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Visualizzazione post con etichetta Epidemie. Mostra tutti i post
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E se la prossima pandemia venisse da un fungo?

E se la prossima pandemia (perché ci sarà) venisse da qualcosa di ben diverso da un virus, il parassita per antonomasia, ad esempio da un fungo?
Questo è l’argomento che esplora il libro “Blight: fungi and the coming pandemic”. Non un romanzo ma un saggio scientifico che esplora una minaccia emergente per la salute pubblica figlia sia della globalizzazione che del riscaldamento globale.
In verità non si tratta di una minaccia mai sentita essendo stata descritta sia in videogiochi/serie TV (The last of us), che in libri di SF (The Genius Plague). Ma, come si suol dire, la realtà supera di molto la fantasia come ben evidente in Natura, dove abbiamo funghi che zombificano le formiche  per renderle vettori di disseminazione delle spore o, in tutt'altro scenario, l’ecatombe dei castagni americani, descritta anche nel bel libro di bryson “Una passeggiata nei boschi”.

Delle formiche zombie ne ho scritto in dettaglio in un precedente articolo a cui vi rimando (vedi QUI), mentre sui castagni ne riassumo ora gli eventi.
Nell’estate del 1904 i castagni americani (Castanea dentata) del Bronx, dove ha sede il famoso zoo, cominciarono a mostrare evidenti alterazioni. Le foglie, tipicamente sottili e di un verde brillante, mostrarono prima bordi arricciati per poi diventare gialle; su rami e tronchi comparirono in alcuni casi strane chiazze color ruggine. Dal momento della rilevazione dei primi sintomi fu sufficiente 1 anno perché tutti tutti gli alberi di castagno nei dintorni risultassero moribondi. Passa qualche decennio (siamo intorno al 1940) e tutti i castagni americani nativi (siti nella zona orientale degli USA, lungo la catena degli Appalachi) erano oramai morti o moribondi.
Un castagno infetto
Il colpevole era un fungo (Cryphonectria parasitica) causa del cancro corticale del castagno, importato casualmente insieme ad esemplari di castagni giapponesi.
I castagni americani sono invece più resistenti ad un altro fungo, Phytophthora cambivora, di cui soffrono i castagni europei e che causa il cosiddetto mal dell'inchiostro.
I castagni giapponesi, evolutisi per contrastare un parassita endemico, funsero da "portatori sani" del fungo che una volta approdato nel nuovo mondo si trovò di fronte delle "vittime" prive di difese finendo così per soccombere, tranne in alcune aree isolate (lontane dalla minaccia fungina) come il Rock Creek Park.
Nelle foreste un tempo dominate da castagni maestosi, alti come un edificio di 9 piani, sopravvivono (a tempo) alcuni castagni immaturi nati dalle radici ancora vive di alberi morti. Purtroppo per loro questi germogli non hanno alcuna speranza di sopravvivere fino all’età adulta per svettare; il fungo è ancora lì pronto a colonizzare gli alberelli nel momento in cui germogliano.

Il destino del castagno americano è solo un esempio della devastazione che i funghi possono provocare,
Il libro prima menzionato ci offre un resoconto illuminante, e a volte macabro, delle malattie fungine che minacciano pini, banane, rane, pipistrelli e, sempre più, le persone.
Sia chiaro, non tutti i funghi sono nocivi come ben dimostrano le forme commestibili (o che aiutano nella preparazione di cibi e bevande come i lieviti) e soprattutto i funghi saprofiti, fondamentali nella decomposizione degli organismi morti, rimettendo i circolo gli elementi essenziali per la vita. Ad esempio il legno degli alberi defunti, tra i materiali più resistenti alla decomposizione, rimarrebbe li per “sempre” se non fosse per l’azione combinata di di batteri e (su tutto) funghi.
Il problema è quando organismi non autoctoni si trovano trapiantiati (trasportati insieme alle merci) in posti in cui non hanno né nemici naturali né competitori. Se questo vale per animali e piante “aliene”, vale ancora di più per organismi microscopici ben più difficili tra controllare. Le conseguenze possono essere catastrofiche
Esempi in tal senso (dette specie aliene ... per un dato territorio) sono purtroppo innumerevoli e vanno dallo scoiattolo grigio al pitone in Florida (ne ho scritto QUI), dai gamberetti ai funghi, ... . QUI un elenco più esaustivo.

Fortunatamente*, noi mammiferi siamo troppo caldi per essere appetibili per la maggior parte dei funghi. Un dato ben evidente da chi ha esperienze di laboratorio, che sa che i funghi crescono preferenzialmente a 30 gradi, mentre le cellule di mammifero e i batteri di uso comune (derivati non a caso da ceppi colonizzanti l’intestino, come E. coli) necessitano di 37 gradi. I nostri corpi sono l’equivalente della Valle della Morte per molti funghi. Laddove le condizioni siano "permissive" per i funghi, ecco che gli animali sociali come formiche e termiti applicano procedure di rimozione drastiche per gli infetti.
* una affermazione che è implicitamente vera, ricalcante il famoso principio antropico: se non fosse così (i funghi non avessere questo punto debole) noi non saremmo qui a parlarne ma come mammiferi saremmo diventati loro cibo preferito fin dai tempi della comparsa del "sangue caldo" nei vertebrati
Altro ostacolo per i funghi viene dal nostro sistema immunitario abile (ancora, ha DOVUTO diventarlo) nel riconoscere e respingere i potenziali invasori fungini che nella maggior parte dei casi rimangono confinati nella loro azione su mucose, cute e unghie). Protezione che dura almeno fintanto che il sistema immunitario funziona a dovere come ben sanno le persone con immunodeficienze esposte ad attacchi molto pericolosi da parte di funghi come la Candida che nei soggetti sani sono al più un fastidio.

Ma non si tratta di una protezione perenne come la certezza che un batteriofago (virus batterici) che per quanto abbondanti ( nel mare se ne possono trovare fino a 10^7 fagi/ml) non potranno mai e poi mai, qualsiasi siano le mutazioni, diventare capaci di infettare una cellula eucariote.

I cambiamenti climatici sono oggi una variabile di cui si deve tenere conto. Il riscaldamento globale ha già reso possibile la migrazione di specie in territori prima a loro preclusi (vedi il mar mediterraneo e le specie tropicali) e i funghi potrebbero essere forzati ad adattarsi a temperature più elevate, diventando così meno “intolleranti” alle nostre temperature.
Cito la Candida auris che nell’ultimo decennio si è adattata diventando capace di infettare le persone fino a diventare un fattore di rischio concreto nelle strutture sanitarie (vedi qui), già prone per loro natura a facilitare la selezione e diffusione dei superbatteri. Anche altre infezioni fungine umane, come la coccidioidomicosi potrebbero presto seguire in questo adattamento.
Un rapido sguardo sulle pandemie fungine che oggi colpiscono altre specie ci offre una lezione sul loro potenziale effetto devastante, se avvenissero in tempi rapidi, senza dare il tempo al “bersaglio” di sviluppare contromisure.
Chiaro che, in un arco di tempo sufficiente, le piante e gli animali colpiti possono adattarsi per gestire meglio i nemici fungini come avvenuto per le rane nel Parco Nazionale di Yosemite, che nonostante siano infette non mostrano più i segni della malattia, oppure i pini dalla corteccia bianca (Pinus albicaulis) degli Stati Uniti occidentali che, a differenza dei cugini pini bianchi della costa orientale,  hanno geni per la resistenza alla malattia nota come ruggine del pino bianco (endemica nell'area da circa un secolo)

Potrebbe aiutare anche l’ausilio di tecniche di ingegneria genetica, come stanno cercando di fare alcuni ricercatori, mediante l’inserimento di geni per la resistenza presi dai resistenti (come i castagni giapponesi) per inserirli nei cugini americani,

In caso di pandemia umana potremmo non avere il tempo necessario per "adattarci" e di sicuro non potremmo godere di tecniche di ingegneria genetica per renderci resistenti. Quindi meglio che non accada


Libri suggeriti sul variegato universo dei funghi ... a cominciare da "Funghipedia"


In Asia centrale (attuale Tagikistan) il "punto zero" da cui deflagrò l'epidemia di peste nera del XIV secolo

Lo studio delle caratteristiche e dell'origine della pandemia che flagellò l'Europa (e non solo) medievale ha una importanza cruciale sia nell'analisi storica che epidemiologica.
La peste nera (in inglese nota come black death) ebbe effetti che vanno ben oltre il periodo di massima diffusione dell'epidemia (1346-1353) con periodiche ricomparse nei secoli successivi 
Sufficiente qui citare le epidemie "regionali" del XVI secolo e quella che è nota come  terza "ondata" dell'epidemia verificatasi in Cina nel 1855. La peste nera e la peste bubbonica del XVII sec. sono oggi accettati come eventi causati dallo stesso patogeno batterico. Alcuni ricercatori negli anni passati avevano invece ipotizzato che la seconda fosse stata di natura virale data le complicazioni polmonari.
L'impatto demografico sull'Europa fu devastante con la morte di circa il 30% della popolazione e conseguente crisi produttiva che si trascinò per molti decenni (ma che fu anche volano di nuove possibilità per molti).
30% è solo una media che comprende punte di mortalità come quelle registrate a Venezia e in alcune zone della Toscana dove si raggiunsero punte del 70%. 
Da un punto di vista storico il grilletto pandemico fu premuto durante l'assedio di Caffa in Crimea del 1344 (rimando alla nota di fine pagina per i dettagli) ma è evidente che il batterio Yersinia pestis, l'agente patogeno, non era comparso dal nulla. Come nel caso di Ebola, il patogeno prospera, "invisibile" a noi, in serbatoi animali dove, solitamente, non causa patologie gravi essendosi evoluto un mutuo adattamento. Quando si verifica però il contatto con animali (tra cui gli umani) permissivi all'infezione il risultato può essere una patologia acuta e ad alta morbidità.
Image credit: R. Barbieri et al
In (a) e (b) foto al microscopio di una pulce normale e una infettata con Y. pestis.
(image credit: Matteo Riccò via researchgate)
Nel caso del batterio della peste questo il serbatoio e il vettore di diffusione sono le pulci dei roditori, il cui contatto con mercanti, eserciti e pastori nomadi che transitavano nelle steppe asiatiche era un evento possibile. Contatti del genere sono verosimilmente sempre avvenuti; a fare la differenza è sempre il numero di "bersagli", il tempo necessario per raggiungere o entrare in contatto con altri umani e la virulenza del ceppo batterico. Queste variabili determinano esiti che vanno dall'autoestinzione del focolaio (guarigione o morte dei portatori) alla progressiva migrazione del patogeno lungo le vie carovaniere.
Dove fosse questo "punto zero" (prima che comparisse in Crimea) è sempre stato oggetto di ipotesi, con un consensus generale verso le steppe dell'Asia Centrale il che non dice in realtà molto data la vastità territoriale.
Image credit: R. Barbieri et al
Un aiuto sostanziale arriva da uno studio pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Nature, che riporta l'identificazione del genoma batterico e il suo sequenziamento da 7 resti umani prelevati da un cimitero del Kirghizistan e risalenti al 1338-39
La scelta del sito non è stata casuale. Evidenze archeologiche e resoconti storici indicavano la zona prossimità del lago Issyk-kul come un'area colpita da un picco di decessi anomalo. Le iscrizioni sulle pietre tombali indicavano come "pestilenza" la causa della morte. Il Kirghizistan non è (considerando anche i tempi di spostamento dell'epoca) così vicino alla Crimea ma la distanza coperta tra questi decessi e l'epidemia in Crimea è compatibile con spostamenti di eserciti e di mercanti.
L'analisi genetica non solo ha confermato la presenza del batterio Yersinia pestis (permettono così di datare a questa data l'inizio pandemico) ma anche di ricostruire il genoma così da potere confrontarne le caratteristiche sia con i ceppi europei che con quelli ancora oggi esistenti nell'area del Tien Shan. La correlazione genetica tra questi resti e quelli rinvenuti in Europa non implica un diretto legame temporale ma ne evidenzia la "parentela" e il probabile percorso compiuto dal patogeno. Ad oggi l'ipotesi più accreditata è il batterio sia partito circa un secolo prima degli eventi in Crimea. 

L'albero genealogico basato sulla somiglianza genetica tra i batteri della peste rinvenuti nei resti umani prelevati da diversi luoghi (e tempi) geografici (credit: M. Spyrou et al.)

Vale la pena ricordare che la peste non è mai scomparsa come si può ben vedere dalla casistica globale nell'ultimo decennio.
Credit: R. Barbieri et al (2020)



Fonte
-The source of the Black Death in fourteenth-century central Eurasia. 
 M. Spyrou et al. (2022) Nature

- Yersinia pestis: the Natural History of Plague
R. Barbieri et al, (2020) Clinical Microbiology Reviews, 34(1) 

***
La peste bubbonica (batterio Yersinia pestis) arrivò in Europa nel 1347 veicolata dalle pulci presenti sui roditori "imbarcatisi" assieme agli italici (genovesi, veneziani, ...) in fuga dalla Crimea. L'anno è noto con precisione in quanto coincide con l'assedio di Caffa (l'attuale Feodosia, allora una colonia genovese) da parte dei Tartari. 
Durante il lungo (e infruttuoso) assedio i tartari cominciarono però a morire a centinaia, e non solo durante gli assalti alle mura della città. La morte arrivava a causa di un morbo sconosciuto nelle cause ma di cui si avevano notizie lungo tutta la Via della Seta, la tratta carovaniera che collegava la lontana Cina all'Impero Bizantino prima e Ottomano poi. Le voci erano univoche per quanto poco dettagliate e raccontavano di come il morbo avesse sparso morte e desolazione nei villaggi e città sperdute nelle immense steppe. Fu in questa fase che gli assedianti pensarono di utilizzare i cadaveri degli appestati come arma biologica (per quanto questa definizione sia moderna) lanciandoli con le catapulteal di là delle mura.
Per quanto efficace come strumento a fuggire per primi furono i Tartari, falcidiati dall'epidemia. Per quanto salva la città, gli assediati sfruttarono l'opportunità per imbarcarsi sulle navi in direzione Bisanzio prima e i porti italici poi. Seguiti dalle pulci.
Messina fu la prima città europea in cui il nuovo morbo si manifestò, seguita a ruota da Venezia.
Nell'autunno del 1347 una galera veneziana arrivata da Caffa portò in dote i topi e relative pulci e con essa la malattia. Nei diciotto mesi che seguirono morì di peste più della metà della popolazione. Dei 110 mila abitanti, si stima che il numero di morti sia stato tra 37 e 70 mila. L'inadeguatezza delle misure messe in atto (per quanto moderne e intelligenti) tipo la traslazione dei defunti su isole disabitate e la muratura delle case infette con rogo delle suppellettili, portò alla "invenzione" nel 1456 (mutuata in verità da una strategia usata a Ragusa, l'odierna Dubrovnik) della quarantena per chi arrivava da lontano  e un'isola deputata a lazzaretto.
Nel 1349 l'epidemia aveva oramai raggiunto anche il Nord Europa. I morti totali si stimano in circa 20 milioni sui 60 milioni allora presenti.
Illustrazione della sepoltura delle vittime della peste in Belgio (FL. 1340-1360)
(credit: WIKIMEDIA COMMONS)

Noi Europei siamo i discendenti di questi sopravvissuti. Uno studio interessante pubblicato qualche anno fa analizza le tracce genetiche che ci portiamo dietro, risultato di questa selezione**

Il batterio è sensibile ad antibiotici come streptomicina, tetraciclina e cloramfenicolo


** Aggiornamento sul tema in un articolo pubblicato a dicembre 2022.


L'epidemia (prevedibile) del morbillo è arrivata in Europa

Circa tre anni fa scrissi un articolo per mettere in allerta sulla recrudescenza dei casi di morbillo, una epidemia assolutamente evitabile dato che c'è un vaccino funzionante (vi invito a rileggere --> "Il ritorno del morbillo. La stupidità si paga").

L'occasione dell'articolo era stata la comparsa di focolai in USA, in aree dove il tasso di vaccinazione aveva subito un calo costante negli anni, ma serviva da monito anche per noi europei vista la tendenza in atto a fidarsi della contro-informazione diffusa ad arte da personaggi senza alcuna competenza in merito e alla diffusione di un sentimento antiscientifico
Non credo sia una coincidenza che il trend antiscientifico sia andato a braccetto con l'apparente tecnologizzazione della persona media; forse è una prova che informatizzazione e mentalità scientifica sono due cose molto diverse (conosco ingegneri più propensi al creazionismo che all'evoluzionismo ...).

Le facili profezie di allora si sono avverate con numeri di casi di morbillo in Europa mai così alti da anni.
Il trend italiano è peggiore di quello inglese. Peggio di noi solo i paesi dell'ex blocco sovietico (dove verosimilmente i tassi di vaccinazione sono crollati con la caduta dei regimi comunisti). Credit: BBC

Contro-corrente va la Cina grazie ad un sistema di controllo capillare dove non solo senza  vaccinazione non si va a scuola (anche in UK e US) ma disobbedire alle direttive del partito-governo non è la cosa più salutare da fare.

Tornando alla notizia lanciata dalla BBC, l'Europa ha visto più infezioni di morbillo quest'anno rispetto a qualsiasi altro anno in questo decennio. Più di 41 mila persone sono state infettate nel 2018, rispetto al minimo storico di 5273 nel 2016. La malattia ha causato 37 morti.
Perché il punto è proprio questo. Il morbillo non è un raffreddore ma una infezione dall'esito potenzialmente molto serio in quanto il virus è un ottimo immunosoppressore; vale a dire che la prima cosa che fa il virus è abbattere le difese dell'organismo spianando così la strada a microbi altri che normalmente sarebbero tenuti sotto controllo dalle pattuglie immunitarie.
Le complicazioni più comuni sono encefalite, meningite, convulsioni febbrili, polmonite ed epatite.
Una precisazione, forse ovvia, è che le persone colpite sono quasi esclusivamente bambini e adolescenti; gli adulti sono in grandissima parte vaccinati e quindi protetti, cosa che non si può dire per i nati nel "decennio della diffusione delle bufale".


Sembrerà cinico, anzi lo è, ma voglio reiterare il titolo dell'articolo di tre anni fa: la stupidità si paga. La cosa grave purtroppo è che viene fatta pagare ad altri, cioè ai bambini.


Articolo precedente sul tema --> QUI
Di interesse sul tema --> "L'importanza di informarsi sulle bufale antiscientifiche"

Fonti
- Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO) / news





La "top ten" degli imprevisti dell'evoluzione nel "progetto" Homo sapiens

L'evoluzione non è un percorso lineare ma è fatto di oscillazioni multidirezionali che non possono prescindere dal "materiale" di partenza. Il che implica che se l'organismo è troppo specializzato (o adattato) ad una particolare nicchia ecologica o se i cambiamenti ambientali sono troppo repentini e duraturi, allora è molto probabile che quella particolare specie scomparirà dando origine ad un"ramo a fondo cieco" nell'albero evolutivo.
Si tratta di un concetto molto importante in biologia, utile per capire che noi (intesi come specie vivente in un dato momento) siamo la summa degli aggiustamenti evolutivi avvenuti nel corso di centinaia di milioni di anni fa, da quando i vertebrati si affacciarono sulla terraferma, e perché sussistano in noi quelli che potrebbero essere definiti come errori progettuali, alla base sia di malattie che di funzionalità ridondanti o "non ottimali".
Se ci fosse stato un demiurgo capace di progettare un essere umano, di sicuro avrebbe apportato modifiche sostanziali al nostro prototipo. Dobbiamo invece convivere con un corpo che pur rimarchevole sotto molti di vista (la fisiologia di una singola cellula vale da sola anni di studio "stupefatto" - generalizzando una famosa frase di J.B.S. Haldane), presenta anomalie che, come detto, nascono dall'aver dovuto fare di necessità virtù nelle soluzioni evolutive. Il che non impedisce convergenze funzionali partendo da punti totalmente diversi come evidente nella capacità di volare di uccelli (alias i discendenti dei dinosauri e totalmente non correlati con gli estinti pterosauri), pipistrelli e gli insetti: stesso risultato ma diversa modalità di implementazione strutturale.
Nota. Evoluzione è in realtà un termine fuorviante nel suo senso letterale. Sebbene sia innegabile l'aumento di complessità tra un protozoo e un qualunque mammifero, la comparsa di una nuova specie non può essere semplificata immaginandola un gradino sopra a quella da cui è originata; meglio pensarla come meglio adatta ad una situazione contingente, scomparsa la quale potrebbe divenire svantaggiata rispetto alla "versione originale". Per ragioni simili è errato posizionare la specie umana in cima alla piramide evolutiva, se si ragiona in senso strettamente biologico. L'evento evolutivo è quello che assicura la maggiore fitness genetica, quindi la capacità di dare luogo a progenie più adatta in determinate condizioni. Se l'ambiente rimanesse identico nel tempo la comparsa di nuove specie si ridurrebbe drasticamente. Gli squali sono esseri perfetti e non a caso dominano i mari, pressoché immutati, da molte decine di milioni di anni, sopravvissuti perfino ad almeno due estinzioni di massa (l'ultima quella del Cretaceo). Questo non esclude però che essi potranno scomparire in poche decine di anni se i cambiamenti ambientali (di origine, ahime, umana) continueranno al ritmo attuale.
 Non si inventa nulla di nuovo dall'oggi al domani ma si opera su ciò che c'è. Le osservazioni di Darwin prima e l'analisi embriologica di Haeckel poi, portarono alla formulazione della «legge biogenetica fondamentale», secondo la quale l’ontogenesi, cioè lo sviluppo individuale degli embrioni, è una ricapitolazione abbreviata e incompleta della filogenesi, alias lo sviluppo evolutivo della specie.  Secondo Haeckel, le fasi cruciali nello sviluppo di un embrione, che portano alla formazione delle varie strutture anatomiche, avverrebbero secondo una sequenza analoga a quella con la quale le stesse strutture sarebbero comparse nel corso dell’evoluzione. Ad esempio, nell’embrione umano vi è uno stadio in cui si forma una sorta di appendice caudale, lunga fino ad 1/6 dell'embrione, che in seguito si riassorbe, mentre gli abbozzi degli arti continuano a svilupparsi. Un rimodellamento regolato da processi come l'apoptosi (suicidio programmato delle cellule) che "scolpisce" gli abbozzi per riplasmarli in strutture diverse da quelle "iniziali" il tutto codificato da istruzioni genetiche accumulatesi con il passare delle generazioni.
Se si osserva lo sviluppo di una mano nell'embrione umano si osserverà che in una certa fase apparirà palmata, salvo poi venire scolpita in dita separate grazie al "suicidio e riassorbimento" delle cellule che formavano la membrana interdigitale. Non a caso con una certa frequenza (1 su 3000 nati vivi) si manifestano difetti dello sviluppo embrionale intorno alla 8a settimana, che causano la sindattilia in cui una o più dita sono solo parzialmente o per nulla separate. Un problema oggi risolvibile chirurgicamente senza lasciare tracce ma che appunto va cercato in una errata attuazione del programma di sviluppo implementato a partire dai lontani progenitori tra i vertebrati terrestri.
Tale legge è ancora oggi considerata uno dei principi biologici fondamentali, anche se alcuni aspetti delle idee di Haeckel, considerati alla luce delle successive ricerche embriologiche, si sono rivelati non corretti, o quanto meno non generalizzabili.

Esserci evoluti da uno stadio protocellulare a quello di vertebrati bipedi, senza peli e difese strutturali da predatori e intemperie ma in grado di progettare la disponibilità alimentare ha certamente molti vantaggi ma non è esente da qualche svantaggio perché il passato è dentro di noi. In un certo senso sarebbe come costruire un palazzo usando le fondamenta e i muri portanti di un edificio preesistente; si possono fare miglioramenti, rinforzare i punti critici e modernizzare la classe energetica ma saremo sempre dipendenti dai limiti della struttura iniziale.

Volendo elencare alcuni dei difetti evolutivi che ci portiamo dietro avremmo ampia possibilità di scelta; dal singhiozzo alla appendice fino ai denti del giudizio, il percorso evolutivo che ha portato al Homo sapiens si è caricato di alcune imperfezioni evidenti ma forse proprio per questo umane. Mi limiterò alle prime 10 che mi vengono in mente.

1. Siamo delle chimere
Comincio con il prenderla molto alla lontana (in senso letterale su scala temporale) ricordando che in un periodo imprecisato  intorno a 2 miliardi di anni fa, dalla unione (o forse sarebbe meglio dire, un pasto non riuscito) tra un proto-eucariote ed un batterio in grado di usare l'ossigeno nacque l'antenato delle odierne cellule eucariote con l'evoluzione di un rapporto simbiontico tra mitocondrio (l'ex batterio) e la cellula predatrice. Per altre informazioni vedi articolo precedente --> QUI.
Un evento simile ha portato alla comparsa di eucarioti fotosintetici (le cellule vegetali). Ma questa è un'altra storia.
La "digestione" non riuscita di un batterio aerobico e di un cianobatterio è l'origine più probabile degli attuali mitocondri e cloroplasti, rispettivamente (--> Il batterio ispiratore di Star Wars)

Questo rapporto, senza il quale non sarebbero mai potuti comparire gli organismi pluricellulari complessi in quanto energicamente dispendiosi, si è evoluto a tal punto che alcuni geni del mitocondrio (perché ovviamente il batterio aveva un suo genoma indipendente) si sono trasferiti nella cellula ospitante, in un luogo ben più protetto (e controllabile) come il nucleo. Tuttavia il trasferimento è stato parziale e infatti il mitocondrio ha ancora oggi un proprio genoma e propri apparati trascrizionali e traduzionali. Questo fa si che sia sensibile a mutazioni nel DNA, cosa non rara in un ambiente ricco di radicali liberi. L'impatto delle mutazioni mitocondriali è "frenato" sia dal fatto che in un genoma così compatto come quello mitocondriale, le mutazioni sono quasi sempre "distruttive" (quindi si auto-estinguono insieme al mitocondrio alterato) che dall'alto numero di mitocondri presenti in una cellula (variabile e regolabile a seconda delle necessità cellulari) che diluisce l'eventuale anomalia funzionale. Ciò nondimeno quando una mutazione diventa dominante la cellula prima e l'organismo pluricellulare poi subiranno le conseguenze come ben dimostrano alcune patologie umane quali le miopatie mitocondriali (a carico dei muscoli) e la sindrome di Leigh (che colpisce il sistema nervoso centrale). Un demiurgo previdente avrebbe caricato in toto le istruzioni per fare funzionare la nostra centralina energetica nel nucleo, sia perché un luogo più al riparo dallo stress ossidativo che per la presenza di un apparato di riparazione del DNA più efficiente.

2. Singhiozzo
Un "cortocircuito" presente anche in altri mammiferi oltre a noi. Anche qui bisogna risalire l'albero evolutivo fino ad arrivare ai primi pesci capaci di catturare l'ossigeno dall'aria (quando necessario) senza bisogno di filtrarlo dall'acqua incanalata attraverso le branchie. Utilizzavano a tale scopo dei polmoni primitivi in cui l'aria veniva convogliata e poi espulsa. Poiché si trattava di necessità temporanee il pesce doveva avere un mezzo per chiudere la glottide (ingresso ai polmoni) quando tornava sott'acqua; il movimento muscolare di chiusura si accoppiava a quello che spingeva l'acqua attraverso le branchie il che preveniva "dimenticanze". Noi che di questi animali proto-terrestri siamo i discendenti, ci portiamo dietro le vestigia di questo meccanismo che, persa oramai di ogni funzionalità, può ogni tanto corto-circuitare nella comparsa del singhiozzo. Il singhiozzo infatti altro non è che l'attivazione di questi muscoli "antichi" che fanno chiudere rapidamente la glottide mentre aspiriamo (non più l'acqua oramai ma solo aria).
I muscoli che usiamo per respirare sono quelli intercostali, situati tra le costole e il diaframma - un foglietto di muscolo sotto i polmoni. Il singhiozzo non a caso compare dopo avere mangiato o bevuto, troppo o troppo rapidamente, una attività che induce l'estensione delle pareti dello stomaco, situato proprio sotto il diaframma. L'espansione provoca una risposta nel diaframma che induce la contrazione della glottide. Uno dei motivi per cui è così difficile smettere di singhiozzare è che l'intero processo è controllato da una parte del nostro cervello evolutasi ben prima della "coscienza" - o meglio del controllo "voluto" dei movimenti.

Seppur fastidioso il singhiozzo è temporaneo; quando invece assume i caratteri di eccessiva ricorrenza o cronicità, il problema va cercato nella "cablatura nervosa" a livello spinale o cerebrale.

3. Mal di schiena
L'impalcatura ossea del tronco dei vertebrati si è evoluta lungo un asse portante (la colonna vertebrale entro cui sono poi stati raccolti "i cavi" nervosi) da cui si sono dipartite delle appendici (le costole) necessarie per contenere gli organi interni. Mentre la struttura nelle sue molteplici variazioni si è rivelata in grado di assolvere al movimento dei tanti tipi di vertebrati terrestri, la sfida funzionale si è complicata con l'acquisizione da parte degli ominidi dell'andatura eretta (bipede). Il cambiamento ha imposto un rimodellamento dell'asse scheletrico facilmente osservabile dall'analisi comparativa dei reperti ossei di Australopitechus e Homo.
Il cambiamento posturale non è stato un evento di poco conto in quanto si è avuto un ribaltamento della distribuzione del peso, culminato con la l'acquisizione di una forma ad S della colonna vertebrale. Il peso di testa e spalle e dell'azione muscolare per tenere la posizione eretta si scarica in noi sulle vertebre, soggette quindi ad stress e alla comparsa di dolori spesso cronici. Se questo non dovesse bastare, il rimodellamento del bacino aggiuntosi all'aumento della dimensione cranica ha reso il parto un evento nettamente più traumatico di quanto osservabile in qualunque altro mammifero. Per compensare in parte il problema il periodo gestazionale si è accorciato in modo da permettere la nascita di "immaturi" (se comparato all'aspetto e capacità della progenie di altri mammiferi non primati).

4. Intestino "cedente"
Una volta indirizzati verso la posizione eretta, anche l'intestino si è trovato in una situazione "precaria" non più sostenuto dai muscoli addominali e soprattutto dallo stomaco come nei quadrupedi (vedi ad esempio --> qui). Il risultato di questa distribuzione verticale del peso (sulle cavità interne e negli uomini sullo scroto) è la comparsa di ernie inguinali.


5. Mangiare e soffocare
Tutti conoscono la manovra di Heimich o hanno visto in qualche film persone a cui era andato per traverso del cibo, salvate da questa tecnica. Un problema sconosciuto ai nostri amici a quattro zampe proprio perché è un "effetto collaterale" della posizione eretta.
Nella maggior parte degli animali la trachea (dove avviene il passaggio dell'aria) e l'esofago (dove transita il cibo) sono disposte in modo che l'esofago sia posizionato sotto la trachea. Nella gola di un gatto, ad esempio, i due canali corrono approssimativamente orizzontali e paralleli tra loro prima di dirigersi ai polmoni e allo stomaco, rispettivamente. In questa configurazione, la gravità tende a spingere il cibo verso il basso quindi verso l'esofago e i rischi di un errato percorso coinvolgono al più la sola aria inspirata e non il cibo. Negli esseri umani non è così, con i due canali pressoché verticali e esofago e trachea alla stessa altezza. 
La combinazione di questi fattori fa si che la probabilità che il cibo "sbagli strada" è molto alta ma è fortunatamente prevenuta dalla chiusura della epiglottide. Se questa non si chiudesse in tempo il rischio di soffocare sarebbe molto alto. Le scimmie, dotate di posizione "quasi eretta" sono meno a rischio; ad attenuare il rischio la minore evoluzione dell'apparato vocale la cui funzionalità è strettamente correlata alla struttura della laringe, la sede delle corde vocali.

6. Sensibilità al freddo
La pelliccia è qualcosa di simile ad un caldo abbraccio in una fredda giornata d'inverno, una protezione quasi onnipresente tra i mammiferi. Gli umani insieme a poche altre specie (il ratto talpa ad esempio) l'anno persa durante l'evoluzione complice l'essersi evoluti in ambienti tropicali. Sulle cause che hanno portato alla sua perdita (esistono animali tropicali dotati di un rivestimento isolante - non traspirante) il consensus non è definitivo; una delle spiegazioni più plausibili è che con il crescere della dimensione del "branco"negli ominidi il rischio di trasmissione di malattie derivanti da zecche e pidocchi abbia facilitato la discendenza degli individui glabri (i capelli sono meno a rischio di veicolare parassiti pericolosi). Essere glabri in Africa non era di per sé svantaggioso ma lo divenne con la migrazione verso nord dei neandertal prima e dei sapiens poi.

In entrambi i casi la perdita di peli poté essere compensata solo con la parallela capacità di dotarsi di pellicce artificiali, un passaggio che ha permesso non solo di colonizzare i climi temperati ma anche quelli artici. Vero è tuttavia che da un punto di vista evolutivo la perdita dei peli sarebbe stato svantaggioso per la migrazione in climi più freddi, ostacolando di fatto il successo della specie. Questo ribadisce un concetto chiave, cioè che l'evoluzione NON è lungimirante ma è legata al momento in cui avviene, quindi non è di per sé un evento "di progresso".

7. La pelle d'oca
Rimaniamo sul tema "pelliccia" per ricordare che i nostri antenati pelosi erano dotati, come molte altre specie, di speciali muscoli nella pelle chiamati "erettori del pelo" che si contraevano sia per cause "emotive" (come lo stress) che per il freddo, utile in quest'ultimo caso per creare una "bolla d'aria" isolante trattenuta dall'aumentato spessore del rivestimento. Fenomeni simili si osservano nei cani e negli uccelli, ad indicare "l'atavicità" di questa scelta funzionale. Nel nostro caso la scomparsa di gran parte dei peli ha lasciato "solitarie" le fibre muscolari lisce che percorrono la nostra cute, la quale continua a contrarsi con il freddo dando così mostra del fenomeno della "pelle d'oca". Un fenomeno da non confondere con il classico raggrinzimento dei polpastrelli in acqua invece dovuta (con ogni probabilità) ad una "scelta evolutiva" facilitante la presa in acqua, grazie all'aumento della superficie di contatto. Anche qui ad essere coinvolte sono le fibre muscolari lisce ma non quelle associate ai peli.
Piloerezione (pelle d'oca) sul corpo di un essere umano
(Photo by Ildar Sagdejev)


8. Cervello e denti. Una coesistenza difficile
Come già scritto in un precedente articolo (--> Le dimensioni contano), l'equazione cervello grande-grande intelligenza non è corretto sebbene il quesito somigli molto al classico "se sia nato prima l'uovo o la gallina". 
Sta di fatto che un cervello sufficientemente esteso è condizione necessaria perché si possano evolvere aree specializzate e con esse quella che noi definiamo genericamente "intelligenza". Durante l'evoluzione degli ominidi si è assistito ad un progressivo aumento del volume cranico causato, ovviamente, da mutazioni genetiche (vedi ad esempio quella in LAMC3 descritta QUI). L'aumento del volume impone un aumento dimensionale del "contenitore", il che non è un processo senza conseguenze come ben sapeva il T. rex.
Il testone di questo dinosauro (dotato più che di grande cervello di mascelle possenti) ha imposto una redistribuzione del peso lungo tutto il corpo con la atrofizzazione delle braccia (che avrebbero spostato il baricentro troppo in avanti) e coda e gambe sufficientemente possenti da permettergli di "non cascare in avanti".
Nel caso degli ominidi l'aumento dello spazio cranico allocato al cervello ha sottratto materiale osseo alle mascelle rendendole meno possenti rispetto a quelle dei nostri cugini primati. La "perdita" ci avrebbe portato in un vicolo cieco evolutivo (incapaci di masticare carne e corteccia) se non fosse comparsa "l'inventiva" capace di farci scoprire gli utensili e l'uso del fuoco per la cottura del cibo (è noto che questo è il passaggio cruciale nella nostra evoluzione in quanto fornì un surplus calorico inusitato capace di sostenere la spesa energetica del cervello, che ricordo arriva fino al 20% del totale giornaliero).
Le mascelle ridimensionate non si sono accompagnate ad una parallela riduzione dei denti che quindi "non stanno più nella bocca". Questa è la ragione per cui ci troviamo con denti "fastidiosi / in eccesso" come i denti del giudizio che causano spesso problemi e devono essere rimossi.


9. Obesità
Uno degli aspetti a cui la nostra fisiologia non si è ancora adattata è "l'improvvisa" abbondanza di cibo. Se i nostri antenati arboricoli avevano tutto sommato un rapido accesso a frutta, vegetali e talvolta carne, nel momento stesso in cui i primi ominidi cominciarono la loro avventura in spazi aperti il problema costante divenne trovare il cibo. Un problema come sappiamo non limitato solo a noi ma a qualunque animale, specialmente i carnivori che il cibo devono cercarlo e che per tale motivo stanno spesso giorni senza mangiare.
Anche dopo il nostro "affrancamento" dalla mera ricerca di cibo (con l'invenzione di agricoltura e allevamento) la certezza di avere un importo calorico adeguato era tutto fuorché certo, legato a molteplici variabili ambientali e umane. Gli ultimi 30 mila anni hanno selezionato quindi individui in grado di sopportare una assunzione di cibo discontinua e soprattutto monotematica (a seconda del luogo in cui tali popolazioni si erano adattate). Nell'ultimo secolo la situazione si è rovesciata con una paradossale inversione di tendenza per cui il cibo ipercalorico ("cibo spazzatura") è diventato di più facile accesso agli individui più poveri. Risultato, una "epidemia" di obesità che è tracimata dai paesi più agiati (ma dove era più lecito attendersela) fino a popolazioni che fino a pochi anni fa (letteralmente) avevano una dieta di pura sussistenza. Esempi classici sono le percentuali di obesi in crescita esponenziale in Cina e perfino Africa; casi eclatanti sono quelli che riguardano i discendenti degli indios - la parola nativo americano è una idiozia semantica -del Sudamerica e negli abitanti della Polinesia (vi rimando all'articolo precedente --> Ingrassate d'inverno? Colpa della genetica) .
La ragione è semplice: non siamo programmati per una assunzione di cibo costante e tutta questa disponibilità, a qualunque ora, non può fare altro che mandare in corto circuito la nostra fisiologia.
La fame è uno stimolo fondamentale evolutasi come "coercizione" per andare alla ricerca del cibo. Le nostre papille gustative si sono evolute per spingerci a preferire gli alimenti più ricchi di molecole ipercaloriche (a bassa disponibilità in natura) come zuccheri, sali e grassi ed evitare invece quelli amari, generalmente associati a tossine. E' come se avessimo un GPS corporeo che ci spinge verso cibi che data l'attuale abbondanza si traducono in bombe ad orologeria metaboliche.


10 - .... l'elenco potrebbe continuare 
Potremmo andare avanti citando molti altri esempi di vestigia funzionali o di strutture "migliorabili, dai capezzoli maschili all'appendice, dai tumori della pelle nel fototipo chiaro a tutti gli inconvenienti dell'invecchiamento più evidenti negli umani che in altri animali (ma solo perché oggi viviamo più a lungo di quanto la selezione naturale ci abbia "plasmato" --> QUI o il tag "invecchiamento" ) oppure del punto cieco nei nostri occhi, dei muscoli vestigiali ancora presenti per muovere l'orecchio, del coccige da cui un tempo spuntava la coda, dei problemi per i maschietti del sedersi a lungo su sellini di biciclette, ... .
Come scritto sopra, il corpo è costruito su un vecchio modulo, costituito da parti aggiunte o migliorate di volta in volta quasi fossimo delle creature assemblate da un geniale dr. Frankestein in grado di usare i pezzi disponibili per fare l'upgrade al modello successivo.
Nondimeno si tratta di un mirabile esempio di come l'evoluzione sappia fare di necessità virtù e di come ciascuno di noi (ivi compresi gli altri animali, piante, protozoi, funghi e microbi) siamo il prodotto preziosissimo di 3,5 miliardi di anni di messa a punto.

(clicca per ingrandire)


Ebola, Zika e ora la febbre gialla.

La globalizzazione vale anche per i virus.
Se fino a pochi decenni fa la via di diffusione delle epidemie era tortuosa (quindi impraticabile per le forme più virulente), oggi è sufficiente un volo di qualche ora o anche solo un container con ospiti indesiderati per trasferire una malattia da un capo all'altro del mondo.
Sia che si parli di coronavirus (SARS e MERS) o di filovirus (--> Ebola), di virus della febbre gialla o del batterio della tubercolosi, di virus Zika o West Nile Virus, ... ,  vi è la consapevolezza che basta una serie di circostanze favorevoli per creare un focolaio epidemico laddove quel virus era un entità ignota.
Il caso della SARS è emblematico della velocità di importazione di una malattia. Nel novembre 2002 le autorità cinesi rilevarono un anomalo numero di casi di polmonite a carico di lavoratori sanitari a Fonshan, una cittadina del Guandong. Il 21 marzo 2003 un nefrologo sessantaquattrenne, in viaggio dal sud della Cina verso Hong Kong, divenne il caso zero della catena infettiva che nelle due settimane successive coinvolse almeno 138 di coloro che avevano partecipato allo stesso meeting del dottore. L'epidemia si propagò da lì fino a Singapore, veicolata da un assistente di volo infettatosi che in un singolo volo trasmise il virus a decine di passeggeri. Da quel momento scattò l'allarme a livello globale per rischio pandemia (per un resoconto più completo --> qui).
Gli scienziati avvertono da tempo che le pur cospicue scorte di vaccini diventerebbero insufficienti qualora dovessero accendersi focolai in zone ad alta densità come è la norma in molte aree  urbane di paesi endemicamente a rischio. Questo al netto ovviamente dell'esistenza di un vaccino per quel dato patogeno e non vi siano rifiuti cultural-religiosi (nord ovest Pakistan) o peggio ancora ignoranza pseudo-scientifica in salsa new age (vedi la genesi della recente epidemia di morbillo in USA --> qui).


La febbre gialla, endemica in alcune parti del Sud America ed Africa, è responsabile ogni anno di almeno 60 mila morti e di numeri tra 84 e 170 mila nuovi infetti (90% dei quali in Africa).
L'epidemia in Angola è paradigmatica della realtà del rischio, dato il numero di casi registrato nell'ultimo anno, mai così alto negli ultimi 30 anni e che rischia di travolgere il sistema di vaccinazione locale.
In giallo le aree in cui è consigliabile la vaccinazione prima di un viaggio (credit: wikimedia)

Il virus della febbre gialla è veicolato da una zanzara, ragion per cui la bonifica ambientale è uno dei mezzi fondamentali per ridurre il rischio infettivo almeno nelle aree urbane, confinando il "serbatoio virale" alle aree più isolate. Dato che la trasmissione non è mai direttamente inter-umana, salvo trasfusioni di sangue infetto, ridurre la diffusione della zanzara è di per se un ottimo strumento preventivo ad ampio spettro, capace cioè di ridurre la diffusione di malattie diverse ma veicolate dallo stesso insetto.
Aedes aegypti, il veicolo del virus
Lo sforzo compiuto negli ultimi decenni è stato però in gran parte cancellato dal ridimensionamento dei programmi di bonifica per carenza di fondi, problema aggravato dal numero insufficiente di vaccinati. Un binomio nefasto questo che rischia ora di deflagrare con epidemie nei centri urbani del paese sudafricano. A rafforzare i timori vi è il rischio che l'epidemia tracimi oltre le aree dove il patogeno è endemico (Africa sub tropicale e Sudamerica) spingendosi nel sudest asiatico e in Cina, dove la densità abitativa umana renderebbe problematico l'approvvigionamento dei vaccini.
A marzo 2016, il governo cinese ha comunicato la notizia del primo caso di febbre gialla importata, in un uomo di 32 anni che aveva soggiornato in Angola. Il 28 marzo 2016 il sistema di allerta epidemie ProMED-mail ha emesso l'avviso che l'epidemia di febbre gialla in Angola potrebbe diffondersi ulteriormente e che i paesi in cui sono già presenti malattie virali veicolate dalla stessa zanzara (ad esempio la febbre dengue) sono a rischio aumentato di febbre gialla.
Se la malattia riuscisse a trovare un punto di insediamento in Asia (dove per motivi ignoti e nonostante le condizioni ambientali favorevoli il virus non ha mai attecchito) l'impatto sulle economie locali sarebbe potenzialmente devastante.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha iniziato già nel 2006 un programma di vaccinazioni a tappeto in alcune aree a rischio senza tuttavia riuscire a raggiungere i numeri necessari perché si instauri la Herd Immunity. Il vaccino ha una efficacia praticamente pari al 100% e conferisce una immunità vitalizia ma ... non è scevro dal rischio di effetti collaterali, ragione questa, come vedremo in seguito, si evita di vaccinare a priori una popolazione a meno che il rischio epidemico non sia imminente e grave.
Nello specifico della situazione angolana, l'epidemia di febbre gialla evidenzia cosa può avvenire in assenza di una insufficiente vaccinazione: l'epidemia iniziata a dicembre 2015 nella capitale Luanda si è diffusa in pochi mesi in 6 delle 18 province del paese. I numeri ufficiali parlano di 490 persone infette, di cui 198 morte, ma le cifre reali sono verosimilmente più alte; e parliamo di un paese grande e, al di fuori della capitale, a bassa densità umana. Immaginate il rischio in paesi come la Nigeria o l'India. Una ipotesi non remota se si pensa che l'ultima grande epidemia (Nigeria, 1986) causò l'infezione di 116 mila persone uccidendone 24 mila. Oggi gli effetti sarebbero più che amplificati dato che la popolazione (e peggio ancora la sua densità) è nettamente superiore a quella degli anni '80.
Nonostante il fatto che il tempo di incubazione sia solo 3-6 giorni (ma complice l'estrema eterogeneità della gravità dei sintomi, da asintomatico o leggero nella maggioranza dei casi a fatale nel 50% dei soggetti sintomatici --> CDC) la malattia è stata trasportata da alcuni viaggiatori locali fino in Kenya, Mauritania e Repubblica Democratica del Congo. Fortunatamente questo non ha generato nuovi focolai, verosimilmente per la minore diffusione locale di zanzare adatte a fungere da veicolo infettivo (tipicamente appartenenti al genere Aedes o Haemagogus).
Fino a quando il virus rimarrà confinato ad aree limitate la capacità di produrre vaccini (circa 40 milioni di dosi all'anno) dovrebbe essere sufficiente a ricostituire le scorte di emergenza usate sulle popolazioni a rischio, così da contenere i focolai. Facile però comprendere come questa pur imponente capacità produttiva diventerebbe esiziale qualora il bacino di "potenzialmente infettabili" (vale a dire persone non vaccinate residenti all'interno di una area geografica aperta al transito, ad esempio all'interno di uno stesso stato) si avvicinasse a questo valore limite.

Il timore è che la febbre gialla possa seguire lo stesso sentiero di quello già percorso da altre malattie infettive meno gravi (nel rapporto tra numero di soggetti con sintomi seri sul totale degli infettati) come la dengue, chikungunya e zika, che si sono innestate sulla presenza (o importazione sulle navi cargo) di zanzare come la Aedes (--> i casi di zika e WNV).

I ricercatori stanno cercando di capire che cosa determini il "successo" di una infezione in un paese mentre un altro rimane immune; in Sud America ad esempio nonostante la febbre gialla sia endemica e le condizioni nelle favelas non certo ottimali, non si sono mai verificate epidemie nelle aree urbane.
Una possibile spiegazione è che oltre all'esistenza di un sistema sanitario (e di vaccinazioni) nettamente migliore di quello africano, anche il serbatoio virale (scimmie e zanzare) sia ridotto. Anche la capacità delle specie di Aedes locali di veicolare il virus sembra essere inferiore rispetto al caso della dengue, il che rallenta la diffusione del virus dalla giungla alla città, se non nei casi in cui sussistano condizioni ambientali perfettamente idonee.
Non è però il caso di indulgere all'ottimismo dato che l'OMS avverte che il Sud America è oggi "più a rischio di epidemie urbane che in qualsiasi altro momento negli ultimi 50 anni".
Perché non vaccinare tutti allora? A causa del rapporto rischio beneficio connaturato ad ogni farmaco, quindi anche ai vaccini. Il vaccino della febbre gialla si basa su un virus attenuato che può indurre effetti collaterali in 1 persona ogni 100 mila; un rischio legato alla natura stessa di questo tipo di vaccino rispetto ai vaccini basati su proteine ricombinanti, inefficaci però nel caso della febbre gialla. Vaccinare chi non è a rischio equivarrebbe quindi ad aumentare il rischio di malattia o morte, sebbene minimo, senza che vi sia un rischio imminente (che compenserebbe il rischio del trattamento); sarebbe in altre parole eticamente inaccettabile. Questo spiega per quale motivo le persone che vivono nell'area densamente popolata dell'est brasiliano non vengono vaccinate contro la febbre gialla; si tratta infatti dell'unica area del Brasile in cui il virus non è endemico.
Come anticipato precedentemente anche l'Asia è risultata finora stranamente immune alle epidemie di febbre gialla. Il che rappresenta un vero enigma: ci sono scimmie, zanzare, ha un clima caldo umido nelle sue regioni tropicali e inoltre sono stati registrati in passato casi di persone infettatesi altrove che hanno manifestano lì i sintomi della malattia. Tutte condizioni ideali perché il virus avesse potuto radicarsi in un qualunque momento da che sono iniziati gli scambi commerciali con aree a rischio. Si potrebbe pensare ad una qualche forma di immunità legata a specificità genetiche (come avviene con la malaria nei portatori dell'allele della talassemia) ma non è questo il caso; molti sono stati infatti gli asiatici, non vaccinati, che dopo un soggiorno in un luogo ad alto rischio febbre gialla hanno contratto la malattia.
Più probabile l'ipotesi parzialmente sovrapponibile alla precedente; l'esposizione plurimillenaria a virus endemici come la dengue e altri flavivirus potrebbe avere fornito una resistenza parziale incrociata alla febbre gialla, rafforzata magari dall'essere sieropositivi ad uno di tali virus. Il virus della febbre gialla in questi individui si replicherebbe con maggiori difficoltà generando così un carico virale troppo basso (e "facile preda" del sistema immunitario) perché le zanzare riescano ad alimentare il bacino di infetti.
Ma una protezione di tale natura potrebbe non essere sufficiente se i numeri dovessero cambiare; ci sono oggi in Angola (e in altri paesi africani dotati di risorse minerarie importanti) centinaia di migliaia di lavoratori non vaccinati provenienti dalla Cina e da altri paesi asiatici. Tutti loro torneranno in patria al termine del proprio turno di lavoro e questo potrebbe generare la scintilla dell'epidemia in quelle aree in cui la Aedes aegypti fosse già presente.
Anche in questo caso si tratta di una possibilità che non giustifica a priori la vaccinazione (ad esempio) di una città come Shanghai. Basterebbe però vaccinare i lavoratori prima che partano per l'Africa. La protezione fornita dal vaccino è di circa il 100% e il rischio aggiunto sarebbe ampiamente compensato dalla protezione totale e perpetua contro la febbre gialla (o anche solo di diventare portatori asintomatici).
L'importante è agire

Articolo precedente sul tema --> Ebola. Funziona l'immunizzazione passiva?
Potrebbe anche interessarti sul rischio diffusione malattie "scomparse" l'articolo --> Quando il passato minaccia di tornare.

Fonte
- Fears rise over yellow fever’s next move
Nature, aprile 2016


Il virus Zika e i casi di microcefalia in Brasile

Una decina di giorni fa l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che l'epidemia del virus Zika costituisce una "emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale". La dichiarazione fa seguito all'incremento inusitato di neonati affetti da microcefalia; troppi e troppo concentrati in certe aree, le stesse in cui, da circa 6 mesi, la diffusione del virus ha assunto i connotati di una epidemia. Anche la tempistica sembra deporre contro il virus; l'identificazione dei focolai epidemici si correla al momento in cui i bambini oggi malati erano feti di 3 mesi (il primo trimestre è il periodo più critico dello sviluppo). 
Se a questi elementi aggiungiamo il fatto che il virus Zika appartiene alla famiglia dei Flavivirus, a cui appartengono specie virali responsabili di encefaliti negli esseri umani e microcefalia negli animali da laboratorio, allora il nesso sembra chiaro o perlomeno molto probabile. Attenzione però. Probabile non vuol dire certo! Per questo servono prove dirette di causa-effetto (vedi l'aggiornamento a fondo pagina che conferma il legame virus-alterazioni fetali).

Le prime notizie del virus Zika risalgono al 1947, in Uganda, quando venne identificato in una scimmia della locale foresta (di Zika). Il virus è rimasto da allora ai margini senza mai salire agli onori della cronaca in quanto sostanzialmente inoffensivo sia sul breve che sul lungo periodo; l'80% delle persone infettate sono asintomatiche e anche chi si ammala mostra sintomi lievi e guarisce spontaneamente in pochi giorni grazie alla "pulizia" effettuata dal nostro sistema immunitario.
Al di fuori delle americhe le scimmie in cui sono
stati identificati anticorpi contro il virus Zika sono
i macachi e i  cercopitechi.
Image credit: Nature
Il virus è veicolato dalla zanzara Aedes aegypti, nota anche per essere il vettore di virus patogeni come quello della dengue e del chikungunya. Questa zanzara rappresenta un tipico caso di adattamento all'ambiente umano, data la sua predilezione per le aree urbane e l'utilizzo come luoghi di riproduzione delle piccole sacche d'acqua presenti nei pneumatici o nei sottovasi. Il suo nutrirsi quasi esclusivamente di sangue umano e le abitudini diurne la hanno trasformata in un formidabile veicolo per la diffusione del virus nelle aree tropicali e subtropicali. 
Meno comune (ma descritto) è il coinvolgimento come vettore della zanzara tigre (Aedes albopictus), la cui tolleranza per le zone temperate potrebbe estendere il contagio oltre i confini in cui è attualmente diffuso il virus.
Nota. I casi finora accertati in Europa si riferiscono ad infezioni contratte  in sudamerica dalla madre nei primi mesi di gravidanza.
Il virus è come detto originario dell'Africa ma, in seguito al proliferare della rete commerciale si è diffuso prima in Asia e ha infine attraversato il pacifico nel 2007 con la comparsa dei primi focolai nelle aree tropicali americane.

L'esistenza di una potenziale correlazione tra infezione e rischio durante la gravidanza è passata inosservata per una serie di motivi. Prima di tutto perché le aree in cui il virus era endemico sono "ricche" di molteplici patogeni che "coprono" le tracce sommando i loro effetti nefasti. Secondo perché è probabile che l'adattamento ad un ambiente antropizzato (luoghi di riproduzione e predilezione per il sangue umano) sia comparso solo negli ultimissimi anni quando la zanzara si è trovata "ad abitare" in luoghi più densamente abitati come le baraccopoli sudamericane.

Il campanello d'allarme è suonato nell'ottobre del 2015 quando i medici brasiliani hanno rilevato una strana coincidenza tra una delle più estese epidemie di Zika e il picco nel numero di casi di microcefalia. I dati ufficiali, solo per il Brasile, parlano di un salto dai 147 casi del 2014 ai 4 mila casi sospetti negli ultimi 5 mesi.
Nota. In un comunicato emesso il 2 febbraio dalle autorità brasiliane, si annuncia di avere esaminato nel dettaglio, finora, circa mille dei 4 mila casi sospetti. Di questi, poco più di 400 sono potenzialmente correlati con l'epidemia del virus Zika.
Anche ipotizzando che i casi di microcefalia del 2014 fossero solo la punta dell'iceberg (per morte perinatale, non segnalazione ai medici, etc) e che i numeri attuali contengano anche falsi positivi, è verosimile che l'aumento del numero di casi sia pari, almeno, ad un ordine di grandezza.

E' bene sottolineare che in questa fase mancano ancora dati epidemiologici e clinici sufficientemente solidi per attribuire il giusto peso al virus Zika. Per questo servono numeri statisticamente significativi, cioè valutare la correlazione tra numero di donne gravide infette e malattia neonatale pesata su un adeguato numero di controlli nella stessa area. Sarebbe già una cosa confortante scoprire che "si, esiste una correlazione", ma è quantitativamente meno importante dell'effetto certificato del virus della rosolia responsabile durante una epidemia negli USA nei primi anni '60 di 30 mila decessi prenatali e della nascita di 20 mila bambini con menomazioni di varia natura (vedi --> sindrome della rosolia congenita, Src).
Nota. I numeri sopra riportati servono anche come memento ai troppi che parlano di inutilità dei vaccini (senza nemmeno sapere definire un virus) di quante vite abbiano salvato (o migliorato) vaccini "base" come quello fornito alle pre-adolescenti per la rosolia e quello contro il morbillo (il virus con la più potente azione immunosoppressiva tra quelli noti). Nei paesi in cui non è disponibile il vaccino, il virus della rosolia è causa ogni anno della nascita di circa 100 mila bambini malati, non trattabili (su questo blog vedi --> epidemia di morbillo).
Le prove indiziarie sul coinvolgimento del virus Zika comprendono il nesso temporale e spaziale tra infezione e malattia, i dati ottenuti sugli animali e la presenza di anticorpi contro il virus (segno di esposizione) nel liquido amniotico, nella placenta e nei tessuti fetali.

Il problema che pone il virus Zika è però più generale e si riferisce ai crescenti pericoli che la globalizzazione (intesa non solo come commercio ma come spostamento di persone - e dei patogeni associati) determina. Se prima esistevano barriere naturali e temporali che fungevano anche da quarantena oggi un patogeno (o meglio una collezione di patogeni) può coprire nell'arco di una sola notte il percorso che in altri tempi sarebbe stato possibile solo in anni e solo per le infezioni di tipo cronico (--> "il ritorno di malattie scomparse").

Il caso non è molto diverso rispetto alle problematiche emerse nel recente passato a carico del West Nile Virus (--> "WNV, una minaccia sottovalutata") e sottolinea l'importanza della bonifica dei luoghi adatti alla riproduzione delle zanzare, almeno nelle aree urbane.
Nel frattempo (la lotta contro le zanzare va avanti tra alti e bassi da anni) è stato messo a punto un test diagnostico per rivelare la presenza del virus che necessita di sole 5 ore contro i precedenti 5 giorni.
(Potrebbe anche interessarti come argomento correlato --> Ebola, il rischio della --> febbre gialla o in generale  la raccolta di articoli sul tema --> Virus). 

Fonte
- Zika virus: Brazil's surge in small-headed babies questioned by report
 D. Butler,  Nature (28 gennaio 2016) 
- Proving Zika link to birth defects poses huge challenge
EC Hayden, Nature (9 febbraio 2016) 
- Zika Virus on the Move
Cell (2016) Volume 164, Issue 4, p585, 587


*** aggiornamento ***

In uno studio pubblicato online il 4 marzo sul New England Journal of Medicine, si evidenzia che il 29 per cento delle donne gravide analizzate, risultate positive al virus Zika, mostravano un'alta incidenza di morte fetale, insufficienza placentare, restrizione della crescita fetale o danni al sistema nervoso centrale del feto, compreso la cecità del nascituro.
Questo il commento degli autori reperibile sul sito della UCLA: "abbiamo osservato problemi al feto o durante la gravidanza in diverse fasi gestazionali; a otto, ventidue, venticinque o trentacinque settimane. Sebbene in molti casi il feto non mostri anomalie, il virus è capace di danneggiare la placenta e questo a cascata determina un danno fetale che può portare alla sua morte".
Lo studio è consistito nell'analisi del sangue e delle urine di 88 donne gravide che si sono presentate in ospedale a Rio (settembre 2015 - febbraio 2016) con rash cutaneo, uno dei sintomi dell'infezione del virus Zika. Invece dei classici metodi basati sugli anticorpi, i medici hanno cercato "l'impronta digitale" genetica del virus per ovviare alla cross-reattività degli anticorpi Zika e Dengue (un virus quest'ultimo simile a Zika ma endemico nel paese).
72 delle 88 donne sono risultate positive e 42 di queste si sono rese disponibili (insieme a 16 non positive) a sottoporsi ad un controllo ecografico mediante ultrasuoni. 12 di queste 42 (il 29 per cento) e zero donne del gruppo di controllo hanno mostrato anomalie fetali o placentari. Dopo il parto 6 di queste 12 donne sono tornate in ospedale per fare visitare i loro figli, immediamente diagnosticati come malati. Delle rimanenti alcune hanno dichiarato di avere subito un aborto spontaneo.
(Fonte: Patrícia Brasil et al, N Engl J Med. 2016)




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