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Un farmaco per l'HIV utile per la riabilitazione dopo ictus

Torno sul tema della scoperta di nuove applicazioni per vecchi farmaci (articoli precedenti --> NewOldDrugs) per aggiungere come nuovo esempio quello della nuova vita di un farmaco, oggi in uso per il trattamento del HIV, nella terapia dei pazienti colpiti da ictus.

L'ictus è una delle principali cause di disabilità a lungo termine e come tale ha attratto ricercatori impegnati a capire come migliorare la condizione dei pazienti e con essa minimizzare i costi (umani ed economici) che stato e famiglie si trovano ad affrontare.
Gran parte degli approcci oggi in uso si fondano su tecniche riabilitative più che su trattamenti farmacologici, semmai diretti per contrastare possibili recidive. Ma queste tecniche sono più utili per il recupero motorio (quando possibile) mentre poco si può fare per le lesioni che impattano su apprendimento e memoria.
Il recupero motorio successivo a lesioni cerebrali deve molto alla plasticità sinaptica, cioè la rimodulazione delle connessioni nervose e la riprogrammazione di aree cerebrali. I pazienti in terapia motoria devono a tutti gli effetti "reimparare" a camminare (o a parlare) come fanno i bambini nel primo biennio di vita.
Se si potesse facilitare la plasticità neuronale reimpostandola sulle potenzialità tipiche del cervello giovane, i tempi e l'efficacia terapeutica ne avrebbero grande giovamento.

Uno studio pubblicato sulla rivista Cell da Thomas Carmichael va in questa direzione con la scoperta che la proteina di membrana CCR5 oltre ad essere il bersaglio naturale per la terapia anti-HIV (essendo il co-recettore che usa il virus  per agganciarsi alla cellula) è anche un target per il trattamento riabilitativo successivo a ictus o trauma cranico.
Una scoperta importante perché permette di usare da subito quanto già scoperto finora, in termini di molecole terapeutiche e sicurezza farmacologica, grazie alla sperimentazione sul HIV.

Come anticipato nei precedenti paragrafi, i meccanismi molecolari e cellulari coinvolti nel recupero successivo ad una lesione cerebrale, cioè la plasticità sinaptica, sono simili a quelli utilizzati nell'apprendimento e nella memoria. L'analisi mediante imaging cerebrale funzionale conferma che i pazienti in riabilitazione dopo un ictus hanno un pattern di attivazione simile a quello di chi sta imparando a camminare e parlare.

Il dato che ci interessa qui è che le ricerche condotte su modelli animali di ictus hanno dimostrato come l'inibizione del segnale mediato da CCR5 migliori il processo di apprendimento e la plasticità neuronale nei circuiti ippocampali (memoria) e corticali (motoria e sensoriale). 
I topi sani hanno, in quelle regioni, un segnale derivante da CCR5 sotto il limite di rilevamento. Al contrario l'espressione della proteina CCR5 nei neuroni corticali aumenta in modo significativo una decina di giorni dopo l'ictus e si mantiene stabile per circa 1 mese; probabilmente un effetto legato alla lesione e all'attivazione del sistema immunitario locale.
Spegnendo il gene, con opportuni farmaci (ad esempio il maraviroc, un antagonista del CCR5 utilizzato nella clinica per il trattamento dell'AIDS), entro la prima settimana si nota un netto miglioramento delle capacità di recupero motorie del topo.
Più in dettaglio si è osservato che se somministrato quotidianamente a partire da 24 ore dopo l'ictus e per 9 settimane, la funzionalità motoria era chiaramente migliorata rispetto ai controlli già a partire dalla terza settimana.
Inoltre il maraviroc si è rivelato efficace anche nell'ictus cronico, somministrato a partire dalla terza settimana. Questo è uno degli aspetti più interessanti in quanto oggi le uniche terapie approvate per l'ictus devono essere somministrate entro 24 ore dall'ictus, un limite di efficacia molto pesante per le capacità di recupero dei pazienti.

Andando un poco più nel dettaglio, lo spegnimento del gene CCR5 favorisce la "germinazione" (sprouting) assonale successiva alle lesioni, cioè la formazione di nuove connessioni in grado di aggirare l'area danneggiata. Nei fatti sia ha un aumento del numero totale di spine dendritiche nella corteccia pre-motoria e un aumento della rigenerazione assonale.

In un precedente articolo riguardante il razionale teorico (ma scientificamente ed eticamente fallace) dietro la creazione dei bambini GM in Cina (--> qui) avevo parlato degli individui con naturale protezione al virus HIV (o almeno ad alcuni ceppi del virus) grazie all'essere portatori di una mutazione inattivante nel gene CCR5 (mutazione delta32). La loro relativa abbondanza (circa 1% nelle popolazioni europee è omozigote per questa mutazione) ha permesso di fare uno studio retrospettivo sui pazienti colpiti da ictus dato che su 446 pazienti, 68 erano portatori della mutazione. La valutazione refertuale dello stato cognitivo nelle settimane successive all'evento mostra che i pazienti portatori della mutazione guarivano meglio degli altri a parità di terapie ricevute e di fattori di morbilità.

Poiché il maraviroc è un farmaco attualmente in uso, la traslazione clinica del trattamento anche per i soggetti colpiti da ictus dovrebbe essere relativamente veloce in modo da verificare, su un campione statisticamente idoneo, l'utilità del trattamento dopo l'ictus

Fonte
- CCR5 is a therapeutic target for recovery after stroke and traumatic brain injury. 
Joy, M. T. et al. (2019) Cell. v176, pp. 1143–1157

Sensore portatile per rilevare perdite (o avvelenamento) da metanolo

I ricercatori svizzeri del ETH hanno sviluppato un dispositivo portatile ed economico in grado di rilevare la presenza di metanolo nelle bevande alcoliche (e non solo).
Chi ha qualche anno sulle spalle ricorderà bene il caso del vino al metanolo di fine anni '80 che causò molte vittime ma che almeno forzò l'entrata in vigore di controlli più stringenti sui produttori. Se il problema almeno nei prodotti di largo consumo è stato ampiamente ridimensionato, non è un rischio secondario sia nelle produzioni artigianali che nei paesi non sviluppati.
Tra potenzialmente fatale e inebriante ... c'è un carbonio di differenza

Il metanolo viene a volte chiamato il gemello mortale dell'etanolo, una somiglianza chimica e in parte funzionale, con il metanolo a rappresentare il lato oscuro. Mentre l'etanolo è l'ingrediente inebriante che caratterizza vino, birra e grappa, il metanolo è una molecola non tossica di suo ma che genera prodotti altamente tossici una volta metabolizzata. Oltre ad una azione negativa diretta sull'attività del sistema nervoso centrale (come l'etanolo ad alti dosaggi) ha una tossicità mediata dai suoi metaboliti, prima la formaldeide ed infine l'acido formico. In particolare il formiato (sale dell'acido formico) inibisce la citocromo C ossidasi, un importante enzima mitocondriale, causando in serie ipossia cellulare e acidosi metabolica.
Anche una quantità relativamente piccola di metanolo può provocare cecità e, se non trattata per tempo, essere fatale.

Casi di avvelenamento dovuti al consumo di bevande alcoliche contaminate con metanolo si verificano anche in assenza di evidente dolo (negli anni '80 veniva aggiunto di proposito perché un mezzo più economico per raggiungere la gradazione alcolica desiderata), in quanto la fermentazione alcolica produce di suo piccole quantità di metanolo. Ogni volta che l'alcool viene distillato in modo non professionale, si può quindi avere un accumulo di metanolo nel liquore prodotto.

Finora, il metanolo poteva essere distinto dall'etanolo solo in un laboratorio chimico con ovvia riduzione dell'accuratezza e tempestività dei controlli nel luogo di produzione. I ricercatori hanno ora sviluppato un dispositivo portatile basato su un piccolo sensore di ossido di metallo in grado di rilevare l'alcol adulterato in due minuti "annusando" i vapori di metanolo ed etanolo da una bevanda. Inoltre, lo strumento può anche essere utilizzato per diagnosticare l'avvelenamento da metanolo analizzando l'espirato di un soggetto, con ovvi vantaggi nella tempistica della diagnosi..
credit: Van den Broek J et al. Nature Communications 2019

La tecnica sottostante (sensori all'ossido di metallo per vapori di alcol) non rappresenta nulla di nuovo solo che finora aveva una forte limitazione nel non essere capace di distinguere vapori di etanolo da quelli di metanolo.
Il nuovo, ed affidabile, sensore sfrutta due innovazioni: nanoparticelle di ossido di stagno drogate con palladio e infine un "trucco" per distinguere tra metanolo ed etanolo. Invece di analizzare il campione direttamente con il sensore, i due tipi di alcol (o i suoi vapori) vengono prima separati facendoli passare in un tubo riempito con un polimero poroso, dal quale viene aspirata l'aria mediante una piccola pompa. Poiché la molecola di metanolo è più piccola, questa passa attraverso il tubo polimerico più rapidamente dell'etanolo permettendo una sua rilevazione precisa.

Il dispositivo di misurazione si è rivelato eccezionalmente sensibile, persino per tracciare quantità di contaminazione da metanolo fino alla soglia più bassa del limite consentito per legge.  Durante i test di affidabilità  sono stati analizzati campioni di alito di persone che avevano precedentemente bevuto rum, aggiungendo poi nell'espirato quantità variabili di metanolo; aggiunte fatte in doppio cieco per testare la sensibilità diagnostica.
Il nuovo dispositivo è stato brevettato e si sta lavorando per ridurre ulteriormente le dimensioni dello stesso, rendendolo così disponibile a costi estremamente contenuti. Prospettiva non secondaria perché il metanolo è ampiamente usato nell'industria e potrebbe diventare ancora più comune se venisse scelto come carburante del futuro; da qui la necessità di sviluppare un sensore per rilevare perdite nei serbatoi.

Fonte
- Highly selective detection of methanol over ethanol by a handheld gas sensor
J. Van den Broek et al, (2019) Nature Communications

Ethanol Vs. Methanol
https://homeguides.sfgate.com



La cannabis provoca una alterazione quali-quantitativa del recettore della dopamina

Una delle certezze mediche, purtroppo troppo spesso minimizzata, è che chi consuma cannabis in modo continuativo manifesta sul lungo periodo deficit comportamentali, compromettendo la normale capacità di giudizio e autocontrollo.
Nota. Nonostante l'essere considerata una droga leggera e molto alla moda (basta vedere il numero di film, in Italia quelli di Salvatores, in cui i personaggi ne fanno uso), spacciata come innocua, è bene ricordare che secondo i dati del National Institute of Drug Abuse statunitense circa il 9% degli individui che utilizzano per la prima volta cannabis ne diventeranno dipendenti, con numeri che salgono al 17% per chi inizia da adolescente e supera il 25% per chi la consuma giornalmente.
L'effetto è ascrivibile ad una alterazione delle funzioni dopaminergiche; più in dettaglio si tratterebbe di una disfunzione neuroadattativa indotta dal THC (il principio attivo della cannabis), che ricalca quanto avviene nei modelli animali con l'eccessiva attivazione del recettore eteromerico della dopamina, D1/D2.
Tuttavia poco si conosceva sui meccanismi molecolari alla base di tale somiglianza funzionale.

Uno studio recente chiarisce come l'assunzione cronica di THC aumenti sia il numero di neuroni che esprimono il recettore eteromerico D1/D2 che il numero di eteromeri all'interno dei singoli neuroni nella parte del cervello nota come striato. Le conseguenze a valle, a livello cellulare, sono nell'attivazione dei segnali basati sul calcio e l'inibizione di quelli basati sul cAMP.
Particolarmente interessante l'effetto del cannabidiolo, capace di attenuare buona parte (ma non tutte) le alterazioni indotte dal THC.
Il cannabidiolo è la seconda sostanza più abbondante nella cannabis dopo il THC. A differenza di questa, però, il CBD non è psicoattivo, non crea assuefazione e possiede notevoli capacità rilassanti, antinfiammatorie e antidolorifiche; per questa ragione ha indicazioni nel combattere gli effetti collaterali causati dal THC.
Riassumendo, i dati recenti sottolineano la centralità del recettore eteromerico D1/D2 nei disturbi comportamentali legati all'uso di cannabis

Articolo precedente sul tema --> Fumare troppa erba causa deficit di dopamina

Fonte
- Δ9-Tetrahydrocannabinol Increases Dopamine D1-D2 Receptor Heteromer and Elicits Phenotypic Reprogramming in Adult Primate Striatal Neurons
A. Hasbi et al, iScience 2019



L'attività fisica fa bene alla memoria ma nell'Alzheimer questo meccanismo si inceppa

Mens sana in corpore sano o anche fare attività fisica fa bene al corpo e alla mente

Una frase che ha fondamenti scientifici consolidati. I dati accumulati nel corso degli anni convergono  infatti su due punti:

  • fare attività fisica in modo continuativo fa bene alla funzionalità cerebrale in generale e alla memoria in particolare;
  • i soggetti affetti dal morbo di Alzheimer (AD) hanno disfunzioni nel metabolismo cerebrale che diminuiscono l'efficacia protettiva dell'attività fisica per quanto riguarda le capacità mnemoniche.
Non a caso tra le terapie di mantenimento adottate per i pazienti affetti da AD, un ruolo chiave lo hanno quelle finalizzate a tenere sotto controllo malattie metaboliche, il diabete ad esempio, e massimizzare l'attività fisica.
Entrambi gli approcci hanno dato buoni risultati, anche se purtroppo temporanei
Nota. Non esistono oggi terapie curative per l'Alzheimer ma solo attività tampone che nella migliore delle ipotesi possono solo rallentare l'inevitabile decorso 
Il focus sulla attività fisica è in un certo senso totalmente empirico poiché i meccanismi molecolari che sottintendono al rapporto memoria-attività fisica non sono del tutto compresi.

A fare chiarezza nel campo arriva uno studio pubblicato da poco sulla rivista Nature Medicine che identifica nella irisina, una proteina con attività ormonale che fa da trait d'union tra attività fisica prolungata e i benefici osservati nei pazienti.

La irisina è una miochina, vale a dire un membro della famiglia di proteine secrete dai muscoli e dotate di attività endocrina paracrina. Studi precedenti avevano dimostrato che questa proteina viene liberata in seguito all'esercizio fisico e ha come effetto finale quello di favorire la liberazione di un fattore neurotrofico come il BDNF dall'ippocampo (il luogo in cui si consolida la memoria).

Il lavoro appena pubblicato si è focalizzato sulla misurazione del livello di irisina nel cervello ottenuto dalle autopsie dei pazienti, e ha evidenziato che il suo livello è inferiore a quello nei soggetti di controllo (deceduti per altre cause e non affetti da AD). Il dato è stato confermato in modelli murini, cioè topi predisposti al AD, in cui si osserva come la presenza delle placche amiloidi sia di per sé capace di ridurre il livello di irisina; dato confermato nei topi normali semplicemente iniettando le proteine responsabili della formazione delle placche.
La prova del nove, duplice, è venuta attraverso lo spegnimento genico (topo knock-out) della irisina che ha portato al deterioramento della capacità di formare nuove memorie a lungo termine e all'aggiunta di nuove copie geniche (veicolate mediante vettore virale) nelle cellule neuronali che ha protetto i topi dalla perdita di memoria.

Test istologici hanno cercato a questo di capire se vi fosse una qualche interazione diretta (e con effetti negativi) tra le proteine formanti le placche amiloidi e la irisina. Non si è osservata alcuna interazione diretta ma la irisina attiva una serie di segnali che agiscono direttamente sui meccanismi di formazione della memoria, deteriorati nel AD.
Nello specifico la irisina agisce sul pathway cAMP-PKA-CREB. Livelli medio bassi di irisina non sono sufficienti per compensare anomalie nel pathway ma se ne viene fornita in eccesso diventa capace di prevenire la disfunzione del pathway agendo come un "tampone".
La correlazione tra irisina e attività fisica è stata testata sul campo facendo fare ai topi molta ginnastica, nello specifico facendoli nuotare per 1 ora al giorno, 5 giorni a settimana, per 5 settimane. Il risultato è stato soddisfacente, visto che si è riusciti a prevenire i deficit funzionali nell'ippocampo e nella formazione della formazione. Al contrario topi privi del gene della irisina sottoposti allo stesso training non avevano alcun vantaggio da questa tabella ginnica. 

Di importanza per terapie future sugli umani, l'osservazione che l'infusione per via endovenosa della proteina carente massimizzava l'effetto benefico dell'attività fisica.

I ricercatori si stanno ora concentrando nella identificazione dei recettori della irisina nel cervello, passo fondamentale per disegnare molecole mimetiche in grado di attivare lo stesso pathway e dotate di una migliore biodisponibilità rispetto alla irisina (nello specifico molecole in grado di raggiungere il bersaglio anche se assunte per via orale invece che per endovena o per perfusione locale).


Riassumiamo i punti essenziali del lavoro fatto finora in modo che il messaggio arrivi anche a chi non mastica molto di ricerca:

  1. la irisina è il mediatore tra attività fisica e la produzione di fattori neurotrofici protettivi nel cervello;
  2. i pazienti affetti da Alzheimer hanno bassi livelli di questa proteina (non si sa se questo sia un epifenomeno o una causa diretta) per cui non riescono a sfruttare tutti i benefici neuroprotettivi del fare attività fisica.
  3. "rifornire" di irisina aggiuntiva, topi predisposti alla malattia ripristina gli effetti benefici del fare ginnastica.
  4. Si cerca ora di identificare una molecola in grado di mimare la irisina che sia facile da somministrare e parimenti efficace, in vista di futuribili trattamenti nei pazienti




Articoli precedenti sul tema -->"Dove inizia l'Alzheimer" oppure cliccando i tag --> "Alzheimer

Fonte
- Exercise-linked FNDC5/irisin rescues synaptic plasticity and memory defects in Alzheimer’s models
Mychael V. Lourenco et al, (2019) Nature Medicine, volume 25, pp. 165–175







Starhopper, il razzo prototipo di SpaceX, ha fatto il suo primo balzo

E' stato coronato da successo il lancio di Starhopper, un prototipo di razzo sviluppato da SpaceX, l'azienda di voli spaziali creata da Elon Musk. 
Un lancio con traiettoria invero estremamente limitata rispetto ai lanci classici ma lo scopo degli ingegneri era quello di fare un test di massima in vista dell'inizio dei voli spaziali commerciali previsto per il 2021. 

Voli che vanno di pari passo (e che dovrebbero aiutare a finanziare) la missione su Marte e che, per ovvie ragioni, necessiterà di avere a disposizione tanti piccoli razzi deputati unicamente al trasporto merci.
Se non vedi il video --> Youtube


Il lancio di prova mostrato in queste immagini è avvenuto il 27 agosto nei pressi di Boca Chica, una piccola città nel sud del Texas. Il test della durata di soli 57 secondi ha visto Starhopper raggiungere l'altezza prefissata per poi raggiungere ed atterratta in un sito vicino
Il test serviva ad verificare l'effetto di alcune modifiche nei nuovi razzi Raptor e nel posizionamento dei serbatoi e quindi migliorare i design di SpaceX Starship, la navetta pensata per il trasporto di esseri umani nello spazio.
Di fatto Starhopper è solo un pezzo della nave Starphip, alta 55 metri; un approccio quello di SpaceX modulare nei test che ha permesso di minimizzare i costi di progettazione secondo il modello classico della NASA.


La "voce" del campo magnetico terrestre al contatto con il Sole

In ogni singolo istante la Terra è bersagliata da sciami di particelle solari e cosmiche, alcune delle quali (i neutrini ad esempio) sono così resilienti alle interazioni da passare il pianeta da parte a parte senza alcun contatto. Altre vengono invece fermate negli strati più alti dell'atmosfera o deflessi dal campo magnetico terrestre.
Rappresentazione del campo magnetico terrestre e del suo funzionare da scudo contro il vento solare (credit: ESA)

Intercettare tutte queste particelle è il primo ed essenziale passaggio per poterle studiare; a tal scopo sono stati creati appositi rilevatori che vanno da "semplici" rilevatori sulla superficie a enormi vasche piene di acqua e circondate da sensori posti all'interno di montagne come il Gran Sasso in Italia (da poco spostato oltreoceano al FermiLab)  o nel caso del Super-Kamiokande giapponese, in una miniera.

Alcuni rilevatori sono stati invece montati su satelliti orbitali e grazie a questi è stata ricostruita la "voce" solare. Niente di metafisico per carità, ma una conversione delle variazioni indotte localmente sul campo magnetico locale quando viene bersagliato dagli sciami di particelle prodotti da una tempesta solare. 
L'analisi condotta è sui dati ricavati dai database prodotti dal lavoro dei quattro satelliti della missione Cluster, iniziata nel 2000 dall'Agenzia Spaziale Europea (Esa) con il fine di monitorare l'attività solare. Il periodo coperto da questo analisi è il primo quinquennio durante il quale si sono verificate 6 tempeste solari. 
Ottenuti i dati si è proceduto a trasformare le frequenze delle onde da impatto in segnali percepibili, ottenendo così una sorta di canto misterioso.
Il suono e video relativo alle due attività in figura sono disponibili 

Grazie ad un sistema di analisi noto come Vlasiator i ricercatori hanno evidenziato non solo una marcata differenza tra l'andamento del ritmo quando il Sole è in quiete e durante una tempesta, ma un pattern più complesso del previsto.

Un esempio di come sia possibile non solo ottenere effetti curiosi da dati fisici ma ricavare nuove informazioni da dati archiviati da più di un decennio

Fonte
- Earth’s magnetic song recorded for the first time during a solar storm
ESA news (11/2019)



Squali che brillano nelle profondità oceaniche

Alcuni squali non hanno bisogno di glittering per le loro serata dance.
Scyliorhinus retifer (credit: David Gruber)
A parte le battute, mi sono recentemente imbattuto nella notizia sulla scoperta di una particolare specie di squalo, imparentata con il classico gattuccio (Scyliorhinus retifer), dotata di biofluorescenza.
La sua pelle assorbe la luce blu dall'oceano (vale a dire l'unica lunghezza d'onda nel visibile proveniente dal Sole, capace di penetrare per qualche decina di metri l'acqua) e riemette luce ad una lunghezza d'onda maggiore (quindi energia inferiore), generando sulla cute dei pattern luminosi visibili solo da altri squali.
L'oceano ci appare blu perché quella lunghezza d'onda della luce è l'unica ad essere assorbita (arriva fino a 200m)

 I ricercatori hanno scoperto che tale proprietà dipende da una classe di metaboliti precedentemente ignota presente nelle minuscole squame, simili a denti, che compongono la pelle degli squali. 
Ingrandimento delle squame al "naturale" e in fluorescenza
(credit: James Weaver via sciencealert.com)

Oltre a probabili funzioni di comunicazione (ancora da esplorare) si ipotizza che queste molecole fluorescenti possano anche avere funzioni nella risposta immunitaria; ipotesi derivante da esperimenti che hanno dimostrato proprietà antimicrobiche.
Scoperta interessante sia da un punto di vista naturalistico e (forse) etologico che nella perenne ricerca di molecole sinergizzanti i classici antibiotici.

Fonti
- Bright Green Biofluorescence in Sharks Derives from Bromo-Kynurenine Metabolism
 HB Park et al. (2019) iScience

-  These Sharks Produce an Eerie Glow Through a Mechanism Previously Unknown to Science
sciencealert.com (2019)

- Biofluorescence in Catsharks (Scyliorhinidae): Fundamental Description and Relevance for Elasmobranch Visual Ecology
David Gruber et al, Scientific Reports volume 6, Article number: 24751 (2016)






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