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La pinguedine dei Labrador spiega anche quella umana

I Labrador retriever sono cani notoriamente di buon carattere ma con una innegabile tendenza ad ingrassare anche in ragione di un appetito mai pago.
Il 40-60% dei cani domestici è sovrappeso o chiaramente obeso, con problemi a cascata sia per la salute che per il carattere. Lo studio nei cani di razza è “facilitato” dalla omogeneità genetica frutto dei continui incroci per fissare e mantenere nel tempo i caratteri distintivi di quel breed
Ricercatori inglesi ne hanno analizzato i geni per tracciare le basi della predisposizione all’obesità con la speranza di sviluppare terapie utili anche per gli umani. Un primo studio del 2024 aveva mostrato il coinvolgimento del gene POMC in cui una mutazione rendeva i cani costantemente affamati pur bruciando a riposo il 25% di calorie in meno di altri cani (vedi dettagli a fondo pagina)

Il nuovo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science, hanno individuato nel gene DENND1B (di cui esiste omologo umano) il principale responsabile, gene che codifica per una proteina tipo GEF (Guanine nucleotide Exchange Factor) necessaria per la “ricarica” di enzimi noti come GTPasi 
Il GEF facilita il ricambio GDP/GTP sulla GTPasi eliminando la molecola "scarica" e sostituendola con il GTP "carico".
Il prodotto genico, la proteina DENND1B, svolge un ruolo importante all'interno del sistema di mantenimento dell'equilibrio energetico dell'organismo, noto come circuito leptina-melanocortina (vedi dettagli in calce all'articolo). DEEND1B agisce come un regolatore molecolare, influenzando la trasmissione dei segnali tra la leptina e i recettori melanocortinici nel cervello. Quando il gene DENND1B è alterato, la proteina può compromettere la capacità del corpo di rispondere correttamente ai segnali di sazietà inviati dalla leptina. Questo porta a una sensazione di fame persistente e a un aumento dell'assunzione di cibo.
Oltre a DENND1B sono stati identificati altri quattro geni che però non qui non prenderemo in considerazione essendo coinvolti in processi biologici chiave su cui non è consigliabile interferire.
Come nel caso umano anche l'obesità canina non è attribuibile ad un singolo gene ma al concorso di più geni che determinano una predisposizione.
Tra i geni con varianti a rischio nell'uomo abbiamo FTO (Fat Mass and Obesity Associated Gene), il recettore della melanocortina-4 (MC4R) e il gene della leptina (LEP),
Nei Labrador la variante genica di DENND1B pone un importante fattore di rischio che si traduce in obesità in assenza di una dieta controllata e di attività fisica costante, regola che vale anche per noi. Nello specifico tale variante determina, a parità di dieta e attività fisica, un incremento dell'8% di grasso corporeo.

Confrontando questo dato che le banche dati genetiche umane si è avuta la conferma che lo stesso gene è responsabile negli umani dell’aumento della massa corporea, legata ad un funzionamento anomalo del sistema di controllo dell'appetito.
Leptina. Ormone prodotto principalmente dalle cellule adipose. La leptina agisce sul cervello, in particolare sull'ipotalamo, segnalando la quantità di energia immagazzinata sotto forma di grasso. Quando i livelli di leptina aumentano (indicando un'abbondanza di energia), la sensazione di fame viene spenta e aumentano i processi che portano al consumo di energia. Al contrario, bassi livelli di leptina stimolano l'appetito e riducono il dispendio energetico.
Sistema melanocortinico. Sistema che fa parte dell'ipotalamo e comprende una serie di neuropeptidi e recettori che regolano l'appetito. Un esempio è l'ormone stimolante dei melanociti (α-MSH), che si lega ai recettori melanocortinici (MC3R e MC4R) per inibire l'appetito. La leptina agisce favorendo la produzione di α-MSH, amplificando così il segnale di sazietà.
Il gene POMC codifica per la proopiomelanocortina, una proteina precursore che viene poi suddivisa in vari peptidi (tra cui l'ormone α-MSH) che agiscono sul sistema melanocortinico per controllare l'appetito. Nei Labrador, alcune mutazioni nel gene POMC impediscono la produzione completa di alcuni peptidi regolatori dell'appetito, portando alla sensazione di fame costante 

Fonti
Low resting metabolic rate and increased hunger due to β-MSH and β-endorphin deletion in a canine model.
Marie T. Dittmann et al, (2024) Science Advances 

- Canine genome-wide association study identifies DENND1B as an obesity gene in dogs and humans.
NJ Wallis et al. (2025) Science



***
Qualche suggerimento per amanti dei Labrador
Pupazzo di Labrador che "respira" (Amazon)


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Alla scoperta dell'origine dei dingo

Il dingo australiano, al pari del licaone africano e del crisocione sudamericano, è considerato genericamente come un cugino selvatico del cane, da cui si è staccato migliaia di anni fa. Una separazione quella del dingo non completa dato che gli incroci con il cane sono possibili e danno luogo a progenie fertile, un chiaro segnale di processo di speciazione non ancora completato.
Credit: Barry Eggleton via The Guardian
I cani moderni si sono evoluti dal lupo grigio in quella che un tempo veniva definita domesticazione ma che oggi è meglio definita come auto-domesticazione cioè una selezione spontanea di varianti del lupo grigio con minor paura innata di avvicinarsi agli accampanti umani e con indice di aggressività minore (vedi articolo precedente). Delle 340 razze di cani moderne gran parte hanno una origine recente (grazie ad una selezione umana attiva), databile negli ultimi 200 anni.
La domesticazione è invece databile al neolitico, in un intervallo di tempo tra i 29 e i 14 mila anni fa. Da quel momento i nostri amici pelosi si sono adattati ad una dieta (e ad un comportamento) molto diverso da quello dei lupi.
Altre caratteristiche selezionate sono meno evidenti ma nondimeno emergono chiaramente dall'analisi del genoma dei cani. Ad esempio la duplicazione di del gene codificante per la amilasi 2B, necessario per digerire l'amido, molto evidente in molte razze canine (alcuni ne hanno più di dieci copie); un chiaro adattamento alla dieta onnivora derivante dalla coabitazione con gli umani dediti alla agricoltura e infatti il lupo e il dingo (carnivori puri) hanno una sola copia di questo gene. È interessante notare che la stessa duplicazione genica si è verificata indipendentemente in altri animali recentemente addomesticati (maiali, etc) ad indicare come la selezione la selezione da "coabitazione".
Si ritiene oggi che il dingo, l'unico cane nativo australiano, rappresenti un evento unico all'interno dell'evoluzione canina, essendo arrivato in Australia tra i 5 e gli 8 mila anni fa, quindi molto dopo l'arrivo delle tribù aborigine, avvenuto nelle primissime fasi della migrazione dei sapiens ai confini asiatici.
La mancanza di informazioni certe sulla sua origine era anche dovuto ad un genoma solo parzialmente sequenziato, un passo fondamentale questo per una analisi comparativa con il genoma del cane domestico (Canis lupus familiaris) per quantificarne la distanza evolutiva.
Un "buco informativo" ora riempito grazie allo studio pubblicato su Science Advances da un team australiano, il cui primo passo è stato proprio sequenziare il genoma del dingo, usando come riferimento di distanza evolutiva il genoma del pastore tedesco e il basenji (la prima razza di cane utilizzata per la caccia in Congo) per i cani e il lupo della Groenlandia per i lupidi.
Credit: Matt A. Field et al, Science Advances (2022)


Dall'analisi è emerso che il dingo si è distaccato dalla linea dei cani moderni prima di quanto ipotizzato, molto prima del più antico cane domesticato, il basenji. Sebbene si sia certi che non vi sia stato alcun tipo di domesticazione successiva all'arrivo in Australia, non si può escludere che questo possa essere avvenuto prima, quando ancora si trovava in Asia, in aree già popolate da umani dediti all'agricoltura.



Fonte
- The Australian dingo is an early offshoot of modern breed dogs
Matt A. Field et al, Science Advances 22 Apr 2022 • Vol 8, Issue 16



Il gene IGF1 spiega la variabilità di taglia dei cani e ci svela da quale lupo sono originati

Tra i mammiferi i cani sono la specie con la maggiore gamma dimensionale, ben riassunta dal confronto chihuahua e alani.
image credit: Kelly Makielski & Aaron Sarver

Essendo un lupo (Canis lupus) il progenitore del cane (Canis lupus familiaris) la domanda è quando è comparsa la/le mutazione/i all'origine di questa varietà. 
La domesticazione del cane (anche se oggi si pensa l'opposto cioè varianti di lupo con minore timore per gli umani e "pronti alla domesticazione") è avvenuta a più riprese in un periodo intorno a 30 mila anni fa in Eurasia, anche se non mancano indizi che spostano le lancette a qualche millennio prima.
Da considerare però che, anche ammettendo una certa differenza di taglia tra lupo selvaggio e domestico, la vera e propria esplosione della varietà in taglie e tipologie è da collocare agli ultimi due secoli quando sono state poste le basi per le razze canine moderne, che mostrano differenze di taglia fino a 40 volte.
Da circa 15 anni si crede che il gene chiave di tale variabilità sia IGF1 (un ormone della crescita), senza però che questa ipotesi sia stata formalmente confermata; gli studi di segregazione fenotipica identificato il gene come responsabile, ma mancavano le mutazioni (alleli) causali.
Finalmente il problema pare risolto e con la soluzione è venuta anche la riscrittura della radiazione evolutiva del cane: non più originato da un lupo qualsiasi ma da un lupo di piccole dimensioni (vedi sotto).
Lo studio, apparso pochi giorni fa sulla rivista Current Biology, ha infatti identificato in una porzione non codificante del gene IGF1 due alleli che danno origine al fenotipo "grande" e "piccolo".
Come è possibile che questi due alleli siano associati alla porzione non codificante del gene? La risposta è da cercare in un'ampia classe di molecole di RNA che hanno funzioni di regolazione dell'espressione genica, note come long non coding RNA (lncRNA). Nel caso in esame caso la variazione era a livello di un introne, nella zona in cui viene prodotto un RNA (chiamato IGF1-AS) che decorre antinsenso (antiparallelo) al mRNA di IGF1, con cui si sovrappone per 182 nucleotidi. Il risultato è il classico meccanismo di regolazione negativa mediante blocco della traduzione del messaggero e quindi riduzione della quantità di IGF1 disponibile. Riduzione dell'ormone della crescita equivale a riduzione della dimensione dell'animale.

L'analisi comparativa è stata condotta su circa 1430 sequenze geniche ottenute da 13 razze di cani, sia di recente che antico "lignaggio".
In sintesi sono state trovate due varianti di questo IGF1-AS, di cui una sola in grado di appaiarsi (quindi inibire) al mRNA di IGF1. I cani con due copie di tale allele pesavano meno di 15 chilogrammi, mentre due copie identificava i cani di taglia superiore ai 25 chilogrammi. La presenza di una copia ciascuno di entrambi gli alleli si associa alla taglia intermedia. A conferma dell'ipotesi lavorativa, i cani con due copie dell'allele "big"avevano anche più alto livello ematico di IGF1.
Conclusioni simili sono state ottenuti dall'analisi genomica di altri canidi (24 genomi di 11 specie, dallo sciacallo alla volpe); coyote, sciacalli, volpi etc hanno in gran parte due copie della versione "small". Il che fa ritenere che l'allele small sia evolutivamente molto più antico della versione "big". 
Un punto di svolta alla narrazione evolutiva corrente sui cani, è venuta dallo studio del DNA di un lupo siberiano (Canis lupus campestris) di 54 mila anni fa, quindi ben antecedente il periodo in cui si colloca la domesticazione. Anche qui si è trovata evidenza della mutazione "small" ad indicare che l'origine dell'allele "dimensione cane" era preesistente all'esistenza del cane e che, per dirla in senso lato, l'evoluzione ha tenuto da parte questo allele senza selezionarlo né contro né a favore.
Comprensibile che in natura un predatore di maggiori dimensioni (per quanto abituato alla caccia cooperativa) avesse più probabilità di successo con prede di discreta stazza ma è anche vero che questo né diminuisce l'agilità e aumenta il fabbisogno calorico. Per tale ragione il mantenimento nel pool genico della popolazione dell'allele "small" permettesse un equilibrio dimensionale facilmente adattabile (in alcune generazioni) al variare delle condizioni dell'ambiente.
Non è chiaro quando si sia evoluto l'allele "corpo grande". Partendo dal presupposto che era presente nel lupo siberiano e che gran parte dei lupi (antichi e moderni) tendono ad averne due, la conclusione è che questo allele abbia fornito vantaggi competitivi al lupo.

Credit: Jocelyn Plassais et al, Current Biology (2022)

Da qui l'idea che se l'allele small era già presente nel lupo e sia poi stato ereditato dal progenitore del cane, allora è verosimile che i primi lupi che si avvicinarono ai bivacchi umani fossero di piccole dimensioni, diversi dai lupi "classici". Il che ha senso anche come "accettazione" (non pericolo) da parte umana.
Nei millenni successivi (fino all'esplosione degli ultimi 2 secoli) la selezione umana operò per ottenere il cane più utile ai propri bisogni (pastorizia, caccia, guardia, ...) variando in modo inconsapevole la frequenza dell'allele small nella popolazione.

Questione risolta?
Non del tutto. Alla variante ora identificata si deve  il 15% della variazione tra le razze canine, quindi altri geni svolgono un ruolo sinergico.


Fonte
- Natural and human-driven selection of a single non-coding body size variant in ancient and modern canids
Jocelyn Plassais et al, Current Biology (27 Jan. 2022)



Un legame basato sullo sguardo talmente importante da meritare la copertina di Science (ne ho scritto sull'articolo dedicato)



I cani possono essere addestrati a identificare gli infetti asintomatici

In passato si è trattato su queste pagine dell'enorme potenziale associato alla rilevazione di molecole olfattive diagnostiche di sottostanti (e a volte ancora asintomatiche) patologie, una capacità presente nei casi e perfino in alcuni umani.
Sul tema vedi gli articoli sul diabete e Parkinson.
Viviamo nell'epoca della pandemia covid per cui non sorprende che l'interesse "diagnostico" sia volto a cani in grado di identificare le persone infette.
Image credit: University of Florida (FIU) via The Guardian
In quest'ottica assume particolare interesse la scoperta fatta dai ricercatori che quattro dei cani testati si sono rivelati in grado di identificare i biomarcatori associati al virus con una precisione del 97,5%.
Una efficacia di sicuro maggiore dei fallaci controllori nostrani del green pass che MAI verificano la congruenza tra nome sul certificato e ID del controllato (a compendio la recente decisione lombarda di obbligo di esibire la carta d'identità prima di ricevere il vaccino, in quanto ci sono stati casi di persone vaccinatesi per conto terzi).

L'utilizzo dei cani non sorprende. Dato il loro senso dell'olfatto fino a 100.000 volte più sensibile di quello umano, i cani sono stati impiegati come "sniffatori" professionisti capaci di rilevare qualsiasi cosa, dal contrabbando al denaro, dalle muffe del raccolto fino a malattie come il cancro.
Credit: Image: Neil Pollock via medicaldetectiondogs.org.uk


Alla fine del 2021, i ricercatori della Florida International University pubblicarono uno studio in doppio cieco sul rilevamento del Covid, in cui i quattro cani partecipanti dimostrarono la loro efficacia olfattiva con i valori percentuali sopra menzionati; valori notevoli anche all'interno dei cani da fiuto.
Una capacità confermata da altri due studi indipendenti condotti in Inghilterra e in Germania, con valori attorno al 82-94% e del 95%, rispettivamente.

I cani sono in grado di generalizzare gli odori che sono stati addestrati a riconoscere, il che significa che possono rilevare tutte le varianti di Covid-19 attualmente conosciute, in modo simile a come possono riconoscere tutti i tipi di esplosivi quando vengono addestrati.

Con la diffusione della variante Omicron, anche i protocolli di addestramento sono cambiati. Prima di questa variante, i cani venivano addestrati ad avvicinarsi a una fila di persone e ad annusarne le mani o i piedi, sedendosi di fronte a coloro che identificavano come positivi. La ragione è che fino alla variante Delta il virus tendeva a infettare l'apparato respiratorio profondo (polmoni) e da li diffondeva in altre aree, lasciando tracce olfattive nel nostro sudore. Con Omicron i polmoni (tranne nei casi gravi) sono poco coinvolti e a cascata anche le tracce nel sudore diminuiscono; per tale ragione le persone da controllare devono essere annusati a livello della mascherina.


Un esempio di utilizzo di questi cani (e del limite intrinseco) viene dall'azienda americana Bio-Detection K9 che prima della pandemia era specializzata nell'addestramento allo scopo di rilevare le piante e colture malate (ad esempio colpite dalla muffa). Lo scorso anno alcuni dei loro cani sono stati utilizzati per monitorare il backstage e le zone riservate, in occasione di eventi come le corse  Nascar e i concerti dei Metallica.
Questi cani sono in grado di controllare da 200 a 300 persone all'ora e richiedono pause ogni 20 minuti per mantenere alto l'entusiasmo (perché solo in questo modo svolgono tale compito) per il lavoro. Un monitoraggio focalizzato non tanto sui musicisti o piloti (e nemmeno sul pubblico, impensabile dati i numeri) ma su tutti i tecnici etc che transitano nei luoghi "protetti" mantenendo così la bolla protettiva.
Il costo per una squadra di cani è di 5 mila dollari al giorno

Una delle teorie spiega perché i cani sono particolarmente abili nel trovare virus a causa di una predisposizione biologica a identificare ed evitare malattie tra i loro ranghi. La logica è che un lupo in natura è naturalmente interessato alla salute del proprio branco.

Il fenomeno si sta diffondendo se perfino distretti scolastici regionali come quello di Freetown-Lakeville nel Massachusetts, sta collaborando con la FIU per convertire i propri Labradors dai compiti di sicurezza a "ispettori" del covid nelle scuole.

Manca ad ora l'approvazione formale (come strumenti diagnostici) da parte della FDA, per cui ogni soggetto taggato come positivo dovrà comunque fare un test antigienico o molecolare per avere la conferma. Alcune ricerche indicano che i cani sono perfino più sensibili dei test molecolari (basati sulla PCR) riuscendo ad identificare gli individui infetti anche prima che abbiano accumulato una carica virale sufficiente per dare positività.


Di seguito il video della FIU che mostra i cani in azione


Ecco il cane robot che esplorerà le caverne di Marte

Nei giorni che precedono l'arrivo del rover Perseverance su Marte si può cominciare a guardare in avanti ad alcuni prototipi che magari verranno usati in un futuro non troppo lontano. Mi riferisco a rover dotati di maggiore mobilità, molto più adatti degli attuali ad esplorare il terreno e gli anfratti marziani. 
Non stupisce che nella progettazione di robot simili gli ingegneri si siano ispirati alle fattezze di alcuni animali usati come modello locomotorio. L'ultimo prodotto in ordine di tempo viene dai soliti noti, la Boston Dynamics, che abbiamo già incontrato con le robo-api (vedi gli articoli tematici al tag -->robobee )
In verità il cane robot nasce con fini molto terrestri, come esploratore di ambienti pericolosi o difficilmente accessibili tipo le grotte o siti industriali contaminati; l'utilizzo marziano è un plus che viene considerato dalla NASA come modo sicuro per identificare luoghi adatti alla colonizzazione.
Immagine tratta dal video in cui si testa Autonomous Spot
(credit: video by  NASA/JPL-Caltech)
Il prototipo è una evoluzione sofisticata di Spot, sempre della Boston Dynamics (tra l'altro in vendita sul loro anche ad i privati).

Spot. Immagine dal sito Boston DynamicsQui il video descrittivo 

Il progetto nasce nell'ambito di una collaborazione nota come CoSTAR (“Collaborative SubTerranean Autonomous Resilient Robots”) finalizzata allo sviluppo di robot autonomi in grado di esplorare gli ambienti del sottosuolo e con stretti agganci alla NASA e al JPL.

Il cane robot presentato al meeting della American Geophysical Union prima di Natale si chiama Au-Spot (Autonomous-Spot) e se a livello esterno è molto simile al predecessore, la nuova versione ha un cuore tecnologico di alto livello. Tra gli aggiornamenti implementati, sensori visivi, termici e di movimento con cui il robot può creare accurate mappe 3D dell’ambiente che sta esplorando. 
Il video di seguito ve lo mostra in azione
Se non vedi il video clicca su -->youtube

Un passo enorme rispetto agli attuali (pur preziosissimi) rover marziani, limitati a muoversi su superfici piane e lievi pendii e sempre a bassa velocità (0,5 km/h). Un limite non secondario considerando che molte regioni marziane scientificamente interessanti sono raggiungibili solo attraversando terreni molto accidentati e non possono accedere a grotte e fenditure. I cani robot sarebbero perfetti grazie alla leggerezza (12 volte meno pesanti di Curiosity), all'utilizzo di zampe, una velocità di tutto rispetto (5 km/h) e alla capacità di rimettersi in piedi qualora dovessero cadere.

Qui una clip del prototipo a passeggio sulla Terra

Ma il vero punto di forza è l'essere stati pensati per esplorare grotte e anfratti che su Marte (dato il freddo, le frequenti tempeste di polvere e l'esile atmosfera incapace di filtrare le radiazioni solari) saranno un riparo quasi obbligato per i primi coloni.
Immagine artistica di una base "protetta" su Marte (credit: natalia.artstation.com)


***
Questo il video in FHD della discesa di Perseverance su Marte



*** Aggiornamento Aprile 2021***
Per il momento accontentiamoci del volo dell'elicotterino Ingenuity rilasciato dal rover Perseverance

https://mars.nasa.gov/technology/helicopter/#
  





Alcuni degli articoli precedenti sul tema (Per altri articoli su robo-animali, plantoidi e similari vi rimando alla sezione --> robotica e ->robobee):



Cosa significa vivere su Marte è ben descritto dal libro di Wier. Molto tecnico in alcuni punti ma questo fa la differenza tra opera di fantasia e hard-SF

Il tumore contagioso nei cani. Origini e genetica

Il cancro è la conseguenza della perdita di una serie di meccanismi di controllo proliferativo e differenziativo in una cellula e nella sua discendenza. Sottolineo che l'esito non è "solo" la proliferazione incontrollata delle cellule alterate ma soprattutto l'alterazione di equilibri tissutali e sistemici.
Per comprendere l'impatto distruttivo del cancro pensiamo ad un organo il cui funzionamento viene meno perché l'organizzazione interna è alterata dallo sbilanciamento nella tipologia di cellule presenti (in genere con l'accumulo di cellule non differenziate) e dalla invasione delle stesse nelle aree adiacenti "normali" con conseguente alterazione delle proprietà funzionali di tutto l'organo.
L'effetto "distruttivo" del tumore può inoltre essere trasmesso alle cellule sane in modo indipendente dall'invasione tissutale, grazie alla produzione di segnali chimici che ne modificano il comportamento. Nei tumori solidi il percorso è in genere un susseguirsi di displasia (variazione forma), iperplasia (aumento numero cellule ma senza fuoriuscita dalla membrana basale nel caso di tessuti epiteliali), neoplasia, neovascolarizzazione ed eventualmente disseminazione. Un processo multi-step che in organi delicati e autolimitati spazialmente come il cervello ha un quasi immediato impatto disfunzionale. Nelle leucemie invece molti dei problemi sono la conseguenza di uno sbilanciamento nella tipologia di cellule prodotte, conseguenza di mutazioni nel bacino di cellule midollari non differenziate che favorisce un percorso differenziativo (spesso incompleto) a discapito di altri. In altre parole alcuni tipi di cellule del sangue si riducono di numero e altri sono in eccesso e/o solo parzialmente funzionanti. Da qui problemi che possono andare da anemia, problemi nella coagulazione alla depressione immunitaria (e quindi sensibilità a infezioni).
All'interno della variabilità nei meccanismi che possono provocare il cancro, il punto fermo è che NON si tratta di una malattia contagiosa (vedi sotto quando e perché invece un "contagio" è teoricamente possibile). Il motivo è semplice e non ammette deroghe: ogni cellula estranea che penetra nel nostro organismo viene considerata un nemico e come tale distrutta immediatamente. Nessuna sorpresa dato che questa è la ragione del rigetto dei trapianti o di trasfusioni di sangue non compatibile. La differenza tra un tumore ed una malattia causata da un "agente estraneo" è proprio nel fatto che le cellule tumorali sono cellule "nostre" (la definizione corretta è self) e come tali il nostro sistema immunitario è programmato ad ignorarle (grazie ad un processo noto come "selezione negativa"); quando questo meccanismo funziona male ecco comparire le patologie autoimmuni, in cui il "self" è scambiato per estraneo ("non-self") e quindi attaccato. 
Le cellule tumorali che per definizione proprio normali non sono (e quindi con marcatori che potrebbero farle identificare come non-self) dovrebbero quindi essere eliminate in quanto "diverse dal sé". Un processo che in effetti avviene durante tutta la vita e che spiega per quale motivo un tumore conclamato sia una possibilità e non una certezza nell'arco di una vita media di 75 anni e con innumerevoli divisioni cellulari avvenute. Tuttavia sappiamo altrettanto bene che sviluppare un tumore è una possibilità reale che deve essere spiegata con la sua capacità di eludere in qualche modo i meccanismi di controllo. Le modalità sono varie ma riassumibili in "mascherandosi" da cellule normali (mediante la riduzione dei marcatori di superficie anomali) oppure "istruendo" il sistema immunitario ad ignorare queste cellule reclutando in loco i linfociti T regolatori.
Non si tratta, come potrebbe apparire, di una regolazione "stupida" in quanto pro-tumorale ma di un processo normale (e fondamentale) con il quale si evita che permangano stati infiammatori di lungo periodo che sono di per sé causa di danni tissutali.
In pratica il trucchetto usato dalle cellule tumorali equivale a dire alle pattuglie del sistema immunitario "guarda che siamo self! Non vedi che abbiamo questi segnali che ci identificano come tali?". Se il messaggio è ben modulato, i linfociti Treg bloccano il reclutamento nel sito delle cellule deputate alla eliminazione dell'invasore, fungendo quindi da "complici inconsapevoli" del mantenimento prima e dell'accrescimento poi del tumore.
Tali escamotages non sono possibili con le cellule esogene in quanto immunologicamente diverse dal self. Anche qui l'evoluzione ha selezionato strategie elusive con le quali alcuni patogeni sfuggono al riconoscimento nascondendosi dentro le cellule dell'ospite o mimetizzandosi con marcatori self.
Questa è la ragione per cui NON si può contrarre un tumore come se fosse un agente infettivo anche qualora si ricevesse una trasfusione contenente cellule tumorali. Salvo una eccezione, cioè che il ricevente ed il donatore siano geneticamente omogenei; questo è il motivo per cui quando si studia la propagazione di un tumore in animali di laboratorio si usano animali singènici e/o con sistema immunitario deficitario. In assenza di queste condizioni il tumore non "attecchisce" una volta trasferito in un animale diverso da quello di partenza.

Eziologicamente il tumore è la conseguenza di un certo numero di mutazioni in geni chiave in grado di conferire un vantaggio proliferativo rispetto alle cellule normali. In alcuni casi l'input disregolatorio arriva, oltre che da agenti mutageni esterni quali sostanze chimiche o radiazioni,  anche da virus, noti non a caso come oncovirus. I virus sono per loro natura capaci di modificare il comportamento di una cellula reindirizzando il suo "macchinario" per creare copie di se stessi  a scapito della funzionalità cellulare. Alcuni virus non si limitano a sfruttare questo macchinario come farebbe un "banale" virus dell'influenza, ma riprogrammano la cellula in modo tale che da uno stato quiescente (poco utile per alcuni di loro) passi a quello proliferante. Mentre in alcuni animali sono noti virus "francamente" oncogenici (--> virus del sarcoma di Rous) negli esseri umani solo pochi virus (HTLV e alcuni papilloma virus) hanno tale capacità e in genere "solo" come aumentato rischio; alcuni di questi mostrano tale effetto solo in presenza di condizioni facilitanti come uno stato immunitario e/o nutrizionale precario. Il virus di Epstein Barr (EBV) è un esempio classico in tal senso.
L'EBV nei paesi occidentali causa una "banalissima" e spesso asintomatica mononucleosi mentre altrove è stato correlato con il carcinoma nasofaringeo (Sud-Est asiatico) o con il linfoma di Burkitt (Africa equatoriale e Maghreb), tumori altrimenti rarissimi. Si ritiene che le concause che determinano esiti così diversi siano da ricercarsi nello stato di salute generale (quindi anche l'alimentazione), genetica predisponente e nella presenza di infezioni concomitanti (malaria ma non solo) che "sovraccaricano" il sistema immunitario rendendolo meno capace di montare una risposta efficace contro il virus. Per capirci il 90% delle persone occidentali sopra i 14 anni ha anticorpi contro EBV ad indicare l'avvenuto contatto con il virus (e successiva eradicazione); non a caso la mononucleosi è chiamata la malattia del bacio ad indicare la modalità di trasmissione e la banalità dei sintomi che in genere non vanno al di là di qualcosa di simile ad una lievissima influenza.
Ho scritto prima che i tumori non sono trasmissibili tra individui diversi della stessa specie purché sussistano certe condizioni. Ripetiamole:
  • il sistema immunitario deve essere funzionante. In caso di malfunzionamenti il sistema di monitoraggio viene meno e questo spiega perché nei soggetti immunodepressi come i malati di AIDS la frequenza di tumori altrimenti rarissimi come il sarcoma di Kaposi sia alta.
  • Il pool genetico della popolazione deve essere ampio. Non parliamo qui di differenze elevate (come quelle tra specie diverse anche se simili) ma è sufficiente quel decimale di differenza genetica che esiste all'interno della popolazione umana perché compaia una incompatibilità de facto (i trapianti che non necessitano di immunosoppressione sono possibili solo tra gemelli o fratelli "compatibili"). Una variabilità che viene meno nelle popolazioni rimaste isolate per generazioni o in cui per qualunque ragione vi sia stata una elevata frequenza di incroci tra consanguinei; l'immediata conseguenza è che il tasso di omozigosi è maggiore del "normale", il che a cascata comporta sia un aumento della frequenza di alleli deleteri che una minore variabilità genetica.
Ed è proprio il secondo punto che spiega l'esistenza di tumori "contagiosi" descritti in animali come i cani e il diavolo della Tasmania. Le cause sono diverse ma l'esito identico.
Nel caso del cane è il concetto stesso di "razza" che spiega l'uniformità genetica; molte razze canine sono relativamente recenti e sono state create dall'uomo mediante incroci selettivi per fare emergere un dato carattere. Se la popolazione di partenza non è ampia, oltre a selezionare il carattere voluto si accumulano alleli deleteri, un fenomeno ben evidente nella sensibilità di alcune razze di cani a malattie anche molto serie.

Il tumore nel diavolo della Tasmania
Credit: R. Hamende/Nature
Nel caso del diavolo della Tasmania il problema (di cui ho parlato in precedenza --> "Una minaccia mortale per il Diavolo della Tasmania") deriva dal suo vivere in un'area geograficamente ristretta e con un numero di individui non sufficiente per mantenere una variabilità genetica adeguata. Un collo di bottiglia genetico che riduce drasticamente le differenze genetiche tra un individuo e l'altro (e che le rende meno capaci di "adattarsi" alle variazioni ambientali).

Il tumore contagioso nel cane
Cosa succede se all'interno di popolazioni geneticamente povere compare (come è "normale" che avvenga essendo il tumore un "accidente" fisiologico) un tumore che colpisce aree esposte dell'animale che entrano spesso in contatto con quelle dei consimili? 
Può comparire e diffondersi il tumore venereo trasmissibile (CTVT), erroneamente attribuito all'inizio ad un oncovirus, una ipotesi oggi esclusa.
Si tratta invece di un tipico esempio di trasmissione tumorale mediata da cellule, tra individui geneticamente compatibili. Il trasferimento di cellule tumorali dall'epitelio dell'apparato urogenitale di un cane malato al ricevente può avvenire sia durante l'accoppiamento che per il quotidiano processo di identificazione olfattiva ravvicinata, in cui il muso va a contatto con l'area genitale. Non è un caso che il tumore si localizzi principalmente sul muso e sui genitali.

Un fenomeno questo possibile solo tra individui geneticamente omogenei o (ma per ragioni complementari) con un sistema immunitario deficitario.

Un cane con tumore localizzato
nell'area genitale
(credit: BMC)
La comparazione del DNA ottenuto da diverse biopsie tumorali, ha permesso inoltre di determinare l'età di questo tumore. Un concetto associato a quando detto prima, cioè che il CTVT non è un tumore che compare ex-novo ma è uno stesso tumore che si propaga da innumerevoli generazioni e che è diventato capace di farlo (passare da un cane all'altro) in quanto ha accumulato le caratteristiche funzionali per farlo.
L'analisi genetica fa risalire il tumore originale a 11 mila anni fa, un caso incredibile di un tumore sopravvissuto al suo "soggetto zero" e trasmesso in modo orizzontale (da un cane all'altro e NON in modo ereditario) grazie ad una serie di concause, tra cui il processo di domesticazione del cane che ha ridotto la variabilità genetica della popolazione
Per quanto diversi possano sembrare un alano da uno yorkshire, sono di gran lunga più simili tra loro rispetto a due umani originati da aree geografiche diverse (il che ha senso in quanto le razze canine sono molto recenti - spesso meno di 200 anni - mentre alcune popolazioni umane non hanno avuto più contatti tra loro negli ultimi 30 mila anni (vedi --> QUI). Il "paziente zero" dell'epidemia canina si ritiene assomigliasse, confrontandolo con le razze attuali, ad un Alaskan Malamute.
In tutto questo tempo il tumore si è mantenuto ed adattato (si stimano in 2 milioni il numero di mutazioni acquisite) solo mediante il trasferimento orizzontale, cioè il passaggio da un cane all'altro.
Molto interessante a tal proposito lo studio "genealogico" pubblicato sulla rivista eLife da un team internazionale guidato da ricercatori della  università di Cambridge, si è concentrato sul DNA mitocondriale prelevati da 449 tumori CTVT da cani in 39 paesi nei sei continenti.
Il mitocondrio
I mitocondri, le centrali energetiche delle cellule, sono  organelli di origine batterica (risultato di una simbiosi spinta al massimo avvenuta circa 1,5-2 miliardi di anni fa) che mantengono ancora un proprio DNA distinto da quello nucleare. Lo studio delle variazioni del DNA mitocondriale è particolarmente utile nella ricostruzione di alberi filogenetici che si spingono molto lontano nel tempo.
 Studi precedenti avevano mostrano che durante "la storia evolutiva di questo tumore" si erano verificati trasferimenti di mitocondri dalle cellule dell'animale "infettato" alle cellule tumorali, poi tramandate alla discendenza delle cellule tumorali attraverso i secoli. Un trasferimento che probabilmente ha fornito al tumore gli strumenti per sopravvivere
Nel nuovo studio i ricercatori hanno potuto quantificare in cinque il numero di volte in cui questo "passaggio" è avvenuto dalla comparsa del tumore nel "cane zero". Un dato che ha permesso, oltre che di ricostruire in modo dettagliato la storia del tumore, di provare che il trasferimento dei mitocondri da una cellula è l'altra è possibile (un evento mai osservato prima nei tumori).

 All'interno di questo albero genealogico del tumore, i cinque eventi indipendenti sono stati assimilati a cladi, rami rappresentanti un punto della storia in cui i mitocondri sono passati dal cane al tumore. Mappando i tumori all'interno di questi cladi e rapportandoli alla localizzazione geografica, i ricercatori hanno mappato la via di diffusione con il risultati di osservare una sovrapposizione con i flussi migratori (o commerciali) dell'essere umano nella sua storia.
Uno di questi rami sembra essersi originato dalla Russia o dalla Cina circa 1000 anni fa mentre un altro, verosimilmente associato ai coloni europei, compare nelle americhe circa 500 anni fa. L'arrivo in Australia è invece molto più recente (fine del ventesimo secolo) data l'assenza del cane in queste aree (ricordo che il dingo NON è un cane).
La distribuzione attuale dei 5 cladi (courtesy of the Cambridge University)


Di seguito un video riassuntivo dei risultati dello studio.
Se non vedete il video, cliccate --> YouTube

I dati sono molto importanti sia per la conoscenza dei tumori contagiosi, che tanti danni hanno provocato nei cani ma soprattutto nel Diavolo della Tasmania spinto sull'orlo dell'estinzione, che per la biologia del cancro. La scoperta della capacità delle cellule tumorali di "catturare i mitocondri" per guadagnare vantaggi selettivi, potrebbe tradursi nello sviluppo di nuove terapie.


Fonte
- Mitochondrial genetic diversity, selection and recombination in a canine transmissible cancer
Strakova, A et al. (2016) eLife, DOI:10.7554/eLife.14552

- How a contagious dog tumour went global
Nature (2014) 

- Canine infectious cancer has spread to all corners of the world
BioMed Central (2014)




Non solo cani guida per ciechi ma anche capaci di "monitorare" i diabetici

L'olfatto è una delle caratteristiche più "apprezzate" tra le tante possedute dai nostri amici a quattro zampe. Caratteristica questa molto amata dai nostri antenati e che pose le basi per una partnership plurimillenaria tra umani e cani.
Dai cani poliziotto ai cani da caccia, innumerevoli sono le mansioni che un cane può svolgere grazie al proprio olfatto, non da ultima la capacità che alcune razze hanno di percepire la presenza di neoplasie o di problemi circolatori nel soggetto "annusato". 
Uno dei cani in grado di percepire l'ipoglicemia
(credit:medical detection dogs)
Nota. Tale sensibilità è il frutto di un insieme di caratteristiche "strutturali" presenti negli animali macrosmàtici come l'estensione dell'epitelio olfattivo (nei cani è circa 160 cm² rispetto ai 5 nell'essere umano), l'estensione delle zone corticali deputate all'elaborazione dei segnali catturati dai recettori olfattivi e ovviamente il numero di tali recettori (sia in termini assoluti che come diversità). Se il numero assoluto già spiega molto della diversa sensibilità (circa 5 milioni negli umani e fino a 300 milioni nei cani) un elemento chiave è la loro diversità intrinseca che si rifletta nella gamma di "odori" catturabili: sia noi che i cani abbiamo un migliaio di geni "olfattivi" ma nell'essere umano il 56 % di questi non è funzionante contro il 20 % nei cani e nei topi. In altre parole con l'evoluzione noi abbiamo perso il 70% dei geni olfattivi (divenuti pseudogeni). L'insieme di questi fattori spiega perché i cani abbiano una percezione sensoriale dell'ambiente molto più ricca della nostra. Volendo fare una similitudine sarebbe come confrontare il mondo visto e percepito da una persona normale con quella di una persona miope, leggermente sorda e raffreddata ... ; non si tratta soltanto di una maggiore sensibilità olfattiva dato che come tutti sappiamo i cani usano l'olfatto per esplorare l'ambiente in tutte le sue sfumature, dal cibo alla esplorazione di oggetti ignoti al riconoscimento di un "simile" come amico, nemico o partner potenziale). Rispetto al nostro antenato arboricolo noi ce la passiamo, probabilmente, peggio in quanto a sensibilità olfattiva ma nemmeno tanto; studi di genomica comparativa tra primati non umani e noi hanno evidenziato che il numero di geni olfattivi funzionanti è sostanzialmente simile (circa 400 --> tabella)  ad indicare che tale capacità è andata persa durante la prima fase dell'evoluzione dei primati (in quanto non più selezionata come fattore in grado di aumentare la fitness) in favore dell'acutezza visiva.
Quali siano le molecole "emanate" nei soggetti malati che i cani riescono a percepire è al momento poco chiaro, ma qualcosa si sta imparando come insegna il caso dei cani addestrati dall'ente inglese Medical Detection Dogs, capaci di capire  se il diabetico annusato è ipoglicemico.
Le persone che hanno avuto in prova questi cani hanno dichiarato il loro entusiasmo come riassume Claire Pesterfield, infermiera affetta da diabete di tipo I: "non solo [il cane] è un compagno meraviglioso, ma funziona da "naso" in grado di avvertirmi mettendo le sue zampe sulle mie spalle se sono a rischio di una crisi ipoglicemica".
Nota. L'ipoglicemia può causare problemi come tremori, disorientamento e una sensazione di spossatezza. Se il paziente non rimedia con un po' di zucchero si può andare incontro a convulsioni, perdita di coscienza e coma. Il vero problema è che in alcune persone con diabete, questi episodi possono verificarsi improvvisamente, preceduti da sintomi quasi impercettibili.
Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Diabetes Care, fa ora luce su quale sia la molecola prodotta dal corpo prima della crisi che i cani sono in grado di percepire e (se addestrati) "riferire" al loro padrone.

Il lavoro, condotto da un team dell'università di Cambridge, ha preso in esame una decina di volontari tra le donne diabetiche analizzandone il fiato al variare dello stato glicemico; analisi effettuata sull'espirato mediante una tecnica nota come spettrometria di massa. Tra le molte molecole presenti, l'isoprene spiccava per il suo netto aumento di concentrazione al calare della glicemia.
Sebbene l'isoprene sia una delle molecole più comuni nel fiato umano umano, poco si sa della sua origine; si ritiene che sia un sottoprodotto della produzione di colesterolo, ma questo non dice molto sul perché aumenti con l'ipoglicemia.
isoprene (wikimedia commons)
Nota. L'isoprene NON è la molecola responsabile del comune "fiato" diabetico (chetoacidosi diabetica) causata dall'elevata quantità di chetoni nel sangue che compare quando il corpo, non potendo usare il glucosio ematico a causa dell'assenza di insulina, attiva le vie di emergenza basate sulla digestione delle proteine. Uno stato di "affamamento" paradossale in quanto il sangue è iperglicemico.

Gli esseri umani non sono in grado di percepire la presenza di isoprene nel fiato di un individuo, ma i cani si e questo spiega la loro capacità di avvertire il padrone dello stato di rischio.
La scoperta apre prospettive interessanti nella diagnostica; nota la molecola responsabile si può pensare di sviluppare test diagnostici di facile utilizzo per minimizzare il rischio di complicanze potenzialmente letali per i pazienti diabetici.


Come i cani sentono il diabete (credit video: università di Cambrige)


Fonte
-  Exhaled Breath Isoprene Rises During Hypoglycemia in Type 1 Diabetes
Sankalpa Neupane et al,

- Evolution of Olfactory Receptor Genes in Primates Dominated by Birth-and-Death Process
D. Dong et al, Genome Biology and Evolution, volume 1, pp. 258-264 

- Canine Olfaction: An Overview of the Anatomy, Physiology and Genetics
Kathryn A. Bamford

- Loss of Olfactory Receptor Function in Hominin Evolution
Graham M. Hughes et al, PLoS One (2014)



I cani e noi. L'effetto neurologico di uno sguardo

Lo sguardo e la "quiete" emozionale indotta dall'ossitocina
In un recente articolo pubblicato sulla rivista Science, il professor Takefumi Kikusui della università giapponese Azabu, ha dimostrato il potere sociale dello sguardo tra due specie diverse, l'essere umano e il cane.
La novità non sta nell'avere osservato una cosa nota da sempre, ma nell'avere analizzato la correlazione tra lo sguardo e i livelli di ossitocina, un ormone plurivalente e con un ruolo centrale nel cosiddetto bonding, cioè l'attaccamento verso qualcuno.
Sguardi prolungati tra i cani e i loro padroni producono picchi di ossitocina in entrambi, il che stimola l'attaccamento reciproco (uno stato di benessere mediato anche dall'abbassamento della pressione).
Attenzione però. Non provateci con gli animali selvatici anche strettamente imparentati con i cani. Lo stesso esperimento fatto con i lupi non sortisce alcun effetto. Il che è comprensibile in quanto i cani sono un prodotto selezionato dall'essere umano nel corso di migliaia di anni. Sebbene con finalità diverse (caccia, guardia, pascolo, compagnia, ...) il minimo comune denominatore è sempre stato il selezionare animali capaci di stare in compagnia dell'uomo. Il cane, come la stragrande maggioranza degli animali (e anche dei vegetali) allevati, è di fatto un OGM ottenuto in modo "non tecnologico".
Curiosità. Il cane geneticamente più simile all'antenato che scelse di vivere in compagna dell'essere umano lo si può trovare nei villaggi dell'Asia centrale (--> "Central Asian village dogs closest to original dogs" sul sito della Cornell University). Questo vuol dire che il processo di domesticazione è avvenuto solo in un luogo? Difficile a dirsi. Secondo uno studio pubblicato recentemente su Science in cui è stato confrontato il genoma di un cane dell'era del bronzo vissuto in Irlanda con quelle già note, è più probabile che il processo sia avvenuto separatamente in oriente e occidente (Laurent Frantz et al).
La conferma sperimentale è stata ottenuta iniettando l'ossitocina nei cani, misurandone poi la "tenuta" dello sguardo. Le femmine trattate guardavano più a lungo i loro padroni rispetto ai cani trattati con una soluzione salina. Ma c'è di più. Lo sguardo "adorante" dei cani trattati induceva a sua volta nel padrone un rilascio di ossitocina. Un rinforzo positivo, questo, già descritto nel rapporto madre e neonato (non solo negli esseri umani) la cui funzione evolutiva è proprio quella di "forzare" l'attaccamento, aumentando così la probabilità di sopravvivenza della prole (e quindi la trasmissione del proprio patrimonio ereditario).
Sebbene storicamente meno caratterizzati nel loro rapporto con gli infanti, anche i maschi non sono immuni dall'effetto dell'ossitocina (legami sociali), oltre alla più studiata vasopressina (associata all'aggressività in presenza di altri maschi).

E i gatti? 
La maggior parte dei gatti sono più propensi a tradurre il significato di uno sguardo come una minaccia più che come segno sociale, tanto che guardarli a lungo può indurre aggressività.

Sul ruolo degli ormoni nelle "problematiche" dell'attaccamento ---> "La biochimica dell'amore".
Articoli precedenti con protagonisti i cani -->  "Lo sbadiglio empatico tra noi e i nostri cani", "I cani ascoltano le parole e non solo le voci (o quasi)", "Mucche aggressive? Tenete il cane lontano",

Fonte
- Oxytocin-gaze positive loop and the coevolution of human-dog bonds
Miho Nagasawa et al, (2015) Science 348(6232)


Mucche aggressive? Tenete il cane lontano

Attraversare un terreno con mucche al pascolo può dare la sensazione strana di essere tenuti sotto controllo dai placidi sguardi bovini.
Anche in assenza di tori (nel qual caso più che una sensazione vi è la certezza di essere monitorati e malvisti) i bovini possono manifestare il loro fastidio alla nostra presenza in modo molto chiaro.

credit: The University of Liverpool
Nel Regno Unito sono stati registrati 54 attacchi nel periodo compreso tra il 1993 e il 2013, con conseguenze letali per gli incauti viandanti nel 25 per cento dei casi. Sebbene i numeri siano trascurabili (ci sono 300 mila fattorie e quasi 10 milioni di capi nel paese) è anche vero che non è così comune per il cittadino in vena di attività bucoliche decidere di attraversare una zona di pascolo brado. Per quanto riguarda i locali, questi sono ben consapevoli di quanto sia importante diffidare dello sguardo apparentemente indifferente di un bovino concentrato sul suo incessante ruminare.
L'aneddotica su tali casi è varia ma ha un punto in comune: in assenza di un toro (si sa che i maschi sono troppo impulsivi), la causa scatenante della risposta aggressiva sarebbe la presenza di un cane in associazione ad uno stato di "ipersensibilità materna" delle mucche.
Alcuni etologi inglesi hanno cercato di trovare prove a riguardo andando ad analizzare i verbali associati a ciascuna aggressione. Il dato emerso è abbastanza chiaro:  in due terzi dei casi di aggressione era presente un cane.
Il cane, soprattutto quello estraneo alla mandria con funzioni di pastore, viene percepito dai bovini con progenie come un predatore e quindi attaccato. Il cane solitamente è abbastanza furbo da allontanarsi velocemente (tranne forse i più cittadini e stupidotti tra loro, sia per non aver mai visto un bovino che per l'attitudine ad abbaiare invece di scappare); la presenza del proprio padrone può tuttavia funzionare da innesco quando questi cerca di proteggere il proprio cane frapponendosi ad un mammifero di qualche quintale e con corna.
Per quanto possa sembrare banale, questo elemento dovrà essere tenuto a mente prima di iniziare una passeggiata con il proprio cane sui pascoli montani.

Come contraltare ai bovini che temono i cani, vale la pena citare il caso di una mucca chiamata Milkshake che invece pensa di essere un cane.
--> video

-->  Articolo su Huffington Post


Fonte
- Are cattle dangerous to walkers? A scoping review
Angharad P Fraser-Williams et al, (12/01/2016) Injury Prevention

I cani ascoltano le parole e non solo le voci (o quasi)

Chiunque abbia convissuto con un cane sarà pronto a testimoniare che il suo amico peloso era in grado di capirlo quando gli si parlava.
I più dubbiosi ribatteranno però che è il tono della voce, più che il contenuto verbale, ad essere percepito dal cane.
E su questo dibattito è difficile prendere una posizione data sia la tendenza generale ad umanizzare l'animale che per l'effettiva capacità di molti cani (anche se ho dubbi su quelli chiassosi e nevrastenici di piccola taglia) di riconoscere parole diverse (tipo "pallina", "rossa" e "prendi") e associarle ad una azione.
Chaser e gli oggetti che riconosce
(credit: The Independent)
Un esempio oramai classico è quello di Chaser, un border collie della Carolina del Sud che si è dimostrato capace di riconoscere fino a 1022 parole (vedi il sito), il tutto validato da test associativi condotti da esperti.
Al di là delle esperienze personali, l'unico modo per giungere a risultati affidabili è l'analisi dei circuiti cerebrali che vengono attivati da parole specifiche e l'influenza della tonalità nella trasmissione del messaggio. Sappiamo bene infatti quanto la stessa frase detta con tonalità diversa (neutra o emozionalmente ricca) venga da noi percepita in modo diverso; l'esempio classico è quello di un testo letto da un computer che ci "suona" come altamente dissonante anche se le singole parole sono pronunciate correttamente (vi ricordate i vecchi annunci alla stazione?).

Proprio su questo tema vale la pena segnalare uno studio pubblicato su  Current Biology, da un team della università del Sussex, il cui autore principale, Victoria Ratcliffe, è la giovane dottoranda ripresa nella foto qui a lato.

Negli esseri umani la "comprensione" delle parole è il risultato di un processamento distinto operato dai due emisferi cerebrali. L'emisfero sinistro analizza la parte verbale di una parola mentre l'emisfero destro lavora sia sulla componente emotiva legata al tono della frase che nella identificazione del sesso della voce di chi parla, oltre a svolgere un ruolo centrale nel comprendere una musica.
Comprendere le differenze funzionali associate a ciascun emisfero deve molto allo studio di quegli sfortunati individui che in seguito ad un incidente si sono trovati a dover convinvere con anomalie percettive estremamente peculiari. Ad esempio l'incapacità di comprendere il significato di una parola ascoltata e a loro nota (rimanendo però in grado di nominare tale termine se l'oggetto viene loro mostrato) oppure di capire dal tono della voce l'intenzione sottesa dell'interlocutore. La correlazione tra il sito della lesione e l'anomalia percettiva è stata la chiave per mappare funzionalità specifiche nei due emisferi o in regioni molto specifiche degli stessi.

A questo proposito bisogna ricordare che dato che l'orecchio destro si interfaccia direttamente all'emisfero sinistro del cervello, è l'orecchio destro quello che ha un ruolo dominante nell'elaborazione rapida del significato dei suoni; viceversa, l'orecchio sinistro domina nel comprendere il contenuto tonale (emozionale) di un suono.
Studi oramai classici hanno dimostrato come questa dicotomia funzionale non sia una esclusiva umana ma è presente anche in altri mammiferi. Nessuno aveva però finora studiato in dettaglio il fenomeno negli animali domestici e in particolare per quanto riguarda la capacità "eventuale" di comprendere la vocalizzazione tipica della propria specie.

Lo studio è consistito nell'analisi comportamentale (niente di intrusivo) di cani di tutte le razze per un totale di 250 animali. Ciascuno di essi è stato posizionato in modo tale da avere un altoparlante su ciascun lato della testa; sono state quindi prodotte combinazioni di parole (sensate o con suono simile ad una parola sensata ma del tutto prive di senso) e di intonazioni (dal neutro prodotto da un computer a quello emotivo di un essere umano) come quello associato a un rimprovero.
Per capirci alcune combinazioni erano parole che suonano come "vieni" e "qui" e in parallelo "niesi" e "qui"; sia in tono giocoso che con una pronuncia neutra o da elaboratore vocale.
In contemporanea ad ogni comando verbale si registrava la direzione verso la quale il cane volgeva la testa, cioè verso il diffusore sinistro o verso il diffusore destro (ricordo che il suono è in stereo e quindi la torsione della testa era solo indice dell'emisfero "operativo").
Il modello che è emerso da questi test è abbastanza chiaro: quando il cane gira la testa a destra è perché è il suo emisfero sinistro ad avere giocato il ruolo chiave nella elaborazione del suono. Viceversa quando si gira verso destra. Nel dettaglio, quando un cane sentiva una parola "sensata" (cioè una parola che ha imparato ad associare ad una azione/oggetto), nell'80% dei casi girava la testa verso destra, segno che era stato l'emisfero sinistro a svolgere l'azione dominante. Quando invece nel comando prevaleva la componente emotiva, la testa si voltava verso sinistra.
Il dato mostra indubbiamente una capacità di distinguere sequenze di suoni significativi da quelli insignificanti. Attenzione però, ci si riferisce sempre e solo a parole che il cane aveva precedentemente imparato a "riconoscere" e non a sequenze di parole nuove o non ancora fissate nella loro memoria associativa. Utilizzare parole "sconosciute" ha il solo effetto di mandare i cani in confusione dato che si tratta di input per loro privi di senso (anche se per noi lo hanno). In quest'ultimo caso è probabile che la componente emotiva (tonale) è l'unica riconoscibile dal cane.
Quando si interagisce con un cane ha quindi ben poco senso fare discorsetti di rimprovero o di congratulazione (tipico della mia vicina di casa), dato che pur "cercando di capire" cosa diciamo, il nostro povero amico capterà solo un profluvio di suoni privi per lui di significato e sicuramente "ansiogeni" 
Negli esseri umani la elaborazione è ovviamente più complessa. Nella comprensione di una frase intervengono in contemporanea molte aree specifiche del cervello, tra cui quelle coinvolte nel linguaggio. Vedere a riguardo le conseguenze associate a lesioni nelle aree di Broca e di Wernicke.


Tra i test futuri, il primo che mi viene in mente è quello di analizzare cani (ma non solo) selvatici, non "condizionati" quindi dall'uomo quando ancora cuccioli; questo dovrebbe permetterci di capire se e quanto questa capacità (soprattutto il riconoscimento tonale) sia presente in natura.
Altro punto chiave è il ricordare che il cane è il prodotto di una selezione operata dall'essere umano in migliaia di anni. Una selezione che ha di fatto creato una specie ben diversa da quella originaria. La selezione ha di fatto favorito solo quei cani che non solo hanno dimostrato di potere adattarsi a convivere con l'Uomo ma che erano dotati di una adeguata responsività (e comprensione) agli ordini.  

Fonte
- Orienting asymmetries in dogs' responses to different communicatory components of human speech" 
Victoria Ratcliffe and David Reby,  Current Biology, 26 novembre 2014.
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