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Gaming. Usare la potenza di calcolo del cervello giocando per fare scienza

Di giochi a sfondo scientifico ne ho già scritto in passato e vanno da modalità meramente passive in cui si “regala” la capacità computazionale del proprio computer per la ricerca di segnali extraterresti (vedi SETI@home) a giochi veri e propri l’utente a programmi come Foldit in cui attraverso la risoluzione di puzzle si aiuta a risolvere la struttura 3D della proteina in esame, restringendo i campo per i ricercatori che da questa partiranno per ricavare la struttura definitiva.
Tutti questi sistema sfruttano il potere di calcolo (macchina o umano) fornito spontaneamente dai partecipanti.
Vi rimando a due articoli precedenti sul tema gaming e scienza: "gaming scientifico"; "Con Niche si gioca a fare i biologi evoluzionisti"
Un esempio recente (ed estremo, per numero di persone coinvolte e modalità di analisi) di quello che potremmo definire indirect-science-gaming ha permesso di ricostruire il genoma di un batterio.
Nello specifico il compito è stato svolto da alcuni milioni di giocatori umani che, in simultanea, si sono uniti, in modalità gaming, per risolvere un problema in ambito genomica batterica difficilmente gestibile anche al top delle risorse computazionali disponibili per la ricerca. A costo (quasi) zero e con divertimento dei giocatori; o meglio hanno affrontato il problema senza saperlo visto che per loro si trattava di un puzzle
L’analisi è stata da poco pubblicata su Nature Biotechnology, il che la dice lunga sul livello qualitativo dei risultati ottenuti.

Uno dei problemi principali associati alla elevata capacità produttiva dei moderni sistemi di sequenziamento del DNA è la quantità di dati che vengono prodotti, i quali a loro volta necessitano di potere computazione perché tutte le “stringhe informative” fornite possano essere assemblate nell’ordine corretto. Se, come nel caso del genoma umano (3 miliardi di basi per genoma aploide), si ha già la sequenza di riferimento a cui rapportare la nuova informazione prodotta (ad es. per vedere le differenze individuali) l’analisi è tutto sommato “semplice” in quanto si confronta il dato con il “registro” e si vede se ci sono differenze.
Qualora invece si stia analizzando un genoma “nuovo” come quello di un organismo poco studiato o, come nel caso in esame, un mix di molti genomi microbici diversi, allora il carico computazionale diventa molto elevato.

Per facilitare il compito usando "scienziati inconsapevoli", i ricercatori hanno integrato all’interno di un classico sparatutto (Borderlands 3) un puzzle simile ad un tetris, dove era necessario allineare in modo appropriato i mattoncini colorati.
Il gioco originale in cui è stata inserito il puzzle giocabile via un Arcade
credit: Amazon
Ogni volta che il puzzle veniva risolto, previo accesso ad una arcade inserita nel gioco, i giocatori acquisivano vantaggi nel gioco principale. 
Questo l'arcade che compariva ai giocatori quando (nel gioco) dovevano affrontare un puzzle per guadagnare punti. 

Il corretto allineamento corrispondeva (anche se in modo non esplicito in quanto “mascherato”) all’allineamento di piccole sequenze di DNA ottenute da milioni di campioni ricavati dalla complessa comunità batterica (microbiota) presente nel nostro intestino (a diversi tempi e in diverse condizioni, tipo prima e dopo una dieta). Ognuna delle quattro basi di cui è composto il DNA era rappresentata da un diverso colore del mattoncino e la distribuzione dei mattoncini equivaleva all’allineamento corretto dei tanti frammenti presenti a dare la sequenza complessiva. 
image credit: Roman Sarrazin-Gendron et al / Nature


In pochi giorni è stato possibile coinvolgere 4,5 milioni di persone che hanno giocato (complessivamente) 135 milioni di volte al puzzle, una potenza di calcolo cumulativa da fare impallidire i supercomputer. Si è così potuto ricostruire il quadro filogenetico rappresentante l’evoluzione di una comunità batterica comunità di batteri che ospitiamo nell’intestino in risposta a cambiamenti di vario tipo.
A differenza di altri giochi, qui si è trattato di utilizzare l’energia computazione nascosta del cervello dei giocatori per risolvere a costo zero compiti che avrebbero richiesto computer molto costosi e tempi lunghi.
Un risultato che dimostra le potenzialità insite nell’affrontare (senza fatica percepita e in modo volontario) un problema complesso unendo milioni di cervelli.

Fonte
Improving microbial phylogeny with citizen science within a mass-market video game
Roman Sarrazin-Gendron et al, Nature Biotechnology (2024)


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Per i nerd nostalgici, ecco un libro che ripropone le immagini degli arcade dell'età dell'oro


Rospi psichedelici ... ma anche no

Il rospo del deserto di Sonora (Incilius alvarius) ha la particolare peculiarità di essere diventato un oggetto del desiderio tra fricchettoni e adepti New Age grazie alla sua capacità, mediata da secrezioni cutanee, di alterare la mente.
Incilius alvarius
In verità tale capacità, ne scriverò a breve, non è del tutto provata se non come avente azione neurologica (cosa diversa dal produrre sensazioni psichedeliche come ad esempio fanno i funghi allucinogeni)
Vi rimando al precedente articolo sul tema (-> "Farmaci psichedelici")
Comunque sia tale proprietà (complice anche un articolo apparso sul New York Times) non sta facendo per nulla bene ai rospi che si sono trovati inseguiti (e a volte sequestrati) da cercatori di esperienze   psicogene tanto che qualche mese fa il National Park Service degli Stati Uniti si è visto costretta ad pubblicare un messaggio sui social media chiedendo ai visitatori del parco di “astenersi dal leccare” il rospo.
Oltre al danno/disturbo per i poveri rospi inseguiti dai novelli hippies, c'è anche il rischio di effetti collaterali gravi per gli umani dato che le secrezioni cutanee possono causare se ingerite (assorbite attraverso le mucose), anche l'arresto cardiaco.
Non solo lo stress da inseguimento ma anche il loro "rapimento" concorre a rendere la vita difficile ai rospi. Trasferiti al di fuori del proprio territorio natale rende loro difficile l'adattamento al nuovo ambiente diminuendone la sopravvivenza. A questo aggiungiamo che raccogliere e stipare in un ambiente limitato un gran numero di rospi aumenta il rischio di trasmissione di malattie come il fungo chitride.
Usare i rospi per farsi un "trip" non è in verità nulla di nuovo ma il numero di persone coinvolte si è impennato dopo l'articolo del NYT. Per decenni, le persone hanno raccolto le secrezioni per poi fumarle una volta essiccate. Il principale effettore dell'effetto psicotropo è il 5-MeO-DMT, che una volta inalato può causare allucinazioni uditive e visive; un effetto che le è valso il soprannome di "molecola di Dio".

Perché i rospi abbiano evoluto (e soprattutto selezionato) una molecola con siffatti (per quanto da dimostrare**) effetti non è del tutto chiaro. Vero che un gran numero di specie di rospi (e alcune rane come quelle appartenenti all'ordine Phyllomedusa) secerne tossine dalla loro pelle ma un conto è una sostanza "repellente" e un altro una sostanza psicotropa. Una ipotesi è che tali secrezioni, i cui composti specifici variano da specie a specie, si sono  probabilmente evolute come un modo per mantenere umido il corpo del rospo. Nel corso del tempo, i composti, che hanno mostrato attività neurologica (e non solo) se ingeriti in sufficienti quantità, hanno fornito un valore aggiunto (quindi selezionati) per la capacità di sopravvivenza rendendosi non appetibili ai predatori.

Il rospo Incilius alvarius sembra aver fatto un ulteriore passo nella sua fabbrica di molecole repellenti grazie ad un enzima, presente nell'essudato, che converte la bufotenina, un composto prodotto anche da altri rospi, in 5-MeO-DMT, una molecola simile alla dimetiltriptamina (DMT), un noto allucinogeno.
Ecco allora che quando uno di questi rospi avverte una minaccia secerne sula il suo cocktail molecolare  sia dalle ghiandole parotoidi (dietro ciascun occhio) che da altre ghiandole sulle zampe. 
Un chiaro messaggio al predatore che suona come "non mangiarmi! Non ho un buon sapore! E forse te lo ricordi". Se ingerite in grandi quantità da un potenziale predatore, le tossine possono causare coma e morte da arresto cardiaco.
In verità non c'è un vero accordo sul fatto che questa secrezione sia da considerarsi psichedelica (per definizione deve avere anche altre proprietà oltre a quelle allucinogene) invece che "solo" psicotropa.
Il termine psichedelico deriva dal greco ed indica “estensione della mente”. Non basta quindi un senso inebriante. Ci sono varie molecole/droghe (siano esse stimolanti o depressivi) che alterano la percezione/attività cerebrale senza però lasciare nel fruitore una sensazione di "avere visto oltre l'immaginazione o avere avuto intuizioni nuove" come invece descrive chi assume sostanze tipo LSD etc.

 Confusione rafforzata anche da uno studio del 2020 pubblicato su Scientific Reports. Studio statisticamente poco affidabile per il basso numero partecipanti, metà dei quali riferì (in base a esperienze precedenti legati all'assunzione della "droga" di aver avuto un'esperienza spirituale e in alcuni casi, visione di "luce" come tipico dei veri allucinogeni.

Lo studio è di tipo osservazionale retrospettivo. Gli autori dell'articolo hanno raccolto le testimonianze dai fruitori che avevano assunto la droga prima dell'inizio dello studio.
La 5-MeO-DMT pare avere una azione agonista sulla via serotoninergica, mediata dall'interazione con il recettore 5-HT2A, proprio come altri allucinogeni. Uno studio condotti sui topi mostra effetti nella plasticità neuronale ma una attività "psicotropa" inferiore rispetto alla psilobicina.

Un dato interessante viene dalla sua attività antidepressiva. La ricerca di varianti molecolari prive della componente allucinogena potrebbe aprire la strada (come è stato fatto con la ketamina) per nuovi farmaci.


Fonti
5-MeO-DMT modifies innate behaviors and promotes structural neural plasticity in mice
Pol Puigseslloses et al,  Mol Psychiatry. 2024 Mar 14

Acute and subacute psychoactive effects of Kambô, the secretion of the Amazonian Giant Maki Frog (Phyllomedusa bicolor): retrospective reports
Timo Torsten Schmidt et al, Scientific Reports volume 10, Article number: 21544 (2020)


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Libro in cui si tratta, con piglio giornalistico/antropologico delle 4 principali piante con attività psicotropa (credit: Amazon)

Nomen omen?




I farmaci "psichedelici". Una risorsa di cui però si ignora il meccanismo di azione

Ne ho scritto in passato (a partire dall'approvazione della ketamina come antidepressivo) quindi non dico nulla di nuovo citando gli studi in dirittura d'arrivo su farmaci derivati da molecole con attività non solo psicotropa ma psichedelica (vedi i funghi allucinogeni). Studi mirati a verificare l'efficacia del trattamento (riduzione dei sintomi) senza però che sia compreso a fondo il loro meccanismo d'azione cerebrale.
Illustration by Kasia Bojanowska
Il tutto nasce dall'utilizzo (plurisecolare se non millenario) da parte di alcune culture di droghe naturali a scopi rituali e terapeutici. Esempi in tal senso sono la psilocibina (da funghi allucinogeni), la mescalina (presente nel peyote, una pianta succulenta del Messico), l'ibogaina (estratta dalla corteccia di un arbusto centro-africano). 
Libro in cui si tratta, con piglio giornalistico/antropologico delle 4 principali piante con attività psicotropa (credit: Amazon)


Già alla fine degli anni '50 si iniziarono studi per determinare in modo rigoroso il loro potenziale terapeutico come antidepressivi, che però vennero in gran parte terminati quando queste e altri allucinogeni sintetici (ketamina, LSD, MDMA, ...) quando queste sostanze furono vietate o sottoposte a forte controllo nella maggior parte dei paesi. 
Si è dovuto attendere l’inizio degli anni 2000 per nuovi studi clinici che confermarono sia il potenziale terapeutico che la possibilità di usare versioni modificate di queste molecole, depauperate della loro attività allucinogena così da evitare rischio dipendenze e abusi.

Il 2019 ha segnato un momento importante di queste sperimentazioni quando una variante della ketamina (più sicura e priva di effetti allucinogeni) ha ricevuto il via libera da parte della FDA come  trattamento per il disturbo da stress traumatico (PTSD). Lo scorso maggio (2023) l'Oregon ha aperto il suo primo centro di trattamento per la somministrazione di psilocibina, risultato però di un percorso diverso cioè della decisione dello Stato di legalizzarla (la psilocibina rimane invece illegale negli altri stati). Negli ultimi mesi una organizzazione di ricerca senza scopo di lucro ha chiesto formalmente alla FDA l'approvazione della MDMA (nota anche come ecstasy) per il PTSD in base a due studi che ne hanno evidenziato la capacità, previa somministrazione sotto stretto controllo, di ridurre i sintomi più velocemente di altri trattamenti oggi disponibili.

Ci sono però alcune ombre in questi risultato legati sia ai limiti della sperimentazione animale per farmaci ad uso psichiatrico che (conseguenza del precedente e dei forti vincoli nel loro utilizzo sugli umani) le grandi lacune nella conoscenza del meccanismo d'azione di MDMA e di altre sostanze psichedeliche. Il recente cambiamento normativo che ha reso "più semplice" usare/studiare queste droghe sugli umani aiuterà a fare luce su alcuni meccanismi ma ci vorranno anni per avere un quadro paragonabile a quello dei farmaci non psichiatrici approvati. La comprensione del meccanismo del farmaco è inoltre un passaggio obbligato per disegnare molecole che mantengono la funzione terapeutica ma più sicure e private della loro componente allucinogena.

Alcune informazioni aggiuntive.
Da un punto di vista farmacologico, la parola “psichedelico” si riferisce storicamente a molecole con attività allucinogena (ad es. psilocibina, LSD, etc) che si legano ad uno dei vari recettori della serotonina chiamato 5-HT2A presente sulla superficie dei neuroni. Sebbene tale definizione non includa sostanze come ketamina o l’ibogaina, queste droghe sono spesso raggruppate insieme alle sostanze psichedeliche sia negli articoli di ricerca che sui media. Perfino il tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, è talvolta catalogato come sostanza psichedelica. Va da sé che il permanere di tale definizione vaga, combinata con la mancanza di reagenti e protocolli standardizzati, può rendere difficile per i ricercatori confrontare il loro lavoro con quello pubblicato da altri colleghi.
Aggiungiamo poi il fatto che sostanze "psichedeliche" come ketamina e MDMA, sono funzionalmente "sporchi" perché interagiscono con molti tipi di neuroni e molecole nel cervello. Perfino gli psichedelici classici (LSD e psilocibina) interagiscono, anche, con recettori diversi dal 5-HT2A.

La recente "promozione" della ketamina da anestetico veterinario, (mal)usato come droga da party dagli umani, a farmaco antidepressivo è conseguenza della sua capacità di legare e bloccare il recettore NMDA, recettore ionotropico del glutammato presente sulla membrana dei neuroni e che gioca un ruolo essenziale nella plasticità sinaptica e nel consolidamento della memoria. Con il blocco si innesca una serie di eventi molecolari che, in modo inatteso (vale a dire non previsto dalle conoscenze precedenti), contrastano lo stato depressivo. Alcuni studi hanno ipotizzato che il tutto sia conseguenza dell'azione di un prodotto di degradazione della ketamina che va a legare a un recettore non ancora identificato.
Un recente articolo ha provato che la ketamina può rimanere intrappolata nel recettore NMDA e sopprimere, in alcune regioni del cervello, l’attività del recettore fino a 24 ore, il che potrebbe spiegare la potenza e velocità del suo effetto rispetto ai classici antidepressivi.

Alcuni ipotizzando che tutte le droghe "psichedeliche" potrebbero avere qualcosa in comune, anche se non utilizzano il recettore della serotonina. Una conferma in questa direzione viene da studi che hanno mostrato che tutte queste sostanze si legano (anche) al recettore di un fattore di segnalazione cerebrale noto come fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), coinvolto nella crescita dei neuroni e nel ricablaggio del cervello.
Vero che anche gli antidepressivi classici, come il Prozac (fluoxetina), si legano al recettore, ma il legame è fino a 1000 volte più debole rispetto agli psichedelici, il che spiega perché uno sembri migliorare i sintomi in poche ore, mentre gli altri richiedano molti mesi.
In verità sebbene non tutti i ricercatori concordano con il ruolo prominente del recettore BDNF, vi è accordo sul fatto che le droghe psichedeliche aumentino la plasticità cerebrale, consentendo ai dendriti e agli assoni che formano i circuiti neurali di diversificarsi e creare nuove connessioni. La plasticità potrebbe aiutare una persona depressa a vedere il mondo in un modo diverso, o aiutare una persona con PTSD a disconnettere i propri ricordi traumatici da una risposta di paura. Vero però che la plasticità in sé e per sé non è necessariamente una buona cosa: ci sono buone ragioni per cui il cablaggio del cervello si sviluppa in questo modo e mantiene connessioni tra esperienze ed effetti.
Ad esempio alcune condizioni patologiche come autismo e schizofrenia, potrebbero (talvolta) derivare da un’eccessiva plasticità del cervello. Inoltre, tutti i tipi di droga, comprese la cocaina e le anfetamine, possono indurre una sorta di plasticità e tutto noi conosciamo l'effetto negativo (fisico e psichico) indotto da queste sostanza.
Forse la ketamina induce un particolare tipo di plasticità che consente ai neuroni di regolare la loro attività di fronte a uno stimolo che normalmente li influenzerebbe in un certo modo. A differenza dei meccanismi di plasticità che rafforzano o indeboliscono specifiche connessioni neuronali durante l’apprendimento e la memoria, questa plasticità omeostatica consente ai neuroni di combattere contro fattori che cercano di cambiarli. In questo modo, la ketamina potrebbe fornire al cervello gli strumenti di cui ha bisogno per mantenere uno stato sano. Se questo meccanismo si rivelasse vero, la ketamina potrebbe servire da “Stele di Rosetta” per comprendere come funzionano altre sostanze psichedeliche.
Altri scienziati, tuttavia, non pensano affatto che le sostanze psichedeliche influenzino direttamente la plasticità. Piuttosto, potrebbero sbloccare qualcosa noto come metaplasticità, rendendo i neuroni più suscettibili a uno stimolo che induce plasticità, ad esempio un ormone. Questa teoria darebbe maggiore importanza ad altri fattori – l’interazione sociale, per esempio, o la rivisitazione di un ricordo traumatico – nel rimodellare i neuroni e formare nuove connessioni.
In un esperimento di somministrazione ai topi di queste sostanze (MDMA, ibogaina, LSD, ketamina o psilocibina) si sono osservati risultati comportamentali interessanti. I topi trattati sono diventati più disposti a dormire in uno scompartimento con altri (chiaro segno di riduzione di stress) e l’effetto è durato per settimane. Poiché i topi adulti non tendono a cambiare il loro comportamento sociale, la scoperta suggerisce che i farmaci psichedelici sono stati in grado di riaprire il “periodo critico”, la fase in cui i topi giovani imparano ad associare la socialità a qualcosa di positivo. Nello stesso studio si è  anche scoperto che i neuroni degli animali trattati hanno iniziato a esprimere un insieme di geni coinvolti nel rimodellamento della matrice extracellulare, una zona che che funge da “malta” tra i neuroni: il rimodernamento libera i dendriti e gli assoni dando loro la capacità di formare nuove connessioni.
Ma proprio come la plasticità, troppa metaplasticità potrebbe essere dannosa “fondendo il cervello”: rompendo i circuiti neurali guadagnati con fatica, causando convulsioni e amnesia e distruggendo la capacità di apprendere. 

Questi studi potrebbero portare innovazione anche in aree apparentemente diverse della neurofisiologia. I ricercatori stanno verificando se nei topi queste sostanze riescano ad aprirealtri periodi critici. L’apertura di un periodo critico nella corteccia motoria, ad esempio, potrebbe allungare il periodo di tempo in cui le persone che hanno avuto un ictus possono trarre beneficio dalla terapia fisica. Le sostanze psichedeliche potrebbero aiutare le persone a recuperare i sensi perduti o indeboliti oltre il breve intervallo temporale oggi accettato per iniziare una terapia di recupero.

Se però il contesto è essenziale, l’esperienza allucinogena stessa potrebbe essere necessaria per aprire i periodi critici sopra citati.
Vero anche che l'esketamina, la versione modificata della ketamina approvata per la terapia antidepressiva (necessita di dosaggio molto inferiori e questo evita gli effetti collaterali della droga), non è inferiore alla ketamina per cui è possibile agire sulla riduzione degli effetti allucinogeni.
Non è necessario ingerire un farmaco per avere un cambiamento neurochimico, abbiamo continuamente cambiamenti neurochimici causati dalla nostra esperienza e la psicoterapia stessa funziona (anche) attraverso l'indizione di cambiamenti epigenetici.
Ecco allora che forse il farmaco potrebbe semplicemente migliorare la capacità della terapia di cambiare permanentemente la prospettiva di una persona. Una ipotesi non condivisa da altri ricercatori secondo i quali gli effetti diretti delle sostanze psichedeliche sul cervello sono parte fondamentale della loro efficacia terapeutica.


Tra i problemi della sperimentazione clinica in ambito psichiatrico il ben noto "effetto placebo" che (a differenza delle malattie in altri distretti corporei) può da solo rendere conto dell'80% dell'effetto terapeutico.
L'effetto placebo lo si osserva nei gruppi di controllo in doppio cieco dove sia il medico che il paziente non sanno se la "pillola" è un farmaco o un placebo. Chiaramente il problema diventa ancora più importante se il trattamento farmacologico è associato ad un effetto intenso che palesa immediatamente al paziente cosa ha ricevuto. Per cercare di minimizzare questi condizionamenti la FDA ha approvato un sistema per gli studi sull’MDMA in cui gli psichiatri, che non sono coinvolti nella somministrazione della terapia, valutano il miglioramento dei sintomi di ogni persona senza sapere chi ha ricevuto il farmaco.
Una misurazione del problema placebo viene dai ricercatori di Heifets Labs che hanno sviluppato un modo  per quantificare l’intensità dell’effetto placebo; il team di ricerca ha testato la ketamina su persone sottoposte a intervento chirurgico che erano state messe sotto anestesia e incapaci di sperimentare gli effetti dissociativi del farmaco. Le persone che escono dall’intervento chirurgico spesso sperimentano sintomi di depressione accentuati. Ma i ricercatori hanno scoperto che, indipendentemente dal fatto che un paziente avesse ricevuto ketamina o un placebo, i suoi sintomi miglioravano se pensavano che avrebbero potuto assumere il farmaco: l’aspettativa stessa di ricevere il farmaco stesso avrebbe potuto migliorare il loro umore.

Articolo precedente sul tema "Il farmaco psichedelico che spegne la PTSD"

Le immagini a luce polarizzata del buco nero al centro della Via Lattea

Sono passati circa due da quando riportai le prime immagini del buco supermassiccio al centro della nostra galassia (l'articolo riproposto in calce al presente) che seguiva la prima visualizzazione in assoluto di giganti del genere fatta nella galassia M87.

Il "nostro" buco pur se distante "solo" 27 mila anni luce è oltre mille volte più piccolo di quello nel cuore di M87, da cui la maggior difficoltà nel visualizzarlo.
Nelle scorse settimane sono stati presentati nuovi dati frutto delle osservazioni effettuate sempre mediante l'Event Horizon Telescope (EHT). La vera novità è l'immagine di Sagittarius A* fatta in luce polarizzata, così da mostrare la struttura a spirale degli intensi campi magnetici, molto simile a quella di M87*; dato che suggerisce come questi campi siano comuni a tutti (o a molti) buchi neri supermassicci.
Le linee sull'immagine indicato la direzione della luce polarizzata
Credits: EHT Collaboration
La differenza analitica fatta dall'osservazione in luce polarizzata è che nella regione che circonda un buco nero "gigante" le particelle sono in uno stato noto come plasma (gas ionizzato caldissimo) e come tali si muovono sulle linee di campo magnetico. Il risultato è la polarizzazione della luce perpendicolare al campo e con essa la possibilità di studiare cosa stia avvenendo in questa zona.
cc
Confronto a luce polarizzata tra M87* e Sgr A*
Credits: EHT Collaboration


*** 
Finalmente ecco il buco nero al centro della nostra galassia
(24/5/2022)
Arriva oggi al traguardo il lavoro di visualizzazione dei buchi neri supermassicci ospitati al centro delle galassie. 
La prima parte dello studio era stata pubblicata nel 2019 con la visualizzazione del buco nero M87* (sito nella galassia Virgo A, vedi l'articolo dedicato), ora conclusa con la pubblicazione su The Astrophysical Journal Letters dell'immagine di Sagittarius A star (Sgr A*).
Sgr A* (image credit: EHT Collaboration via 
@ehtelescope

Il tour di force nella raccolta dati (letteralmente, data la mole di 4 petabytes) avvenne nel corso di 5 giorni nel 2017, con il contributo di ricercatori ai quattro angoli della Terra, afferenti a 8 telescopi che grazie a particolari tecniche crearono un unico telescopio virtuale (Event Horizon Telescope) "grande" quanto la Terra. Uno sforzo tecnico necessario per riuscire a catturare i dettagli non tanto del buco nero (per definizione invisibile) quanto delle zone immediatamente adiacenti da cui provengono i segnali.
Un conto è stata la pur ardua raccolta dati e tutt'altro è stata l'elaborazione degli stessi, per cui sono stati necessari quasi 7 anni.

Per quanto possa apparire strano, è stato più semplice elaborare i dati per visualizzare un buco nero in un'altra galassia, distante 57 milioni di anni luce, rispetto al "nostro" (inteso come galassia) distante poco meno di 26 mila anni luce.
La spiegazione è che pur avendo all'incirca la stessa dimensione apparente nel cielo, M87* è molto più grande (quasi 2 mila più lontano ma 1600 volte più grande). Oltre a meri fattori dimensionali, osservare qualcosa al centro della Via Lattea, data la nostra posizione su un braccio laterale della spirale, è meno "pulito" che guardare al centro di un'altra galassia "di fronte".
Ma perché scegliere M87* invece di, ad esempio, Cygnus X1, che con una distanza di 6 mila anni luce è più vicino a noi perfino di Sgr A*? Anche in questo caso la ragione è meramente dimensionale: il buco nero al centro di Cygnus ha massa di solo poche volte quella solare, quindi debole (Sgr A* e M87* hanno 4 milioni e 7 miliardi di masse solari, rispettivamente).
Nonostante una massa considerevole, Sgr A* é praticamente invisibile ai telescopi ottici a causa della polvere e dei gas presenti nel disco galattico. Già alla fine degli anni 90 comunque, i ricercatori si resero conto che il "velo" di oscurità poteva essere superato dalle onde radio; il problema era che, data la loro lunghezza d'onda, per rilevare queste onde sarebbe stato necessario avere un telescopio delle dimensioni della Terra. Impossibile fattivamente ma non pensando ad un telescopio virtuale, cioè usando l'interferometria per correlare telescopi presenti nei diversi punti del globo.
Come creare un telescopio virtuale grande come la Terra
Image credit: Event Horizon Telescope via nature.com
I primi tentativi utilizzarono onde radio di 7 millimetri e telescopi a poche migliaia di chilometri di distanza. L'immagine ottenuta era sfocata. Bisognava fare un passo ulteriore  migliorando le infrastrutture e ampliando la dimensione (virtuale) del telescopio terrestre. Tra i telescopi aggiuntisi per raggiungere la "capacità" analitica critica, il South Pole Telescope e l'Atacama Large Millimeter/submillimeter Array in Cile.
Un'altra difficoltà riscontrata durante l'analisi di Sgr A* era la minore stabilità dei suoi "dintorni". Date le dimensioni di M87*, la materia che ruota intorno ad esso si trova a distanze superiori a quelle dell'orbita di Plutone dal Sole; al contrario la materia che, surriscaldata, origina il segnale da Sgr A* si trova ad una distanza inferiore di quella di Mercurio dal Sole.
A questo si aggiungeva che la radiazione proveniente da M87* rimaneva sostanzialmente stabile nell'arco di giorni mentre quella di Sgr A* mostrava variazioni ogni decina di minuti. 

M87* e Sgr A* a confronto
(Image credit: EHT collaboration via ESO.org)
A causa di questa variabilità, i ricercatori del EHT hanno dovuto prima generare migliaia di immagini di Sgr A* e infine fare la media delle caratteristiche comuni, per ottenere una media affidabile.
Per visualizzare M87* una immagine era stata sufficiente per essere riproducibile.

L'immagine di Sgr A* ricorda quella di M87* con la presenza di un anello di radiazione che circonda una zona scura, esattamente delle dimensioni previste sia da osservazioni indirette (orbita delle stelle adiacenti) che dalla relatività generale. Tra le differenze visive rilevate, la forma a mezzaluna della regione più luminosa in M87* indica, forse, zone a maggior densità accelerate lungo la nostra linea di osservazione.
Da simulazioni condotte con supercomputer i ricercatori hanno dedotto che Sgr A* ruota in senso antiorario lungo un asse che punta verso di noi, quindi una immagine quasi frontale invece che "di taglio" come quella di M87*.

Pronti per un viaggio virtuale al centro della nostra galassia?



Fonte
- Focus on First Sgr A* Results from the Event Horizon Telescope
Geoffrey C. Bower (2022) The Astrophysical Journal Letters








Letture consigliate scritte da due premi Nobel (link al sito amazon)

La mutazione che ci fece perdere la coda

Chi ha passato la giovinezza a fare ricerca come cacciatore di geni prima che il Progetto Genoma fosse concluso, fornendo un “indirizzario” preciso dei geni presenti in specifiche aree cromosomiche, si sarà scontrato innumerevoli volte con sequenze ripetute della classe Alu che sembravano onnipresenti tra i dati ottenuti. Sequenze da sempre definite come conseguenza dell’abbondanza del cosiddetto DNA spazzatura (alias una parte del DNA non codificante che è la maggioranza del genoma).
La sequenza Alu
Le sequenze ripetute costituiscono la quasi totalità di aree come i centromeri e i telomeri ma possono trovarsi anche negli introni genici o negli spazi intergenici.
Alcune di queste sequenze hanno la particolarità di essere dei discendenti di antichi retrovirus non più funzionali, risultato di un evento di integrazione malriuscito e privi di ogni informazione per la sintesi di involucri virali. Molti di questi hanno però mantenuto la capacità di “riprodurre” la propria sequenza in autonomia (grazie alla capacità di codificare la trascrittasi inversa - assente nelle cellule eucariote) ricreando sequenze di DNA dai trascritti generati dalla RNA pol della cellula; sequenze che poi saltano in altri siti cromosomici.
Un tempo, come detto, si sarebbe catalogate queste sequenze come DNA spazzatura. Oggi si sa che queste hanno avuto un ruolo importante nell’evoluzione (anche umana) facilitando la comparsa di mutazioni/alterazioni DNA, alcune delle quali sono state selezionate positivamente. Non si tratta invero di soli fenomeni multigenerazionali, ma pare essere un evento frequente durante la maturazione neuronale nell’embrione.

Potremmo quindi considerare la comparsa ed evoluzione di (alcune) sequenze ripetute come una endosimbiosi estrema in cui un retrovirus ancestrale** ha dismesso la capacità di generare particelle virali in cambio di un trasporto “gratis” nei cromosomi dell’ospite fornendo all’ospite un acceleratore evolutivo.

A dimostrazione dell’importanza di queste sequenze nell’evoluzione umana, un articolo pubblicato recentemente su Nature in cui si correla uno di questi “salti” intragenomici delle sequenze Alu con il processo di perdita della coda nel primate diretto antenato degli umani.
Nota. Le sequenze Alu, prive della capacità di codificare per la trascrittasi inversa, si affidano a quella codificata da un altro trasposone noto come L1. Chiaramente per essere compatibili con una minima staticità genomica questi eventi non possono essere frequenti; si stima che compare un nuovo inserto Alu trasmissibile (quindi presente nelle cellule germinali) ogni 200 nascite.
**Le sequenze Alu (presenti unicamente nei primati) si calcola siano comparse 65 milioni di anni fa. In questo lasso di tempo sono aumentate da 1 copia a circa 1 milione di copie sparse nel genoma.
Come detto, la maggior parte di questi salti intragenomici non hanno avuto alcun effetto in quanto avvenuti in aree non codificanti (la maggior parte). Ogni tanto però capitava che non solo il salto avveniva dentro un gene ma in un esone, alterando (o distruggendo) la funzionalità di quel gene. Va da sé che se il gene aveva un ruolo cruciale, il salto “incauto” si autoestingueva. Uno di questi salti avvenne all’interno del gene TBXT, codificante per un fattore di trascrizione coinvolto  nello sviluppo della coda (nei topi mutazioni geniche causano la formazione di una coda corta).
La separazione tra primati con e senza coda

All’incirca 25 milioni di anni fa una sequenza Alu si integrò all’interno di questo gene causando la perdita dell’esone 6 e con essa una funzione alterata della proteina che pur rimanendo funzionale (la sua scomparsa provoca morte embrionale) ebbe come conseguenza la scomparsa della coda nella linea evolutiva che avrebbe portato a oranghi, gibboni, scimpanzé, gorilla e umani. La discendenza è stata verosimilmente in grado di sopportare tale deficit (rispetto a cugini arboricoli che necessitano della coda) in quanto linea già indirizzata verso una locomozione sul terreno

Fonte
- On the genetic basis of tail-loss evolution in humans and apes
Bo Xia et al, Nature volume 626, pages1042–1048 (2024)

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Se avete nostalgia della coda ... non c'è bisogno di cancellare le mutazioni acquisite durante l'evoluzione. Basta questa aggiunta disponibile su Amazon
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Diagnosi precoce della demenza con un esame del sangue

Diagnosi precoce della demenza: le proteine del sangue rivelano le persone a rischio

Lo studio di fattibilità è stato recentemente pubblicato sulla rivista Nature Aging.
Non si tratta, beninteso, di un risultato definitivo ma a suo favore una analisi condotta su un ampio campione di individui e su un migliaio di proteine ematiche alla ricerca di molecole candidate ad essere fattore prognostici.
L'indagine ha una importanza doppia in quanto cerca di trovare rimedio ad un doppio problema, cioè l'assenza di esami che possano prevedere l'insorgenza della malattia (prima che i sintomi compaiano) e un limite intrinseco allo sviluppo di farmaci efficaci.
Quando compaiono i sintomi i danni cerebrali sono già molto estesi (per capirci, nel caso del Parkinson i sintomi compaiono quando più dell'80% dei neuroni dopaminergici sono morti) il che rende impossibile testare farmaci preventivi essendo il danno irreversibile.
Scopo dello studio era identificare biomarcatori ematici rilevabili in soggetti sani che poi, a distanza di anni, avrebbero sviluppato demenza.
Nello specifico l'analisi è stata fatta su 1463 proteine ematiche da 52645 adulti i cui campioni erano già disponibili nella biobanca del Regno Unito, valutando poi quei soggetti (1417) che nei successivi 14 anni mostrarono i sintomi della malattia.
In particolare, si trovò che l'elevato livello ematico di quattro proteine – GFAP, NEFL, GDF15 e LTBP2 – era più elevato già dieci anni prima della comparsa dei sintomi.
La GFAP, una proteina che fornisce supporto strutturale ad una classe di cellule nervose chiamate astrociti, era già stata proposta come marcatore diagnostico per la malattia di Alzheimer. Discorso simile per la GDF15.
I dati indicano che le persone con alti livelli di GFAP nel sangue hanno più del doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alle persone con livelli normali e hanno quasi tre volte più probabilità di sviluppare l'Alzheimer.

Importante è stato l'utilizzo di modelli di apprendimento automatico per progettare algoritmi predittivi, combinando i livelli dei quattro biomarcatori proteici con fattori demografici quali età, sesso, livello di istruzione e storia familiare. Il modello ha previsto l’incidenza di tre sottotipi di demenza, compreso il morbo di Alzheimer, con una precisione di circa il 90%.

Fonte
Plasma proteomic profiles predict future dementia in healthy adults
Guo, Y. et al. Nature Aging (2024)


La genetica di come i serpenti hanno perso le zampe

Come i serpenti siano diventati tali (a partire da un vertebrato con zampe) è ancora frutto di ipotesi. Non tanto riguardo all'effettiva realtà di questa evoluzione (reperti fossili sono noti) ma sulle mutazioni che hanno reso possibile la regressione degli arti fino a farli scomparire del tutto o all'essere evidenti solo dopo accurata analisi (boa e pitoni hanno arti vestigiali

A fare luce sulla questione arriva ora un ampio studio con l'analisi genetica (e comparativa) tra 14 specie di serpenti (appartenenti a 12 famiglie) confrontati poi con i dati di altre 11 specie precedentemente analizzate. Un campione scelto accuratamente in modo da abbracciare 150 milioni di anni della loro evoluzione
Lo studio è stato pubblicato lo scorso anno su Cell.

L'analisi ha evidenziato una alterazione comune a tutte le specie del gene PTCH1, coinvolto nello sviluppo degli arti. La prova del nove è stata quella di introdurre lo stesso tipo di mutazioni nell’equivalente murino di quel gene. Il risultato sono stati topi cone le ossa delle zampe molto più corte.
Tra i dati emersi anche le possibili (con)cause della bassa capacità visiva e la riprogrammazione degli organi uditivi dei serpenti innescata verosimilmente dalla vita sotterranea dei serpenti primitivi (in un modo dominato dai dinosauri). In questo caso si è tratto di mutazioni che hanno diminuito (o spento) l'attività di alcuni geni. Ad esempio la diminuita attività dei geni associati alla capacità di sentire le alte frequenze potrebbe aver portato alla riconfigurazione delle ossa dell’orecchio dei rettili, rendendoli molto più sensibili alle vibrazioni. 

Ultima (si fa per dire data la mole del lavoro svolto) scoperta riguarda le mutazioni dei geni DNAH11 e FOXJ1, coinvolti nello sviluppo simmetrico dell'embrione, che spiegano la netta riduzione volumetrica (o anche scomparsa) del loro polmone sinistro

Il lavoro rappresenta un passo avanti non solo verso l’identificazione dei geni chiave nello sviluppo dei serpenti, ma anche verso l’individuazione di come lo sviluppo modella altri vertebrati, compresi gli esseri umani, e quindi l’identificazione di ciò che potrebbe andare storto e causare malattie o malformazioni.
In calce un articolo pubblicato nel 2015 sull'antenato "zampato" del serpente

Fonte
- Large-scale snake genome analyses provide insights into vertebrate development
Changjun Peng et al, (2023) Cell 



***

L'antenato a quattro zampe del serpente
Spesso ci si dimentica che anche i serpenti sono tetrapodi come noi e quindi hanno un antenato a quattro zampe.

 Trovare però l'anello di congiunzione tra la linea principale dei rettili (con arti visibili) e il sottordine dei Serpentes (in cui gli arti sono visibili come vestigia ossee) è tutt'altro che banale.
Hemiergis quadrilineatum, un rettile australiano in cui sono ancora evidenti
arti oramai "inutili". Nei serpenti il processo di riduzione si è spinto fino alla
presenza di sole vestigia ossee (credit: reptilesofaustralia)
Oltre a fossili viventi come la lucertola mostrata nella figura a fianco, l'unico indizio fossile del percorso evolutivo che ha portato ai serpenti attuali è la Najash rionegrina, un estinto rettile scavatore in cui era evidente l'osso sacro, l'elemento chiave dei tetrapodi.
Mancava però il fossile di transizione tra animali come le moderne lucertole e la Najash.
Nota. Due sono le teorie attuali, in contrasto tra loro, riguardo l'evoluzione dei serpenti. La prima ipotizza che derivino da animali marini spostatisi sulla terraferma, quindi già "quasi" privi di arti se non come vestigia ossee. La seconda teoria ipotizza invece che si siano evoluti da lucertole scavatrici adattatesi talmente bene alla vita nei cunicoli da avere perso ogni necessità degli arti. 
Si comprende meglio allora l'entusiasmo che la scoperta di un fossile vecchio di 113 milioni di anni di aspetto serpentiforme ma dotato di quattro zampe ha scatenato nel mondo dei paleobiologi; il ritrovamento ha infatti nel campo la stessa valenza che la scoperta dell'Australopithecus afarensis (noto ai più come Lucy) scatenò tra gli antropologi.
Ad essere onesti il fossile era stato portato alla luce alcuni decenni fa, ma nessuno allora si accorse dell'esistenza delle minuscole zampette, finendo così come reperto semi-dimenticato in una collezione privata. Questo fino al casuale riesame compiuto da David Martill, un paleobiologo dell'università di Portsmouth che dopo averne scoperto i mini arti lo ribattezzò Tetrapodophis amplectus, vale a dire "serpente a quattro zampe in grado di afferrare".
Dave Martill/University of Portsmouth cited in wired.uk

Il proto-serpente mostrato nella foto misura 20 centimetri ed è dotato di due arti anteriori di circa 1 cm, completi di gomito, polso e dita. Le zampe posteriori sono leggermente più grosse e lunghe. Il fossile ha un chiaro aspetto serpentiforme con un tronco allungato, coda corta e scaglie ventrali a supporto di una locomozione serpentina. Il cranio e le proporzioni del corpo, così come la riduzione delle vertebre sono anch'esse a supporto di un adattamento scavatore, tutti dati a sostegno dell'ipotesi di un antenato terrestre.
Anche il cranio del Tetrapodophis mostra che si tratta di un animale terrestre adatto a scavare privo degli adattamenti necessari per una vita acquatica. La presenza di denti orientati verso l'interno suggerisce anche che fosse un feroce predatore; a riprova delle sue abitudini carnivore la presenza nelle viscere del fossile di ossa derivanti dal suo ultimo pasto. Le sue tecniche predatorie sono incerte ma la struttura corporea rende possibile che avesse già al tempo capacità di catturare la preda avvolgendosi intorno e magari fermandola con i mini arti.

Secondo l'autore il fossile dimostra che quando, durante l'evoluzione, il proto-serpente "smise di camminare" (ovviamente una frase sintetica che riassume milioni di anni di processi adattativi), i suoi arti non divennero inutili vestigia ma furono probabilmente utilizzati oltre che per afferrare la preda anche per trattenere il partner durante l'accoppiamento

Il luogo del ritrovamento (Brasile) e l'età del fossile (Cretaceo inferiore) indicano nel supercontinente del Gondwana l'area in cui è avvenuta la transizione.

(articolo precedente sul tema --> "Reperti ossei dell'antenato dei serpenti")

Fonte
- A four-legged snake from the Early Cretaceous of Gondwana
David M. Martill et al, Science (2015) Vol. 349 no. 6246 pp. 416-419

Arrivato il vaccino contro il cancro che ha decimato il diavolo della Tasmania

In occasione dell'approvazione del vaccino contro il cancro contagioso che affligge il "diavolo della Tasmania" ripropongo in calce un articolo scritto nel lontano 2014.

I diavoli della Tasmania affetti da cancro riceveranno vaccini ispirati al COVID mentre il vaccino è stato approvato per i test
Tre decenni fa, la malattia del tumore facciale del diavolo (DFTD) emerse in Tasmania uccidendo da allora circa l’80% di questi marsupiali facendo temere che la stessa specie fosse sull'orlo dell'estinzione. Come descritto nell'articolo in calce, si tratta di un rarissimo esempio di cancro non solo mortale ma contagioso dovuto all'alta omogeneità genetica degli animali (evidente a livello del MHC-1); in soldoni se una cellula tumorale "aliena" entra in altro animale questi non la riconoscerà come estranea (distruggendola) ma come "self" lasciandole così tutto il tempo di proliferare e diffondersi.
Il vaccino funziona sulla falsariga di quello sviluppato da AstraZeneca e Johnson & Johnson, cioè basato sull'adenovirus (geneticamente modificato per impedirgli di moltiplicarsi) come vettore.
Dopo essere penetrato nelle cellule del diavolo della Tasmania, il vaccino DFTD induce la produzione di proteine presenti solo nelle cellule tumorali che diventano così utili "sparring partner" con cui il sistema immunitario impara a riconoscere e a distruggere (le cellule tumorali sono riconosciute come corpi estranei, quindi da distruggere).
L'autorizzazione all'inizio del test risale alla scorsa estate e prevede di usare 22 animali sani e in cattività: solo quelli che mostreranno di essere resistenti alla malattia e privi di residui virali del vaccino verranno rimessi in libertà aprendo la strada al trattamento di massa di quelli rimanenti.

Anche nei casi esiste un problema di tumori contagiosi. Vedi QUI il precedente articolo sul tema.

Fonte
Tasmanian devil cancer vaccine approved for testing
Nature (2023)



*** 02/'5/2014 ***
Un tumore infettivo minaccia il diavolo della Tasmania. Salvarlo si può

Obiettivo: salvare il diavolo della Tasmania.

Il piccolo mammifero australe fotografato a lato è sull'orlo dell'estinzione a causa di una malattia tumorale infettiva. Non spaventatevi dopo avere sentito la parola infettiva dato che l'infettività è estremamente specifica per questo animale ed è strettamente legata come vedremo alla ridottissima variabilità genetica delle popolazioni autoctone.
Cercherò di spiegarlo in modo abbastanza semplice. Un tumore altro non è che una la crescita sregolata (leggasi non più regolata dai sensori interni e da quelli tissutali) di cellule, perché mutate o riprogrammate da agenti esterni come virus o agenti chimici. In entrambi i casi non solo i segnali regolatori intrinseci e locali che segnalano quando e quanto dividersi o differenziarsi non verranno più "ascoltati" ma viene persa la capacità delle cellule danneggiate di "suicidarsi" (meccanismo noto come apoptosi). Risultato? L'accumulo di cellule sempre più mutate e non responsive che generano tessuti disorganizzati e invasivi, i tumori.

Salviamo il diavoletto (link)
La meravigliosa efficienza dei sistemi biologici fa si che queste anomalie siano rare in quanto gran parte di esse viene eliminata dai sistemi di controllo. Tuttavia ogni organismo multicellulare complesso (come i vertebrati) producono nel corso dell'esistenza un numero incredibilmente alto di cellule; quindi per quanto rari siano i fenomeni questi possono apparire. 
Ogni giorno in ognuno di noi compaiono cellule mutate che cominciano a comportarsi in modo anomalo ma di cui non ci accorgiamo dato che vengono prontamente identificate e distrutte, anche, dal nostro sistema immunitario; non tutti sanno infatti che le cellule immunitarie svolgono non solo compiti di pattugliamento contro invasioni esterne ma anche di verifica di anomalie nei codici identificativi di ciascuna cellula. In pratica è come se le cellule immunitarie controllassero in continuo i pass di tutte le cellule con cui vengono in contatto. Quando la cellula mutata appare normale ai controllori essa è ovviamente invisibile per cui sfugge alla cernita; analogamente quando il numero di cellule anomale eccede la capacità del sistema di controllo un certo numero di queste sfuggirà alla eliminazione. 
In modo non molto diverso negli individui affetti da AIDS (che come è noto sviluppano tumori come il sarcoma di Kaposi estremamente rari nella popolazione sana) la costante diminuzione del numero di linfociti, oltre ad esporre a infezioni opportuniste, rende il controllo interno sempre meno efficace.

In tutti i casi sopra descritti un tumore anche se invisibile al sistema immunitario del portatore non potrà mai essere trasmesso ad un'altra persona (o animale) immunitariamente integra dato che la cellula verrebbe immediatamente identificata come estranea (non self) e distrutta. Su quanto sia efficace questo controllo pensate alle reazioni di rigetto successive ad una trasfusione errata o dopo un trapianto eterologo in assenza di immunosoppressivi.
Questo discorso è valido fino a che organismo donatore e ricevente sono geneticamente distanti. In una popolazione geneticamente omogenea le reazioni di rigetto diventerebbero tanto più deboli tanto maggiore è l'omogeneità. Come potrebbe del resto il sistema immunitario capire in queste condizioni se una cellula è self o non-self?
Una elevata omogeneità genetica è quindi un pre-requisito per l'esistenza stessa dei tumori infettivi; non è un caso se i tumori infettivi (ma NON quelli secondari legati ad infezioni di virus come HTLV e HIV) sono stati descritti solo in razze canine altamente auto-incrociate e, appunto, nel diavolo della Tasmania.
Nei cani l'esempio classico è quello del Canine transmissible venereal tumour (CTVT), il tumore più vecchio in assoluto dato che non compare spontaneamente (se non a bassissima frequenza) ma viene trasmesso da millenni da un animale all'altro (si stima che tale tumore abbia di fatto 2500 anni --> Murchison et al, Science (2014)). Nel caso del diavolo della Tasmania è più difficile, essendo meno studiato, stabilire con certezza l'età di questo tumore ma le cause e la modalità di trasmissione sono identici (accoppiamenti o preliminari).
Se nel caso del cane l'alta omogeneità genetica è stata in larga parte causata dall'uomo, nel caso del diavolo della Tasmania le cause sono duplici: una popolazione non sufficientemente ampia da permettere la presenza di una ampia variabilità e una localizzazione geografica limitata che accentua il problema della scarsa popolazione. Ma se si trattasse di tumori interni (ad esempio fegato o pancreas) i problemi sarebbero relativi, al più si avrebbe un aumento dell'incidenza tumorale senza le problematiche legate alla trasmissione reciproca. Purtroppo il tumore che sta dilagando nei diavoli della Tasmania è localizzato su mucose e zone esterne (Devil facial tumour disease - DFTD) come volto e genitali, aree di frequente contatto sia nell'identificazione reciproca che nell'accoppiamento. Non stupisce quindi la vera e propria epidemia che ha decimato l'85 per cento della popolazione di questi mammiferi dal momento della comparsa del tumore nel 1996. Il semplice contatto favorisce il passaggio di un numero anche limitatissimo di cellule che se in grado di entrare nei tessuti sottostanti (ad esempio a causa di abrasioni) non incontrerà più alcuna restrizione alla sua proliferazione.

Esempio di tumore su questi poveri animali
(©wikipedia)
Uno zoo americano in collaborazione con una università australiana si è messo in moto per cercare di salvare il diavolo della Tasmania attraverso la reintroduzione locale di individui sani tra quelli presenti all'estero. Un'impegno urgente dato che si prevede l'estinzione della specie allo stato selvatico entro 25 anni.
Il progetto diviso in diverse fasi vedrà dapprima la reintroduzione di 50 animali su Maria Island, un isola al largo della costa orientale della Tasmania. Il gruppo sarà seguito con attenzione (anche con gps e chip), tanto quanto lo sarebbe in uno zoo, in modo da favorire i sani stimolare la diversità genetica.



Forza diavoletto, facciamo il tifo per te!
Il simpatico diavolo della Tasmania rivisitato dalla ®Warner Bros (all credit to: giphy.com)
***
Aggiornamento (agosto 2015)
  • L'analisi genomica dei tumori ha confermato l'origine clonale dei tumori.
  • Il profilo trascrizionale (cioè i geni attivi) mostra che il tumore è originato da una cellula di Schwann.



Fonti e link
-  America and Australia in partnership to save the Tassie devil
University of Sidney, news
- Pagina facebook del programma Save the Tasmanian Devil
- Diavoli della Tasmania su wikipedia.


Tardigradi fossili nell'ambra vecchia di 16 milioni di anni


Image Credit: NJIT/Harvard

I tardigradi sono animaletti microscopici, noti anche come orsi d'acqua, famosi per la resistenza alle condizioni più estreme e non è un eufemismo considerando che sono sopravvissuti all'esterno della Stazione Spaziale Internazionale
Quando le condizioni diventano proibitive i tardigradi si "trasformano" in una palla disidratata, entrando in uno stato di animazione sospesa, noto come criptobiosi, in cui il metabolismo è messo in pausa. Possono rimanere in questo stato fino a che le condizioni tornano favorevoli come ben esemplificato dai tardigradi rimasti congelati per 30 anni nel muschio antartico.

Ma per quanto sia duro a morire (altro che il Willis di Die Hard) e di antico lignaggio (ben prima della caduta dei dinosauri), la vera impresa è trovare un suo fossile. Ad oggi ne sono stati trovati solo due (entrambi risalenti al Cretaceo) pur essendo presenti in quasi ogni habitat in cui sia presente acqua.

Notizia importante quindi il ritrovamento nell'ambra vecchia 16 milioni di anni di un terzo fossile completamente preservato. Lo studio è apparso poche settimane fa su Proceedings of the Royal Society B
La dimensione microscopica certo non aiuta nella loro ricerca. Non a caso il nuovo ritrovamento si trovava in una inclusione nascosta nell'angolo di un pezzo di ambra che conteneva tre diverse specie di formiche (vedi la figura in apertura). Non ci si è accorti per mesi che dentro il campione c'era anche un tardigrado.
L'esemplare scoperto è il fossile meglio conservato, con dettagli a livello del micrometro dell'apparato boccale e degli artigli aghiformi, 30 volte più sottili di un capello umano. Lo studio si è avvalso di microscopia confocale laser a fluorescenza (una tecnica utilizzata in biologia cellulare, e non in paleontologia).

I corpi microscopici non biomineralizzati dei tardigradi si prestano alla conservazione nell'ambra  (un derivato della resina), che permea e protegge mini e microorganismi, batteri compresi, dall'usura del tempo.

Il fossile, per quanto simile alle specie oggi esistenti (almeno 1300 quelle note) ha caratteristiche uniche nella parte anteriore dell'apparato digerente, sufficienti per definire un nuovo genere.


Uno studio pubblicato pochi giorni fa ha analizzato nel dettaglio il genoma di varie specie di tardigradi cercando di trovare i geni responsabili di alcune delle loro (di alcuni di loro) peculiarità come la resistenza al disseccamento.



Fonte
- A tardigrade in Dominican amber
Marc A. Mapalo et al, (2021) Proceedings of the Royal Society B

- The Evolution of Temperature and Desiccation-Related Protein Families in Tardigrada Reveals a Complex Acquisition of Extremotolerance
JF Fleming et al, (2024) Genome Biology and Evolution. Volume 16, Issue 1

Esempio di un insetto preservato nell'ambra vecchia insetto ambra 40 milioni di anni
(image: Levon Biss)


Una potente droga psichedelica "spegne" i sintomi dello stress post-traumatico

Le droghe psichedeliche come l'MDMA e la psilocibina, il composto allucinogeno presente nei funghi magici, sono da qualche tempo sotto i riflettori per il loro potenziale terapeutico in psichiatria.
Vedi in proposito articoli sul blog come "Rave party, sballo chimico e terapia depressione"
Ora, un piccolo studio condotto su veterani affetti da stress post-traumatico (PTSD) suggerisce che un potente, ma poco studiato, farmaco psichedelico chiamato ibogaina potrebbe trovare impiego per i danni conseguenti a traumi cerebrali (TBI). In estrema sintesi i veterani che si sono sottoposti in autonomia al trattamento hanno mostrato una riduzione dei sintomi di oltre l’80%.

L'articolo, pubblicato su Nature Medicine, ha tuttavia dei forti limiti dovuti sia alle procedure osservazionali che al limitato numero di soggetti coinvolti, oltre alla mancanza di un gruppo di controllo.

L'ibogaina è ricavata dalla corteccia di un arbusto (Tabernanthe iboga) originario dell'Africa centrale, dove viene utilizzato per scopi rituali. Del meccanismo di azione della molecola si sa poco essendo sottoposta a forte controllo in molti paesi e come tale un problema per i ricercatori; a questo si aggiunge il rischio legato a a irregolarità fatali del battito cardiaco. Ad oggi è principalmente usata nella terapia della dipendenza e astinenza da oppioidi.
La mancanza di terapie universali per i pazienti affetti da PTSD ha riportato l'interesse per l’ibogaina.
Uno dei ricercatori coinvolti nello studio aveva sentito parlare di veterani che cercavano l'ibogaina per attenuare i sintomi del trauma cranico (di tipo cognitivo e fisico) seguendone alcuni per monitorare gli effetti da loro sperimentati dopo l'assunzione della droga in una struttura in Messico, dove l'uso del farmaco non era soggetto a restrizioni. Importante sottolineare che i ricercatori non hanno avuto alcun ruolo nella somministrazione del farmaco ma hanno solo registrato i resoconti dei fruitori. A scopo precauzionale i partecipanti hanno ricevuto un integratore di magnesio insieme alla sostanza psichedelica per minimizzare il rischio di effetti collaterali cardiaci.

Un mese dopo il trattamento, i partecipanti mostravano una riduzione media dell’88% dei sintomi di disturbo da stress post-traumatico, dell’87% dei sintomi della depressione e dell’81% dei sintomi dell’ansia. In media, i partecipanti presentavano una disabilità da lieve a moderata prima del trattamento, che scompariva nel mese successivo, come valutato da un sondaggio sulle loro capacità cognitive, mobilità e altre funzioni.

Nessuno dei partecipanti ha manifestato effetti collaterali cardiaci. Lo studio rientra nella tipologia “prova del concetto” sul potenziale del farmaco. Il passo successivo sarà studiare se il farmaco può conferire un beneficio a lungo termine e utilizzare neuroimaging e biomarcatori per valutare come funziona il farmaco.

Gli unici dati in tal senso oggi disponibili vengono da studi sui topi in cui si è dimostrato che l'ibogaina potrebbe riaprire temporaneamente un "periodo critico" (nome dato alle finestre temporali normalmente osservate durante lo sviluppo iniziale in cui il sistema nervoso è particolarmente malleabile). La ibogaina mantiene il periodo critico per almeno quattro settimane, rispetto alle due settimane osservate con una droga simile, psilocibina, ottenuta da funghi allucinogeni.

Dato lo stadio più che preliminare dello studio è verosimile che MDMA e psilocibina, in fase avanzata di sperimentazione, siano candidati migliori nel breve termine mentre l'ibogaina richiederà anni di studio per determinarne l'efficacia e la sicurezza.

Articolo su temi correlati "Farmaci psichedelici e meccanismi ignoti"

Fonte
Magnesium–ibogaine therapy in veterans with traumatic brain injuries
Kirsten N. Cherian et al, (2024) Nature Medicine


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