di mappare le aree responsabili di attacchi epilettici refrattari ai trattamenti farmacologici. Si scoprì l'esistenza di segnali originati da singoli neuroni che comparivano solo quando al soggetto venivano mostrate foto di persone a lui note, non necessariamente suoi familiari. Non solo immagini del volto di Jennifer Aniston ma anche solo la lettura del suo nome o perfino il titolo di un film in cui lei aveva recitato provocavano l'attivazione di questi neuroni "concettuali", localizzati nell'ippocampo, un'area ben più profonda e antica della corteccia IT.
Studi analoghi hanno identificato neuroni che sembrano rispondere alla "spigolosità" degli oggetti, al loro essere animati, etc etc.

Elementi questi che indicano quanto il processo di riconoscimento sia mediato da un processo di decodifica molto rapido di molti elementi che alla fine vengono "pesati e computati". Questo spiega anche perché a volte si possa confondere una persona con un'altra o magari impiegare qualche secondo per capire perché quel volto apparentemente non riconosciuto ci risulti familiare.

Articolo successivo su tematiche correlate --> "Testare la visione cromatica nei pesci"


Fonti
- How the brain’s face code might unlock the mysteries of perception
Nature /news (12/2018)

- Primates Use Simple Code to Recognize Faces
The Scientist (06/2017)

- The Code for Facial Identity in the Primate Brain
LeChang & Doris Y. Tsao,  (2017), Cell, 169(6) pp1013-1028




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