tag:blogger.com,1999:blog-79739589462671300012024-03-16T02:10:51.525+01:00Above the Cloud"Too much information is even worse than no information at all," mi disse un saggio. Io voglio correggere questo detto cercando di recuperare dalla "nuvola" scientifica (life sciences & astronomia in primis) alcune fra le notizie più interessanti ma sconosciute ai più, a causa dell'appiattimento dei media generalisti sulle stesse identiche notizie di agenzia.The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.comBlogger1065125tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-37351310204789510172024-03-08T14:03:00.006+01:002024-03-08T16:01:27.443+01:00La mutazione che ci fece perdere la coda<div style="text-align: justify;">Chi ha passato la giovinezza a fare ricerca come cacciatore di geni prima che il Progetto Genoma fosse concluso, fornendo un “indirizzario” preciso dei geni presenti in specifiche aree cromosomiche, si sarà scontrato innumerevoli volte con sequenze ripetute della classe Alu che sembravano onnipresenti tra i dati ottenuti. Sequenze da sempre definite come conseguenza dell’abbondanza del cosiddetto DNA spazzatura (alias una parte del DNA non codificante che è la maggioranza del genoma).</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCFgwKRtRz9Mxy_k6kFCVnDBbbOe1BH8FR2JB5sT-dvukAElrbgP_yM0RzQTJNXFpgXh192vrNMwQl9bsI1IzcuaD5tnfGkTFGPS3-zlA1pXX2Emchv9v0tlUan_ATEDhadU-mlHDckUF-cTc3brpKNRqizQOZBvCr9cqWcUYQzWKwd5U2yyN0lQel/s1024/Alu+sequence.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="768" data-original-width="1024" height="371" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCFgwKRtRz9Mxy_k6kFCVnDBbbOe1BH8FR2JB5sT-dvukAElrbgP_yM0RzQTJNXFpgXh192vrNMwQl9bsI1IzcuaD5tnfGkTFGPS3-zlA1pXX2Emchv9v0tlUan_ATEDhadU-mlHDckUF-cTc3brpKNRqizQOZBvCr9cqWcUYQzWKwd5U2yyN0lQel/w495-h371/Alu+sequence.jpg" width="495" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La sequenza Alu</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Le sequenze ripetute costituiscono la quasi totalità di aree come i centromeri e i telomeri ma possono trovarsi anche negli introni genici o negli spazi intergenici.</div><div style="text-align: justify;">Alcune di queste sequenze hanno la particolarità di essere dei discendenti di antichi retrovirus non più funzionali, risultato di un evento di integrazione malriuscito e privi di ogni informazione per la sintesi di involucri virali. Molti di questi hanno però mantenuto la capacità di “riprodurre” la propria sequenza in autonomia (grazie alla capacità di codificare la trascrittasi inversa - assente nelle cellule eucariote) ricreando sequenze di DNA dai trascritti generati dalla RNA pol della cellula; <a href="https://www.nature.com/scitable/topicpage/functions-and-utility-of-alu-jumping-genes-561" target="_blank">sequenze che poi saltano in altri siti cromosomici</a>.</div><div style="text-align: justify;">Un tempo, come detto, si sarebbe catalogate queste sequenze come DNA spazzatura. Oggi si sa che queste hanno avuto un ruolo importante nell’evoluzione (anche umana) facilitando la comparsa di mutazioni/alterazioni DNA, alcune delle quali sono state selezionate positivamente. Non si tratta invero di soli fenomeni multigenerazionali, ma pare essere un <a href="https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2022.03.20.485017v2.full" target="_blank">evento frequente durante la maturazione neuronale nell’embrione</a>.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Potremmo quindi considerare la comparsa ed evoluzione di (alcune) sequenze ripetute come una endosimbiosi estrema in cui un retrovirus ancestrale** ha dismesso la capacità di generare particelle virali in cambio di un trasporto “gratis” nei cromosomi dell’ospite fornendo all’ospite un acceleratore evolutivo.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">A dimostrazione dell’importanza di queste sequenze nell’evoluzione umana, un articolo pubblicato recentemente su Nature in cui si correla uno di questi “salti” intragenomici delle sequenze Alu con il processo di perdita della coda nel primate diretto antenato degli umani.</div><div style="text-align: justify;"></div><blockquote><div style="text-align: justify;"><b>Nota</b>. Le sequenze Alu, prive della capacità di codificare per la trascrittasi inversa, si affidano a quella codificata da un altro trasposone noto come L1. Chiaramente per essere compatibili con una minima staticità genomica questi eventi non possono essere frequenti; si stima che compare un nuovo inserto Alu trasmissibile (quindi presente nelle cellule germinali) ogni 200 nascite.</div><div style="text-align: justify;">**Le sequenze Alu (presenti unicamente nei primati) si calcola siano comparse 65 milioni di anni fa. In questo lasso di tempo sono aumentate da 1 copia a circa 1 milione di copie sparse nel genoma.</div></blockquote><div style="text-align: justify;">Come detto, la maggior parte di questi salti intragenomici non hanno avuto alcun effetto in quanto avvenuti in aree non codificanti (la maggior parte). Ogni tanto però capitava che non solo il salto avveniva dentro un gene ma in un esone, alterando (o distruggendo) la funzionalità di quel gene. Va da sé che se il gene aveva un ruolo cruciale, il salto “incauto” si autoestingueva. Uno di questi salti avvenne all’interno del gene <b><a href="https://www.genecards.org/cgi-bin/carddisp.pl?gene=TBXT" target="_blank">TBXT</a></b>, codificante per un fattore di trascrizione coinvolto nello sviluppo della coda (nei topi mutazioni geniche causano la formazione di una coda corta).</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiFDsQk7LhM8QtzAqaxWMfR82lahqLitKsu2jaVl3J5x03syFTMtg-T0xUqoEvA9yMvCSoZ5A6NPNtCyI7o9LAme1Hd0D9bJHU9wwQu5azqwwQxtoXCNElnCRh3Jkg_EKYxwQTYShRfmjL_xXnIxeyUWwFblcITEE1d9WBMCmESPPYtP91mzPq2PHy9/s1500/inthemedia-genetic-study-humans-no-longer-have-tails.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="682" data-original-width="1500" height="281" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiFDsQk7LhM8QtzAqaxWMfR82lahqLitKsu2jaVl3J5x03syFTMtg-T0xUqoEvA9yMvCSoZ5A6NPNtCyI7o9LAme1Hd0D9bJHU9wwQu5azqwwQxtoXCNElnCRh3Jkg_EKYxwQTYShRfmjL_xXnIxeyUWwFblcITEE1d9WBMCmESPPYtP91mzPq2PHy9/w620-h281/inthemedia-genetic-study-humans-no-longer-have-tails.jpg" width="620" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La separazione tra primati con e senza coda</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">All’incirca 25 milioni di anni fa una sequenza Alu si integrò all’interno di questo gene causando la perdita dell’esone 6 e con essa una funzione alterata della proteina che pur rimanendo funzionale (la sua scomparsa provoca morte embrionale) ebbe come conseguenza la scomparsa della coda nella linea evolutiva che avrebbe portato a oranghi, gibboni, scimpanzé, gorilla e umani. La discendenza è stata verosimilmente in grado di sopportare tale deficit (rispetto a cugini arboricoli che necessitano della coda) in quanto linea già indirizzata verso una locomozione sul terreno</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEho9evOpQ9D6a2V8Z6gd-iDgkEbb80QeAg56F7b2Y7StRkTk5fyWxL0P4_LEtXX4QqOW2av7VdCGO5c6XPMfqToHPUO2f087TsyZIajvcrYEtyhgYx-yhyphenhyphenJSoesXuUvUi4ugLb02Nsoco5oo6h6m-HUs4vPN9ZXiiA2rzj5xRdEtfcSuti98M3q6aHj/s850/Fig-S8-A-model-for-tail-loss-evolution-in-the-early-hominoids-The-AluY-insertion-in.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="265" data-original-width="850" height="186" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEho9evOpQ9D6a2V8Z6gd-iDgkEbb80QeAg56F7b2Y7StRkTk5fyWxL0P4_LEtXX4QqOW2av7VdCGO5c6XPMfqToHPUO2f087TsyZIajvcrYEtyhgYx-yhyphenhyphenJSoesXuUvUi4ugLb02Nsoco5oo6h6m-HUs4vPN9ZXiiA2rzj5xRdEtfcSuti98M3q6aHj/w596-h186/Fig-S8-A-model-for-tail-loss-evolution-in-the-early-hominoids-The-AluY-insertion-in.png" width="596" /></a></div><div><br /></div><div><b>Fonte</b></div><div>- On the genetic basis of tail-loss evolution in humans and apes</div><div>Bo Xia et al, <a data-test="journal-link" data-track-action="journal homepage" data-track-category="article body" data-track-label="link" data-track="click" href="https://www.nature.com/" style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #006699; font-family: -apple-system, "system-ui", "Segoe UI", Roboto, Oxygen-Sans, Ubuntu, Cantarell, "Helvetica Neue", sans-serif; font-size: 16px; overflow-wrap: break-word; text-decoration-skip-ink: auto; text-decoration-thickness: 0.25rem; text-underline-offset: 0.08em; vertical-align: baseline; word-break: break-word;"><i data-test="journal-title" style="box-sizing: inherit;">Nature</i></a><span face="-apple-system, "system-ui", "Segoe UI", Roboto, Oxygen-Sans, Ubuntu, Cantarell, "Helvetica Neue", sans-serif" style="background-color: white; color: #222222; font-size: 16px;"> </span>volume 626, pages1042–1048 (2024)</div><div><br /></div><div style="text-align: center;">***</div><div style="text-align: center;"><br /></div><div style="text-align: center;"><br /></div><div>Libro sull'evoluzione umana del bravo Telmo Plevani</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://amzn.to/3T98wNV" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1364" data-original-width="1000" height="400" src="https://m.media-amazon.com/images/I/614R2xOL7HL._SL1364_.jpg" width="293" /></a></div><br /><div><br /></div><div>Se avete nostalgia della coda ... non c'è bisogno di cancellare le mutazioni acquisite durante l'evoluzione. Basta questa aggiunta disponibile su Amazon</div><div>:-D</div><div><br /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://amzn.to/3v5Ua8X" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="966" data-original-width="1001" height="353" src="https://m.media-amazon.com/images/I/61HJtZqp5AL._AC_SL1001_.jpg" width="366" /></a></div><br /><div><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-57295350440099188262024-02-26T17:26:00.003+01:002024-02-26T17:26:22.336+01:00Diagnosi precoce della demenza con un esame del sangue<div style="text-align: justify;"><b>Diagnosi precoce della demenza: le proteine del sangue rivelano le persone a rischio</b></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Lo studio di fattibilità è stato recentemente pubblicato sulla rivista <i>Nature Aging</i>.</div><div style="text-align: justify;">Non si tratta, beninteso, di un risultato definitivo ma a suo favore una analisi condotta su un ampio campione di individui e su un migliaio di proteine ematiche alla ricerca di molecole candidate ad essere fattore prognostici.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://www.fondazioneveronesi.it/uploads/thumbs/2021/03/15/alzheimer-test-sangue_thumb_720_480.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="480" data-original-width="711" height="216" src="https://www.fondazioneveronesi.it/uploads/thumbs/2021/03/15/alzheimer-test-sangue_thumb_720_480.jpg" width="320" /></a></div><div style="text-align: justify;">L'indagine ha una importanza doppia in quanto cerca di trovare rimedio ad un doppio problema, cioè l'assenza di esami che possano prevedere l'insorgenza della malattia (prima che i sintomi compaiano) e un limite intrinseco allo sviluppo di farmaci efficaci.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Quando compaiono i sintomi i danni cerebrali sono già molto estesi (per capirci, nel caso del Parkinson i sintomi compaiono quando più dell'80% dei neuroni dopaminergici sono morti) il che rende impossibile testare farmaci preventivi essendo il danno irreversibile.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Scopo dello studio era identificare biomarcatori ematici rilevabili in soggetti sani che poi, a distanza di anni, avrebbero sviluppato demenza.</div><div style="text-align: justify;">Nello specifico l'analisi è stata fatta su 1463 proteine ematiche da 52645 adulti i cui campioni erano già disponibili nella <a href="https://www.ukbiobank.ac.uk" target="_blank">biobanca del Regno Unito</a>, valutando poi quei soggetti (1417) che nei successivi 14 anni mostrarono i sintomi della malattia.</div><div style="text-align: justify;">In particolare, si trovò che l'elevato livello ematico di quattro proteine – GFAP, NEFL, GDF15 e LTBP2 – era più elevato già dieci anni prima della comparsa dei sintomi.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>La GFAP, una proteina che fornisce supporto strutturale ad una classe di cellule nervose chiamate astrociti, era già stata proposta come marcatore diagnostico per la malattia di Alzheimer. Discorso simile per la GDF15.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">I dati indicano che le persone con alti livelli di GFAP nel sangue hanno più del doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alle persone con livelli normali e hanno quasi tre volte più probabilità di sviluppare l'Alzheimer.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Importante è stato l'utilizzo di modelli di apprendimento automatico per progettare algoritmi predittivi, combinando i livelli dei quattro biomarcatori proteici con fattori demografici quali età, sesso, livello di istruzione e storia familiare. Il modello ha previsto l’incidenza di tre sottotipi di demenza, compreso il morbo di Alzheimer, con <u>una precisione di circa il 90%</u>.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>Plasma proteomic profiles predict future dementia in healthy adults</i></div><div style="text-align: justify;"><a href="https://www.nature.com/articles/s43587-023-00565-0" target="_blank">Guo, Y. et al</a>. Nature Aging (2024)</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-17089336380696224832024-02-03T15:42:00.002+01:002024-02-03T15:42:34.191+01:00La genetica di come i serpenti hanno perso le zampe<div style="text-align: justify;">Come i serpenti siano diventati tali (a partire da un vertebrato con zampe) è ancora frutto di ipotesi. Non tanto riguardo all'effettiva realtà di questa evoluzione (reperti fossili sono noti) ma sulle mutazioni che hanno reso possibile la regressione degli arti fino a farli scomparire del tutto o all'essere evidenti solo dopo accurata analisi (<a href="https://www.amnh.org/exhibitions/darwin/evolution-today/how-do-we-know-living-things-are-related/vestigial-organs#:~:text=Pythons%20and%20boa%20constrictors%20have,the%20evolutionary%20histories%20of%20species." target="_blank">boa e pitoni hanno arti vestigiali</a>) </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">A fare luce sulla questione arriva ora un ampio studio con l'analisi genetica (e comparativa) tra 14 specie di serpenti (appartenenti a 12 famiglie) confrontati poi con i dati di altre 11 specie precedentemente analizzate. Un campione scelto accuratamente in modo da abbracciare 150 milioni di anni della loro evoluzione</div><div style="text-align: justify;">Lo studio è stato pubblicato lo scorso anno su <i>Cell</i>.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L'analisi ha evidenziato una alterazione comune a tutte le specie del gene PTCH1, coinvolto nello sviluppo degli arti. La prova del nove è stata quella di introdurre lo stesso tipo di mutazioni nell’equivalente murino di quel gene. Il risultato sono stati topi cone le ossa delle zampe molto più corte.</div><div style="text-align: justify;">Tra i dati emersi anche le possibili (con)cause della bassa capacità visiva e la riprogrammazione degli organi uditivi dei serpenti innescata verosimilmente dalla vita sotterranea dei serpenti primitivi (in un modo dominato dai dinosauri). In questo caso si è tratto di mutazioni che hanno diminuito (o spento) l'attività di alcuni geni. Ad esempio la diminuita attività dei geni associati alla capacità di sentire le alte frequenze potrebbe aver portato alla riconfigurazione delle ossa dell’orecchio dei rettili, rendendoli molto più sensibili alle vibrazioni. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Ultima (si fa per dire data la mole del lavoro svolto) scoperta riguarda le mutazioni dei geni DNAH11 e FOXJ1, coinvolti nello sviluppo simmetrico dell'embrione, che spiegano la netta riduzione volumetrica (o anche scomparsa) del loro polmone sinistro</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il lavoro rappresenta un passo avanti non solo verso l’identificazione dei geni chiave nello sviluppo dei serpenti, ma anche verso l’individuazione di come lo sviluppo modella altri vertebrati, compresi gli esseri umani, e quindi l’identificazione di ciò che potrebbe andare storto e causare malattie o malformazioni.</div><div style="text-align: center;"><blockquote>In calce un articolo pubblicato nel 2015 sull'antenato "zampato" del serpente</blockquote></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- Large-scale snake genome analyses provide insights into vertebrate development</div><div style="text-align: justify;"><a href="https://www.cell.com/cell/fulltext/S0092-8674(23)00582-2" target="_blank">Changjun Peng et al</a>, (2023) Cell </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">***</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;"><b><span style="font-size: medium;">L'antenato a quattro zampe del serpente</span></b></div><div style="text-align: justify;">Spesso ci si dimentica che anche i serpenti sono <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Tetrapoda" target="_blank">tetrapodi</a> come noi e quindi hanno un antenato a quattro zampe.<br /><br /><div style="text-align: left;"></div> Trovare però l'anello di congiunzione tra la linea principale dei rettili (con arti visibili) e il sottordine dei Serpentes (in cui gli arti sono visibili come vestigia ossee) è tutt'altro che banale.<br /><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_wxHQAAE-2ctSfr_-ICyRUhxApBEd5w56RG496kivbyVY3WtVpkmbMYG-gBYHNWAYwSH0MfmYCkN9UYNermUlxrmB0niVq-rhOjh11_fHwj4kv0wyB8y_be8UKtNHkedGtXofjcgP/s1600/hemquadBMcGrane.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="714" data-original-width="828" height="341" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_wxHQAAE-2ctSfr_-ICyRUhxApBEd5w56RG496kivbyVY3WtVpkmbMYG-gBYHNWAYwSH0MfmYCkN9UYNermUlxrmB0niVq-rhOjh11_fHwj4kv0wyB8y_be8UKtNHkedGtXofjcgP/s400/hemquadBMcGrane.jpg" width="400" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption">Hemiergis quadrilineatum, un rettile australiano in cui sono ancora evidenti<br />arti oramai "inutili". Nei serpenti il processo di riduzione si è spinto fino alla<br />presenza di sole vestigia ossee (credit: <a href="http://reptilesofaustralia.com/lizards/skinks/hquadrilineatum.html#.VkBj6HsYx9h">reptilesofaustralia</a>)</td></tr></tbody></table>Oltre a fossili viventi come la lucertola mostrata nella figura a fianco, l'unico indizio fossile del percorso evolutivo che ha portato ai serpenti attuali è la <i><a class="mw-redirect" href="http://www.newcritters.com/wp-content/uploads/2006/05/snakelegs2.jpg" target="_blank" title="Najash rionegrina">Najash rionegrina</a></i>, un estinto rettile scavatore in cui era evidente l'osso sacro, l'elemento chiave dei tetrapodi.<br />Mancava però il fossile di transizione tra animali come le moderne lucertole e la Najash.<br /><blockquote class="tr_bq"><b>Nota</b>. Due sono le teorie attuali, in contrasto tra loro, riguardo l'evoluzione dei serpenti. La prima ipotizza che derivino da animali marini spostatisi sulla terraferma, quindi già "quasi" privi di arti se non come vestigia ossee. La seconda teoria ipotizza invece che si siano evoluti da lucertole scavatrici adattatesi talmente bene alla vita nei cunicoli da avere perso ogni necessità degli arti. </blockquote>Si comprende meglio allora l'entusiasmo che la scoperta di un fossile vecchio di 113 milioni di anni di aspetto serpentiforme ma dotato di quattro zampe ha scatenato nel mondo dei paleobiologi; il ritrovamento ha infatti nel campo la stessa valenza che la scoperta dell'<a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Australopithecus_afarensis"><i>Australopithecus afarensis</i></a> (noto ai più come Lucy) scatenò tra gli antropologi.<br />Ad essere onesti il fossile era stato portato alla luce alcuni decenni fa, ma nessuno allora si accorse dell'esistenza delle minuscole zampette, finendo così come reperto semi-dimenticato in una collezione privata. Questo fino al casuale riesame compiuto da <b>David Martill</b>, un paleobiologo dell'università di Portsmouth che dopo averne scoperto i mini arti lo ribattezzò <i>Tetrapodophis amplectus</i>, vale a dire "<i>serpente a quattro zampe in grado di afferrare</i>".<br /><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td><a href="https://1.bp.blogspot.com/-8mOAWXHPdEo/WmXSEH8xPcI/AAAAAAAAFwQ/iPvTn9umTvo1dtzlItWqztOs5Y45SczuwCLcBGAs/s1600/XHjIR_NdMaVcZMSvAX6jkuFaWV9KES1CCauohqRggy9RLow9NsZ4IAHMi-MvMfORvsKCgubpOC_KqtTUIQZPVq9y4pKt6Tix6Phti59OJiLz%253Ds0-d.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="413" data-original-width="620" height="213" src="https://1.bp.blogspot.com/-8mOAWXHPdEo/WmXSEH8xPcI/AAAAAAAAFwQ/iPvTn9umTvo1dtzlItWqztOs5Y45SczuwCLcBGAs/s320/XHjIR_NdMaVcZMSvAX6jkuFaWV9KES1CCauohqRggy9RLow9NsZ4IAHMi-MvMfORvsKCgubpOC_KqtTUIQZPVq9y4pKt6Tix6Phti59OJiLz%253Ds0-d.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption"><span class="image-credits">Dave Martill/University of Portsmouth cited in wired.uk</span></td></tr></tbody></table><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"></div>Il proto-serpente mostrato nella foto misura 20 centimetri ed è dotato di due arti anteriori di circa 1 cm, completi di gomito, polso e dita. Le zampe posteriori sono leggermente più grosse e lunghe. Il fossile ha un chiaro aspetto serpentiforme con un tronco allungato, coda corta e scaglie ventrali a supporto di una locomozione serpentina. Il cranio e le proporzioni del corpo, così come la riduzione delle vertebre sono anch'esse a supporto di un adattamento scavatore, tutti dati a sostegno dell'ipotesi di un antenato terrestre.<br />Anche il cranio del Tetrapodophis mostra che si tratta di un animale terrestre adatto a scavare privo degli adattamenti necessari per una vita acquatica. La presenza di denti orientati verso l'interno suggerisce anche che fosse un feroce predatore; a riprova delle sue abitudini carnivore la presenza nelle viscere del fossile di ossa derivanti dal suo ultimo pasto. Le sue tecniche predatorie sono incerte ma la struttura corporea rende possibile che avesse già al tempo capacità di catturare la preda avvolgendosi intorno e magari fermandola con i mini arti.<br /><br />Secondo l'autore il fossile dimostra che quando, durante l'evoluzione, il proto-serpente "<i>smise di camminare</i>" (ovviamente una frase sintetica che riassume milioni di anni di processi adattativi), i suoi arti non divennero inutili vestigia ma furono probabilmente utilizzati oltre che per afferrare la preda anche per trattenere il partner durante l'accoppiamento<br /><br />Il luogo del ritrovamento (Brasile) e l'età del fossile (Cretaceo inferiore) indicano nel supercontinente del <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Gondwana" target="_blank">Gondwana</a> l'area in cui è avvenuta la transizione.<br /><br /><div style="text-align: center;">(articolo precedente sul tema --> <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/01/lantenato-del-serpente-reperti-ossei.html">"<i>Reperti ossei dell'antenato dei serpenti</i>"</a>)</div><br /><b>Fonte</b><br /><i>- A four-legged snake from the Early Cretaceous of Gondwana</i><br /><span style="font-size: x-small;"><a href="http://www.sciencemag.org/content/349/6246/416" target="_blank">David M. Martill et al</a>, Science (2015) Vol. 349 no. 6246 pp. 416-419</span></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-83789040301322649102024-02-01T16:47:00.001+01:002024-02-01T16:47:09.925+01:00Arrivato il vaccino contro il cancro che ha decimato il diavolo della Tasmania<div style="text-align: justify;">In occasione dell'approvazione del vaccino contro il cancro contagioso che affligge il "diavolo della Tasmania" ripropongo in calce un articolo scritto nel lontano 2014.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div><div style="text-align: justify;">I diavoli della Tasmania affetti da cancro riceveranno vaccini ispirati al COVID mentre il vaccino è stato approvato per i test</div><div style="text-align: justify;">Tre decenni fa, la malattia del tumore facciale del diavolo (DFTD) emerse in Tasmania uccidendo da allora circa l’80% di questi marsupiali facendo temere che la stessa specie fosse sull'orlo dell'estinzione. Come descritto nell'articolo in calce, si tratta di un rarissimo esempio di cancro non solo mortale ma contagioso dovuto all'alta omogeneità genetica degli animali (evidente a livello del <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/MHC-I4qEAxXC5gIHHeoaCsMQFnoECBwQAQ&url=https%3A%2F%2Fit.wikipedia.org%2Fwiki%2FMHC-I&usg=AOvVaw2hLkRE4xrFft2hBef1pt_X&opi=89978449" target="_blank">MHC-1</a>); in soldoni se una cellula tumorale "aliena" entra in altro animale questi non la riconoscerà come estranea (distruggendola) ma come "self" lasciandole così tutto il tempo di proliferare e diffondersi.</div><div style="text-align: justify;">Il vaccino funziona sulla falsariga di quello sviluppato da AstraZeneca e Johnson & Johnson, cioè basato sull'adenovirus (geneticamente modificato per impedirgli di moltiplicarsi) come vettore.</div><div style="text-align: justify;">Dopo essere penetrato nelle cellule del diavolo della Tasmania, il vaccino DFTD induce la produzione di proteine presenti solo nelle cellule tumorali che diventano così utili "sparring partner" con cui il sistema immunitario impara a riconoscere e a distruggere (le cellule tumorali sono riconosciute come corpi estranei, quindi da distruggere).</div><div style="text-align: justify;">L'autorizzazione all'inizio del test risale alla scorsa estate e prevede di usare 22 animali sani e in cattività: solo quelli che mostreranno di essere resistenti alla malattia e privi di residui virali del vaccino verranno rimessi in libertà aprendo la strada al trattamento di massa di quelli rimanenti.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">Anche nei casi esiste un problema di tumori contagiosi. Vedi <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2017/10/il-tumore-contagioso-nei-cani-origini-e.html" target="_blank">QUI</a> il precedente articolo sul tema.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Fonte</div><div style="text-align: justify;">- <i>Tasmanian devil cancer vaccine approved for testing</i></div><div style="text-align: justify;">Nature (2023)</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div><br /></div><div style="text-align: center;">*** 02/'5/2014 ***</div><div style="text-align: center;"><b><span style="font-size: medium;">Un tumore infettivo minaccia il diavolo della Tasmania. Salvarlo si può</span></b></div><div><br /></div><b>Obiettivo: salvare il diavolo della Tasmania.</b><br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://3.bp.blogspot.com/-KwRIWcyk5wI/WdtoSnlHZWI/AAAAAAAAFHM/-2gjemTe7_cB067cHFSZQ7-11_VLsEz4wCLcBGAs/s1600/tasdevilroadkillpage.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="250" data-original-width="231" height="200" src="https://3.bp.blogspot.com/-KwRIWcyk5wI/WdtoSnlHZWI/AAAAAAAAFHM/-2gjemTe7_cB067cHFSZQ7-11_VLsEz4wCLcBGAs/s200/tasdevilroadkillpage.jpg" width="184" /></a></div>
<div style="text-align: left;">
</div>
Il piccolo mammifero australe fotografato a lato è sull'orlo dell'estinzione a causa di una malattia tumorale infettiva. <b>Non spaventatevi dopo avere sentito la parola infettiva</b> dato che l'infettività è estremamente specifica per questo animale ed è strettamente legata come vedremo alla ridottissima variabilità genetica delle popolazioni autoctone. <br />
<div style="text-align: justify;">
Cercherò di spiegarlo in modo abbastanza semplice. Un tumore altro non è che una la crescita <i>sregolata</i> (leggasi non più regolata dai sensori interni e da quelli tissutali) di cellule, perché mutate o riprogrammate da agenti esterni come virus o agenti chimici. In entrambi i casi non solo i segnali regolatori intrinseci e locali che segnalano quando e quanto dividersi o differenziarsi non verranno più "ascoltati" ma viene persa la capacità delle cellule danneggiate di "suicidarsi" (meccanismo noto come apoptosi). Risultato? L'accumulo di cellule sempre più mutate e non responsive che generano tessuti disorganizzati e invasivi, i tumori.<br />
<br />
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: right; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://www.earthfirst.net.au/site/user-assets/blogimages/b_tasmaniandevil2.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="https://www.earthfirst.net.au/site/user-assets/blogimages/b_tasmaniandevil2.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Salviamo il diavoletto (<a href="https://dpipwe.tas.gov.au/wildlife-management/save-the-tasmanian-devil-program">link</a>)</td></tr>
</tbody></table>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: right;">
</div><div style="text-align: left;">La meravigliosa efficienza dei sistemi biologici fa si che queste anomalie siano rare in quanto gran parte di esse viene eliminata dai sistemi di controllo. Tuttavia ogni organismo multicellulare complesso (come i vertebrati) producono nel corso dell'esistenza un numero incredibilmente alto di cellule; quindi per quanto rari siano i fenomeni questi possono apparire. </div></div><div style="text-align: justify;">Ogni giorno in ognuno di noi compaiono cellule mutate che cominciano a comportarsi in modo anomalo ma di cui non ci accorgiamo dato che vengono prontamente identificate e distrutte, anche, dal nostro sistema immunitario; non tutti sanno infatti che <u>le cellule immunitarie svolgono</u> non solo compiti di <u>pattugliamento</u> contro invasioni esterne ma anche di <u>verifica di anomalie nei codici identificativi di ciascuna cellula</u>. In pratica è come se le cellule immunitarie controllassero in continuo i <i>pass</i> di tutte le cellule con cui vengono in contatto. Quando la cellula mutata appare normale ai controllori essa è ovviamente invisibile per cui sfugge alla cernita; analogamente quando il numero di cellule anomale eccede la capacità del sistema di controllo un certo numero di queste sfuggirà alla eliminazione. </div><div style="text-align: justify;">In modo non molto diverso negli individui affetti da AIDS (che come è noto sviluppano tumori come il sarcoma di Kaposi estremamente rari nella popolazione sana) la costante diminuzione del numero di linfociti, oltre ad esporre a infezioni opportuniste, rende il controllo interno sempre meno efficace.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: red;">In tutti i casi sopra descritti un tumore anche se invisibile al sistema immunitario del portatore <b>non potrà mai</b> essere trasmesso ad un'altra persona</span> (o animale) immunitariamente integra dato che la cellula verrebbe immediatamente identificata come estranea (non self) e distrutta. Su quanto sia efficace questo controllo pensate alle reazioni di rigetto successive ad una trasfusione errata o dopo un trapianto eterologo in assenza di immunosoppressivi.</div>
<div style="text-align: justify;">
Questo discorso è valido fino a che organismo donatore e ricevente sono geneticamente distanti. In una popolazione geneticamente omogenea le reazioni di rigetto diventerebbero tanto più deboli tanto maggiore è l'omogeneità. <span style="color: red;">Come potrebbe del resto il sistema immunitario capire in queste condizioni se una cellula è self o non-self</span>?</div>
<div style="text-align: justify;">
Una <span style="color: blue;">elevata omogeneità genetica è quindi un pre-requisito per l'esistenza stessa dei tumori infettivi</span>; non è un caso se i tumori infettivi (ma NON quelli secondari legati ad infezioni di virus come HTLV e HIV) sono stati descritti solo in razze canine altamente auto-incrociate e, appunto, nel diavolo della Tasmania.<br />
<blockquote class="tr_bq">
Nei cani l'esempio classico è quello del <i>Canine transmissible venereal tumour</i> (CTVT), il tumore più vecchio in assoluto dato che non compare spontaneamente (se non a bassissima frequenza) ma viene trasmesso da millenni da un animale all'altro (si stima che tale tumore abbia di fatto 2500 anni --> <a href="http://science.sciencemag.org/content/343/6169/437">Murchison et al, Science (2014)</a>). Nel caso del diavolo della Tasmania è più difficile, essendo meno studiato, stabilire con certezza l'età di questo tumore ma le cause e la modalità di trasmissione sono identici (accoppiamenti o preliminari).</blockquote>
Se nel caso del cane l'alta omogeneità genetica è stata in larga parte causata dall'uomo, nel caso del diavolo della Tasmania le cause sono duplici: una popolazione non sufficientemente ampia da permettere la presenza di una ampia variabilità e una localizzazione geografica limitata che accentua il problema della scarsa popolazione. Ma se si trattasse di tumori interni (ad esempio fegato o pancreas) i problemi sarebbero relativi, al più si avrebbe un aumento dell'incidenza tumorale senza le problematiche legate alla trasmissione reciproca. Purtroppo il tumore che sta dilagando nei diavoli della Tasmania è localizzato su mucose e zone esterne (<span class="st"><i>Devil facial tumour disease</i> - DFTD</span>) come volto e genitali, aree di frequente contatto sia nell'identificazione reciproca che nell'accoppiamento. Non stupisce quindi la vera e propria <u>epidemia che ha decimato l'85 per cento della popolazione di questi mammiferi</u> dal momento della comparsa del tumore nel 1996. Il semplice contatto favorisce il passaggio di un numero anche limitatissimo di cellule che se in grado di entrare nei tessuti sottostanti (ad esempio a causa di abrasioni) non incontrerà più alcuna restrizione alla sua proliferazione.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; text-align: right;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/99/Tasmanian_Devil_Facial_Tumour_Disease.png/220px-Tasmanian_Devil_Facial_Tumour_Disease.png" style="clear: right; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/99/Tasmanian_Devil_Facial_Tumour_Disease.png/220px-Tasmanian_Devil_Facial_Tumour_Disease.png" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Esempio di tumore su questi poveri animali<br />
(©wikipedia)</td></tr>
</tbody></table>
Uno zoo americano in collaborazione con una università australiana si è messo in moto per cercare di salvare il diavolo della Tasmania attraverso la reintroduzione locale di individui sani tra quelli presenti all'estero. Un'impegno urgente dato che <span style="color: red;">si prevede l'estinzione della specie allo stato selvatico entro 25 anni</span>.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il progetto diviso in diverse fasi vedrà dapprima la reintroduzione di 50 animali su Maria Island, un isola al largo della costa orientale della Tasmania. Il gruppo sarà seguito con attenzione (anche con gps e chip), tanto quanto lo sarebbe in uno zoo, in modo da favorire i sani stimolare la diversità genetica.</div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; text-align: right;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><br /></td></tr>
</tbody></table>
Forza diavoletto, facciamo il tifo per te!<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://i.giphy.com/14lXoEClaROz72.gif" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="https://i.giphy.com/14lXoEClaROz72.gif" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il simpatico diavolo della Tasmania rivisitato dalla ®Warner Bros (<u>all credit</u> to: giphy.com)</td></tr>
</tbody></table>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div style="text-align: center;">
***</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
Aggiornamento (agosto 2015)<br />
<ul>
<li><span id="result_box" lang="it" tabindex="-1"><span title="•Utilisation of genetics and genomics techniques has driven our understanding of a contagious cancer in Tasmanian devils.">L'analisi genomica dei tumori ha confermato l'origine clonale dei tumori.</span></span></li>
<li><span id="result_box" lang="it" tabindex="-1"><span title="•Karyotyping and genotyping revealed that the cancer was clonal.">Il profilo trascrizionale (cioè i geni attivi) mostra che il tumore è originato da una</span><span title="•Transcriptomics revealed that the cancer was of Schwann cell origin."> <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Cellula_di_Schwann" target="_blank">cellula di Schwann</a>.</span></span><span id="result_box" lang="it" tabindex="-1"><span title="•Transcriptomics revealed that the cancer was of Schwann cell origin."> </span></span></li>
</ul>
<br />
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Fonti e link</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<i>- America and Australia in partnership to save the Tassie devil</i><br />
<span style="font-size: x-small;">University of Sidney, news</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>- <a href="https://www.facebook.com/SavetheTasmanianDevilProgram">Pagina facebook</a> del programma Save the Tasmanian Devil</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>- Diavoli della Tasmania su <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Tasmanian_devil">wikipedia</a>.</i></div>
<div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<style>[href^="http://www.faceporn.net/free?"]
{display:none !important;}</style>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-51129611080789574422024-01-28T20:55:00.000+01:002024-01-28T20:55:55.696+01:00Tardigradi fossili nell'ambra vecchia di 16 milioni di anni<div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://news.njit.edu/sites/news/files/styles/690wideimage/public/Whole_piece_Tardi_edit2.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="642" data-original-width="690" height="350" src="https://news.njit.edu/sites/news/files/styles/690wideimage/public/Whole_piece_Tardi_edit2.jpg" width="376" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Image Credit: NJIT/Harvard</td></tr></tbody></table><div><br /></div></div><div style="text-align: justify;">I <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Tardigrada" target="_blank">tardigradi</a> sono animaletti microscopici, noti anche come orsi d'acqua, famosi per la resistenza alle condizioni più estreme e non è un eufemismo considerando che sono <a href="https://www.esa.int/Science_Exploration/Human_and_Robotic_Exploration/Research/Tiny_animals_survive_exposure_to_space" target="_blank">sopravvissuti all'esterno della Stazione Spaziale Internazionale</a>. </div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Quando le condizioni diventano proibitive i tardigradi si "trasformano" in una palla disidratata, entrando in uno stato di animazione sospesa, noto come <a href="https://manoa.hawaii.edu/exploringourfluidearth/biological/what-alive/properties-life/weird-science-cryptobiosis">criptobiosi</a>, in cui il metabolismo è messo in pausa. Possono rimanere in questo stato fino a che le condizioni tornano favorevoli come ben esemplificato dai tardigradi rimasti <a href="https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0011224015300134" target="_blank">congelati per 30 anni nel muschio antartico</a>.</blockquote></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="338" data-original-width="840" height="217" src="https://1.bp.blogspot.com/-WpQMpdPqyGE/YYaeSGFHv9I/AAAAAAAAPxc/sl74xK2je944apWfhExn7dQmI-ikZCjgACLcBGAsYHQ/w538-h217/Senza%2Bnome.jpg" width="538" /></span></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Ma per quanto sia duro a morire (altro che il Willis di Die Hard) e di antico lignaggio (ben prima della caduta dei dinosauri), la vera impresa è trovare un suo fossile. Ad oggi ne sono stati trovati solo due (entrambi risalenti al Cretaceo) pur essendo <a href="https://serc.carleton.edu/microbelife/topics/tardigrade/index.html" target="_blank">presenti in quasi ogni habitat in cui sia presente acqua</a>.</div><div style="text-align: justify;"><div><div><br /></div></div></div><div style="text-align: justify;">Notizia importante quindi il ritrovamento nell'ambra vecchia 16 milioni di anni di un terzo fossile completamente preservato. Lo studio è apparso poche settimane fa su <i>Proceedings of the Royal Society B</i>. </div><div style="text-align: justify;"><div><blockquote>La dimensione microscopica certo non aiuta nella loro ricerca. Non a caso il nuovo ritrovamento si trovava in una inclusione nascosta nell'angolo di un pezzo di ambra che conteneva tre diverse specie di formiche (vedi la figura in apertura). Non ci si è accorti per mesi che dentro il campione c'era anche un tardigrado.</blockquote></div></div><div style="text-align: justify;">L'esemplare scoperto è il fossile meglio conservato, con dettagli a livello del micrometro dell'apparato boccale e degli artigli aghiformi, 30 volte più sottili di un capello umano. Lo studio si è avvalso di <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Microscopio_confocale#Principio_di_funzionamento" target="_blank">microscopia confocale laser a fluorescenza</a> (una tecnica utilizzata in biologia cellulare, e non in paleontologia).</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">I corpi microscopici non biomineralizzati dei tardigradi si prestano alla conservazione nell'ambra (un derivato della resina), che permea e protegge mini e microorganismi, batteri compresi, dall'usura del tempo.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il fossile, per quanto simile alle specie oggi esistenti (almeno 1300 quelle note) ha caratteristiche uniche nella parte anteriore dell'apparato digerente, sufficienti per definire un nuovo genere.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Articolo precedente sul tema --> "<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/09/jurassic-park-e-dna-dallambra-una.html" target="_blank"><i>Non è possibile estrarre DNA fossile "utile" dall'ambra. Una pietra tombale sui sogni di Jurassic Park</i></a>".</blockquote></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Uno <a href="https://academic.oup.com/gbe/article/16/1/evad217/7454252?login=false" target="_blank">studio pubblicato pochi giorni fa</a> ha analizzato nel dettaglio il genoma di varie specie di tardigradi cercando di trovare i geni responsabili di alcune delle loro (di alcuni di loro) peculiarità come la resistenza al disseccamento.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;"><i>- A tardigrade in Dominican amber</i></div><div><span style="font-size: x-small;"><a href="http://rspb.royalsocietypublishing.org/lookup/doi/10.1098/rspb.2021.1760" target="_blank">Marc A. Mapalo et al</a>, (2021) Proceedings of the Royal Society B</span></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">- The Evolution of Temperature and Desiccation-Related Protein Families in Tardigrada Reveals a Complex Acquisition of Extremotolerance</div><div style="text-align: justify;">JF Fleming et al, (2024) Genome Biology and Evolution. Volume 16, Issue 1</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjXE78LoxQxFRCleNwgTZKPoIzq5FsuGgA5Mnpk5uBW3tIMptwddYS3LV8Rb72Z-15q_qZ5DjH_WIJ0xTQuauFv9R2rw2A4bsiVyKdG5d3e_6O5YHKgqsFPrSWLrFlMeI_LFUarWSO3qHyZyFGrsC_nR0NaIS_xoC9X3hIdCA37ZvN1_jIKsDS9MA=s1362" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="876" data-original-width="1362" height="386" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjXE78LoxQxFRCleNwgTZKPoIzq5FsuGgA5Mnpk5uBW3tIMptwddYS3LV8Rb72Z-15q_qZ5DjH_WIJ0xTQuauFv9R2rw2A4bsiVyKdG5d3e_6O5YHKgqsFPrSWLrFlMeI_LFUarWSO3qHyZyFGrsC_nR0NaIS_xoC9X3hIdCA37ZvN1_jIKsDS9MA=w600-h386" width="600" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Esempio di un insetto preservato nell'ambra vecchia insetto ambra 40 milioni di anni<br />(image: Levon Biss)</td></tr></tbody></table><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-84842639207923397492024-01-14T15:52:00.006+01:002024-01-14T16:58:43.918+01:00I farmaci "psichedelici". Una risorsa di cui però si ignora il meccanismo di azione<div style="text-align: justify;">Ne ho scritto in passato (a partire dall'approvazione della ketamina come antidepressivo) quindi non dico nulla di nuovo citando gli studi in dirittura d'arrivo su farmaci derivati da molecole con attività non solo psicotropa ma psichedelica (vedi i funghi allucinogeni). Studi mirati a verificare l'efficacia del trattamento (riduzione dei sintomi) senza però che sia compreso a fondo il loro meccanismo d'azione cerebrale.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjT4-g-WO30HoEx1WgYoNUX5GJbDkQ9KPXdQNcq5p3HxHqmyDQiQLq_X-Nm2PYOZtVNVPA_0htSxCkgh-gXFQ6Uede26TOfcYkB1XZJJkzpvJw5N7uiAkDfePBcdU2KaWGrtCS-juxV1mg6kn6WhkObDMqBBmKEaOibfj_aMr3nLjrCHCVI_UiPVrHx/s1248/d41586-023-03334-6_26245264.gif" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="803" data-original-width="1248" height="206" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjT4-g-WO30HoEx1WgYoNUX5GJbDkQ9KPXdQNcq5p3HxHqmyDQiQLq_X-Nm2PYOZtVNVPA_0htSxCkgh-gXFQ6Uede26TOfcYkB1XZJJkzpvJw5N7uiAkDfePBcdU2KaWGrtCS-juxV1mg6kn6WhkObDMqBBmKEaOibfj_aMr3nLjrCHCVI_UiPVrHx/s320/d41586-023-03334-6_26245264.gif" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Illustration by Kasia Bojanowska</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Il tutto nasce dall'utilizzo (plurisecolare se non millenario) da parte di alcune culture di droghe naturali a scopi rituali e terapeutici. Esempi in tal senso sono la psilocibina (da funghi allucinogeni), la mescalina (presente nel peyote, una pianta succulenta del Messico), l'ibogaina (estratta dalla corteccia di un arbusto centro-africano). </div><div style="text-align: justify;">Già alla fine degli anni '50 si iniziarono studi per determinare in modo rigoroso il loro potenziale terapeutico come antidepressivi, che però vennero in gran parte terminati quando queste e altri allucinogeni sintetici (ketamina, LSD, MDMA, ...) quando queste sostanze furono vietate o sottoposte a forte controllo nella maggior parte dei paesi. </div><div style="text-align: justify;">Si è dovuto attendere l’inizio degli anni 2000 per nuovi studi clinici che confermarono sia il potenziale terapeutico che la possibilità di usare versioni modificate di queste molecole, depauperate della loro attività allucinogena così da evitare rischio dipendenze e abusi.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il 2019 ha segnato un momento importante di queste sperimentazioni quando una variante della ketamina (più sicura e priva di effetti allucinogeni) ha ricevuto il via libera da parte della FDA come trattamento per il disturbo da stress traumatico (PTSD). Lo scorso maggio (2023) l'Oregon ha aperto il suo primo centro di trattamento per la somministrazione di psilocibina, risultato però di un percorso diverso cioè della decisione dello Stato di legalizzarla (la psilocibina rimane invece illegale negli altri stati). Negli ultimi mesi una organizzazione di ricerca senza scopo di lucro ha chiesto formalmente alla FDA l<a href="https://www.nature.com/articles/s41591-023-02565-4" target="_blank">'approvazione della MDMA (nota anche come ecstasy) per il PTSD</a> in base a due studi che ne hanno evidenziato la capacità, previa somministrazione sotto stretto controllo, di ridurre i sintomi più velocemente di altri trattamenti oggi disponibili.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Ci sono però alcune ombre in questi risultato legati sia ai limiti della sperimentazione animale per farmaci ad uso psichiatrico che (conseguenza del precedente e dei forti vincoli nel loro utilizzo sugli umani) le grandi lacune nella conoscenza del meccanismo d'azione di MDMA e di altre sostanze psichedeliche. Il recente cambiamento normativo che ha reso "più semplice" usare/studiare queste droghe sugli umani aiuterà a fare luce su alcuni meccanismi ma ci vorranno anni per avere un quadro paragonabile a quello dei farmaci non psichiatrici approvati. La comprensione del meccanismo del farmaco è inoltre un passaggio obbligato per disegnare molecole che mantengono la funzione terapeutica ma più sicure e private della loro componente allucinogena.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Alcune informazioni aggiuntive.</div><div style="text-align: justify;">Da un punto di vista farmacologico, la parola “psichedelico” si riferisce storicamente a molecole con attività allucinogena (ad es. psilocibina, LSD, etc) che si legano ad uno dei vari recettori della serotonina chiamato 5-HT2A presente sulla superficie dei neuroni. Sebbene tale definizione non includa sostanze come ketamina o l’ibogaina, queste droghe sono spesso raggruppate insieme alle sostanze psichedeliche sia negli articoli di ricerca che sui media. Perfino il tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, è talvolta catalogato come sostanza psichedelica. Va da sé che il permanere di tale definizione vaga, combinata con la mancanza di reagenti e protocolli standardizzati, può rendere difficile per i ricercatori confrontare il loro lavoro con quello pubblicato da altri colleghi.</div><div style="text-align: justify;">Aggiungiamo poi il fatto che sostanze "psichedeliche" come ketamina e MDMA, sono funzionalmente "sporchi" perché interagiscono con molti tipi di neuroni e molecole nel cervello. Perfino gli psichedelici classici (LSD e psilocibina) interagiscono, anche, con recettori diversi dal 5-HT2A.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La recente "promozione" della ketamina da anestetico veterinario, (mal)usato come droga da party dagli umani, a farmaco antidepressivo è conseguenza della sua capacità di legare e bloccare il <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Recettore_NMDA" target="_blank">recettore NMDA</a>, recettore ionotropico del glutammato presente sulla membrana dei neuroni e che gioca un ruolo essenziale nella plasticità sinaptica e nel consolidamento della memoria. <a href="https://www.nature.com/articles/s41586-023-06624-1" target="_blank">Con il blocco si innesca una serie di eventi molecolari</a> che, in modo inatteso (vale a dire non previsto dalle conoscenze precedenti), contrastano lo stato depressivo. Alcuni studi hanno ipotizzato che il tutto sia conseguenza dell'azione di un prodotto di degradazione della ketamina che va a legare a un recettore non ancora identificato.</div><div style="text-align: justify;">Un recente articolo ha provato che la ketamina può rimanere intrappolata nel recettore NMDA e sopprimere, in alcune regioni del cervello, l’attività del recettore fino a 24 ore, il che potrebbe spiegare la potenza e velocità del suo effetto rispetto ai classici antidepressivi.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Alcuni ipotizzando che tutte le droghe "psichedeliche" potrebbero avere qualcosa in comune, anche se non utilizzano il recettore della serotonina. Una conferma in questa direzione viene da studi che hanno mostrato che tutte queste sostanze si legano (anche) al recettore di un fattore di segnalazione cerebrale noto come fattore neurotrofico derivato dal cervello (<a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Fattore_neurotrofico_cerebrale" target="_blank">BDNF</a>), coinvolto nella crescita dei neuroni e nel <a href="https://www.technologynetworks.com/drug-discovery/news/study-shows-how-psychedelic-drugs-rewire-the-brain-374261" target="_blank">ricablaggio del cervello</a>.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Vero che anche gli antidepressivi classici, come il Prozac (fluoxetina), si legano al recettore, ma il legame è fino a 1000 volte più debole rispetto agli psichedelici, il che spiega perché uno sembri migliorare i sintomi in poche ore, mentre gli altri richiedano molti mesi.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">In verità sebbene non tutti i ricercatori concordano con il ruolo prominente del recettore BDNF, vi è accordo sul fatto che le <a href="https://www.nature.com/articles/s41593-023-01316-5" target="_blank">droghe psichedeliche aumentino la plasticità cerebrale</a>, consentendo ai dendriti e agli assoni che formano i circuiti neurali di diversificarsi e creare nuove connessioni. La plasticità potrebbe aiutare una persona depressa a vedere il mondo in un modo diverso, o aiutare una persona con PTSD a disconnettere i propri ricordi traumatici da una risposta di paura. Vero però che la plasticità in sé e per sé non è necessariamente una buona cosa: ci sono buone ragioni per cui il cablaggio del cervello si sviluppa in questo modo e mantiene connessioni tra esperienze ed effetti.</div><div style="text-align: justify;"><div><blockquote>Ad esempio alcune condizioni patologiche come autismo e schizofrenia, potrebbero (talvolta) derivare da un’eccessiva plasticità del cervello. Inoltre, tutti i tipi di droga, comprese la cocaina e le anfetamine, possono indurre una sorta di plasticità e tutto noi conosciamo l'effetto negativo (fisico e psichico) indotto da queste sostanza.</blockquote></div><div>Forse la ketamina induce un particolare tipo di plasticità che consente ai neuroni di regolare la loro attività di fronte a uno stimolo che normalmente li influenzerebbe in un certo modo. A differenza dei meccanismi di plasticità che rafforzano o indeboliscono specifiche connessioni neuronali durante l’apprendimento e la memoria, questa plasticità omeostatica consente ai neuroni di combattere contro fattori che cercano di cambiarli. In questo modo, la ketamina potrebbe fornire al cervello gli strumenti di cui ha bisogno per mantenere uno stato sano. Se questo meccanismo si rivelasse vero, la ketamina potrebbe servire da “<b>Stele di Rosetta</b>” per comprendere come funzionano altre sostanze psichedeliche.</div><div>Altri scienziati, tuttavia, non pensano affatto che le sostanze psichedeliche influenzino direttamente la plasticità. Piuttosto, potrebbero sbloccare qualcosa noto come <b>metaplasticità</b>, rendendo i neuroni più suscettibili a uno stimolo che induce plasticità, ad esempio un ormone. Questa teoria darebbe maggiore importanza ad altri fattori – l’interazione sociale, per esempio, o la rivisitazione di un ricordo traumatico – nel rimodellare i neuroni e formare nuove connessioni.</div><div><blockquote>In un esperimento di somministrazione ai topi di queste sostanze (MDMA, ibogaina, LSD, ketamina o psilocibina) si sono osservati risultati comportamentali interessanti. I topi trattati sono diventati più disposti a dormire in uno scompartimento con altri (chiaro segno di riduzione di stress) e l’effetto è durato per settimane. Poiché i topi adulti non tendono a cambiare il loro comportamento sociale, la scoperta suggerisce che <a href="https://www.nature.com/articles/s41586-023-06204-3" target="_blank">i farmaci psichedelici sono stati in grado di riaprire il “periodo critico”</a>, la fase in cui i topi giovani imparano ad associare la socialità a qualcosa di positivo. Nello stesso studio si è anche scoperto che i neuroni degli animali trattati hanno iniziato a esprimere un insieme di geni coinvolti nel rimodellamento della matrice extracellulare, una zona che che funge da “malta” tra i neuroni: il rimodernamento libera i dendriti e gli assoni dando loro la capacità di formare nuove connessioni.</blockquote></div><div>Ma proprio come la plasticità, troppa metaplasticità potrebbe essere dannosa “fondendo il cervello”: rompendo i circuiti neurali guadagnati con fatica, causando convulsioni e amnesia e distruggendo la capacità di apprendere. </div><div><br /></div><div>Questi studi potrebbero portare innovazione anche in aree apparentemente diverse della neurofisiologia. I ricercatori stanno verificando se nei topi queste sostanze riescano ad aprirealtri periodi critici. L’apertura di un periodo critico nella corteccia motoria, ad esempio, potrebbe allungare il periodo di tempo in cui le persone che hanno avuto un ictus possono trarre beneficio dalla terapia fisica. Le sostanze psichedeliche potrebbero aiutare le persone a recuperare i sensi perduti o indeboliti oltre il breve intervallo temporale oggi accettato per iniziare una terapia di recupero.</div><div><br /></div><div>Se però il contesto è essenziale, l’esperienza allucinogena stessa potrebbe essere necessaria per aprire i periodi critici sopra citati.</div><div><blockquote>Vero anche che l'esketamina, la versione modificata della ketamina approvata per la terapia antidepressiva (necessita di dosaggio molto inferiori e questo evita gli effetti collaterali della droga), non è inferiore alla ketamina per cui è possibile agire sulla riduzione degli effetti allucinogeni.</blockquote></div><div>Non è necessario ingerire un farmaco per avere un cambiamento neurochimico, abbiamo continuamente cambiamenti neurochimici causati dalla nostra esperienza e la psicoterapia stessa funziona (anche) attraverso l'indizione di cambiamenti epigenetici.</div><div>Ecco allora che forse il farmaco potrebbe semplicemente migliorare la capacità della terapia di cambiare permanentemente la prospettiva di una persona. Una ipotesi non condivisa da altri ricercatori secondo i quali gli effetti diretti delle sostanze psichedeliche sul cervello sono parte fondamentale della loro efficacia terapeutica.</div><div><br /></div><div><br /></div><div>Tra i problemi della sperimentazione clinica in ambito psichiatrico il ben noto "effetto placebo" che (a differenza delle malattie in altri distretti corporei) può da solo rendere conto dell'80% dell'effetto terapeutico.</div><div>L'effetto placebo lo si osserva nei gruppi di controllo in doppio cieco dove sia il medico che il paziente non sanno se la "pillola" è un farmaco o un placebo. Chiaramente il problema diventa ancora più importante se il trattamento farmacologico è associato ad un effetto intenso che palesa immediatamente al paziente cosa ha ricevuto. Per cercare di minimizzare questi condizionamenti la FDA ha approvato un sistema per gli studi sull’MDMA in cui gli psichiatri, che non sono coinvolti nella somministrazione della terapia, valutano il miglioramento dei sintomi di ogni persona senza sapere chi ha ricevuto il farmaco.</div><div><blockquote>Una misurazione del problema placebo viene dai ricercatori di Heifets Labs che hanno sviluppato un modo per quantificare l’intensità dell’effetto placebo; il team di ricerca ha testato la ketamina su persone sottoposte a intervento chirurgico che erano state messe sotto anestesia e incapaci di sperimentare gli effetti dissociativi del farmaco. Le persone che escono dall’intervento chirurgico spesso sperimentano sintomi di depressione accentuati. Ma i ricercatori hanno scoperto che, indipendentemente dal fatto che un paziente avesse ricevuto ketamina o un placebo, i suoi sintomi miglioravano se pensavano che avrebbero potuto assumere il farmaco: l’aspettativa stessa di ricevere il farmaco stesso avrebbe potuto migliorare il loro umore.</blockquote></div><div><br /></div><div>Articolo precedente sul tema "<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2024/01/una-potente-droga-psichedelica-spegne-i.html" target="_blank">Il farmaco psichedelico che spegne la PTSD</a>"</div></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-46943732720336755792024-01-10T17:11:00.005+01:002024-01-14T17:00:00.078+01:00Una potente droga psichedelica "spegne" i sintomi dello stress post-traumatico<div style="text-align: justify;">Le droghe psichedeliche come l'MDMA e la psilocibina, il composto allucinogeno presente nei funghi magici, sono da qualche tempo sotto i riflettori per il loro potenziale terapeutico in psichiatria.</div><blockquote><div style="text-align: justify;">Vedi in proposito articoli sul blog come "<i><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2015/07/lo-sballo-chimico-dei-rave-party-e-la.html" target="_blank">Rave party, sballo chimico e terapia depressione</a></i>"</div></blockquote><div style="text-align: justify;">Ora, un piccolo studio condotto su veterani affetti da stress post-traumatico (PTSD) suggerisce che un potente, ma poco studiato, farmaco psichedelico chiamato <b>ibogaina</b> potrebbe trovare impiego per i danni conseguenti a traumi cerebrali (TBI). In estrema sintesi i veterani che si sono sottoposti in autonomia al trattamento hanno mostrato una riduzione dei sintomi di oltre l’80%.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://www.assocarenews.it/wp/wp-content/uploads/2019/02/Ibogaina2.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="599" data-original-width="800" height="240" src="https://www.assocarenews.it/wp/wp-content/uploads/2019/02/Ibogaina2.jpg" width="320" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L'articolo, pubblicato su <i>Nature Medicine</i>, ha tuttavia dei <u>forti limiti</u> dovuti sia alle procedure osservazionali che al limitato numero di soggetti coinvolti, oltre alla mancanza di un gruppo di controllo.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><div>L'ibogaina è ricavata dalla corteccia di un arbusto (<i>Tabernanthe iboga</i>) originario dell'Africa centrale, dove viene utilizzato per scopi rituali. Del meccanismo di azione della molecola si sa poco essendo sottoposta a forte controllo in molti paesi e come tale un problema per i ricercatori; a questo si aggiunge il rischio legato a a irregolarità fatali del battito cardiaco. Ad oggi è principalmente usata nella terapia della dipendenza e astinenza da oppioidi.</div><div>La mancanza di terapie universali per i pazienti affetti da PTSD ha riportato l'interesse per l’ibogaina.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhkh5YH5pjRwZRJTmvAMR7sMeH9XI4Ty5vD_B11Z74NwyTSG3IgI8tmBe8Iho7VOIYKSFE25TYemLg4L5mp5t7oSHwheCaq74aO1ciyPHgzwCLFSlpMtYsoZjvOdq3jaSIJMm0eKcvA/s320/ptsd-6vawatchdogorg.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="220" data-original-width="320" height="220" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhkh5YH5pjRwZRJTmvAMR7sMeH9XI4Ty5vD_B11Z74NwyTSG3IgI8tmBe8Iho7VOIYKSFE25TYemLg4L5mp5t7oSHwheCaq74aO1ciyPHgzwCLFSlpMtYsoZjvOdq3jaSIJMm0eKcvA/s320/ptsd-6vawatchdogorg.jpg" width="320" /></a></div></div><div style="text-align: justify;">Uno dei ricercatori coinvolti nello studio aveva sentito parlare di veterani che cercavano l'ibogaina per attenuare i sintomi del trauma cranico (di tipo cognitivo e fisico) seguendone alcuni per monitorare gli effetti da loro sperimentati dopo l'assunzione della droga in una struttura in Messico, dove l'uso del farmaco non era soggetto a restrizioni. Importante sottolineare che i ricercatori non hanno avuto alcun ruolo nella somministrazione del farmaco ma hanno solo registrato i resoconti dei fruitori. A scopo precauzionale i partecipanti hanno ricevuto un integratore di magnesio insieme alla sostanza psichedelica per minimizzare il rischio di effetti collaterali cardiaci.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Un mese dopo il trattamento, i partecipanti mostravano una riduzione media dell’88% dei sintomi di disturbo da stress post-traumatico, dell’87% dei sintomi della depressione e dell’81% dei sintomi dell’ansia. In media, i partecipanti presentavano una disabilità da lieve a moderata prima del trattamento, che scompariva nel mese successivo, come valutato da un sondaggio sulle loro capacità cognitive, mobilità e altre funzioni.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Nessuno dei partecipanti ha manifestato effetti collaterali cardiaci. Lo studio rientra nella tipologia “prova del concetto” sul potenziale del farmaco. Il passo successivo sarà studiare se il farmaco può conferire un beneficio a lungo termine e utilizzare neuroimaging e biomarcatori per valutare come funziona il farmaco.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Gli unici dati in tal senso oggi disponibili vengono da studi sui topi in cui si è dimostrato che l'ibogaina potrebbe riaprire temporaneamente un "periodo critico" (nome dato alle finestre temporali normalmente osservate durante lo sviluppo iniziale in cui il sistema nervoso è particolarmente malleabile). La ibogaina mantiene il periodo critico per almeno quattro settimane, rispetto alle due settimane osservate con una droga simile, psilocibina, ottenuta da funghi allucinogeni.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Dato lo stadio più che preliminare dello studio è verosimile che MDMA e psilocibina, in fase avanzata di sperimentazione, siano candidati migliori nel breve termine mentre l'ibogaina richiederà anni di studio per determinarne l'efficacia e la sicurezza.</div><div><br /></div><div><blockquote>Articolo su temi correlati "<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2024/01/i-farmaci-psichedelici-una-risorsa-di.html" target="_blank">Farmaci psichedelici e meccanismi ignoti</a>"</blockquote></div><div><br /></div><div><b>Fonte</b></div><div>- <i>Magnesium–ibogaine therapy in veterans with traumatic brain injuries</i></div><div><a href="https://www.nature.com/articles/s41591-023-02705-w" target="_blank">Kirsten N. Cherian et al</a>, (2024) Nature Medicine</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-5080941478855432082023-12-05T20:07:00.003+01:002023-12-05T20:07:24.720+01:00Un Gundam (quasi) per tutti<div style="text-align: justify;">Se avete 3 milioni di dollari che vi avanzano (e un cortile spazioso) ho forse un regalo adatto perfino al più indomito dei Nerd: un robot in stile Gundam.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiE9Nqy3g4lIC1z_9WNsd_6dNGCEg56LmoUQ5H59tq4xIF5WjJJ5tzWsnoS8eLfI3MrKP5rj1-YoDmm0X6yN2gB_5xEhxgxmQRd3eDV8HxKmjWzeXOquaHjEZgIiPosZpF1vBblp3fnyNYjDfN_m41oL_fhJSe-0JqbAUARud37SDk40oS1obGRYXAK/s683/1.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="683" data-original-width="668" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiE9Nqy3g4lIC1z_9WNsd_6dNGCEg56LmoUQ5H59tq4xIF5WjJJ5tzWsnoS8eLfI3MrKP5rj1-YoDmm0X6yN2gB_5xEhxgxmQRd3eDV8HxKmjWzeXOquaHjEZgIiPosZpF1vBblp3fnyNYjDfN_m41oL_fhJSe-0JqbAUARud37SDk40oS1obGRYXAK/s320/1.jpg" width="313" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il robot, di nome Archax e prodotto della startup di Tokyo Tsubame Industries, non è proprio l’essenza del minimalismo con i suoi 4,5 metri e 3,5 tonnellate di peso. Ha una cabina di pilotaggio dota presenta all’interno della cabina di pilotaggio alcuni monitor, sui quali appaiono le immagini captate da telecamere poste all’esterno. Grazie a questa visuale il pilota (sito nel busto del robot) può manovrare braccia e mani mediante un joystick.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj2LQ7NsVJBRT1e_frRxi3TjcloQ_mSKhXjzDk17OASAeK8RuB4buZqzVrwaJUajqJRPoFb5tj-UYhqbO-58bbsnp-RV8m5ykQCtX8kuWq-oHFyHP-yp3QZGSfFaf3F4iWxyiNLIe6_7sHSkzA9Bg9Ta0p7O61rT2W35wSi3olkAGcop570S06wcR6d/s803/2.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="698" data-original-width="803" height="278" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj2LQ7NsVJBRT1e_frRxi3TjcloQ_mSKhXjzDk17OASAeK8RuB4buZqzVrwaJUajqJRPoFb5tj-UYhqbO-58bbsnp-RV8m5ykQCtX8kuWq-oHFyHP-yp3QZGSfFaf3F4iWxyiNLIe6_7sHSkzA9Bg9Ta0p7O61rT2W35wSi3olkAGcop570S06wcR6d/s320/2.jpg" width="320" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il robot funziona in due modalità: una verticale e una come veicolo su ruote con velocità fino a 10kmh. Un video esplicativo è presente nella pagina iniziale del <a href="https://tsubame-hi.com/en/" target="_blank">sito dell'azienda</a> o di seguito</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/jkcyHUHfrLA" width="320" youtube-src-id="jkcyHUHfrLA"></iframe></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">***</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Per chi, come me non ha 3 milioni in eccesso si può ripiegare sul prodotto della LEGO</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://amzn.to/47I7zCd" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="681" height="320" src="https://m.media-amazon.com/images/I/811niQAHSCL._AC_SL1500_.jpg" width="272" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br /><div style="text-align: justify;">oppure il modellino di Gundam</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://amzn.to/3T6ev7H" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="639" height="320" src="https://m.media-amazon.com/images/I/618oKxizohL._AC_SL1500_.jpg" width="256" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-20552825027549851902023-11-19T13:14:00.005+01:002023-11-19T17:12:11.562+01:00Come creare ossigeno su Marte<div style="text-align: justify;">Nel film Total Recall il buon Schwarzi arriva nel 2084 in un insediamento umano su Marte protetto da una megacupola, fondamentale sia come protezione dai raggi cosmici (l'atmosfera marziana è sottile, priva di ozono, e per di più il pianeta manca di campo magnetico) che per contenere un'atmosfera respirabile.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://media.nature.com/lw767/magazine-assets/d41586-023-03522-4/d41586-023-03522-4_26289556.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="431" data-original-width="767" height="321" src="https://media.nature.com/lw767/magazine-assets/d41586-023-03522-4/d41586-023-03522-4_26289556.jpg" width="570" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Paraitepuy Pass su Marte (Credit: NASA/JPL-Caltech/MSSS)</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Vero che mancano alcuni decenni ma è verosimile che l'ambiente in cui vivranno le prime generazioni di coloni sul pianeta rosso saranno grotte o insediamenti sotterranei, condizionati con aria respirabile.</div><div style="text-align: justify;">Escludendo a priori di trasportare ossigeno su Marte, i coloni dovranno produrlo localmente scindendo la CO2 atmosferica e/o l'acqua sotterranea, congelata o intrappolata nei minerali. Sebbene il processo sia fattibile, pur non in volumi tali da riempire una cupola cittadina, esistono altri fattori limitanti che sono i catalizzatori delle reazioni chimiche per la produzione di ossigeno. Catalizzatori che quindi dovrebbero essere trasportati dalla Terra in un processo continuo, cosa estremamente costosa.</div><div style="text-align: justify;">Una soluzione viene da uno studio pubblicato sulla rivista <i>Nature Synthesis</i> che descrive come produrre i catalizzatori, necessari ad estrarre ossigeno dall'acqua (e altre reazioni utili), direttamente su Marte usando il materiale là disponibile.</div><div style="text-align: justify;">L’obiettivo iniziale dei ricercatori era indagare se uno strumento delle dimensioni di un frigorifero e dotato di un braccio robotico per le analisi, fosse anche in grado di ottenere catalizzatori usando come materiale di partenza materiale da meteoriti di origine marziana.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://media.springernature.com/lw685/springer-static/image/art%3A10.1038%2Fs44160-023-00424-1/MediaObjects/44160_2023_424_Figa_HTML.png" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="446" data-original-width="685" height="260" src="https://media.springernature.com/lw685/springer-static/image/art%3A10.1038%2Fs44160-023-00424-1/MediaObjects/44160_2023_424_Figa_HTML.png" width="400" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Lo strumento testato dai ricercatori<br />(Credit: <a href="https://www.nature.com/articles/s44160-023-00424-1" style="text-align: justify;" target="_blank">Qing Zhu et al</a><span style="text-align: justify;">, Nature Synthesis)</span></td></tr></tbody></table><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Grazie ad una intelligenza artificiale integrata nel sistema il dispositivo ha prima dissolto e frazionato il materiale mediante acidi e alcali, per poi analizzarne le componenti presenti; queste sono state la base su cui applicare quali delle quasi 4 milioni di formule chimiche memorizzate fosse utile per ottenere una sostanza chimica in grado di scomporre l’acqua. Un processo che ad un essere umano avrebbe richiesto 2 mila anni di verifiche sperimentali. L'analisi ha permesso di ottenere un catalizzatore utilizzabile per ottenere ossigeno dall'acqua.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/wif-sMC-l20" width="320" youtube-src-id="wif-sMC-l20"></iframe></div><div style="text-align: center;">Video credit: Nature</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Per ogni metro quadrato di materiale marziano, il sistema potrebbe produrre quasi 60 grammi di ossigeno all’ora, eliminando potenzialmente la necessità di rifornimenti di ossigeno e catalizzatori per gli astronauti.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">In verità, come ha fatto notare un ricercatore del MIT, esiste un modo molto più semplice per produrre ossigeno su Marte partendo dall'aria marziana ricca di anidride carbonica. Il rover Perseverance (vedi <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2021/05/la-missione-perseverance-su-marte.html" target="_blank">precedente articolo sul tema</a>), in missione su Marte dal 2020, ha già montato (pur se di piccole dimensioni) uno strumento utile all'uopo chiamato <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/MOXIE" target="_blank">MOXIE</a> dimostratosi in grado di produrre ossigeno anche se in bassa quantità a causa dei limiti nella potenza erogabile dal rover. In futuro, una versione grande di MOXIE (non ci sono reali limiti tecnici per produrlo) sarebbe in grado di produrre ossigeno più che sufficiente per il fabbisogno di un piccolo insediamento umano. MOXIE potrebbe inoltre essere usato per produrre una quantità sufficiente di gas utilizzabile come ossidante necessario per produrre carburante per lanciare un velivolo per un viaggio di ritorno sulla Terra (le stime attuali sono di poter produrre 2-3 chilogrammi all'ora).</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://mars.nasa.gov/layout/mars2020/images/moxie-web.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1200" height="334" src="https://mars.nasa.gov/layout/mars2020/images/moxie-web.jpg" width="556" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Lo <a href="https://mars.nasa.gov/mars2020/spacecraft/instruments/moxie/" target="_blank">strumento MOXIE</a> montato sul rover Perseverance<br />(Credit: NASA/JPL-Caltech via Nature)</td></tr></tbody></table><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://ieb-assets.s3-eu-west-1.amazonaws.com/files/wp_aulascienze/2021/04/25045_Perseverance_Mars_Rover_Instrument_Labels-web.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="791" data-original-width="1402" height="319" src="https://ieb-assets.s3-eu-west-1.amazonaws.com/files/wp_aulascienze/2021/04/25045_Perseverance_Mars_Rover_Instrument_Labels-web.jpg" width="564" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La strumentazione montata su Perseverance<br />(credit: NASA/JPL) </td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Usare l’intelligenza artificiale per sintetizzare materiali utili in questo modo è una nuova area di ricerca, afferma Cooper, che ha applicazioni oltre i viaggi spaziali.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;"><i>- Automated synthesis of oxygen-producing catalysts from Martian meteorites by a robotic AI chemist</i></div><div style="text-align: justify;"><a href="https://www.nature.com/articles/s44160-023-00424-1" target="_blank">Qing Zhu et al</a>, (2023) Nature Synthesis</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Per Nerd e aspiranti tali tre modellini di rover marziani, per tutti i gusti</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://amzn.to/47lbXGX" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1500" data-original-width="1475" height="235" href="https://amzn.to/47CXx4F" src="https://m.media-amazon.com/images/I/91ZWPqFKU3L._AC_SL1500_.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;" width="231" /><img border="0" data-original-height="764" data-original-width="924" height="192" href="https://amzn.to/3sPGg9E" src="https://m.media-amazon.com/images/I/61EUgP42KzL._AC_SL1007_.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;" width="232" /><img border="0" data-original-height="1500" data-original-width="1318" height="285" src="https://m.media-amazon.com/images/I/818pFU9YVtS._AC_SL1500_.jpg" width="251" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Letture scientifico-divulgative su Marte e vivere sul pianeta rosso</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://amzn.to/3umEGN7" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1500" data-original-width="933" height="428" src="https://m.media-amazon.com/images/I/71NiksNASaL._SL1500_.jpg" width="266" /></a><a href="https://amzn.to/3MS3GSC" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1500" data-original-width="1031" height="428" src="https://m.media-amazon.com/images/I/91gvsU6VdyL._SL1500_.jpg" width="256" /></a><a href="https://amzn.to/47CPLbd" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1500" data-original-width="1100" height="428" src="https://m.media-amazon.com/images/I/81MKxiYOycL._SL1500_.jpg" width="266" /></a><a href="https://amzn.to/411bckh" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1485" data-original-width="1000" height="428" src="https://m.media-amazon.com/images/I/81R1fyiYP-L._SL1485_.jpg" width="266" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-8332206113858565222023-11-10T19:00:00.015+01:002023-11-10T19:00:00.132+01:00Tracce di Theia nel mantello terrestre?<div style="text-align: justify;">https://www.nature.com/articles/d41586-023-03385-9</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://media.nature.com/lw767/magazine-assets/d41586-023-03385-9/d41586-023-03385-9_26230424.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="623" data-original-width="767" height="233" src="https://media.nature.com/lw767/magazine-assets/d41586-023-03385-9/d41586-023-03385-9_26230424.jpg" width="287" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Image Credit: Hernán Cañellas (via Nature)</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">L'ipotesi più accreditata sull'origine della Luna è che sia il risultato di una collisione immane, circa 4,5 miliardi di anni fa, tra quella che potremmo chiamare proto-Terra e un pianeta delle dimensioni di Marte battezzato come Theia (vedi in proposito anche l'articolo del 2012 che ho messo in calce al presente).</div><div style="text-align: justify;">Un evento postulato per spiegare le particolari caratteristiche geologiche della Luna (assenza di un nucleo metallico, composizione simile al mantello terrestre, assenza di parti volatili, etc) che la rendono una sorta di "estratto" del mantello terrestre volato in orbita </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Tra le più recenti simulazioni fatte con i supercomputer la seguente mostra come il tempo trascorso tra la collisione e la formazione della Luna sia stato di poche ore </div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/kRlhlCWplqk" width="320" youtube-src-id="kRlhlCWplqk"></iframe></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Nuovi dati a supporto dello scontro tra pianeti vengono ora dall'interno della Terra, nello specifico da alcune particolarità di alcune parti del mantello fino ad ora di difficile interpretazione.</div><div style="text-align: justify;">Queste "macchie" (formazioni rocciose) rilevate grazie alla studio della propagazione delle onde sismiche (qui più lente), sono lunghe migliaia di chilometri e leggermente più dense dell’ambiente circostante, dato che suggerisce essere costituite da materiale diverso rispetto al resto del mantello.</div><div style="text-align: justify;">L'analisi dei modelli al computer suggerisce che una certa quantità di materia proveniente da Theia sia rimasta incastrata nella metà inferiore del mantello terrestre,</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L'idea di partenza è che un impatto di tale portata nell'infanzia de nostro pianeta avrebbe dovuto lasciare una qualche traccia e che la stranezza di alcune regioni del mantello potesse essere una vestigia. Ipotesi poi messa alla prova con simulazioni al computer.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/yCDwd96kqAI" width="320" youtube-src-id="yCDwd96kqAI"></iframe></div><div style="text-align: center;">La simulazione al computer del rimescolamento del mantello dopo l'impatto</div><div><div style="text-align: center;">(credit: Nature)</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L’energia dello scontro planetario avrebbe parzialmente sciolto il mantello terrestre, formando due strati: una parte superiore fusa e una parte inferiore prevalentemente solida. Lo strato superiore fuso si sarebbe mischiato con quello "alieno" mentre altro materiale proveniente da Theia sarebbe affondato attraverso la parte fusa del mantello depositandosi nello strato inferiore. Nel frattempo parte del materiale sarebbe finito in orbita per originare la Luna.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>Moon-forming impactor as a source of Earth’s basal mantle anomalies</i></div><div style="text-align: justify;"><a href="https://www.nature.com/articles/s41586-023-06589-1" target="_blank">Qian Yuan et al</a>, (2023) Nature</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Se penso alla Luna non posso non associarla alla serie TV cult della mia infanzia "<a href="https://amzn.to/46gNTUA" target="_blank">Spazio 1999</a>"</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://amzn.to/3MDRLrL" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1195" data-original-width="1500" height="159" href="https://amzn.to/47mrtSy" src="https://m.media-amazon.com/images/I/71qI9f7Zp+L._AC_SL1500_.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;" width="200" /><img border="0" data-original-height="1195" data-original-width="1500" height="159" src="https://m.media-amazon.com/images/I/71qZqT-dpOL._AC_SL1500_.jpg" width="200" /></a>xxx</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">***</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div><div style="text-align: justify;">Articolo del 2012, parte della Lectio Magistralis di un noto astrofisico ospite alla Milanesiana.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><span face="Verdana,sans-serif">(di ERIC M. GALIMOV)<br />L’origine e l’evoluzione della vita e l’origine del sistema Terra-Luna sono tra i più ardui problemi scientifici, poiché è difficile sottoporli a uno studio sperimentale, e la loro analisi teorica è ambigua: troppi i fattori coinvolti e alcuni di essi non sono noti (…). Il paradigma dell’origine del sistema formato dalla Terra e dalla Luna è la <b>teoria del mega impatto</b>. Essa ipotizza una catastrofica collisione di due vasti corpi planetari nella storia iniziale del sistema solare. Il risultato fu che la Terra e la Luna ne emersero come corpi magmatici completamente fusi (…).<br /><span style="font-size: x-small;"> </span></span></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://4.bp.blogspot.com/-MlS8m8eIwMc/T-rpLfjnzXI/AAAAAAAAAWc/45EDpXD1e3w/s1600/Earth-and-Moon.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-MlS8m8eIwMc/T-rpLfjnzXI/AAAAAAAAAWc/45EDpXD1e3w/s320/Earth-and-Moon.jpg" width="320" /></a></div><div style="text-align: justify;"><span face="Verdana,sans-serif">L’ipotesi del mega impatto fu avanzata alla metà degli anni Settanta da due team di scienziati americani. Secondo la loro tesi, la Luna si formò con l’addensamento del materiale fuso espulso nell’orbita circumterrestre in seguito alla collisione della proto-Terra con un altro corpo planetario delle dimensioni di Marte.<br />Il problema cruciale che si trovano ad affrontare gli scienziati impegnati sull’origine della Luna consiste nella domanda: perché la massa lunare è carente di ferro rispetto alla massa terrestre? Il contenuto di ferro della Terra è del 33,5%, mentre quello della Luna è in una percentuale compresa tra il 10% e il 15%. L’ipotesi del mega impatto fornì una semplice risposta: la collisione da cui nacque la Luna si verificò nel momento in cui la Terra aveva già attraversato il processo di differenziazione e gran parte del ferro si era concentrato nel suo nucleo metallico, e la Luna si formò dal mantello terrestre, carente di ferro.<br />Un più dettagliato <u>studio al computer della dinamica del mega impatto</u> compiuto all’inizio del Duemila mostrò che il <u>materiale fuso espulso in un’orbita circumterrestre proveniva</u> non tanto dal mantello terrestre ma soprattutto, almeno <u>per l’80%, dal corpo impattante</u>. Poiché l’origine e la composizione chimica del corpo impattante sono sconosciute, ciò privava la teoria dell’impatto di argomenti geochimici. Inoltre, la derivazione della Luna dal corpo estraneo alla Terra rende le affinità tra la Terra e la Luna, come la somiglianza nel frazionamento isotopico, argomenti contrari all’ipotesi del mega impatto (…) <br />Un modello alternativo (…) la Luna non si è formata in seguito a una collisione catastrofica, ma <b>tramite la frammentazione di un immenso addensamento di particelle gassose</b> (…). La contrazione di questo addensamento gravitazionale conduce all’aumento della temperatura al suo interno con una conseguente parziale evaporazione delle particelle e dei corpi solidi da cui è formata (…) conduce alla formazione di due corpi condensati, embrioni della Terra e della Luna. Entrambi sono poveri di ferro ed elementi volatili e ricchi di elementi refrattari.<br />L’ipotesi proposta sembra quindi piuttosto convincente. Soddisfa i principali requisiti: povertà di ferro sulla Luna, identità isotopica tra Terra e Luna, ricchezza di elementi refrattari sulla Luna e scarsezza di elementi volatili. Supera le principali difficoltà della teoria del mega impatto. <u>Nonostante ciò, la teoria del mega impatto continua a dominare la letteratura scientifica</u> (…). La nuova concezione è incompatibile con la teoria oggi accettata sulla formazione dei pianeti del sistema solare. Il paradigma dice che i pianeti si formarono tramite collisione dei corpi solidi, i planetesimi. Si ritiene che i planetesimi siano cresciuti da qualche metro a centinaia di chilometri. La formazione della Luna dovuta a un mega impatto è coerente con la teoria standard della formazione dei pianeti. A differenza della teoria standard, la nuova concezione ipotizza che la formazione di corpi planetari possa verificarsi da uno stato disperso. Ma questa supposizione non dimostrata rende discutibile l’ipotesi. Dovremmo quindi riconoscere che <b>la nuova concezione</b>, nonostante i suoi vantaggi, <b>non può essere accolta per via della sua parziale imperfezione</b>.</span><br /><br /><br /><div style="text-align: center;"><span face="Verdana,sans-serif" style="font-size: small;">*******</span></div><span face="Verdana,sans-serif" style="font-size: small;">Tra i recenti contributi allo studio della nascita della Luna, l'articolo pubblicato sulla rivista Science a marzo 2015. L'approccio usato dagli astronomi della NASA è stato indiretto e basato sul fatto che dopo l'impatto della Terra con un pianeta delle dimensioni di Marte sarebbero stati scagliati nello spazio una miriade di frammenti di dimensione intorno al chilometro, parte dei quali sarebbero stati catturati dalla fascia di asteroidi sita tra Marte e Giove. Molti di questi frammenti, fusi con quelli preesistenti, sarebberon poi precipitati nel corso dei miliardi di anni successivi sulla Terra. Lo studio delle caratteristiche di queste rocce ha permesso di datare l'origine della Luna in 4,47 miliardi di anni fa. Un valore simile a quello ottenuto con altri metodi e che quindi ne è la conferma.</span> <b> </b><br /><b>Fonte</b><br /><span face="Verdana,sans-serif" style="font-size: x-small;">W. F. Bottke et al, Science 17 April 2015 </span></div></div></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-24923734369366593772023-11-05T16:00:00.003+01:002023-11-05T18:43:25.146+01:00Ig-Nobel 2023: i premi alla scienza che fa ridere ma anche pensare<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://improbable.com/wp-content/uploads/2021/12/banner3.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="100" data-original-width="1500" height="40" src="https://improbable.com/wp-content/uploads/2021/12/banner3.png" width="613" /></a></div><div style="text-align: justify;">Anche quest’anno insieme ai Nobel bisogna ricordare i vincitori degli IgNobel, autori delle ricerche più strampalate ma nondimeno del tutto sensate … anche se a volte bisogna essere molto addentro il campo per capirne la logica. In verità, come del resto avviene per i Nobel, le categorie premiate sono varie e includono ad esempio anche la letteratura (per dettagli vi rimando alla <a href="https://newatlas.com/science/2023-ig-nobel-prize-winners/" target="_blank">lista completa dei vincitori del 2023</a> in cui potrete anche trovare il link agli articoli premiati). </div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://assets.newatlas.com/dims4/default/3e989e6/2147483647/strip/true/crop/1068x712+0+0/resize/840x560!/quality/90/?url=http%3A%2F%2Fnewatlas-brightspot.s3.amazonaws.com%2F24%2F67%2F02424c734862a3788448a466249f%2Fscreenshot-2023-09-15-at-5.13.16%20pm.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="560" data-original-width="840" height="362" src="https://assets.newatlas.com/dims4/default/3e989e6/2147483647/strip/true/crop/1068x712+0+0/resize/840x560!/quality/90/?url=http%3A%2F%2Fnewatlas-brightspot.s3.amazonaws.com%2F24%2F67%2F02424c734862a3788448a466249f%2Fscreenshot-2023-09-15-at-5.13.16%20pm.png" width="543" /></a></div><div style="text-align: justify;">Tra le ricerche premiate (i lavori possono essere anche molto vecchi ma devono essere stati pubblicati su riviste peer reviewed) nelle varie categorie ne scelgo alcune</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Letteratura</b></div><div style="text-align: justify;">In questa categoria il premio è stato assegnato ad un team multinazionale “per lo studio delle sensazioni che le persone provano quando ripetono una sola parola molte, molte, […] volte”. La <a href="https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/09658211.2020.1727519" target="_blank">ricerca si è basata sul chiedere</a> le sensazione di alcuni partecipanti chiamati a scrivere molte volte alcune parole, fino a raggiungere il punto di … trovarle strane o mai sentite. Un fenomeno opposto al déjà vu detto jamais vu che descrive la sensazione di estraneità a qualcosa di noto. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Geologia</b></div><div style="text-align: justify;">La ricerca mi ricorda molto il simpatico Brick (il figlio minore della serie TV<i><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/The_Middle" target="_blank"> The Middle</a></i>) che aveva il vezzo di leccare gli oggetti per conoscerli. Ebbene, qualcosa di simile è stato studiato da Jan Zalasiewicz (University of Leicester) che ha cercato di rispondere al quesito sul “perché ai geologi piace leccare le rocce” (attitudine vera come descritto in <a href="https://www.iflscience.com/why-do-geologists-lick-rocks-70107" target="_blank">questo articolo</a>) il che mi fa pensare anche all’avversione di Sheldon per la geologia e al personaggio di Bert</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://static1.srcdn.com/wordpress/wp-content/uploads/2020/09/sheldon-cooper-geology-big-bang-theory.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1000" data-original-width="2000" height="160" src="https://static1.srcdn.com/wordpress/wp-content/uploads/2020/09/sheldon-cooper-geology-big-bang-theory.jpg" width="320" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L'<a href="https://www.palass.org/publications/newsletter/eating-fossils" target="_blank">articolo premiato ha il nome esplicativo “<i>Eating fossils</i>”</a> in cui si descrive questa arte antica per studiare le rocce (ivi compreso a volte abbrustolirle, bruciarle e bollirle) in assenza di strumenti analitici moderni</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Ingegneria</b></div><div style="text-align: justify;">O meglio il premio qui va alla necrobiotica, una variante della robotica che utilizza parti morti di animali in una sorta di cross-over tra Frankenstein e steam-punk. Il<a href="https://doi.org/10.1002/advs.202201174" target="_blank"> premio è stato conferito per aver “rianimato ragni morti come strumenti meccanici da "presa”</a> cioè per avere riutilizzato l’eccellente sistema di locomozione di un ragno (morto) adattandolo a diventare un perfetto strumento da presa in grado di acciuffare oggetti delicati.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://assets.newatlas.com/dims4/default/39c209e/2147483647/strip/true/crop/908x605+0+0/resize/840x560!/quality/90/?url=http%3A%2F%2Fnewatlas-brightspot.s3.amazonaws.com%2F78%2F3e%2F6f6194c144c1b13f926691f64c5b%2Fscreen-shot-2022-07-25-at-1.58.40%20PM.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="560" data-original-width="840" height="213" src="https://assets.newatlas.com/dims4/default/39c209e/2147483647/strip/true/crop/908x605+0+0/resize/840x560!/quality/90/?url=http%3A%2F%2Fnewatlas-brightspot.s3.amazonaws.com%2F78%2F3e%2F6f6194c144c1b13f926691f64c5b%2Fscreen-shot-2022-07-25-at-1.58.40%20PM.jpeg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Image: newatlas.com</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Salute pubblica</b></div><div style="text-align: justify;">Il <a href="http://doi.org/10.1038/s41551-020-0534-9" target="_blank">vincitore è un coreano che lavora alla Stanford University premiato per il lavoro</a> pluriennale nella messa a punto di un wc hgh tech (altro che quelli giapponesi). Nello specifico si tratta di un dispositvo che ha incorporato tecnologie tra cui l’analisi delle urine, un sistema per l’analisi visiva della defecazione (argh!!), un sensore per l’impronta anale abbinato a una telecamera di identificazione (altro che analisi dell’iride) e un sistema trasmissione dati. In effetti strumenti simili hanno utilità sia nel monitoraggio a distanza dei pazienti che negli studi clinici.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Comunicazione e neurologia</b></div><div style="text-align: justify;">Vero che ci sono persone capaci di ripetere una parola o perfino di parlare al contrario. Rari e per questo studiati come fatto dagli autori dello <a href="http://doi.org/10.1038/s41598-020-67551-z" target="_blank">studio premiato che ha analizzato la materia grigia</a> in alcune regioni cerebrali di due persone con queste capacità.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Medicina</b></div><div style="text-align: justify;">Il numero di peli nel naso è uguale nelle due narici? La risposta viene da uno <a href="http://doi.org/10.1016/j.jaad.2020.06.902" target="_blank">studio effettuato su alcuni cadaveri che ha dimostrato che in media ce ne sono 120 a sinistra e 122 a destra</a>. La cosa curiosa è che il punto di partenza della ricerca era per acquisire informazioni per il trattamento della alopecia areata, che oltre alla calvizie presentano un maggiore rischio di allergie e infezioni respiratorie associate alla perdita di peli nel naso.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Nutrizione</b></div><div style="text-align: justify;">Il <a href="http://doi.org/10.1145/1959826.1959860" target="_blank">lavoro premiato è vecchio (risale al 2011)</a> e indagava l’aumento del senso di gusto grazie all’elettricità. Fosse questo sarebbe anche “normale” ma il punto saliente, riportato nelle motivazioni del premio, è “per esperimenti per determinare come le bacchette e le cannucce elettrificate possono cambiare il gusto del cibo”. Grazie a tali strumenti i ricercatori evidenziarono come usando queste bacchette elettriche per mangiare (studio fatto in Giappone, da noi magari avrebbero usato come strumenti forchette elettrificate) i volontari percepissero dei sapori altrimenti nascosti.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://assets.newatlas.com/dims4/default/175c8a1/2147483647/strip/true/crop/1200x800+0+50/resize/840x560!/quality/90/?url=http%3A%2F%2Fnewatlas-brightspot.s3.amazonaws.com%2F8e%2F10%2F19c4c8c84ca0a16433b7bc9f14d2%2F0411-01-01-b.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="560" data-original-width="840" height="213" src="https://assets.newatlas.com/dims4/default/175c8a1/2147483647/strip/true/crop/1200x800+0+50/resize/840x560!/quality/90/?url=http%3A%2F%2Fnewatlas-brightspot.s3.amazonaws.com%2F8e%2F10%2F19c4c8c84ca0a16433b7bc9f14d2%2F0411-01-01-b.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Image: newatlas.com</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Educazione</b></div><div style="text-align: justify;">Chi non si è mai annoiato a scuola alzi la mano. Ma la noia non è un qualcosa da accantonare, ma la si può studiare. Il <a href="http://doi.org/10.1111/bjep.12549" target="_blank">premio ai ricercatori è perché hanno scoperto</a> che anche solo aspettarsi che una lezione sarà noiosa la renderà noiosa, ma anche che se gli studenti vedono i loro insegnanti annoiati o li percepiscono come tali saranno meno motivati. Quindi siate pimpanti o voi docenti all’inizio della lezione ed evitate tonalità in stile Marina Massironi quando faceva gli sketch dei bulgari con AG&G</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://i.ytimg.com/vi/Vap8p3Bw-j4/maxresdefault.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" height="180" src="https://i.ytimg.com/vi/Vap8p3Bw-j4/maxresdefault.jpg" width="320" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Psicologia</b></div><div style="text-align: justify;">Questo <a href="http://psycnet.apa.org/doi/10.1037/h0028070" target="_blank">studio risale alla fine degli anni ’60</a> e la ragione del premio è “<i>per esperimenti su una strada cittadina per vedere quanti passanti si fermano a guardare verso l'alto quando vedono degli estranei che guardano in alto</i>”. Quanti più lo fanno, scrivevano, tanti più si fermeranno e lo faranno.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fisica</b></div><div style="text-align: justify;">Se è assodato che il sesso in alcuni animali non ha base genetica ma dipende da fattori ambientali come la temperatura (es. le tartarughe) meno noto è l’effetto sull’ambiente dell’attività sessuale. Ecco allora la motivazione “<i><a href="http://doi.org/10.1038/s41561-022-00916-3" target="_blank">per aver misurato quanto la miscelazione dell'acqua dell'oceano è influenzata dall’attività sessuale delle acciughe</a></i>” le quali radunandosi in massa durante la stagione riproduttiva possono generare turbolenze e a cascata infuenzare la crescita del fitoplancton (che detto per inciso è il maggior produttore di ossigeno del pianeta e alla base della catena alimentare e della cattura della CO2). Quando si dice “il battito di ali di una farfallo può causare un tornado dall’altra parte del mondo”.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://www.gustorotondo.it/wp-content/uploads/2018/11/alici-marinate-ricetta-napoletana.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="667" data-original-width="1000" height="204" src="https://www.gustorotondo.it/wp-content/uploads/2018/11/alici-marinate-ricetta-napoletana.jpg" width="305" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <a href="https://improbable.com/ig/winners/#ig2023" target="_blank">https://improbable.com/ig/winners/#ig2023</a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Articoli su temi attinenti</div><div style="text-align: justify;"><ul><li><i><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2019/09/le-scoperte-scientifiche-fortuite-che.html" target="_blank">Le scoperte scientifiche fortuite che hanno fatto la differenza</a></i> </li><li><i><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2019/08/darwin-awards-i-vincitori-per-le-morti.html" target="_blank">I Darwin Awards, cioè il premio postumo alle morti più assurde</a></i></li><li><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/09/assegnati-gli-ig-nobel-2013-parte-1.html" target="_blank">Gli Ig-Nobel passati</a></li><li><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2019/02/india-dalla-scienza-dei-nobel-alla.html" target="_blank"><i>India (e non solo): dal Nobel alla pseudoscienza il passo è breve</i></a></li><li><i><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/09/cioccolato-e-nobel.html" target="_blank">Cioccolato e Nobel</a></i></li></ul></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-14447731748033613052023-11-01T19:01:00.015+01:002023-11-01T19:27:21.155+01:00La strana genetica delle formiche pazze<div style="text-align: justify;">Formiche pazze non è (solo) il nome di una squadra di basket dell’Indiana che gioca nella serie cadetta della NBA (<a href="https://fortwayne.gleague.nba.com" target="_blank">Indiana Mad Ants</a>) ma soprattutto il nome di una specie di formiche gialle, le <i><a href="https://a-z-animals.com/animals/yellow-crazy-ant/" target="_blank">Anoplolepis gracilipes</a></i>.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3d/Anoplolepis_gracilipes_casent0103001_dorsal_2.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="808" data-original-width="1112" height="258" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3d/Anoplolepis_gracilipes_casent0103001_dorsal_2.jpg" width="355" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Credit: <a href="http://www.AntWeb.org">AntWeb</a>, CC BY 4.0</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Nomen omen potrei dire visto che <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Yellow_crazy_ant" target="_blank">devono il loro nome ai movimenti alla rinfusa che viene innescato quando arriva un fattore di disturbo</a>, ad esempio un entomologo curioso.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Si tratta di formiche con una pessima nomea essendo una specie invasiva presente principalmente nel sud-est asiatico e in Oceania, la cui presenza è una minaccia reale per invertebrati e vertebrati (piccoli mammiferi inclusi) autoctoni. Ad esempio nella <i><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Isola_di_Natale" target="_blank">Christmas Island</a></i>, territorio australiano a sud di Giava, l’arrivo di queste formiche ha portato alla decimazione dei granchi rossi.</div><div style="text-align: justify;">Comprendere la genetica di queste formiche ha sia valenza scientifica che pratica, utile per trovare modi per arginare la loro diffusione. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Lo studio che oggi riassumo descrive proprio il completamento della loro analisi genetica (conclusione di lavori pubblicati nel 2018) che spiega come mai i maschi apparissero come diploidi (caratteristica insolita negli insetti), dato il possedere due versioni di molti marcatori genetici. </div><div style="text-align: justify;"></div><blockquote><div style="text-align: justify;">Come in molti altri insetti, i maschi si sviluppano da uova non fecondate, quindi sono aploidi al contrario delle femmine (diploidi) frutto di uova fecondate. Avere due varianti dello stesso gene fu quindi una scoperta inattesa, per quanto fosse noto che in alcune specie di formiche si generano occasionalmente maschi diploidi il cui contributo genetico è però nullo essendo sterili.</div><div style="text-align: justify;">Trovare una specie di formica in cui TUTTI i maschi erano diploidi sollevò domande sulla loro genetica. </div></blockquote><div style="text-align: justify;">Primo e fondamentale passaggio nell'analisi fu di studiare il genoma di singole cellule prelevate dai maschi di questa specie di formiche invece del DNA ottenuto dalla formica intera; il risultato rivelò che i maschi erano in effetti aploidi sebbene apparissero diploidi se analizzati come organismo completo. La diploidia apparente era il risultato del chimerismo dei maschi, costituiti cioè da due distinte linee cellulari di partenza da cui poi originava l'intera formica.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Nel dettaglio le (cellule delle) formiche regine hanno due copie di una stessa linea genomica chiamata R (R/R) mentre le formiche operaie (sterili) sono degli ibridi, sono cioè portatrici di un'altra linea (detta W), ragione per cui ogni loro cellula è di tipo W/R.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>In altri insetti (ad esempio le api) sia la regina che le operaie sono sorelle geneticamente non distinguibili a priori. La "classe sociale" delle femmine è conseguenza del tipo di alimentazione ricevuta durante la fase larvale. In questa specie di formiche invece la classe è frutto del corredo genetico.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Ne deriva che tutte le uova prodotte dalla regina saranno unicamente rappresentative del genoma R. </div><div style="text-align: justify;">I maschi appaiono anche essi W/R ad una analisi macro come se fossero diploidi. In realtà l’analisi di cellule singole conferma che anche loro (come gran parte dei maschi negli insetti) sono aploidi e che lo status apparentemente diploide R/W è dovuto all’essere chimere cellulari, organismi cioè che hanno nel loro corpo due popolazioni di cellule, una portatrice del solo genoma W e l’altra del solo genoma R. Ne deriva che i loro spermatozoi saranno portatori del genoma R o W</div><div style="text-align: justify;"></div><blockquote><div style="text-align: justify;">Esperimenti successivi hanno evidenziato che le cellule R e W sono distribuite in modo non uniforme nel corpo dei maschi con il 75% delle cellule somatiche di tipo R. Il rapporto si inverte negli spermatozoi dove il 65% sono cellule W.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://www.sciencenews.org/wp-content/uploads/2023/04/040523_MP_ant-chimeras_inline-desktop.png" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="242" data-original-width="680" height="187" src="https://www.sciencenews.org/wp-content/uploads/2023/04/040523_MP_ant-chimeras_inline-desktop.png" width="525" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Le cellule W e R non sono distribuite in modo uniforme nel corpo e tale distribuzione differisce anche tra gli individui (nell'immagine 5 maschi rappresentativi) <br />Darras et al /SCIENCE 2023</td></tr></tbody></table></blockquote><div style="text-align: justify;">I gameti maschili (spermatozoi) saranno di conseguenza in gran parte W, utili per generare femmine operaie (o anche maschi, vedi sotto), mentre nel caso in cui lo spermatozoo sia di tipo R nascerà una regina.</div><div style="text-align: justify;">I maschi sono, come detto, aploidi per cui non sono il risultato di una vera fecondazione (fusione di due gameti e unione dei due nuclei) ma solo di una interazione che non porta alla fusione dei nuclei. Ecco la ragione per cui i maschi sono degli "eterozigoti mancati" le cui cellule sono derivate dai discendenti mitotici della cellula uovo o dello spermatozoo generando così organismi chimerici.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Importante sottolineare come non esistano evidenze di scambio di materiale genomico (leggasi ricombinazione), processo tipico negli stadi finali della meiosi. Una caratteristica che li differenzia sostanzialmente da altri organismi diploidi (come siamo noi) in cui sebbene siamo portatori dei tratti genetici dei genitori, i cromosomi non sono in realtà uguali a quelli parentali essendo passati attraverso il <a href="https://www.treccani.it/enciclopedia/crossing-over_%28Dizionario-di-Medicina%29/#:~:text=Scambio%20reciproco%20di%20segmenti%20di,materni%20e%20paterni%20nella%20progenie." target="_blank">passaggio di scambio di materiale genetico (ricombinazione) anche noto come crossing-over</a>.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Una modalità riproduttiva questa mai descritta prima in altri organismi, fatto che apre la discussione sul motivo per cui si sia evoluta (ovvero sia stata selezionata) tale variante.</div><div style="text-align: justify;">Una possibilità è che dato che il genoma W è veicolato unicamente dal maschio (le operaie sono sterili), il “rifiuto” di una parte delle cellule spermatiche portatrici di W di fondersi con il nucleo della cellula uovo, favorirebbe la sopravvivenza nel pool genomico di questo genoma. L'ipotesi è che queste due linee genomicamente distinte si sarebbero evolute in modo indipendente in due popolazioni di formiche separate che alla fine si sono mescolate.</div><div style="text-align: justify;">Ipotesi alternativa è che si sarebbe partiti da una sola popolazione che dopo avere originato due popolazioni distinte, sviluppando tratti diversi, si sia poi "ricongiunta" a formare questo ibrido in cui due pool genomici sono in lotta tra loro (caso estremo di <a href="https://amzn.to/3MnQF2U" target="_blank">"gene egoista" formulato da Richard Dawkins?</a>).</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Per quanto riguarda il vantaggio (o meglio, perché sia stato selezionato questo sistema), potrebbe essere legato al loro successo come specie tra le più invasive al mondo. Infatti dato che la fusione dei nuclei R e W dà luogo solo a operaie sterili, le due linee non potranno mai mescolarsi evitando ogni possibilità di consanguineità, una caratteristica invece presente in altre specie di formiche invasive di minor successo. Sul lungo periodo consanguineità estrema equivale a minori risorse per affrontare cambiamenti nell'ecosistema. </div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Nota. Il chimerismo non è una novità assoluta, essendo stata rilevata anche in altre creature, compresi gli umani, ma si tratta in genere di incidenti di percorso e non della norma di una specie. Un esempio di chimerismo negli umani si può osservare nei soggetti affetti da sindrome di Down in cui la trisomia del cromosoma 21 è spesso limitata solo ad una certa percentuale delle cellule, a seconda di quanto precocemente nello sviluppo post-zigotico è avvenuta la mitosi con segregazione anomala (più sono le cellule coinvolte, più marcata la sintomatologia Down)</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Si stima che esistano circa 20 mila specie di formiche, gran pare delle quali poco o nulla studiate. Chissà che in futuro si abbiano altre sorprese sulla loro genetica anche considerando l’essere un gruppo di formidabile successo, in giro sul nostro pianeta da circa 160 milioni di anni, ben prima dei dinosauri.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"></div><blockquote><div style="text-align: justify;">Per chi volesse saperne di più sull'incredibile mondo delle formiche, tre libri di Edward Wilson </div><div style="text-align: justify;"></div></blockquote><div style="text-align: center;"><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=8845925609&linkId=54bb1597f71fe5fe6775c6329f3c747e" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=8832853558&linkId=590eab87f2e903cfb1ae6a03d17ded37" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=8845935264&linkId=3a86b7119edc7b3881b2b3449245e384" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonti</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>Invasive yellow crazy ants create male ‘chimeras’ to reproduce</i></div><div style="text-align: justify;"><a href="https://www.sciencenews.org/article/invasive-yellow-crazy-ants-male-chimeras-reproduce" target="_blank">sciencenews</a> (2023)</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">- <i>Genes and genomic processes underpinning the social lives of ants</i></div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: justify;"><a href="https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2214574517301335" target="_blank">Current Opinion in Insect Science (2018)</a> v25 Pages 83-90</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">- Sex determination in <a href="https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK10025/" target="_blank">Drosophila</a> (e in <a href="https://academic.oup.com/jhered/article/108/1/78/2631559" target="_blank">altri insetti</a>)</div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-59377063154729043812023-10-25T19:30:00.001+02:002023-10-25T19:30:00.149+02:00La teoria MOND spiega il (fantomatico) Pianeta 9?<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://cdn.mos.cms.futurecdn.net/YkK2cGpyNyXFWi95t483Q5-650-80.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="366" data-original-width="650" height="302" src="https://cdn.mos.cms.futurecdn.net/YkK2cGpyNyXFWi95t483Q5-650-80.jpg" width="537" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Image Credit: NASA/SOFIA/Lynette Cook</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Tra le possibili spiegazioni del mistero del pianeta 9, cioè di un pianeta che dovrebbe esistere (per spiegare alcune anomalie orbitali della fascia di Kuiper, ai confini del sistema solare) ma che nessuno strumento è mai riuscito ad identificare, si annoverano buchi neri primordiali (PBH, <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2020/12/alla-ricerca-del-pianeta-9-un-buco-nero.html" target="_blank">vedi articolo precedente</a>), pianeti con orbite talmente eccentriche da essere per ora fuori visuale o l’essere questa massa mancante in realtà il risultato della <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2018/08/il-pianeta-9-e-un-miraggio-al-suo-posto.html" target="_blank">somma di una miriade di piccoli planetoidi</a> come quelli che compongono la nube di Oort.</div><div style="text-align: justify;">Nelle scorse settimane ne è stata proposta un’altra, ben più complessa, che è parte della <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Teorie_MOND" target="_blank">teoria MOND </a>sviluppata come alternativa alla (altrettanto introvabile) materia oscura per spiegare la curva di rotazione delle galassie. Il nuovo sviluppo (pubblicato su <i>The Astronomical Journal</i>) viene dagli astrofici americani Brown e Mathur che hanno provato a vedere se questa versione modificata della dinamica newtoniana fosse in grado di spiegare gli indizi (e rendere così inutile la proposta della sua esistenza) del Planet Nine.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">In parole molto semplici le orbite anomale di alcuni corpi transnettuniani sarebbe un effetto della azione gravitazionale della Via Lattea nel suo complesso che, a certe distanze, si comporterebbe in modo “non-newtoniano”. Il punto centrale della della Mond, revisione della dinamica newtoniana, è il palesare i suoi effettià dove la forza gravitazionale è molto debole come ad esempio ai confini delle galassie a spirale (dove si trova il sistema solare) o negli ammassi aperti. </div><div style="text-align: justify;">L’idea inziale di Brown era tipica del pensiero scientifico cioè mettere alla prova la teoria Mond verificando una eventuale incompatibilità con i dati che avevano generato l’idea di Planet Nine. Invece la conclusione alla quale giunsero fu che qualche effetto poteva esserci, quindi non solo la Mond non viene “falsificata” da questi dati ma che il clustering di alcuni corpi trans-nettuniani (TNO) sarebbe proprio ciò che la Mond prevede: in tempi su scala di milioni di anni le orbite di alcuni TNO sarebbero stati spinti fino ad allinearsi con il campo gravitazionale della Via Lattea.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Mistero risolto? Aspettiamo la prossima puntata</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>Modified Newtonian Dynamics as an Alternative to the Planet Nine Hypothesis</i></div><div style="text-align: justify;"><a href="https://iopscience.iop.org/article/10.3847/1538-3881/acef1e" target="_blank">Katherine Brown e Harsh Mathur</a>, (2023) The Astronomical Journal</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-9510946527072745812023-10-19T19:30:00.003+02:002023-11-19T16:16:40.261+01:00Qual è la distanza di sicurezza da una supernova?<div style="text-align: justify;">Una supernova è la spettacolare esplosione di una stella massiccia giunta a fine vita**, così spettacolare che è raccomandabile guardarla da molto lontano.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://chandra.si.edu/photo/2023/4snr/4snr_525.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="372" data-original-width="525" height="185" src="https://chandra.si.edu/photo/2023/4snr/4snr_525.jpg" width="262" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Illustration Credit: NASA/CXC/M. Weiss</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Tale premessa spiega la domanda che si sono posti alcuni astronomi cioè quale sia la distanza di sicurezza minima. La risposta viene da uno studio basato sui dati ottenuti dall’<a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Chandra_X-ray_Observatory" target="_blank">osservatorio a raggi X Chandra</a>, che pone a 160 anni luce tra noi e la stella perché l'evento sia osservabile senza subirne gli effetti. Studi precedenti avevano fissato il paletto a 50 anni luce dalla Terra e altri avevano descritto gli <a href="https://earthsky.org/space/supernovae-showered-earth-with-radioactive-debris/" target="_blank">scarsi effetti di una supernova avvenute a 300 anni luce da noi</a>, non associabili a evidenti cambiamenti della biosfera (o estinzioni di massa) sulla Terra.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>L'ultimo evento distruttivo risale alla <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Ordovician#Life" target="_blank">fine dell'Ordoviciano (500 milioni di anni fa</a>) in cui si ritiene che l'estinzione di massa sia stata <a href="https://arxiv.org/pdf/astro-ph/0309415.pdf" target="_blank">innescata, attraverso una serie di effetti a cascata, da GRB (gamma ray burst</a>) prodotti da una non meglio identificata supernova, i cui effetti sono però evidenti nella d'elezione dello strato di ozono dell'antica atmosfera.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Una supernova distante 30 anni luce di distanza produrrebbe gravi danni sulla Terra a causa dell'effetto dei raggi X e gamma sullo strato di ozono, danneggiato il quale aprirebbe la strada all'azione dannosa dei raggi ultravioletti provenienti dal Sole. A questo si aggiungerebbe la ionizzazione dell'azoto e dell'ossigeno atmosferici portando alla formazione di grandi quantità di protossido di azoto, che tra le altre cose causa l'effetto serra, quindi un forte impatto sul clima.</div><div style="text-align: justify;">Tra i primi organismi ad essere <a href="https://ui.adsabs.harvard.edu/abs/1995PNAS...92..235E/abstract" target="_blank">colpiti il fitoplancton</a> il cui declino impatterebbe la catena alimentare oceanica e con esso la biosfera in generale.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Fortunatamente (oggi) non ci sono (più) stelle entro un raggio di 30 anni luce che abbiano la potenzialità di originare supernova; discorso simile anche espandendo il raggio a 100 anni e ampliando le previsioni centinaia di milioni di anni da ora; o almeno non ci sono stelle massicce che sono per natura di breve vita e destinate a "esplodere".</div><div style="text-align: justify;"></div><blockquote><div style="text-align: justify;">** Esistono due diversi tipi di supernova. La <b>supernova di tipo II</b> è una stella massiccia che collassa quando ha esaurito il combustibile nucleare e non è più in grado di produrre energia per controbilanciare la massa soprastante. Non mi risultano esserci stelle massicce entro la distanza di sicurezza di 160 anni luce.</div><div style="text-align: justify;">La <b>supernova di tipo I</b> si verifica quando una piccola e debole stella nana bianca collassa avendo raggiunto una massa critica in seguito alla cattura di materiale da una stella compagna in un sistema binario. Queste stelle sono fioche e difficili da trovare, quindi manca una precisa indicazione di quante ce ne siano nelle vicinanze; una stima meramente teorica indica un numero di alcune centinaia entro 160 anni luce, ma non se ne conosce nessuna pronta ad esplodere. La stella <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/IK_Pegasi" target="_blank">IK Pegasi B (parte di un sistema binario</a>) è il candidato progenitore di supernova più vicino conosciuto situato a circa 150 anni luce di distanza.</div></blockquote><div style="text-align: justify;"></div><div style="text-align: justify;">C'è in effetti una stella gigante (15-20 masse solari) che gli astronomi prevedono esploderà "presto": <b>Betelgeuse</b>. La stella, di cui <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2023/07/nuove-variazioni-luminosita-di.html" target="_blank">ho scritto in precedenza</a>, si trova a 430 anni luce da noi e la sua supernova produrrà sarà visibile per diverse settimane anche in pieno giorno.</div><div style="text-align: justify;"><div>Nella storia dell’umanità (quindi poche migliaia di anni) non si hanno evidenze di supernova verificatesi entro una distanza inferiore al centinaia di anni luce. La supernova più recente (1987) visibile ad occhio nudo è stata la <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/SN_1987a">SN 1987A</a>, distante ben 168 mila anni luce, e la seconda visibile senza strumenti in base ai resoconti storici (la prima è quella di <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/SN_1604" target="_blank">Keplero nel 1604</a>, distante 20 mila anni luce).</div><div><blockquote>La più vicina nell'ultimo decennio è quella avvenuta nella galassia M101, distante ben 21 milioni di anni luce.</blockquote></div></div><div style="text-align: justify;">Alcune stime suggeriscono che la frequenza di supernove "con effetti potenziali" (per la distanza) potrebbero verificarsi ogni 15 milioni di anni; un altro studio che l’esplosione di una supernova entro 10 parsec (33 anni luce) si verifica ogni 240 milioni di anni. In modo più semplice potremmo rifarci al <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Principio_antropico" target="_blank">principio antropico</a> per dire che il fatto stesso che abbiamo la possibilità di pensare a tali eventi è la prova che la Terra si trova in un'area relativamente sicura dove questi eventi sono estremamente rari tanto da aver permesso alla vita di emergere e restare negli ultimi 3,5 miliardi di anni.</div><div style="text-align: justify;">.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>X-Ray-luminous Supernovae: Threats to Terrestrial Biospheres</i></div><div style="text-align: justify;"><a href="https://iopscience.iop.org/article/10.3847/1538-4357/acc728" target="_blank">Ian R. Brunton et al</a>, (2023) The Astrophysical Journal</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-55459593200363238232023-10-11T16:22:00.001+02:002023-10-11T16:22:04.862+02:00La caffeina riduce il rischio Parkinson, anche nei soggetti predisposizione genetica?<div style="text-align: justify;">Una nuova ricerca svela una correlazione significativa tra il consumo di caffeina e un ridotto rischio di malattia di Parkinson (PD) per gli individui con varianti genetiche asiatiche legate al disturbo.<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://neurosciencenews.com/files/2023/10/caffeine-pakinsons-neurosicnnece.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="533" data-original-width="800" height="177" src="https://neurosciencenews.com/files/2023/10/caffeine-pakinsons-neurosicnnece.jpg" width="266" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Image credit: <a href="https://neurosciencenews.com" target="_blank">Neuroscience News</a></td></tr></tbody></table></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Lo studio è stato condotto a Singapore dal (locale) <i>National Neuroscience Institute</i>.</div><div style="text-align: justify;">Una delle ragioni dello studio è che poco meno del 10% della popolazione di Singapore è portatrice di una delle due varianti genetiche asiatiche conosciute, che aumentano il rischio PD fino a 2 volte. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L'analisi ha coinvolto 4488 soggetti divisi tra portatori della variante genica e controlli. Si tratta di uno studio osservazionale in cui è stata fatta una correlazione tra la frequenza di sintomi in funzione della quantità di caffè abitualmente bevuto; il confronto è sia interno (diverse dosi di caffeina assunta abitualmente negli anni) che con i controlli (soggetti senza predisposizione genetica alla malattia con uguale consumo di caffè).</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La quantità di caffeina media assunta giornalmente dai partecipanti è stata di 450 mg, equivalenti a circa 4-5 tazze di caffè locale (per dare una idea una tazzina di espresso contiene intorno 60 mg, mentre una tazzina di Moka può arrivare a 120 mg)</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">I risultati indicano che il consumo regolare di tè o caffè riduce il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson di 4/8 volte rispetto ai portatori della variante che non assumono caffeina. L'effetto protettivo sembra aumentare all'aumentare della quantità di caffeina assunta sebbene anche un consumo modesto, inferiore a 200 mg al giorno, mostra benefici (termine che, ricordo, vuol dire sintomi minori o assenti rispetto a chi non ha mai assunto caffeina).</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>L’assunzione di 400 mg di caffeina al giorno è considerata sicura per la maggior parte degli adulti sani. Il dato neuorprotettivo in sé non è inatteso in quanto è da tempo nota l'azione neuroprotettiva della caffeina anche nel contesto di altre condizioni neurodegenerative.</blockquote><p> La ragione di tale protezione sembra essere l'azione antinfiammatoria della caffeina alla base di ridotta neuroinfiammazione e morte neuronale.</p></div><div style="text-align: justify;">Lo studio del PD è un tema di sempre maggiore importanza con l'aumento della età media della popolazione globale. Nella sola Singapore vi sono 8 mila persone affette da PD e si stima che il 26% della popolazione anziana locale presenti almeno lievi segni di parkinsonismo. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>Caffeine intake interacts with Asian gene variants in Parkinson's disease: a study in 4488 subjects</i></div><div style="text-align: justify;"><div><a href="https://www.thelancet.com/journals/lanwpc/article/PIIS2666-6065(23)00195-5/fulltext#%20" target="_blank">Yi-Lin Ong et al</a> (2023) The Lancet (Reg Health West Pac)</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-6671690688201059842023-10-01T15:42:00.005+02:002023-10-01T15:42:55.330+02:00Al lavoro per sviluppare test per la diagnosi veloce di Parkinson dai tamponi cutanei<div style="text-align: justify;">Diagnosticare (meglio se con largo anticipo) il morbo di Parkinson? Potrebbe in futuro essere possibile usando un metodo totalmente non invasivo analizzando il sebo mediante spettrometri di massa.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Lo studio di fattibilità è stato pubblicato qualche mese fa sulla rivista <i>Journal of the American Chemical Society</i> da un team inglese che ha scoperto che esistono lipidi ad alto peso molecolare più abbondanti nelle persone con il Parkinson.</div><div style="text-align: justify;">I test, preliminari, sono stati condotti su un gruppo campione costituito da 79 persone con Parkinson e un gruppo di controllo di 71 persone.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L'idea dello studio viene dallo studio di una persona di cui avevo già scritto in precedenza* come Joy Milne, dotata di olfatto "super" (in termini tecnici <b><a href="https://www.msdmanuals.com/it-it/casa/problemi-di-orecchie,-naso-e-gola/sintomi-delle-patologie-del-naso-e-della-gola/panoramica-dei-disturbi-dell-olfatto-e-del-gusto" target="_blank">iperosmia ereditaria</a></b>), che si è dimostrata capace di "annusare" la malattia nelle persone prima che questi manifestassero i sintomi clinici.<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://content.presspage.com/uploads/1369/1920_joymilne.jpg?10000" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="544" data-original-width="800" height="331" src="https://content.presspage.com/uploads/1369/1920_joymilne.jpg?10000" width="487" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Joy Milne al "lavoro" (credit: manchester.ac.uk)</td></tr></tbody></table></div><div style="text-align: justify;"><blockquote>* Vi rimando agli articoli del 2019 ("<i><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2019/05/lo-strano-caso-della-donna-capace-di_15.html" target="_blank">Lo strano caso della donna capace di...</a></i>") e del 2016 ("<i><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2016/12/predire-il-rischio-parkinson-dallodore.html" target="_blank">Predire il rischio di Parkinson dall'odore</a></i>").</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Il sebo è una secrezione oleosa, ricca di metaboliti, prodotta dalle ghiandole sebacee cutanee collegate al sistema endocrino.</div><div style="text-align: justify;">Punto di partenza la nozione clinica che i soggetti affetti da Parkinson presentano una produzione anomala di sebo, da qui l'idea di verificare se alterazioni nella sua composizione potessero avere valenza diagnostica, dall'analisi di campioni prelevati dalla parte superiore della schiena.</div><div style="text-align: justify;">Una volta arrivato in laboratorio il campione viene trasferito dal tampone alla carta da filtro, a cui viene poi aggiunta una goccia di solvente. Fatto questo si può procedere all'analisi mediante spettrometro di massa. Si è potuto così dimostrare che tra le più di 4000 molecole uniche presenti, circa 500 erano diversi tra i due gruppi di soggetti analizzati.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La speranza ultima è quella di sviluppare un test diagnostico facile e affidabile che permetta di individuare i soggetti a rischio malattia prima che questa si manifesti (requisito fondamentale per sviluppare e testare trattamenti idonei, visto che quando la malattia si manifesta il danno neuronale è oramai talmente ingente da non potere essere invertito)</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>Parkinson’s breakthrough can diagnose disease from skin swabs in 3 minutes</i></div><div style="text-align: justify;">University of Manchester /news</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">***</div><div style="text-align: justify;">Kit per addestrare l'olfatto ... senza pretendere/sperare di diventare super come Joy Milne</div><div style="text-align: justify;"><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B0C4Y3Q5PV&linkId=42779b6caf04a7f1c8af65b891e9451c" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B08VF35C56&linkId=56abeeed937575b263e5d7893e0b8af2" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B09J196ZV5&linkId=51639bce2b6f14073900e5c683c280f0" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B0BPRVD3BR&linkId=e87d18f43166af13d9baee77f04ac4cc" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-62057314034245474152023-09-30T16:14:00.001+02:002023-09-30T16:25:57.678+02:00Identificati 135 "nuovi" geni coinvolti nella pigmentazione della pelle<div style="text-align: justify;">I ricercatori identificano 135 nuovi geni della melanina responsabili della pigmentazione</div><div style="text-align: justify;">Tra le caratteristiche morfologiche che definiscono la varietà umana è facile citare il colore della pelle, dei capelli e degli occhi. Una variabilità che è dovuta in gran parte alle caratteristiche di un unico pigmento, la melanina.</div><div style="text-align: justify;">Nonostante l'apparente semplicità "causale" il sistema di regolazione è estremamente complesso, e poco caratterizzato, per due ragioni principali:</div><div style="text-align: justify;"><ul><li>nonostante il nome singolo, si tratta di una sorta di <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Melanin" target="_blank">termine "ombrello" che raggruppa diverse classi di molecole</a> (in genere originate dall'aminoacido tirosina) accumulati in particolari sacche di cellule come i melanosomi.</li><li>questa eterogeneità si amplifica a livello genetico a causa del contributo regolatori di molti geni diversi, a loro volta sottoposti al controllo trascrizionale da parte di altri geni. Ne consegue che la produzione di tali pigmenti (quantitativo e qualitativo) è il risultato dell'azione di molti piccoli contributi </li></ul></div><div style="text-align: justify;">Tale premessa spiega l'interesse del nuovo studio pubblicato sulla rivista Science, centrato sulla identificazione di 135 nuovi geni associati alla pigmentazione.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Nota. Non si parla in realtà di NUOVI geni appena scoperti, ma del coinvolgimento di questi geni, noti magari per svolgere altre funzioni, nel complesso processo che porta alla produzione delle melanine.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">La melanina viene prodotta all'interno di strutture speciali chiamate melanosomi presenti all'interno dei <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Melanocita" target="_blank">melanociti</a>. Sebbene tutti gli esseri umani abbiano lo stesso numero di melanociti, la quantità di melanina prodotta è diversa e dà origine alle varie tonalità nella colorazione della pelle (etc).</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://qph.cf2.quoracdn.net/main-qimg-6c92363ad20c88948deacf32f3eaecaa-lq" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="602" data-original-width="602" height="337" src="https://qph.cf2.quoracdn.net/main-qimg-6c92363ad20c88948deacf32f3eaecaa-lq" width="337" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Evolutivamente la pigmentazione più scura era quella originaria data l'origine africana (alta irradiazione solare) del genere Homo, necessaria per proteggere la pelle dalle radiazioni ultraviolette. Con l'inizio del processo migratorio che portò gli Homo fuori dall'Africa la diminuzione della quantità di luce associata a minore presenza di cibi ricchi di vitamina D (frutta) rese da una parte meno necessaria la pigmentazione protettiva (essere scuri non serviva) e dall'altra aumentò la richiesta di sintesi endogena di tale vitamina, processo facilità dall'esposizione della pelle alla luce solare (essere scuri era deleterio perché si assorbiva meno luce e quindi era minore la <a href="https://www.my-personaltrainer.it/nutrizione/sintesi-vitamina-d.html" target="_blank">biosintesi cutanea di vitamina D</a>).</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Per capire i meccanismi (genetici e, a cascata, biochimici) alla base delle produzione di differenti quantità di melanina negli umani, gli autori dello studio hanno utilizzato la tecnologia CRISPR-Cas9, tecnica che consente di ingegnerizzare geneticamente le cellule. Nello specifico hanno rimosso sistematicamente più di 20 mila geni (la quali totalità del nostro patrimonio), uno per uno, usando centinaia di milioni di melanociti come "portatori" della mutazione (delezione) valutando su ciascuno di essi l'impatto nella produzione di melanina.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Tecniche come la citometria a flusso permettono di quantificare la quantità di pigmento presente e di separare le cellule "portatrici" della differenza cercata dalla massa di cellule (geneticamente) diverse. Una volta separate le cellule di interesse, identificare il gene mancante è "semplice".</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Dall'analisi sono emersi 169 geni funzionalmente diversi capaci di influire sulla produzione di melanina, 135 dei quali non noti per avere effetti sulla pigmentazione.</div><div style="text-align: justify;">Tra i "nuovi" geni due (KLF6 e COMMD3) sono stati analizzati funzionalmente, vale a dire fatta la caratterizzazione funzionale della proteina.</div><div style="text-align: justify;"><ul><li><b><a href="https://www.genecards.org/cgi-bin/carddisp.pl?gene=KLF6" target="_blank">KLF6</a></b> è una proteina legante il DNA e "spegne" la produzione di melanina sia negli esseri umani che negli animali</li><li>La proteina <b><a href="https://www.genecards.org/cgi-bin/carddisp.pl?gene=COMMD3" target="_blank">COMMD3</a></b> regola la sintesi della melanina agendo sullo stato di acidità dei melanosomi.</li></ul></div><div style="text-align: justify;">L'analisi dettagliata di ciascuno di questi geni apre nuove strade nello sviluppo di farmaci utilizzabili sia a scopo fotoprotettivo (e in ultima analisi dal cancro) per le persone dalla pelle chiara (che lavorano in zone ad alta insolazione) sia per terapie contro la vitiligine e altre malattie della pigmentazione.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Applicazioni che vanno oltre la salute umana essendo le nozioni acquisite utilizzabili anche per identificare i geni che regolano la produzione di melanina in funghi e batteri così da contrastare la loro patogenicità <a href="https://www.mdpi.com/2309-608X/6/4/280" target="_blank">sia su animali</a> che sulle <a href="https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1319562X2300075X" target="_blank">piante coltivate</a>.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>La produzione di melanina nei funghi e nei batteri consente loro di essere più patogeni per l’uomo o per le colture. </blockquote></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>The lingering effects of Neanderthal introgression on human complex traits</i>.</div><div style="text-align: justify;"><a href="http://dx.doi.org/10.7554/eLife.80757" target="_blank">Christopher R Robles et al</a>, (2023) eLife</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">***</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Proteggere la pelle è importante</div><div style="text-align: justify;"><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B07B9KD2JF&linkId=189114d926d6d10da2fd0865f33877d5" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B00D3HRIFW&linkId=245508a50ec37a745b8c41cf58db726e" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B07BQZ1SBJ&linkId=7dc2c258eef0a219c9049523d10e5e99" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-45301947878960846642023-09-28T14:58:00.000+02:002023-09-28T14:58:19.784+02:00I geni neandertaliani e l'effetto sulla nostra immunità e metabolismo<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">È noto oramai da tempo che noi sapiens siamo portatori (e debitori per la sopravvivenza in climi freddi) di geni ereditati dai cugini Neanderthal.</div><div style="text-align: justify;">Stime recenti indicano che i geni di Neanderthal comprendono dall'1 al 4% del genoma degli esseri umani di oggi (<b>ma solo quelli che migrarono fuori dall'Africa </b>all'alba della diffusione dei sapiens. Vedi sotto). L'incrocio è avvenuto più volte a partire da circa 50.000 anni fa mano a mano che i sapiens si addentrarono in aree già popolate da decine di migliaia di anni dai Neanderthal che per tale ragione avevano sviluppato adattamenti (a clima e malattie) assenti nei nuovi arrivati.</div><div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">In uno studio pubblicato a giugno 2023 sulla rivista eLife, i ricercatori hanno aggiunto nuove informazioni su questo fenomeno indicando tra i vantaggi acquisiti quelli a carico del sistema immunitario e del metabolismo. I nuovi dati sono stati resi possibili dallo sviluppo di una nuova suite di strumenti genetici computazionali che hanno permesso di analizzare gli effetti genetici dell'incrocio.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L'analisi si è avvalsa della elevata quantità di dati disponibile nella biobanca britannica, comprensiva delle informazioni genetiche e i tratti somatici di circa 300 mila britannici di origine non africana. I ricercatori hanno analizzato più di 235 mila varianti genetiche di probabile origine neandertaliana, scoprendo così che 4303 di queste varianti nel DNA svolgono un ruolo rilevante negli esseri umani moderni, influenzando 47 tratti genetici distinti, come la velocità con cui alcuni "bruciano" le calorie o la naturale resistenza immunitaria di una persona a determinate malattie.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://iiif.elifesciences.org/lax:80757%2Felife-80757-fig3-v2.tif/full/,1500/0/default.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="781" height="614" src="https://iiif.elifesciences.org/lax:80757%2Felife-80757-fig3-v2.tif/full/,1500/0/default.jpg" width="600" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Ereditabilità di marcatori genetici neandertaliani associati a particolari tratti fenotipici/metabolici<br />(image credit: <a href="https://elifesciences.org/articles/80757" style="text-align: justify;" target="_blank">Xinzhu Wei et al</a><span style="text-align: justify;">,/ eLife)</span></td></tr></tbody></table><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>The lingering effects of Neanderthal introgression on human complex traits</i>.</div><div style="text-align: justify;"><a href="https://elifesciences.org/articles/80757" target="_blank">Xinzhu Wei et al</a>, (2023) eLife</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;"><br /></div><div style="text-align: left;">(<span style="font-size: small;">Aggiungo in calce a questo aggiornamento gli altri articoli sul tema pubblicati in precedenza. Questo il motivo per cui alcuni concetti potrebbero essere stati ripetuti) </span> <br /><div style="text-align: justify;"><blockquote class="tr_bq">Tra gli articoli più significativi sul tema rimando al tag che raggruppa temi centrati sugli incroci con <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Homo_neanderthalensis" target="_blank">neanderthal</a> e <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/08/homo-sapiens-h-neanderthalensis-e-h.html">denisova</a> e sull'origine di alcune popolazioni umane (--> <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.it/search/label/antropologia%20evolutiva" target="_blank">QUI</a>). Una curiosità sintattica giusto per cominciare: <b>si dice neanderthal o neandertal?</b> Il minuscolo è corretto dato che in italiano, a differenza di tedesco e inglese dove sostantivi sono trattati come i nostri nomi propri, vigi tale regola. Sulla presenza del -th- o meno rimando invece ad un articolo interessante sul sito "talkorigins.com" --> <a href="http://www.talkorigins.org/faqs/homs/spelling.html">QUI</a>. Io userò preferenzialmente la versione italianizzata del nome.</blockquote></div></div><div style="text-align: center;"> ***</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div> <b><span style="color: #2b00fe; font-size: large;">Non solo vantaggi. I geni neandertaliani alla base di alcune patologie odierne</span></b> ***<br />(Articolo pubblicato in data febbraio 2016)<br />
<br />
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-dImiwU4B-Qc/Vkn6UjwtEQI/AAAAAAAAB9M/N6Rry4kO23k/s1600/credit-neanderthal-museum.630x360.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="435" src="https://3.bp.blogspot.com/-dImiwU4B-Qc/Vkn6UjwtEQI/AAAAAAAAB9M/N6Rry4kO23k/s640/credit-neanderthal-museum.630x360.jpg" width="600" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Una bambina e una statua che riproduce un uomo di Neandertal. <b>Guardare nel genoma è guardare in noi stessi</b>. (©<a href="http://www.neanderthal.de/en/home/index.html">Neanderthal Museum</a>)</span></td></tr>
</tbody></table> </div>
<div style="text-align: justify;">
Continuiamo la panoramica sulle recenti scoperte in antropologia evolutiva, frutto della enorme potenza informativa "regalataci" dal progetto genoma. In soli 10 anni siamo passati da una antropologia evolutiva basata sui reperti fossili e sulla anatomia comparata ad una antropologia fondata sulla genetica molecolare. </div>
<div style="text-align: justify;">
Il presente articolo è un aggiornamento di quanto scritto mesi fa sulle conseguenze genetiche dell'incrocio tra i sapiens e i neandertal (--> <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2014/07/sapiens-e-neanderthal-una-unione-non.html" target="_blank">QUI</a>). Se infatti tali unioni sono stati la chiave di volta per consentire il <i>rapido</i> adattamento degli africani sapiens al freddo clima eurasiatico in cui vivevano da millenni i neandertal (acquisizione di pelle chiara, capelli più spessi, o la resistenza all'alta quota --> <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2015/08/tibetani-e-i-geni-denisoviani-il.html" target="_blank">QUI</a>), cominciano ad emergere dati che indicano anche gli svantaggi per la nostra salute di sapiens sapiens derivati da tale unione e riscontrabili in malattie "moderne" come asma, malattie della pelle e forse la depressione. </div>
<div style="text-align: justify;">
<blockquote class="tr_bq">
<div>
<b>Nota</b>. Quando si affrontano temi legati all'evoluzione è fondamentale mettere sempre al centro temi come genetica e selezione naturale. Uno dei più grossi errori quando si sente parlare di selezione dai non addetti ai lavori (e i media da sempre sono i peggiori amplificatori di nozioni che non capiscono) è quello di pensare alla "selezione del più forte". Un errore che varrebbe la bocciatura immediata al corso di genetica del primo anno di università. La selezione favorisce <u>sempre e solo</u> individui con la maggiore <i>fitness</i>, un termine che può essere tradotto come "vantaggio riproduttivo": qualunque <i>mutazione</i> che aumenti la probabilità di riprodursi e di originare progenie fertile in grado di arrivare all'età riproduttiva è dominante rispetto ad un eventuale aumentato rischio di patologie nell'età adulta. Semplificando al massimo il concetto, se una data mutazione aumenta anche di poco la resistenza a malattie dell'infanzia o della prima adolescenza, ma nel contempo aumenta enormemente il rischio di patologie cardiovascolari sopra i 30 anni, questa mutazione sarà evolutivamente favorita. Bisogna infatti ricordare che l'età media dei nostri progenitori era verosimilmente inferiore ai 40 anni e la maturità sessuale (che nel caso delle femmine di qualunque specie equivale a generare progenie nei mesi successivi) era intorno ai 12-15 anni. Una volta "figliato" ed essersi dimostrati in grado di proteggere la prole fino al raggiungimento della loro maturità sessuale, il "lavoro" era fatto. Qualunque problema successivo è, da un punto di vista selettivo, irrilevante.</div>
</blockquote>
</div>
<div style="text-align: justify;">
Torniamo ora ai geni "cattivi" per un sapiens sapiens di derivazione neandertal. Le evidenze sulla loro esistenza sono state presentate da diversi ricercatori nel meeting tenutosi a Vienna nell'ambito della <a href="https://www.smbe.org/smbe/MEETINGS/2015Meeting.aspx" target="_blank"><i>Society for Molecular Biology and Evolution</i></a> sotto riassunte:</div>
<ul style="text-align: justify;">
<li><b>Corinne Simonti</b> e <b><a href="http://www.capralab.org/people/" target="_blank">Tony Capra</a></b>, della <i>Vanderbilt University</i> hanno incrociato le informazioni cliniche estratte dalle cartelle di 28 mila pazienti con la frequenza negli stessi di alleli <i>neandertal</i> in modo da verificare se esistessero correlazioni <i>pericolose</i>. I dati indicano che alcune varianti geniche di origine neandertaliana aumentano leggermente, ma in modo statisticamente significativo, il rischio di
malattie come l'<b>osteoporosi</b>, patologie della <b>coagulazione</b> e perfino la
<b>dipendenza da nicotina</b>. A complicare il quadro il fatto che l'effetto non è quasi mai, come atteso, dovuto all'azione di singoli alleli per sé ma è multiallelico; da qui la correlazione tra <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Aplotipo" target="_blank">aplotipi</a> (gruppi di alleli) <i>antichi</i> e "stati" come depressione, obesità e
alcune malattie della pelle. <u>Relazioni non unidirezionali</u> sia chiaro; alcune varianti aumentano il rischio, mentre altre lo diminuiscono.</li>
<li>Nello stesso meeting <b><a href="https://bioinf.eva.mpg.de/masking/test/pmwiki.php" target="_blank">Michael Dannemann</a></b> del Max Planck Institute ha presentato dati sugli alleli neandertaliani o denisovaniani di geni che
codificano proteine chiave del sistema immunitario innato chiamate <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Toll-like_receptor" target="_blank">Toll-like-receptor</a> (TLR), il cui ruolo è scoprire patogeni e attivare una rapida risposta difensiva. Esperimenti in coltura cellulare hanno dimostrato che le cellule con alleli neandertaliani esprimono più TLR rispetto a quelli sapiens, il che potrebbe spiegare da una parte la maggiore frequenza di allergie nei moderni portatori di tali alleli (e in generale nelle popolazioni non-africane... vedi articoli precedenti) e dall'altra il loro essere più protetti dall'infezione da <i><a href="http://www.epicentro.iss.it/problemi/helico/helicobacter.asp" target="_blank">Helicobacter pylori</a></i> (il batterio causa dell'ulcera gastrica). </li>
<li>Il maggior rischio di diabete di tipo II notoriamente presente nei i discendenti degli indios sudamericani e in alcune popolazioni orientali è legato ad un aplotipo particolarmente frequente in queste popolazioni che arriva direttamente dai progenitori neandertal (<a href="http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24390345"><span style="font-size: x-small;"><i>Williams AL et al, Nature 2014</i></span></a>). </li>
</ul>
<div style="text-align: justify;">
Una precisazione è dovuta.</div>
<div style="text-align: justify;">
E' errato in questi casi parlare di alleli "cattivi" o "buoni". Si tratta di alleli dimostratisi vantaggiosi in determinate condizioni ambientali che gli antenati sapiens dovettero affrontare nel passato (o in altri casi segregati casualmente per motivi legati a <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Deriva_genetica"><i>deriva genetica</i></a>, <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_del_fondatore"><i>effetto del fondatore</i></a> oppure a <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Collo_di_bottiglia_%28genetica%29"><i>collo di bottiglia genetico</i></a>). Con il passare dei millenni, e soprattutto negli ultimi due secoli con l'antropizzazione ambientale e la nascita della medicina moderna, l'ambiente è stato plasmato in modo da favorire la nostra sopravvivenza con il risultato che alcuni alleli un tempo utili hanno (nel migliore dei casi) perso utilità diventano "neutri" e in alcuni casi hanno mostrano i loro "effetti collaterali" prima non visibili semplicemente in quanto non vivevamo abbastanza a lungo o più semplicemente perché il rapporto beneficio/danno era alto.<br />
Ciò che era vantaggioso un tempo non è detto che lo sia oggi come ben insegna il caso degli alleli causa di talassemia accumulatisi (sebbene chiaramente "dannosi") in alcune popolazioni in quanto conferenti una maggiore resistenza alla malaria. Scomparsa la malaria (Sardegna, delta ferrarese, paludi pontine, ...) rimane solo la dannosità.</div><div style="text-align: justify;">(prossimo articolo sul tema --> "<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2016/09/lucy-la-nostra-antenata-bipede-mori_28.html"><i>Lucy cadde dall'albero</i></a>")</div><div style="text-align: justify;"><br style="text-align: left;" /><b style="text-align: left;"> Fonte</b><br style="text-align: left;" /><i style="text-align: left;">- Neanderthals had outsize effect on human biology</i><br style="text-align: left;" /><span style="font-size: x-small; text-align: left;">Nature, luglio 2015</span><br style="text-align: left;" /><div><i>- The phenotypic legacy of admixture between modern humans and Neandertals</i><br /><span style="font-size: x-small;"><a href="http://science.sciencemag.org/content/351/6274/737" target="_blank">Corinne N. Simonti et al</a>, Science Feb 2016: Vol. 351, Issue 6274, pp. 737-74</span><br /><br /><div style="text-align: center;"><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: small;">Articolo recente sugli incroci avvenuti tra sapiens, neanderthal e denisova</span></div><div style="text-align: justify;"><i>- Analysis of Human Sequence Data Reveals Two Pulses of Archaic Denisovan Admixture</i></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: small;"><span style="font-size: x-small;">S. R. Browning et al, (2018) Cell 173, 1–9</span></span></div></div></div>
<blockquote class="tr_bq"><br /></blockquote>
</div>
<span style="text-align: center;"><div style="text-align: justify;"><blockquote><b>Aggiornamento 01/2019</b> . <span style="text-align: justify;">Un recente studio basato sulle varianti geniche trasmesse dal genitore Neanderthal indica un "allungamento" del cranio rispetto a quello più rotondo di un Sapiens "puro". Una conclusione derivante dallo studio funzionale delle varianti geniche presenti solo nel DNA neanderthaliano. Non ci sono prove che tali varianti abbiano influenzato la capacità cognitiva.</span></blockquote><span style="text-align: justify;"></span></div></span><br /><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: center;">
<br />
<span style="font-size: small;">***</span></div><div style="text-align: center;"><span style="font-size: large;"><span style="caret-color: rgb(0, 0, 255); text-align: justify;"><span style="color: blue;"><b>Sapiens e Neanderthal. </b></span></span><b><span style="color: blue;">Una unione non priva di problemi</span></b></span> </div><div style="text-align: center;"><span style="font-size: small;"><span style="font-size: small;">Articolo pubblicato a luglio 2014 (<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2014/07/sapiens-e-neanderthal-una-unione-non.html" target="_blank">QUI</a></span>)</span></div><div style="text-align: center;"><span style="font-size: small;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
Non sappiamo se sia stato amore a prima vista o se gli incroci tra <i>Homo sapiens</i> e <i>Homo neanderthalensis</i> siano stati il frutto di incontri casuali o peggio frutto di scorrerie incrociate. Sta di fatto che noi tutti appartenenti alle <u>popolazioni non-africane di Homo sapiens</u> (e il motivo di questa precisazione lo descriverò tra qualche riga) abbiamo, usando un termine banalizzante ma comprensibile ai non addetti ai lavori, "<i>sangue neanderthal</i>". Lo stesso concetto può essere espresso molto meglio scientificamente scrivendo che una parte del nostro genoma è di chiara provenienza neanderthaliana.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://2.bp.blogspot.com/-9MK-8z3ABJs/V3kmguwsPkI/AAAAAAAAC4I/UArr261k5MAF1-8LNdgGfrT3vLw65i6OwCLcB/s1600/daynesp1140378sm.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="https://2.bp.blogspot.com/-9MK-8z3ABJs/V3kmguwsPkI/AAAAAAAAC4I/UArr261k5MAF1-8LNdgGfrT3vLw65i6OwCLcB/s320/daynesp1140378sm.jpg" width="276" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Neanderthal (©Museum of Natural History, Vienna)</span></td></tr>
</tbody></table>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
Tale affermazione non deriva né da speculazioni né da narrativa para-scientifica, ma è il risultato ottenuto grazie alle sempre più avanzate tecniche di caratterizzazione genomica che nell'ultimo decennio hanno permesso di scandagliare sempre più in profondità nel nostro DNA.<br />
Ciò che una volta (e parliamo della fine dello scorso millennio) era un approccio valido al più per costruire film come Jurassic Park, oggi è diventato una realtà: dai fossili del neandertal è stato possibile estrarre DNA sufficientemente integro da essere sequenziato e le stringhe di informazioni "riordinate" in modo coerente (e questo grazie a software molto potenti). La comparazione tra la sequenza nucleotidica dei nostri "cugini" e la nostra indica in modo chiaro la presenza di una eredità neandertal nel nostro genoma. Presenza attribuibile unicamente ad incroci ripetuti avvenuti quando i due Homo avevano intrappreso percorsi evolutivi separati già da molte decine di migliaia di anni.<br />
Queste unioni sono state una fortuna per i nostri antenati "ibridi" dato che hanno fornito loro una "scorciatoia" evolutiva per adattarsi più velocemente ai nuovi ambienti colonizzati, più freddi di quelli originari e <i>ricchi</i> di microbi ignoti al loro repertorio immunitario.<br />
Tutto facile? Non proprio. Come spesso avviene durante gli incroci tra "quasi-specie" è verosimile che le primissime generazioni di ibridi fossero caratterizzate da ridotta fertilità e da tratti non vantaggiosi per non dire deleteri.</div>
<div style="text-align: justify;">
<blockquote class="tr_bq">
<b>Nota</b>. Quando soggetti di una stessa specie si vengono a trovare separati per un tempo sufficientemente lungo è quasi automatico che accumulino differenze genetiche proporzionali al numero di generazioni trascorse e alla differenza ambientale. Le cause di tali differenze sono molteplici e vanno da fenomeni come <i><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_del_fondatore" target="_blank"><b>founder-effect</b></a></i>, <i><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Collo_di_bottiglia_%28genetica%29" target="_blank"><b>bottleneck genetico</b></a></i> alla <b>selezione</b> positiva/negativa di nuovi alleli vantaggiosi/svantaggiosi in un dato ambiente; esempio classico di selezione di alleli svantaggiosi è quello causante l'anemia mediterranea in grado di conferire, allo stato eterozigote, un vantaggio selettivo nelle zone malariche. Il caso più noto dei problemi legati all'incrocio tra specie diverse ma molto vicine geneticamente è quello tra cavalli ed asini; simili ma sufficientemente "divergenti" da non essere più in grado di generare una progenie fertile. Quando questo avviene si parla di <b>speciazione</b> ed è biologicamente riassumibile come la <u>incapacità di generare una prole fertile</u>.<br />
Un esempio meno estremo (non è avvenuta, ancora, la speciazione) è quello riferito a popolazioni di scimpanzé che vivono da tempo indefinito in aree adiacenti ma separate tra loro da un fiume sufficientemente largo (le scimmie non sanno nuotare). Lo studio del loro genoma ha mostrato la sedimentazione di tratti specifici, pur abitando in aree sostanzialmente identiche (--> <a href="http://www.wellcome.ac.uk/News/Media-office/Press-releases/2012/WTVM054542.htm">QUI</a>), addirittura maggiori di quelli esistenti tra le popolazioni umane (in cui la separazione geografica è durata poche decine di migliaia di anni).</blockquote>
</div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
Torniamo all'incipit dell'articolo odierno in cui accennavo alla unione tra neanderthaliani e sapiens. Per comprendere appieno i riferimenti è tuttavia necessario fare un'altra digressione riassumendo alcuni concetti su quanto è avvenuto dopo la separazione dei due rami evolutivi (sapiens e neanderthal) a partire dall'antenato comune. Questi dati sono essenziali per comprendere il motivo per cui il DNA neanderthaliano è presente <u>unicamente</u> nelle popolazioni non africane.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgAeb7K_xqBs8uLOihcRQV7BgyBn19p7RTaIvQy8FVcpeNrKh0T7KsrJEIkgqmI7lQudZq_lbyczbnW1M8GqB3aPNQAfINpzUSlwZOLjDobOHoD4sBSQwvOVCGlR1BGX_fLDT03unEWp8d/s1600/eurasiaNeanderthal.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgAeb7K_xqBs8uLOihcRQV7BgyBn19p7RTaIvQy8FVcpeNrKh0T7KsrJEIkgqmI7lQudZq_lbyczbnW1M8GqB3aPNQAfINpzUSlwZOLjDobOHoD4sBSQwvOVCGlR1BGX_fLDT03unEWp8d/s1600/eurasiaNeanderthal.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">La zona abitata dai Neanderthal prima della migrazione umana</span></td></tr>
</tbody></table>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><br /><a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/4/41/Spreading_homo_sapiens.svg/800px-Spreading_homo_sapiens.svg.png" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="376" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/4/41/Spreading_homo_sapiens.svg/800px-Spreading_homo_sapiens.svg.png" width="600" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Le diverse tappe temporali della diffusione del sapiens (credit: nature.org)</span></td></tr>
</tbody></table>
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><br /><a href="https://1.bp.blogspot.com/-iSF9oGB2Wcc/XWgfehVfngI/AAAAAAAAKjc/GrJrb9Z9qBY4_LCUE9jVGiKoPF5uCczsACLcBGAs/s1600/d41586-019-02075-9_16903552.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="527" data-original-width="800" height="420" src="https://1.bp.blogspot.com/-iSF9oGB2Wcc/XWgfehVfngI/AAAAAAAAKjc/GrJrb9Z9qBY4_LCUE9jVGiKoPF5uCczsACLcBGAs/s640/d41586-019-02075-9_16903552.jpg" width="600" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Alla luce dei recenti ritrovamenti in Grecia (2019) la prima traccia dei sapiens in Europa è stata spostata a 210 mila anni fa. Paradossalmente prima dei Neanderthal, sebbene questo gap sia verosimilmente conseguenza di reperti Neanderthal meno diffusi (<a href="https://www.nature.com/articles/d41586-019-02075-9" target="_blank">image credit: Nature</a>)</span></td></tr>
</tbody></table>
<br />
<br />
La parentela tra <b>Homo sapiens</b> e <b>Homo neanderthalensis</b> risale ad un <span style="color: blue;">antenato comune vissuto circa mezzo milione fa</span>. A tale periodo va infatti fatta risalire con ogni probabilità la separazione geografica (e quindi riproduttiva) tra i due gruppi, iniziata con la migrazione dei proto-neanderthal dall'Africa verso il medio oriente prima ed Europa e Asia poi. Una migrazione che li avrebbe portati in territori climaticamente ben diversi da quelli originari e a cui finirono per adattarsi. Ricordo che il termine "adattamento" va inteso geneticamente, come selezione dei caratteri che meglio aiutano a sopravvivere (e a riprodursi in modo "produttivo") in un dato ambiente. In altre parole la <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Fitness_%28genetica%29" target="_blank">fitness genetica</a>.<br />
<br />
Bisognerà aspettare altri 400 mila anni (quindi solo <span style="color: blue;">100 mila anni fa</span>)
prima che l'Homo sapiens inizi la sua migrazione dall'Africa,
staccandosi dai fratelli africani. Una separazione provata dalle
differenze genetiche accumulatesi (causa isolamento riproduttivo) tra sapiens africani e non-africani.<br />
<br />
<blockquote class="tr_bq">
Per
evitare equivoci vale la pena sottolineare che questo non implica che
uno dei due sia migliore (o più evoluto) dell'altro ma semplicemente che
per molte migliaia di anni si è avuta una separazione di fatto tra i
sapiens rimasti in Africa e quelli da essa emigrati (quindi oltre agli <b>eurasiatici</b> anche gli <b>abitanti di Oceania e americhe</b>). </blockquote>
<blockquote class="tr_bq">
L'analisi delle varianti del cromosoma Y (--> <span style="font-size: x-small;"><a href="http://www.nature.com/ng/journal/v48/n6/abs/ng.3559.html">Poznik G.D. et al</a>. Nat. Genet. 48, 593–599 (2016)</span>) ha fornito nuove informazioni sul "quando" sia iniziata la migrazione del Sapiens fuori dall'Africa. Uno studio reso possibile dalla trasmissione patrilineare di questo cromosoma che è impossibilitato a ricombinarsi durante la meiosi (tranne nella regione pseudoautosomica) come fanno tutti gli altri cromosomi. Questo suo "isolazionismo" lo rende un formidabile collettore di variazioni genetiche, dal computo delle quali è possibile risalire al momento della separazione di due popolazioni. Alcuni numeri: l'antenato maschio a cui possono essere fatti risalire tutti i cromosomi Y odierni è databile a circa 170 mila anni fa; i cromosomi Y non africani (quelli cioè con alterazioni comparse successivamente alla migrazione) sono databili a circa 70 mila anni fa. </blockquote>
Gli ominidi non-sapiens (i neandertal sono solo quelli di maggiore successo) risiedevano in Europa ed Asia da almeno 200 mila anni quando iniziarono i primi contatti con i nuovi arrivati sapiens "appena" usciti dal continente africano. Logico pensare quindi che si fossero pienamente adattati ad un clima (e a patogeni) ben diversi da quelli africani grazie a mutazioni adattive. E' più che verosimile che la velocità (in termini evolutivi) con cui i sapiens riuscirono a colonizzare ambienti così diversi dall'originario sia la diretta conseguenza di incroci con gli autoctoni seguita da una selezione continua durata molte migliaia di anni della progenie che meglio "riassumeva" in se i tratti più idonei. In pratica <i>l'appropriazione del DNA</i> dei neandertal è stata per i nostri antenati una scorciatoia evolutiva che ha fornito la marcia in più per la diffusione sui territori vasti ed eterogenei come quelli eurasiatici.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://sites.google.com/site/goingacrosscultures/_/rsrc/1430580963608/2-prehistoric-cultures/catastrophe-evolution-electric-universe.jpeg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="404" src="https://sites.google.com/site/goingacrosscultures/_/rsrc/1430580963608/2-prehistoric-cultures/catastrophe-evolution-electric-universe.jpeg" width="600" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">L'evoluzione della specie umana e i contatti con i Neanderthal: una sola famiglia (immagine riportata dal sito della <a href="http://news.bbc.co.uk/2/hi/science/nature/8660940.stm">BBC</a>, ma originariamente pubblicata su Science)</span></td></tr>
</tbody></table>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<blockquote class="tr_bq">
In un certo senso il fatto che le popolazioni africane siano prive di elementi neanderthaliani le qualifica come sapiens puri mentre noi <u>non-africani</u> (sia europei che asiatici, etc) <u>siamo il prodotto di una unione con cugini "diversamente" umani, i neandertal</u>.<br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
Come prima anticipato, la genetica ci ha permesso di scoprire, senza alcuna incertezza, che <b>da questo incontro si produssero delle unioni</b> di cui i sapiens non africani conservano le traccie nel 2-3% del genoma. </div>
</blockquote>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<blockquote class="tr_bq">
Ad aggiungere interesse a queste scoperte rese possibili grazie al Progetto Genoma, si aggiunge il dato eccezionale di qualche anno fa (di cui ho già parlato in un precedente articolo--> <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/08/homo-sapiens-h-neanderthalensis-e-h.html">QUI</a>) riferito alla identificazione di un nuovo "cugino", noto come <i><b>Homo denisova</b></i>, un parente prossimo del Neanderthal. I denisoviani avevano colonizzato alcune regioni dell'Asia centrale e si trovarono sulla <u>rotta migratoria dei sapiens già incrociatisi con i Neanderthal</u>. Risultato? Un nuovo <u>incrocio di cui si trovano oggi le tracce unicamente in alcune specifiche popolazioni di Malesia, Filippine e nei tibetani</u> (vedi --> <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2015/08/tibetani-e-i-geni-denisoviani-il.html" target="_blank">QUI</a>), i diretti discendenti di questo incontro.</blockquote>
</div>
<div style="text-align: justify;">
A questo punto dovrebbe essere chiaro per quale motivo solo le popolazioni non-africane hanno DNA neanderthaliano. Riassumiamo gli elementi principali:</div>
<ul style="text-align: justify;">
<li>sapiens e neanderthal si sono indubbiamente incontrati e hanno generato della prole;</li>
<li>le due popolazioni, nonostante la separazione durata 400 mila anni, <u>non avevano ancora portato "a termine" il processo di speciazione</u>. Come detto in apertura la definizione biologica di specie definisce organismi dal cui incrocio si generano individui ugualmente fertili;</li>
<li>la predominanza assoluta del genoma sapiens ci qualifica come "sapiens con tracce di neandertal" e non viceversa, ad indicare che gli incroci sono si avvenuti in modo ripetuto ma "all'interno" della comunità sapiens; altrimenti saremmo "neandertal con tracce di sapiens". Questa unione quantitativamente ineguale potrebbe a sua volta indicare che i neandertal fossero in crisi demografica o troppo sparsi al momento dell'arrivo delle prime ondate di sapiens e/o che i rapporti tra le due popolazioni si siano rivelati da subito poco amichevoli, tale da rendere gli accoppiamenti minoritari sul totale della popolazione. <u>Questo però non permette di comprendere per quale motivo il DNA neandertaliano sia presente</u> in tutti gli appartenenti a popolazioni non africane. Se ci fosse stata una chiara superiorità numerica o se gli incroci fossero stati rari la logica conseguenza sarebbe la presenza di un numero rilevante di individui privi di DNA neanderthal. Il che, pur in presenza di una certa variabilità, non è stato osservato.</li>
<li>Qualcuno potrebbe anche ipotizzare che i neandertal si siano rivelati meno adatti a superare repentini cambiamenti climatici, magari associati alla fine delle grandi glaciazioni. Una spiegazione che non mi convince completamente dato che i neandertal erano sopravvissuti egregiamente per 400
mila anni in Eurasia, un tempo sufficiente per avere affrontato almeno due periodi interglaciali (grafico --> <a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b2/Storia_Ere_Glaciali_ed_Ere_Integlaciali.jpg" target="_blank">qui</a>).</li>
<li>Una valida ipotesi alternativa (non escludente la precedente) è che <span style="color: blue;">la progenie ibrida abbia "raccolto" sia elementi positivi </span>(favoriti) <span style="color: blue;">che negativi</span> (sociali? di fitness?) su cui la selezione abbia agito con il risultato di un "peso" neandertal/sapiens quale quello attuale.</li>
<li>Nel periodo intercorso tra l'arrivo dei sapiens in Europa (~ 45 mila anni fa) e l'invenzione dell'agricoltura e quindi dei primi villaggi stabili (~ 8500 anni fa) la componente neandertaliana del nostro genoma è passata dal 3-6 per cento a meno del 2 per cento; una chiara indicazione di una selezione debole ma continua contro alcuni geni e in favore di pochi altri. </li>
</ul>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
L'elemento centrale su cui concentrarsi è che se le
popolazioni moderne non-africane hanno conservato in modo pressoché
uniforme parte del genoma neandertaliano, questo indica che
<b> tutte queste popolazioni derivano da soggetti ibridi</b>. L'assenza di
"sapiens puri" tra i non-africani indica sia che <u>s</u><u>ul lungo periodo </u><u>i <u>"puri" si siano rivelati </u> non idonei come fitness alla vita in eurasia</u> ma anche che l'ibrido perfetto (o in ogni caso quello con maggiore contenuto di alleli neandertal) era idoneo. <br />
<blockquote class="tr_bq">
Una ipotesi, quella di uno <span style="color: red;">svantaggio riproduttivo degli ibridi</span>, non peregrina se si tiene a mente quanto detto sopra: le due popolazioni erano rimaste separate per un tempo abbastanza lungo (cosa non più capitata da allora nell'ambito della specie sapiens sapiens) e sappiamo che questo in automatico porta alla selezione e/o alla segregazione casuale di caratteristiche fisiologiche, metaboliche e strutturali (in una parola genetiche) che in un ibrido possono portare ad un considerevole abbassamento della fitness. In particolare è a livello meiotico (il processo alla base della formazione dei gameti) o embrionale che eventuali discordanze cromosomiche o genetiche, rispettivamente, si manifestano. Il mulo è sterile, sebbene sano in tutto il resto, dato che il suo "problema" è nella impossibilità di formare gameti funzionali durante il processo meiotico.</blockquote>
</div>
<div style="text-align: justify;">
Ed ecco che finalmente arriviamo al tema centrale dell'articolo odierno, che vuole riassumere quanto emerso da due articoli pubblicati sulle riviste <i>Nature</i> e <i>Science</i>, entrambi centrati sulle problematiche di fitness di un ibrido "puro" sapiens/neandertal. Entrambi i lavori hanno usato come punto di partenza l'analisi delle regioni del nostro genoma di ascendenza neandertaliana. Tali aree, che rappresentano meno del 3 % del nostro genoma, non sono organizzate in modo contiguo ma distribuite su tutti e 23 i cromosomi.</div>
<div style="text-align: justify;">
L'interesse dei ricercatori era comprendere quali fossero le funzionalità (cioè i geni e le regioni regolatrici) conservatesi durante la successiva 'evoluzione del sapiens e quali invece le zone perse. <span style="color: blue;">Se i geni si sono conservati negli ultimi 60 mila anni dall'incontro con l'ultimo neanderthal qualche vantaggio devono averlo fornito</span>. Se si fosse trattato di alleli (o geni omologhi) leggermente svantaggiosi o semplicemente neutri per la fitness, sarebbero stati persi per diluizione nel giro di qualche decina di generazioni. Cosa che ovviamente non è avvenuta.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
Nel lavoro pubblicato su <i>Science</i> (<span style="font-size: x-small;">Benjamin Vernot et al</span>) è stato confrontato il DNA di 665 europei e asiatici dell'estremo oriente con quello ottenuto dai fossili di neandertal. <span style="color: red;">Il dato più importante emerso è che se è vero che meno del 3% del totale del nostro genoma è neandertal, dall'altra parte la quantità del genoma neandertaliano trasferitasi negli umani moderni è del 20%</span>.</div>
<div style="text-align: justify;">
Un dato estremamente interessante che indica come durante il processo selettivo sugli ibridi si sia "trovato qualcosa di utile e/o di non deleterio" nel 20% del genoma neandertal <i>degno</i> di essere selezionato. Tra i geni neandertal "<i>di successo</i>" molti sono funzionalmente correlati alla fisiologia della pelle.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Risultati sostanzialmente in accordo con i precedenti sono quelli pubblicati su <i>Nature</i> dal team di <b>David Reich</b>. I geni neandertaliani emersi come evolutivamente vantaggiosi dal confronto del genoma di 1004 persone con quello neandertaliano, sono funzionalmente correlati con la cheratina, una delle proteine chiave del rivestimento cutaneo. Un dato che indica come la "qualità" della pelle abbia svolto un ruolo chiave nell'adattamento alle regioni con minore irradiazione solare. Non solo maggiore resistenza al freddo ma anche resistenza a patogeni ambientali. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Tra gli elementi più interessanti emersi da entrambi i lavori vi è il fatto che ci sono <u>larghe porzioni genomiche dei neandertal che sono andate completamente perse nel nostro genoma</u>. Un dato questo che indica l'esistenza di una selezione negativa più che una neutralità selettiva. Un concetto sottolineato da Reich: "<i>i dati suggeriscono fortemente che molti geni neanderthal si sono rivelati dannosi nell'ibrido e in tutti i suoi discendenti. Non a caso sono stati persi in solo poche generazioni successive alla nascita dell'ibrido</i>".<br />
Non sorprende allora scoprire che le regioni genomiche dei sapiens in cui la componente neandertaliana è assente <u>sono anche quelle più ricche di geni</u> a dimostrazione della esistenza di una <span style="color: red;">forte pressione selettiva che ha rimosso le zone "dannose"</span>. Ancora meno sorprendente, ma scientificamente eccitante, scoprire che queste zone contengono i geni <u>maggiormente espressi nei testicoli</u> e che il <u>cromosoma X </u>(i cui geni sono particolarmente soggetti a selezione a causa dei problemi di dosaggio genico nei sessi) <u>abbia circa cinque volte meno materiale genetico derivato dai neandertal di quanto osservabile negli altri cromosomi</u>.<br />
<blockquote class="tr_bq">
<span style="color: magenta;"><span style="color: black;">Se dovessimo riassumere in una frase il concetto</span> </span>che emerge da questi dati, l'ipotesi è che gli alleli neanderthaliani presenti nei maschi ibridi abbiano portato ad una drastica riduzione di fertilità.</blockquote>
Con il passare delle generazioni la pressione selettiva, volta a favorire i soggetti a maggiore fitness riproduttiva, avrebbe portato a ibridi dotati della minor quantità possibile, a parità di vantaggi generali, di alleli neandertaliani "dannosi". Il fatto che l'equilibrio si sia spostato verso la bassa percentuale di alleli neanderthaliani invece che l'opposto (in fondo era solo l'ibrido "puro" ad avere una minore fitness) è verosimilmente il risultato o di una preferenza per partner "sapiens", voluta o forzata che fosse o di un vantaggio competitivo innegabile per i sapiens.<br />
In entrambi i casi si spiegherebbe la rapida (secondo una scala evolutiva) diluizione del genoma neandertal ma "lento" a sufficienza da permettere la costante presenza di ibridi nella popolazione a svantaggio dei sapiens "puri".<br />
<blockquote class="tr_bq">
L'evoluzione procede grazie a mutazioni e alla diffusione di queste nella popolazione fino a che un tratto "vantaggioso" emerge e riesce così a fissarsi nella popolazione. Rimanendo in ambito umano le scoperte fatte in questi hanno permesso di disvelare alcuni dei passaggi chiave (molto spesso su geni importanti nella neurogenesi) che hanno accompagnato la separazione degli umani dai primati non umani.<br />
<blockquote class="tr_bq">
Un esempio tra tutti, la duplicazione del gene <b>SRGAP2B</b>, avvenuta tre volte durante la storia evolutiva del genere Homo e che ha reso possibile l'aumento dimensionale della corteccia cerebrale. <u>Un passaggio che segnò il distacco de facto del genere Homo da quello Australopithecus</u> (vedi <a href="http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3365555/"><u>questo</u></a> articolo per approfondimenti) </blockquote>
</blockquote>
E infatti oltre ai geni strutturali della cute, nell'articolo pubblicato su Science si legge che tra le regioni ereditate dai neandertal ve ne è una abbastanza ampia che contiene, tra gli altri, il gene <b>FOXP2</b>, <u>fondamentale per l'apprendimento e la capacità linguistica</u>.</div>
<blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<blockquote class="tr_bq">
FOXP2 è un gene estremamente conservato tra i vertebrati e questo è particolarmente evidente all'interno dei primati. Per capirci la differenza tra la proteina umana e quella nei primati non umani sono solo due aminoacidi (<a href="https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S096098221831546X" target="_blank">tra noi e i Neandertal la differenza è solo a livello intronico</a>). E sappiamo che è sufficiente una sola mutazione in questo gene per generare forti deficit nella capacità comunicativa (casistica estremamente rara ma nota da un punto di vista clinico grazie alla familiarità del difetto). Vedi <a href="http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0033130">QUI</a> per ulteriori dettagli. <table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://ars.els-cdn.com/content/image/1-s2.0-S096098221831546X-gr1_lrg.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="344" data-original-width="800" height="220" src="https://ars.els-cdn.com/content/image/1-s2.0-S096098221831546X-gr1_lrg.jpg" width="511" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">credit: SE Fisher, Current Biology (2019)</td></tr></tbody></table><br /></blockquote>
</div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: right; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-G76UPtkQyl8/U7hmGv3oz3I/AAAAAAAABBg/0tt4WNdDpTM/s1600/neanderthal-reconstructions1.jpg" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="400" src="https://3.bp.blogspot.com/-G76UPtkQyl8/U7hmGv3oz3I/AAAAAAAABBg/0tt4WNdDpTM/s1600/neanderthal-reconstructions1.jpg" width="218" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Pelle chiara, arcata orbitale pronunciata,<br />
questi alcuni dei tratti neanderthaliani<br />
(ricostruzione al computer)</span></td></tr>
</tbody></table>
In conclusione i dati ottenuti sembrano indicare che quando si incontrarono gli umani e i neanderthal erano "<i>ai confini della compatibilità biologica</i>", per usare le parole di Reich, " <i>e per questo motivo gli ibridi risultanti hanno sofferto di un elevato tasso di infertilità</i>" (aggiornamenti sul tema in un successivo articolo --><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2016/02/non-solo-vantaggi-i-geni-neandertaliani.html" target="_blank">QUI</a>)<br />
<br />
Una domanda allora sorge spontanea. "<i>Quanto erano diversi i sapiens e i neandertal quando si incontrarono</i>"? <br />
<blockquote class="tr_bq">
Estremizziamo
il concetto e immaginiamo di usare una macchina del tempo e di
trasportare un Inuit di cent'anni fa (sicuramente non entrato in
contatto da millenni con popolazioni diverse) dall'Artico all'Africa
equatoriale. La ridottissima capacità di sudare, legata all'essere il
risultato della selezione di individui adatti a vivere in ambienti
freddi, avrebbe causato non pochi problemi di dissipazione del calore
nel clima equatoriale. Se consideriamo che il tempo di separazione tra
un inuit e l'antenato che viveva in climi più caldi è inferiore a 5 mila
anni possiamo ben immaginare la divergenza (e l'adattamento) a cui era giunto
il neandertal in 400 mila anni dalla sua uscita dall'Africa.<i> </i></blockquote>
E a seguire "<i>è verosimile che un neandertal e un essere umano si
siano accoppiati anche se avevano intrapreso strade evolutive
divergenti"?</i> <br />
<div style="text-align: justify;">
Sebbene le differenze
tra un neandertal e un sapiens siano evidenti a livello morfologico
queste differenze non sono tali da rendere evidente la non "umanità".<br />
<blockquote class="tr_bq">
<b>William Straus</b>, anatomo-paleontologo statunitense della Johns Hopkins University, è l'autore di una frase rimasta celebre<br />
<blockquote class="tr_bq">
"<i>Se
si potesse trasportare un Neanderthal ai giorni nostri e lo si
lasciasse nella metropolitana di New York, opportunamente lavato,
sbarbato e modernamente vestito, difficilmente verrebbe notato" (</i>da Quarterly Review of Biology, p. 359)</blockquote>
Ovviamente checché ne pensi Strauss sui frequentatori della metropolitana di New York, "<i>non ci sono in giro Neanderthal, quindi non è possibile fare un esperimento di accoppiamento</i>" ha commentato <b>Daven Presgraves</b>, un biologo evoluzionista presso l'Università di Rochester a New York.</blockquote>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjVxXrjmcDWlukRj90CFV-V7Q2xVrDiA0T3wEdDUy276YdQH2Pxokvn7LnqkyH0GS8AQ2NjND5Oh0LQ-Qv14r236cTbtVsK9SogGO2f_LzYy6OxakTrG0BVTneXmLROohOl5k6iPsvl/s1600/home_01_a_01en.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="150" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjVxXrjmcDWlukRj90CFV-V7Q2xVrDiA0T3wEdDUy276YdQH2Pxokvn7LnqkyH0GS8AQ2NjND5Oh0LQ-Qv14r236cTbtVsK9SogGO2f_LzYy6OxakTrG0BVTneXmLROohOl5k6iPsvl/s640/home_01_a_01en.jpg" width="600" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Come apparirebbe un Neanderthal in visita al museo omonimo (sito nel luogo di ritrovamento dei primi fossili) in Germania. (©<a href="http://www.neanderthal.de/en/home/index.html">Neanderthal Museum</a>)</span></td></tr>
</tbody></table><br /></div><div style="text-align: justify;">
Che non ci fossero barriere di aspetto (o di feromoni) sostanziali devono averlo pensato anche i sapiens quando incontrarono i
neandertal (o semplicemente non si posero il problema essendo meno
"sofisticati" di noi), sta di fatto che è indubbio che siano accoppiati. Alcuni
degli ibridi nati da questo incrocio furono abbastanza fortunati da
potere contare sui vantaggi associati a ciascuna specie del genere Homo:
da parte neandertal la <u>resistenza al freddo</u>, <u>alle infezioni locali</u> e all'<u>aumentata esposizione alle radiazioni ultraviolette</u> (maggiore ad alte latitudini) e dall'altra le <u>migliori capacità intellettive</u>
(linguaggio, astrazione, sociali, di adattabilità, etc) che il sapiens
aveva evoluto e che di fatto determinarono l'esito della competizione
per la stessa nicchia ecologica tra i due Homo.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<b>Come
sia scomparso il neandertal è difficile da dire</b>.<br />
Potrebbero essere
stati soverchiati numericamente dai sapiens e quindi integrati, essere
usciti sconfitti dalla competizione per la stessa nicchia ecologica
finendo relegati in aree geografiche sempre più remote oppure essere
stati annientati (magari divenendo cibo) dai nostri antenati.<br />
Di sicuro ne è <u>uscito sconfitto dato che la quantità di suo DNA nel nostro genoma è solo del 2%</u>.
Partendo dal presupposto che i neanderthal erano maggioritari quando i
sapiens arrivarono nei nuovi territori, il fatto che i sapiens abbiano
vinto e che si siano portati dietro "solo" il 2% del genoma dei cugini è
indicativo dell'esistenza di un qualche fattore che lo ha reso
"perdente" nella competizione.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/-dImiwU4B-Qc/Vkn6UjwtEQI/AAAAAAAAB9Q/KIcLzTwwJ04/s1600/credit-neanderthal-museum.630x360.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="218" src="https://1.bp.blogspot.com/-dImiwU4B-Qc/Vkn6UjwtEQI/AAAAAAAAB9Q/KIcLzTwwJ04/s320/credit-neanderthal-museum.630x360.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Guardare nel passato è guardare in noi stessi (©<a href="http://www.neanderthal.de/en/home/index.html">Neanderthal Museum</a>)</span></td></tr>
</tbody></table><br /></div><div style="text-align: justify;">
Entusiasta delle recenti scoperte è <b>Sarah Tishkoff</b>, una genetista di popolazioni presso l'università della Pennsylvania, che afferma "<i>i nuovi sviluppi della genomica ci hanno permesso di capire molto di più</i> [in dieci anni]<i> di quanto sia stato mai possibile fare con la paleontologia</i>". La scoperta dell'Homo denisova ne è l'esempio eclatante.</div>
<div style="text-align: justify;">
Nel prossimo futuro sarà possibile ricostruire in dettaglio l'evoluzione umana sfruttando solo il DNA delle popolazioni umane moderne. In particolare sono le popolazioni africane a stuzzicare la curiosità degli antropologi. La scarsità di reperti fossili da cui sia possibile estrarre DNA in Africa ha di fatto rallentato gli studi sulla diffusione dell'Homo sapiens nel continente africano. La comparazione del DNA tra le diverse popolazioni del continente (in particolare di quelle etnie che sono rimaste geograficamente isolate) potrà fornire un valido strumento di analisi e ci permetterà di sollevare il velo sui nostri antenati.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://media.nature.com/w800/magazine-assets/d41586-018-07770-7/d41586-018-07770-7_16338654.gif" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="405" data-original-width="800" height="162" src="https://media.nature.com/w800/magazine-assets/d41586-018-07770-7/d41586-018-07770-7_16338654.gif" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Neanderthal vs Sapiens (credit: Philipp Gunz via <a href="https://www.nature.com/articles/d41586-018-07770-7" target="_blank">Nature</a>)</span></td></tr>
</tbody></table>
</div>
<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: center;"><br /></div><div style="text-align: center;">(articolo precedente sul tema--> "<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/01/neanderthal-cugini-non-cosi-primitivi.html" target="_blank">Neanderthal. Cugini non così primitivi</a>")</div><div style="text-align: center;"> (articolo successivo: <a href="http://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2015/02/dal-dna-di-un-bambino-siberiano-del.html">la migrazione dei sapiens nelle americhe</a>)<br /><br /></div></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Fonti</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>- Resurrecting Surviving Neandertal Lineages from Modern Human Genomes</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: x-small;"> <a href="http://www.sciencemag.org/content/343/6174/1017.abstract" target="_blank">Benjamin Vernot, Joshua M. Akey</a>, Science (2014) 343 (6174) 1017-1021 </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>- Modern human genomes reveal our inner Neanderthal</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: x-small;"> Nature (2014) 1038</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>- The genomic landscape of Neanderthal ancestry in present-day humans</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: x-small;"> <a href="http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4072735/" target="_blank">Sriram Sankararaman et al</a>, Nature (2014) 507 (1038) 354–357</span><br />
<i><span style="font-size: small;">- The genetic history of Ice Age Europe</span></i><br />
<span style="font-size: x-small;"><a href="http://www.nature.com/nature/journal/v534/n7606/full/nature17993.html">Nature (2016) 534, pp. 200–205</a> </span><br />
<br />
<br />
<br /></div>
</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: center;">***</div>
<span style="font-size: small;">Un libro per approfondire l'argomento Homo </span><span style="font-size: small;"><span class="st">neanderthalensis</span>, scritto in modo chiaro e "pensato" alla luce delle recenti scoperte nel campo della genomica (ivi compreso i rapporti con l'Homo denisova).</span><br />
<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://images-eu.ssl-images-amazon.com/images/I/516dKRHfLML._SY346_.jpg?tag=abotheclo-21" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="https://images-eu.ssl-images-amazon.com/images/I/516dKRHfLML._SY346_.jpg?tag=abotheclo-21" width="209" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Disponibile su Amazon--> <a href="http://www.amazon.it/Neanderthals-Rediscovered-Modern-Science-Rewriting-ebook/dp/B014RFYL8A/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&creativeASIN=%20B014RFYL8A&linkCode=as2&tag=abotheclo-21" rel="nofollow">Neanderthal Rediscovered</a></span><img alt="" border="0" height="1" src="https://ir-it.amazon-adsystem.com/e/ir?t=abotheclo-21&l=as2&o=29&a=+B014RFYL8A" style="border: none; margin: 0px;" width="1" /></td></tr>
</tbody></table>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
</div>
The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0United States40.5271583225669 -123.7515.005123822566897 -165.058594 66.0491928225669 -82.441406tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-38832178549524941742023-09-27T18:30:00.015+02:002023-09-27T18:30:00.140+02:00Un virus abissale, direttamente dalla Fossa delle Marianne<div style="text-align: justify;">Scoperto un nuovo virus abissale ... da NON confondere (almeno speriamo) con il famigerato <a href="https://residentevil.fandom.com/it/wiki/Virus_T-Abyss" target="_blank">virus T-Abyss</a> presente nella serie Resident Evil. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il virus è stato identificato dai sedimenti fangosi prelevati a 8900 metri di profondità.</div><div style="text-align: justify;">Una scoperta utile per far luce sugli ecosistemi microbici esistenti in queste aree remote ed estreme (per temperatura e pressione giusto per citare le principali), note come <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Zona_adopelagica" target="_blank">zone <span style="text-align: left;">adopelagiche</span></a>, la cui importanza arriva "fino alla superficie" dato l'importante ruolo svolto nel ciclo del carbonio e quindi nel clima globale.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Tecnicamente, il virus appartiene alla (nuova) famiglia dei Suviridae, che come tutti i batteriofagi sono capaci di infettare solo i batteri, quindi totalmente innocui per gli eucarioti. I batteriofagi, intesi come categoria ombrello, sono presenti praticamente in ogni ecosistema sul nostro pianeta e possono essere incredibilmente abbondanti con concentrazioni marine che possono arrivare a 10^7/ml.</div><div style="text-align: justify;">In verità non è il primo ritrovamento del genere con il precedente ottenuto su fondali quasi 1000 metri più in alto, <a href="https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1995820X22000220?via%3Dihub" target="_blank">8000 metri sotto la superficie</a> oceanica.</div><div style="text-align: justify;">I risultati dello studio che hanno portato alla identificazione del nuovo membro, denominato fago <b>vB_HmeY_H4907</b>, sono stati pubblicati la scorsa settimana sulla rivista <i>Microbiology Spectrum</i>.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://cdn.sci.news/images/2023/09/image_12285-vB_HmeY_H4907.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="419" data-original-width="580" height="354" src="https://cdn.sci.news/images/2023/09/image_12285-vB_HmeY_H4907.jpg" width="490" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il batteriofago vB_HmeY_H4907. <br />Image credit: Su et al., doi: 10.1128/spectrum.01912-23.</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Di particolare interesse la modalità usata per identificarlo. In condizioni normali i virus vengono identificati o dall'analisi al microscopio elettronico delle cellule infettatesi naturalmente o meglio ancora coltivando le cellule bersaglio in presenza della probabile sorgente del virus, come fluidi (siano essi acque reflue/ambientali o liquidi corporei). Una procedura qui improponibile sia per la difficoltà di coltivare dei batteri capaci di crescere solo in condizioni estreme che della non conoscenza sulla presenza o meno di virus nei campioni prelevati.</div><div style="text-align: justify;">Il metodo usato è di tipo induttivo cioè basato sia sugli studi precedenti che dall'analisi genetica dei batteri che vivono in queste aree, da cui ottenere indizi sulla presenza o di virus lisogenici (già integrati nel genoma batterico) e della permissività di tali batteri ad essere infettati da virus di famiglie già note.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Senza troppi altri tecnicismi, i ricercatori sono così riusciti a scovare un nuovo fago in grado di infettare <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Halomonas" target="_blank">batteri della famiglia Halomonas</a>, noti per essere presenti sia nelle zone adopelagiche che in altri luoghi estremi come le bocche idrotermali delle acque profonde.</div><div><blockquote>Batteri molto studiati sia per come "materiale di lavoro" nel campo della biologia sintetica che per la loro capacità di scomporre gli idrocarburi del petrolio (utili per le geoprospezioni petrolifere) che per il potere proliferare in aree ad alta salinità, in pH alcalino e possedere una alta tolleranza alla contaminazione. La loro abbondanza perfino in zone profonde come la Fossa delle Marianne (10900 metri, pressione di circa 1064 atmosfere) suggerisce un loro ruolo ecologico importante in questi ambienti.</blockquote>Ad oggi erano due i virus noti per usare usare Halomonas, tre con il nuovo arrivato.<br />L'analisi genetica del fago ha evidenziato che usa una strategia lisogenica, particolarmente utile in un ambiente dove gli ospiti non abbondano. Con l'aiuto del microscopio elettronico a trasmissione, i ricercatori sono perfino riusciti a vedere la "testa icosaedrica" del fago, grande circa 65 nanometri, e la sua "coda" non contrattile lunga 183 nanometri.<br />Altri dati ricavati dal genoma indicano che vB_HmeY_H4907 non ha molti parenti prossimi (evolutivamente distante da altri virus di riferimento) ma ha molti tratti genetici in comune con il suo ospite batterico, indicativo di una loro coevoluzione in ambienti così difficili.<br />Non si può escludere che il fago sia anche portatore di "informazioni" utili per la sopravvivenza del batterio, ma questa ad ora è mera speculazione.<br /><br />Per concludere, non bisogna sottostimare l'impatto di questi regni microbici, per di più sperduti negli abissi. Vero che sono microscopici ma la biomassa complessiva di questi organismi (e il loro essere altri diretti del ciclo del carbonio e altro) spiega la loro influenza sull'ecologia globale</div><blockquote><div>I batteriofagi hanno anche un ruolo (e prospettive di utilizzo) molto importanti perfino in ambito terapeutico, utilizzabili come antibiotici "viventi" per combattere <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/search/label/Superbatteri" target="_blank">infezioni batteriche altrimenti incurabili</a>. Sul tema rimando a precedenti articoli "<i><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2021/06/ripristinare-la-sensibilita-agli.html" target="_blank">ripristinare la sensibilità batterica agli antibiotici</a></i>", "<i><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2020/07/la-nostra-sfida-continua-con-i-microbi.html" target="_blank">la nostra sfida ai superbatteri</a></i>" </div></blockquote><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>Identification and genomic analysis of temperate Halomonas bacteriophage vB_HmeY_H4907 from the surface sediment of the Mariana Trench at a depth of 8,900 m</i></div><div><a href="https://journals.asm.org/doi/10.1128/spectrum.01912-23" target="_blank">Yue Su et al</a>, (2023) Microbiology Spectrum</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">***</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Dal mondo Resident Evil, ecco alcuni gadget "virali"</div><div style="text-align: justify;">A cominciare dalla (finta) fiala virus T-Abyss perfetta per cosplayers</div><div style="text-align: center;"> <iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B0BWSCZ7CS&linkId=f1b15bb4e3b2ab9ff10da5225edfaccd" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><div style="text-align: justify;">e le action figure tematiche</div><div style="text-align: center;"><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B08L32MG2R&linkId=dffef1bdba8753c6d8ea1e03d0570a50" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B09XDY7YQZ&linkId=f7407fd15d3ff3c1fc3e786e3773e143" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-91887570445822246902023-09-25T16:30:00.001+02:002023-09-25T16:30:03.247+02:00E se la prossima pandemia venisse da un fungo?<div style="text-align: justify;">E se la prossima pandemia (perché ci sarà) venisse da qualcosa di ben diverso da un virus, il parassita per antonomasia, ad esempio da un fungo?</div><div style="text-align: justify;">Questo è l’argomento che esplora il libro “<i><a href="https://amzn.to/3RrffDz" target="_blank">Blight: fungi and the coming pandemic</a></i>”. Non un romanzo ma un saggio scientifico che esplora una minaccia emergente per la salute pubblica figlia sia della globalizzazione che del riscaldamento globale.</div><div style="text-align: center;"><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=132400701X&linkId=7933d885ccf9accb0a31267ee6d2f906" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><div style="text-align: justify;">In verità non si tratta di una minaccia mai sentita essendo stata descritta sia in videogiochi/serie TV (<i><a href="https://amzn.to/48tcaJl" target="_blank">The last of us</a></i>), che in libri di SF (<i><a href="https://amzn.to/46iDsA7" target="_blank">The Genius Plague</a></i>). Ma, come si suol dire, la realtà supera di molto la fantasia come ben evidente in Natura, dove abbiamo funghi che zombificano le formiche per renderle vettori di disseminazione delle spore o, in tutt'altro scenario, l’ecatombe dei castagni americani, descritta anche nel bel libro di bryson “<i><a href="https://amzn.to/3PrWfCm" target="_blank">Una passeggiata nei boschi</a></i>”.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Delle formiche zombie ne ho scritto in dettaglio in un precedente articolo a cui vi rimando (<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/09/formiche-zombie-il-risultato-di-una.html" target="_blank">vedi <b>QUI</b></a>), mentre sui castagni ne riassumo ora gli eventi.</div><div style="text-align: justify;">Nell’estate del 1904 i castagni americani (<i>Castanea dentata</i>) del Bronx, dove ha sede il famoso zoo, cominciarono a mostrare evidenti alterazioni. Le foglie, tipicamente sottili e di un verde brillante, mostrarono prima bordi arricciati per poi diventare gialle; su rami e tronchi comparirono in alcuni casi strane chiazze color ruggine. Dal momento della rilevazione dei primi sintomi fu sufficiente 1 anno perché tutti tutti gli alberi di castagno nei dintorni risultassero moribondi. Passa qualche decennio (siamo intorno al 1940) e tutti i castagni americani nativi (siti nella zona orientale degli USA, lungo la catena degli Appalachi) erano oramai morti o moribondi.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f1/Chestnut_blight.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="316" data-original-width="211" height="316" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f1/Chestnut_blight.jpg" width="211" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Un castagno infetto</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Il colpevole era un fungo (<i><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Cryphonectria_parasitica" target="_blank">Cryphonectria parasitica</a></i>) causa del cancro corticale del castagno, importato casualmente insieme ad esemplari di castagni giapponesi.</div><blockquote><div style="text-align: justify;">I castagni americani sono invece più resistenti ad un altro fungo, <i>Phytophthora cambivora</i>, di cui soffrono i castagni europei e che causa il cosiddetto <i><a href="https://www.treccani.it/enciclopedia/mal-dell-inchiostro_%28Enciclopedia-Italiana%29/#:~:text=È%20la%20malattia%20più%20grave,scortecciato%2C%20le%20quali%20si%20estendono" target="_blank">mal dell'inchiostro</a></i>.</div></blockquote><div style="text-align: justify;">I castagni giapponesi, evolutisi per contrastare un parassita endemico, funsero da "portatori sani" del fungo che una volta approdato nel nuovo mondo si trovò di fronte delle "vittime" prive di difese finendo così per soccombere, tranne in alcune aree isolate (lontane dalla minaccia fungina) come il <i><a href="https://www.nps.gov/articles/american-chestnuts-in-rock-creek.htm" target="_blank">Rock Creek Park</a></i>.</div><div style="text-align: justify;">Nelle foreste un tempo dominate da castagni maestosi, alti come un edificio di 9 piani, sopravvivono (a tempo) alcuni castagni immaturi nati dalle radici ancora vive di alberi morti. Purtroppo per loro questi germogli non hanno alcuna speranza di sopravvivere fino all’età adulta per svettare; il fungo è ancora lì pronto a colonizzare gli alberelli nel momento in cui germogliano.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il destino del castagno americano è solo un esempio della devastazione che i funghi possono provocare,</div><div style="text-align: justify;">Il libro prima menzionato ci offre un resoconto illuminante, e a volte macabro, delle malattie fungine che minacciano pini, banane, rane, pipistrelli e, sempre più, le persone.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Sia chiaro, non tutti i funghi sono nocivi come ben dimostrano le forme commestibili (o che aiutano nella preparazione di cibi e bevande come i lieviti) e soprattutto i <a href="http://alimentazione.fimmg.org/articoli_cibi_stagioni/pop/funghi_ma.htm" target="_blank">funghi saprofiti</a>, fondamentali nella decomposizione degli organismi morti, rimettendo i circolo gli elementi essenziali per la vita. Ad esempio il legno degli alberi defunti, tra i materiali più resistenti alla decomposizione, rimarrebbe li per “sempre” se non fosse per l’azione combinata di di <a href="https://academic.oup.com/femsec/article/92/11/fiw179/2403112" target="_blank">batteri e (su tutto) funghi</a>.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Il problema è quando organismi non autoctoni si trovano trapiantiati (trasportati insieme alle merci) in posti in cui non hanno né nemici naturali né competitori. Se questo vale per animali e piante “aliene”, vale ancora di più per organismi microscopici ben più difficili tra controllare. Le conseguenze possono essere catastrofiche</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Esempi in tal senso (dette <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Specie_invasive_in_Italia" target="_blank">specie aliene</a> ... per un dato territorio) sono purtroppo innumerevoli e vanno dallo scoiattolo grigio al pitone in Florida (ne ho <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2015/04/il-serpente-che-si-mangia-la-florida.html" target="_blank">scritto QUI</a>), dai gamberetti ai funghi, ... . <a href="https://www.lifeasap.eu/index.php/it/specie-aliene-invasive/rilevanzaunionale" target="_blank"><b>QUI</b> un elenco più esaustivo</a>.</blockquote></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Fortunatamente*, noi mammiferi siamo troppo caldi per essere appetibili per la maggior parte dei funghi. Un dato ben evidente da chi ha esperienze di laboratorio, che sa che i funghi crescono preferenzialmente a 30 gradi, mentre le cellule di mammifero e i batteri di uso comune (derivati non a caso da ceppi colonizzanti l’intestino, come E. coli) necessitano di 37 gradi. I nostri corpi sono l’equivalente della Valle della Morte per molti funghi. Laddove le condizioni siano "permissive" per i funghi, ecco che gli animali sociali come <a href="https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6563085/#:~:text=Ants%20and%20termites%20behave%20more,the%20infected%20brood%20%5B55%5D." target="_blank">formiche e termiti applicano procedure di rimozione drastiche per gli infetti</a>.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>* una affermazione che è implicitamente vera, ricalcante il famoso <b><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Principio_antropico" target="_blank">principio antropico</a></b>: se non fosse così (i funghi non avessere questo punto debole) noi non saremmo qui a parlarne ma come mammiferi saremmo diventati loro cibo preferito fin dai tempi della comparsa del "sangue caldo" nei vertebrati</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Altro ostacolo per i funghi viene dal nostro sistema immunitario abile (ancora, ha DOVUTO diventarlo) nel riconoscere e respingere i potenziali invasori fungini che nella maggior parte dei casi rimangono confinati nella loro azione su mucose, cute e unghie). Protezione che dura almeno fintanto che il sistema immunitario funziona a dovere come ben sanno le persone con immunodeficienze esposte ad attacchi molto pericolosi da parte di funghi come la Candida che nei soggetti sani sono al più un fastidio.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Ma non si tratta di una protezione perenne come la certezza che un batteriofago (virus batterici) che per quanto abbondanti ( <a href="https://www.annualreviews.org/doi/pdf/10.1146/annurev-virology-100114-054952" target="_blank">nel mare se ne possono trovare fino a 10^7 fagi/ml</a>) non potranno mai e poi mai, qualsiasi siano le mutazioni, diventare capaci di infettare una cellula eucariote.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">I <b>cambiamenti climatici</b> sono oggi una variabile di cui si deve tenere conto. Il riscaldamento globale ha già reso possibile la migrazione di specie in territori prima a loro preclusi (vedi il mar mediterraneo e le specie tropicali) e i funghi potrebbero essere forzati ad adattarsi a temperature più elevate, diventando così meno “intolleranti” alle nostre temperature.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Cito la <i><a href="https://www.epicentro.iss.it/candida-auris/" target="_blank">Candida auris</a></i> che nell’ultimo decennio si è adattata diventando capace di infettare le persone fino a diventare un fattore di rischio concreto nelle strutture sanitarie (<a href="https://www.nbcnews.com/health/health-news/cdc-fungal-infection-candida-auris-alarming-spread-rcna75477" target="_blank">vedi qui</a>), già prone per loro natura a facilitare la selezione e diffusione dei <b><a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/search/label/Superbatteri" target="_blank">superbatteri</a></b>. Anche altre infezioni fungine umane, come la <a href="https://www.msdmanuals.com/it-it/professionale/malattie-infettive/funghi/coccidioidomicosi" target="_blank">coccidioidomicosi</a> potrebbero presto seguire in questo adattamento.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Un rapido sguardo sulle pandemie fungine che oggi colpiscono altre specie ci offre una lezione sul loro potenziale effetto devastante, se avvenissero in tempi rapidi, senza dare il tempo al “bersaglio” di sviluppare contromisure.</div><div style="text-align: justify;"><ul><li>Il <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Fusarium" target="_blank"><i>Fusarium</i></a> è un fungo che oggi minaccia piante già di loro sensibili come i banani (ricordo che si tratta di fatto di <a href="https://groundedgrub.com/articles/bananas" target="_blank">cloni creati per produrre frutti commestibili senza semi e proprio per tale assoluta omogeneità esposti al rischio di attacco distruttivo su larga scala</a>)</li><li>Lo <i><a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Pseudogymnoascus_destructans" target="_blank">Pseudogymnoascus destructans</a></i> è responsabile della strage di pipistrelli colpiti dalla <a href="https://www.cnr.it/it/news/9033/white-nose-disease-dei-pipistrelli-prima-segnalazione-in-italia" target="_blank">sindrome del naso bianco</a>, che li fa letteralmente morire di fame in quanto ne consuma, durante il periodo invernale di stasi, tutte le riserve di grasso. I cadaveri degli animali alati affollano molte caverne negli USA.</li><li><i><a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Batrachochytrium_dendrobatidis" target="_blank">Batrachochytrium dendrobatidis</a></i> ha preso di mira le rane in America Centrale, una strage ora spostatasi in altre aree dove si osserva un drastico calo della popolazione degli anfibi.</li></ul></div><div style="text-align: justify;">Chiaro che, in un arco di tempo sufficiente, le piante e gli animali colpiti possono adattarsi per gestire meglio i nemici fungini come avvenuto per le rane nel Parco Nazionale di Yosemite, che nonostante siano infette non mostrano più i segni della malattia, oppure i pini dalla corteccia bianca (<i>Pinus albicaulis</i>) degli Stati Uniti occidentali che, a differenza dei cugini pini bianchi della costa orientale, hanno geni per la resistenza alla malattia nota come <a href="https://www.regione.toscana.it/documents/10180/70110/135d099935815b5756857248fc8990a3_avversitadeipini.pdf/012fda83-f729-4bb7-88fd-048fef005d4d" target="_blank">ruggine del pino bianco</a> (endemica nell'area da circa un secolo)</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Potrebbe aiutare anche l’ausilio di tecniche di ingegneria genetica, come stanno cercando di fare alcuni ricercatori, mediante l’inserimento di geni per la resistenza presi dai resistenti (come i castagni giapponesi) per inserirli nei cugini americani,</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">In caso di pandemia umana potremmo non avere il tempo necessario per "adattarci" e di sicuro non potremmo godere di tecniche di ingegneria genetica per renderci resistenti. Quindi meglio che non accada</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Libri suggeriti sul variegato universo dei funghi ... a cominciare da "<a href="https://amzn.to/3PQA6in" target="_blank">Funghipedia</a>"</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;"><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=8842827347&linkId=c77684afed1482be75ec660049a617de" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=8829712965&linkId=f9fc466882fdf8bdd958f9209320ede8" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=8893711184&linkId=ca8cbb9d765f60c0ddce89557187ffc5" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><div style="text-align: justify;"><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-13427391593420311212023-09-23T11:41:00.001+02:002023-09-23T11:41:17.777+02:00Formiche zombie. Il risultato di una lotta tra formiche e funghi vecchia di milioni di anni<div>[originale 08/2013. Aggiornato 09/2023]</div>Ogni giorno, da milioni di anni, le formiche operaie lasciano il nido la mattina e con le compagne vanno alla ricerca di cibo e di materiali utili. <br />Ogni giorno, nelle zone tropicali, all'interno di questo flusso ininterrotto di pendolari potremmo scorgere delle formiche che invece di muoversi speditamente sui rami, vagano senza meta apparente e in modo goffo, inciampando di frequente. <br />Ogni giorno intorno a mezzogiorno queste formiche "confuse", come in risposta ad un rintocco lontano, seguiranno un preciso programma comportamentale che le condurrà alla fase finale della loro vita di "non morti". Si agganceranno con le mandibole alla parte inferiore di una foglia posta a circa 25 cm di altezza dal suolo e in coincidenza con una vena succosa, e lì moriranno.<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://media.wired.com/photos/5b08730b7c48216fc1df0ac4/master/pass/ZombieAnts-2w.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="800" height="409" src="https://media.wired.com/photos/5b08730b7c48216fc1df0ac4/master/pass/ZombieAnts-2w.jpg" width="545" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Formica zombificata da cui esce il fungo che dissemina le sue spore sul terreno sottostante... pronte per colonizzare altre formiche (image: Kim Fleming via Wired)</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Ho usato non a caso il termine "non-morte" per queste formiche. Si tratta di formiche infettate, e oramai condannate, i cui movimenti sono controllati da un organismo parassita. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div><div style="text-align: justify;">Torniamo alla scena della formica che si aggancia alla foglia e li, con la mascella bloccata, si lascia morire. Come in una variante della serie "<b><a href="https://amzn.to/2zLNyjn" target="_blank">Alien</a></b>", pochi giorni dopo l'infezione dalla testa della formica emergerà il gambo di un fungo che giunto a maturazione rilascerà nell'area sottostante le spore. Ogni tanto qualcuna di queste spore verrà raccolta dalle formiche di passaggio e questo perpetuerà il ciclo infezione - "<i>zombificazione</i>" - diffusione delle spore.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">A scrivere una trama del genere in un libro di fantascienza-horror si correrebbe il serio rischio di sfidare l'incredulità del lettore, ma come scrisse qualcuno anni fa "<i>solo dalla letteratura si pretende la verosimiglianza, la vita è di per se molto più incredibile</i>".</div><div style="text-align: justify;"><div><br /></div></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"></div><div>Il fenomeno sopra descritto è ben documentato da anni. Il termine di formiche-zombie per le formiche infettate è dovuto al loro essere del tutto prive del controllo dei movimenti, <i>quasi</i> come dei morti che camminano. Le prime descrizioni presenti nella letteratura scientifica risalgono al 19mo secolo e furono documentate in Indonesia da <b>Alfred Russell Wallace</b>.</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il termine "zombie", tuttavia, pur suggestivo non è del tutto corretto (a meno di non usare come riferimento i zombie-rabbiosi ma vivi de "<i><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/La_citt%C3%A0_verr%C3%A0_distrutta_all%27alba_(film_1973)" target="_blank">La città verrà distrutta all'alba</a></i>" di George Romero). Non si tratta infatti di formiche resuscitate dalla morte ma di un meccanismo parassitario fungino estremamente sofisticato che opera prendendo il comando del sistema nervoso della formica in modo da trasformarla nel terreno di coltura ideale per la propria crescita. Una volta che il fungo ha preso il controllo, "costringe" la formica a cercare la posizione ideale (per il fungo ovviamente), e lascia la formica a morire. Quello che serve al fungo ora è procedere spediti nella fase finale della maturazione, una fase in cui l'integrità strutturale della formica non è più importante.</div><div style="text-align: justify;"><div>La posizione della formica e l'altezza della foglia sono entrambi ideali visto che si trovano ad una altezza sufficiente dal suolo perchè le spore possano diffondersi facilmente nella zona senza che le altre formiche si accorgano del pericolo.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td><a href="https://web.archive.org/web/20130712003721if_/http://science.psu.edu/alert/photos/research-photos/biology/CarpenterAnt1.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="533" data-original-width="800" height="400" src="https://web.archive.org/web/20130712003721if_/http://science.psu.edu/alert/photos/research-photos/biology/CarpenterAnt1.jpg" width="600" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption"><span style="font-size: 13.3333339691162px;">Primo piano del fungo che emerge dalla parte posteriore della testa (<a href="https://web.archive.org/web/20130712003721if_/http://science.psu.edu/alert/photos/research-photos/biology/CarpenterAnt1.jpg" target="_blank">®David Hughes, Penn State University</a>)</span></td></tr></tbody></table></div><div style="text-align: justify;"><br /><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td><a href="https://web.archive.org/web/20160124083954if_/http://images.nationalgeographic.com/wpf/media-live/photos/000/525/overrides/zombie-ant-fungus-has-its-own-predator_52525_600x450.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="600" height="300" src="https://web.archive.org/web/20160124083954if_/http://images.nationalgeographic.com/wpf/media-live/photos/000/525/overrides/zombie-ant-fungus-has-its-own-predator_52525_600x450.jpg" width="400" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption">Credit: Nat. Geogr.</td></tr></tbody></table><br /></div><div style="text-align: justify;">Gli attori di questa <i>danse macabre</i> sono il fungo <b>Ophiocordyceps</b> (un parassita obbligato) e le formiche carpentiere del genere <b>Camponotus</b>. Un duetto che continua da milioni di anni (le tracce fossili nell'ambra fanno pensare ad una disfida che dura da almeno 48 milioni di anni) e che, ovviamente, ha visto la nascita di rapporti specifici fra molte specie di funghi e altrettante specie di formiche. In un articolo del 2011 pubblicato sulla rivista <i>PLoS ONE</i>, i ricercatori <b>Harry Evans</b>, <b>Simon Elliot</b> e <b>David Hughes</b> del Dipartimento di Biologia Animale presso l'Università Federale di Vicosa in Brasile, hanno descritto quattro nuove specie del fungo Ophiocordyceps trovate in un piccolo tratto di foresta pluviale nel sud-est del Brasile. <u>Ognuna di queste specie di funghi parassita solo una delle specie di formiche Camponotus</u>, a denotare un <u>elevato grado di specializzazione</u>.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Non è tutto. Un ecosistema naturale in equilibrio prevede che i predatori siano loro stessi soggetti alla possibilità di essere predati. In questo caso il fungo stesso può essere parassitato da altri funghi.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote class="tr_bq"><div>Ricercatori danesi (Andersen et al, PLoS ONE, maggio 2012) hanno trovato sul cadavere di una formica parassitata una specie di fungo del tutto diversa. Questo ulteriore parassita, detto <span style="color: blue;">iperparassita</span>, <u>impedisce al fungo originale di emettere le sue spore, di fatto sterilizzandolo</u>. <span style="color: red;">L'iperparassita sfrutta quindi il primo parassita, e si riproduce al suo posto</span>. Non stupisce quindi che anche questi iperparassiti abbiano una forte preferenza sul tipo di organismi da parassitare e siano essi stessi dei parassiti obbligati.</div><div>Oltre ai funghi i ricercatori hanno trovato anche piccoli insetti della famiglia <b>Cecidomyiidae</b> intenti a deporre le uova nel cadavere della formica infetta. Le larve crescendo si nutriranno del fungo.</div><span style="color: blue;">Un vero e proprio micro-ecosistema che in ultima analisi ha permesso alle formiche di sopravvivere. Dato che il secondo fungo impedisce la sporificazione del primo, il numero di spore da esso prodotte (quindi la capacità di infettare le formiche) viene fortemente ridimensionato. La formica in se è diventata la "irrilevante" vittima sacrificale che garantisce la sopravvivenza delle sue sorelle. L'iperparassita infatti NON è in grado di infettare direttamente le formiche.</span></blockquote></div><div style="text-align: justify;"> <b>David Hughes</b>, professore associato di entomologia e biologia alla <i>Pennsylvania State University</i>, ha aggiunto in un articolo del 2011 su <i>Ecology BMC</i>, nuovi dettagli sulla fase infetta della vita della formica. I primi indizi di una infezione in atto si hanno quando la formica si allontana, barcollando come fosse ubriaca, dalla zona asciutta e elevata di un albero per dirigersi verso quella più umida del suolo. Il movimento della formica appare casuale e sono frequenti le convulsioni che la fanno cadere. </div><div style="text-align: justify;">Ed è in questo frangente che la formica smette di essere tale. Non è più una formica! </div><div style="text-align: justify;">Nel momento stesso in cui appaiono i sintomi, questi sono la conseguenza dell'attivazione dei geni fungini che hanno preso possesso del sistema nervoso della formica e la guidano come un oggetto telecomandato. Della formica a questo punto esiste solo il corpo. Come se il sistema operativo della macchina vivente formica fosse stato cancellato e al suo posto fosse stato caricato quello di un programma hacker. Da qui la denominazione zombie usata per i computer sotto controllo di malware esterni. </div><div style="text-align: justify;">Secondo Harry Evans il responsabile diretto del controllo è una <u>tossina</u> prodotta dalle cellule fungine. Dall'analisi della formiche nelle diverse fasi del processo infettivo si è in effetti scoperto che al momento della comparsa del movimento scoordinato, le cellule fungine hanno di fatto colonizzato la testa dell'insetto. Una disseminazione per nulla casuale visto che <u>il cervello in gran parte rimane libero</u>, così come le ghiandole e i muscoli. <u>Le cellule fungine si distribuiscono in modo altamente specifico, cos</u><u>ì da controllare e condizionare</u>; una distribuzione molto diversa da quella che ci si aspetterebbe se fosse in atto una "semplice" invasione dei tessuti da parte di un parassita.</div><div style="text-align: justify;">Tutto è finalizzato a rendere la fase di sporificazione la più efficiente possibile. </div><div style="text-align: justify;"><div><u>La posizione, l'ora, la modalità con cui la formica si aggancia alla foglia e perfino l'orientamento</u> (<b>invariabilmente nord-nordovest</b>) sono il risultato della attività fungina, un comportamento totalmente assente nelle formiche sane.</div><div>Un esempio chiarificatore. E' sempre il fungo che induce l'atrofia delle cellule muscolari della mandibola; di conseguenza quando la formica "morderà" come ultimo atto la vena della foglia nel cosiddetto "aggancio mortale" la mandibola si bloccherà definitivamente lasciando la formica li a morire (entro 6 ore), il fungo a germogliare (due-tre giorni dopo) e le spore a diffondersi da una posizione ideale.</div></div><div style="text-align: justify;"></div><div style="text-align: justify;"><div>Dal momento in cui inizia a germogliare alla maturazione completa passano alcune settimane. Una crescita relativamente lenta che può interrompersi e reiniziare in un secondo momento.</div><div><br /></div><div>Di seguito un video prodotto dalla PennState sulle formiche "zombie".</div></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/2irXpAMBHkE?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe></div><br />Un secondo video prodotto dal famoso documentarista Richard Attenborough e dalla BBC.<br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/XuKjBIBBAL8?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe></div></div><div style="text-align: justify;"><b>Perchè un meccanismo così complesso per infettare le formiche?</b> In fondo al fungo basterebbe che la formica infettata morisse all'interno del nido, facilitando la diffusione delle spore a tutte le sorelle. questo avverrebbe senza dubbio se non fosse che i le formiche hanno una attenzione maniacale per l'igiene del loro formicaio. <span style="color: red;">I ricercatori hanno ipotizzato che quella del fungo sia stata una contromossa evolutiva per evitare di essere "smaltito" come sporcizia</span>. Ogni formica malata o deceduta viene infatti prontamente uccisa o rimossa dal nido. Un comportamento che impedirebbe di fatto al fungo di germogliare e di infettare nuove formiche. Il fungo porta la formica laddove la maturazione potrà avvenire senza inconvenienti ma in un luogo prossimo al tragitto quotidiano delle sue consimili.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><div>Una lotta quella tra funghi e formiche che risale <i>quasi</i> all'epoca dei dinosauri. La prova, come accennato prima, è in un dato pubblicato nel 2010 su <i>Biology Letters</i>, in cui si descrive una <u>foglia fossile trovata in Germania vecchia di 48 milioni, che porta le cicatrici distintive di un morso di formica sulla sua vena principale</u>. Un'epoca in cui il clima del territorio tedesco era tropicale.</div><div>I ricercatori hanno descritto la scoperta come "<i>il primo esempio fossile di un comportamento manipolato</i>". </div></div><div style="text-align: justify;"></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Sia Evans che gli altri ricercatori coinvolti continuano la loro caccia alla ricerca di organismi opportunisti sempre più bizzari.</div><div style="text-align: justify;">Studiare le formiche-zombie ed i funghi responsabili non è un semplice esercizio scientifico (anche se questa definizione è incomprensibile per chi non si occupa di scienza). Ogni informazione ottenuta su questi ecosistemi complessi potrebbe infatti fornire nuovi strumenti naturali per lo sviluppo di trattamenti naturali contro i parassiti in agricoltura.</div><div style="text-align: justify;"><div><br /></div><blockquote class="tr_bq">Un altro esempio di variazione comportamentale indotta da un parassita lo si ha con la malaria. Non solo il plasmodium <a href="https://www.nature.com/articles/s41598-019-40074-y" target="_blank">altera la percezione olfattiva della zanzara</a> rendendola più o meno "mordace" sugli esseri umani a seconda dello stadio di sviluppo del protista, ma si è evoluto <a href="https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5936035/" target="_blank">"spingendo" la zanzara ad acquisire sempre più abitudini alimentari diurne</a> rispetto al classico comportamento notturno. Le conseguenze sono state pesanti per le persone che vivono in un ambiente dove la malaria è endemica, a causa della perdita di efficacia delle reti protettive notturne poste intorno ai letti che avevano contribuito nel ridurre di molto le nuove infezioni. </blockquote><blockquote class="tr_bq"><div>Se pensate che la manipolazione del comportamento causata da un parassita non riguardi noi vertebrati, l'esempio tipico sono i topi infettati dal <i><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Toxoplasma_gondii" target="_blank">Toxoplasma Gondii</a> </i>che fa li rende indifferenti alla presenza dei gatti ... con conseguenze facilmente immaginabili. Il vantaggio del parassita è che favorendo la predazione del loro ospite murino potranno infettare i gatti, condizione <u>essenziale</u> per completare il loro ciclo riproduttivo. Ma i gatti vivono a contatto con noi, e il toxoplasma non si fa problemi a 1) infettarci e 2) a <a href="https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2526142/" target="_blank">alterare il nostro comportamento</a>.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td><a href="https://1.bp.blogspot.com/-3FnCFIEC-QI/XtPMcifRx-I/AAAAAAAAMh8/TZI_ejUzBcA3mfYp2lQ4eNiWDbq2W2G9QCLcBGAsYHQ/s1600/Senza%2Bnome.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="299" data-original-width="425" height="225" src="https://1.bp.blogspot.com/-3FnCFIEC-QI/XtPMcifRx-I/AAAAAAAAMh8/TZI_ejUzBcA3mfYp2lQ4eNiWDbq2W2G9QCLcBGAsYHQ/s320/Senza%2Bnome.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption">L'effetto dell'infezione da toxoplasma sul comportamento umano</td></tr></tbody></table></blockquote><blockquote class="tr_bq"><div style="text-align: center;">Per articoli sul curioso fenomeno di simil-zombie in natura (senza nulla di soprannaturale) --> <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.it/search/label/zombie%20in%20natura" target="_blank">QUI</a></div></blockquote></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonti</b><br />- <i>Zombie Ants Have Fungus on the Brain, New Research Reveals</i><br /><span style="font-size: x-small;"> PennState, <a href="http://science.psu.edu/news-and-events/2011-news/Hughes5-2011">news</a> </span></div><div style="text-align: justify;"><br />- <i>Fungus that controls zombie-ants has own fungal stalker</i></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: x-small;"> Nature (2012) doi:10.1038</span></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">- <i>"Zombie Ant" Fungus Under Attack—By Another Fungus</i></div><div style="text-align: justify;"><span class="citation_author"></span> <span style="font-size: x-small;">National Geographic News, May 4, 2012</span></div><div style="text-align: justify;"><br />- <i>Hidden Diversity Behind the Zombie-Ant Fungus Ophiocordyceps unilateralis: Four New Species Described from Carpenter Ants in Minas Gerais, Brazil</i><br /><span style="font-size: x-small;"><span class="citation_author">Evans HC et al, </span>PLoS ONE</span><span class="citation_issue"><span style="font-size: x-small;"> 6(3), 2011</span></span><br /><br /></div><div style="text-align: justify;">- <i>Disease Dynamics in a Specialized Parasite of Ant Societies</i>.<br /><span style="font-size: x-small;"> <a href="https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0036352" target="_blank">Andersen SB et al</a>, PLoS ONE 7(5), 2012</span><br /><br />- <i>Undead-End: Fungus That Controls Zombie-Ants Has Own Fungal Stalker</i></div><div style="text-align: justify;"> <span style="font-size: x-small;">Scientific American, <span class="date">October 29, 2012</span></span></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-88521583634351908792023-09-06T11:24:00.005+02:002023-09-06T11:24:34.193+02:00Visualizzazione grafica delle orbite di Terra e Luna vs. il Sole<div style="text-align: justify;">Mi piace trovare delle rappresentazioni visuali 3D interattive che rappresentino concetti anche molto basici come l'orbita Terra-Luna-Sole. </div><div><div style="text-align: justify;">Perfette per spiegare eclissi ai più giovani e mostrare l'oscillazione dell'asse</div><div class="sketchfab-embed-wrapper"><div style="text-align: center;"><iframe allow="autoplay; fullscreen; xr-spatial-tracking" allowfullscreen="" execution-while-not-rendered="" execution-while-out-of-viewport="" frameborder="0" mozallowfullscreen="true" src="https://sketchfab.com/models/6533dcefd09841aa8c81e04e4573125a/embed" title="Earth - Moon orbits system" web-share="" webkitallowfullscreen="true" xr-spatial-tracking=""> </iframe></div> <p style="color: #4a4a4a; font-size: 13px; font-weight: normal; margin: 5px; text-align: center;"> <a href="https://sketchfab.com/3d-models/earth-moon-orbits-system-6533dcefd09841aa8c81e04e4573125a?utm_medium=embed&utm_campaign=share-popup&utm_content=6533dcefd09841aa8c81e04e4573125a" rel="nofollow" style="color: #1caad9; font-weight: bold;" target="_blank"> Earth - Moon orbits system </a> by <a href="https://sketchfab.com/SebastianSosnowski?utm_medium=embed&utm_campaign=share-popup&utm_content=6533dcefd09841aa8c81e04e4573125a" rel="nofollow" style="color: #1caad9; font-weight: bold;" target="_blank"> SebastianSosnowski </a> on <a href="https://sketchfab.com?utm_medium=embed&utm_campaign=share-popup&utm_content=6533dcefd09841aa8c81e04e4573125a" rel="nofollow" style="color: #1caad9; font-weight: bold;" target="_blank">Sketchfab</a></p></div><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-81753392929973063122023-08-30T16:37:00.001+02:002023-08-31T16:36:47.236+02:00Dall'analisi delle missive di "Dracula" l'analisi del suo stato di salute e l'origine della (famose) lacrime di sangue<div style="text-align: justify;">Dall’analisi delle tracce biologiche presenti sulle missive vergate da <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Vlad_III_di_Valacchia" target="_blank"><b>Vlad III</b>, noto “affettuosamente” come Vlad l’Impalatore</a>, un team di ricercatori italiani dell’università di Catania ha inferito alcune interessanti informazioni sulla sua salute.</div><table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhxz4ehDtj5sY8rl15l4AaCB6vR-uHfWMvurpDbMBwXZstmHgO0Kpw46I89folPZc8N9rDEOBATWcTdgG7_xxymy25v6FRH_LnRSNIXiApYz2ssl3O1wnr5nhRv7i2Vvxj8ligIK3WdCgY-EyeFJA-jm3CZA2B0gVx5Yruk9AWVirXl9sN_x2AFq2Qa/s656/thumbnail_vlad_obb-kSSE-U343015980270360qC-656x492@Corriere-Web-Sezioni.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="482" data-original-width="656" height="235" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhxz4ehDtj5sY8rl15l4AaCB6vR-uHfWMvurpDbMBwXZstmHgO0Kpw46I89folPZc8N9rDEOBATWcTdgG7_xxymy25v6FRH_LnRSNIXiApYz2ssl3O1wnr5nhRv7i2Vvxj8ligIK3WdCgY-EyeFJA-jm3CZA2B0gVx5Yruk9AWVirXl9sN_x2AFq2Qa/s320/thumbnail_vlad_obb-kSSE-U343015980270360qC-656x492@Corriere-Web-Sezioni.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Una delle lettere di Vlad fornite dall'archivio romeno</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;"><blockquote><p>Vlad III è di sicuro un personaggio interessante, non solo per avere <a href="https://amzn.to/44rISY5" target="_blank">ispirato secoli Bram Stoker nel creare la figura di Dracula</a>, ma <a href="https://amzn.to/3OZY5u1" target="_blank">per la sua storia di persona vissuta in tempi e, soprattutto, un’area difficile come la Valacchia</a>, area che dire di frontiera è riduttivo. Personaggi duri per tempi duri, in attesa che le anime belle di matrice anglosassone ne impongano l’oblio per il non essere conformi al canone (forse meglio dire, il conformismo) del politicamente corretto e del woke. Per ora rimaniamo con personaggi come Attila, Dracula e Gengis Khan tuttora eroi nazionali in Ungheria, Romania e Mongolia, rispettivamente (del resto anche <a href="https://www.youtube.com/watch?v=CbaVQBR-K2M" target="_blank">Nerone ha goduto di fama pessima, ma falsa, fino alla fine del XX secolo</a>). Di seguito uno dei migliori libri storici su Vlad III.<br /></p><div style="text-align: center;"> <iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=8804553928&linkId=27fd78a5aa44b556c731551ee083197c" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><p></p></blockquote></div><div style="text-align: justify;">Lo studio, pubblicato su <i>Analytical Chemistry</i>, rivista specializzata dell’American Chemical Society, è consistito nella analisi dei residui proteici depositatisi su tre lettere (una del 1457 e le altre del 1475) autografe del condottiero, conservate negli archivi romeni.</div><div style="text-align: justify;">I risultati indicano che Vlad potrebbe avere sofferto di una infezione cronica ai polmoni e, cosa più interessante almeno come suggestione, essere affetto da <b><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Emolacria" target="_blank">emolacria</a></b>, una condizione associata alla produzione di lacrime di sangue (fenomeno descritto dagli ospiti di Vlad III. come il Legato Pontificio, ma che potevano essere semplice frutto del timore che incuteva Vlad ai suoi interlocutori).</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Breve cenno alle tecniche utilizzate. La prima parte della procedura è consistita nell’applicazione di una pellicola di etilene-vinil acetato sui fogli, per catturare i residui proteici presenti senza danneggiare i reperti. Passo successivo è stato utilizzare la <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Spettrometria_di_massa" target="_blank">spettrometria di massa</a> per determinare l’identità delle migliaia di peptidi presenti, così da selezionare solo quelli di origine umana ma più deteriorate dal tempo (quindi attribuibili allo scrivente e non all’archivista).</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://pubs.acs.org/cms/10.1021/acs.analchem.3c01461/asset/images/large/ac3c01461_0002.jpeg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="282" data-original-width="800" height="214" src="https://pubs.acs.org/cms/10.1021/acs.analchem.3c01461/asset/images/large/ac3c01461_0002.jpeg" width="607" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Uno dei passaggi dell'analisi. A sinistra una delle lettere e a destra l'analisi effettuata con luce UV sulla lastra di acetato per mappare la presenza di aminoacidi come triptofano, tiroxina e fenilalanina<br />(image credit: <a href="https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acs.analchem.3c01461#" style="text-align: justify;" target="_blank">MGG Pittalà et al</a><span style="text-align: justify;">, Anal. Chem. 2023)</span></td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">In totale sono decine i peptidi trovati riconducibili a proteine umane (di particolare interesse quelle di origine ematica, respiratoria e oculare) senza però trascurare le molte di origine ambientale (batteri, virus, funghi e muffe, insetti e piante) utili per ricostruire la vita dell’epoca. Alcune dei peptidi sono riconducibili a infiammazioni dell’apparato respiratorio, a ciliopatie e a retinopatie. Il confronto tra i residui organici presenti nelle tre lettere (scritte come ricordo a distanza di 20 anni) sembra confermare le variazioni nello stato di salute con tracce riconducibili alla emolacria presenti solo nelle due ultime lettere.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La presenza di tracce di batteri riconducibili alla flora intestinale ma anche associati a infezioni dello stesso tratto e delle vie urinarie (perfino tracce del batterio Yersinia pestis, causa della peste. <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2022/06/scoperto-in-asia-centrale-lorigine.html" target="_blank">Articolo tematico QUI</a>) richiama le condizioni igieniche “comuni” (o meglio l’assenza di pratiche di pulizia) anche nelle magioni più altolocate fino alla fine dell’ottocento (vedi il colera nella Londra dell'epoca. Due libri consigliati: <i><a href="https://amzn.to/45s0fJG" target="_blank">Cattive acque</a></i> e <i><a href="https://amzn.to/3sqiKQ4" target="_blank">The Ghost Map</a></i>) </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>Count Dracula Resurrected: Proteomic Analysis of Vlad III the Impaler’s Documents by EVA Technology and Mass Spectrometry</i></div><div style="text-align: justify;"><a href="https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acs.analchem.3c01461#" target="_blank">Maria Gaetana Giovanna Pittalà et al</a>, Anal. Chem. 2023, 95, 34, 12732–12744</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">***</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div>Libro interessante quello sulle missive ritrovate scritte, in italiano, dalla regina Elisabetta I: <a href="https://amzn.to/3P00Mf1" target="_blank">Elizabeth I's Italian Letters</a></div><div style="text-align: center;"><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=1137442328&linkId=feb21d83506da95e52964a07ab91d76d" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><div><br /></div><div><br /></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-13752784216650933842023-08-28T17:53:00.003+02:002023-08-28T17:53:35.119+02:00Giano, la nana bianca a due facce<div style="text-align: justify;">La scoperta di una stella nana bianca con due facce completamente diverse.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://caltech-prod.s3.amazonaws.com/main/images/White-Dwarf-20230505-400p12c64.width-450.gif" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="225" data-original-width="400" height="225" src="https://caltech-prod.s3.amazonaws.com/main/images/White-Dwarf-20230505-400p12c64.width-450.gif" width="400" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Credit: Caltech</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Le <b><a href="https://en.wikipedia.org/wiki/White_dwarf" target="_blank">nane bianche</a></b> rappresentano la fase stellare ultima per stelle di massa piccola e medio-piccola come il Sole, che hanno una vita residua superiore a <a href="https://www.smithsonianmag.com/science-nature/four-types-stars-will-not-exist-billions-or-even-trillions-years-180971299" target="_blank">decine se non centinaia di miliardi di anni</a> prima di spegnersi del tutto in una <b><a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Black_dwarf" target="_blank">nana nera</a></b>.</div><div style="text-align: justify;">Si tratta di stelle ad alta densità e temperatura in cui essendosi consumato il carburante per la fusione nucleare e non avendo massa sufficiente ad innescare le reazioni di fusione degli elementi più pesanti (fino al ferro) come avviene per le stelle supermassicce, devono la energia luminosa prodotta alla energia residuale immagazzinata al suo interno. Una volta che avrà raggiunto un equilibrio termico con lo spazio circostante il flusso terminerà e con essa la luce emessa.</div><div style="text-align: justify;"><blockquote>Il sole raggiungerà questa in circa 5 miliardi di anni dopo un breve momento di “gloria” attraverso la fase di gigante rossa in cui espellerà gran parte della sua materia esterna e “precipitando” il rimanente in un residuo molto denso delle dimensioni della Terra e di massa circa la metà del Sole attuale.</blockquote></div><div style="text-align: justify;">Questo “canone” ha trovato ora un casus mirabilis con la scoperta di una nana bianca i cui due lati sono diversi, uno fatto di idrogeno e l'altro di elio. In parole povere la superficie della nana bianca cambia completamente da un lato all'altro.</div><div style="text-align: justify;">Una stranezza che ha reso quasi scontato il nome scelto per essa, Giano, il dio romano a due facce, simbolo della transizione. </div><div style="text-align: justify;">Lo studio che riporta i dettagli della scoperta è stato pubblicato su Nature lo scorso 19 luglio.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Durante la formazione (alias morte per spegnimento) della stella che diventerà una nana bianca, la componente gravitazionale fa sì che gli elementi più pesanti (in genere carbonio e ossigeno) si accumulino nelle parti più interne mentre gli elementi più leggeri come l'idrogeno e l'elio (più abbondante) salgano verso lo strato superiore. </div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="http://www.solstation.com/images/w2dwarfs.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="525" data-original-width="398" height="525" src="http://www.solstation.com/images/w2dwarfs.jpg" width="398" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La nana bianca nei suoi diversi strati</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">L’analisi di Giano ha mostrato che durante le 4 rotazioni sul suo asse ogni ora, i dati spettrometrici cambiavano evidenziando una composizione diversa per ogni faccia. Un dato confermato da diversi osservatori terrestri. La spiegazione più probabile è che la stella sia stata intercettata in una fase molto specifica della sua evoluzione, quella del passaggio tra il una superficie dominata dall’idrogeno a quella dominata dall’elio. Nel processo (inevitabile una volta che le reazioni di fusione nucleare sono terminate) si ha un rimescolamento degli elementi; durante questa transizione, è possibile che l'idrogeno si diluisca all'interno, permettendo all'elio di diventare l'elemento dominante.</div><div style="text-align: justify;">La ragione per cui su Giano si assiste alla evoluzione in tempi diversi sui due lati della stella potrebbe essere dovuta alla asimmetria del campo magnetico (fenomeno comune nei corpi celesti) che, più forti su un lato, rallenterebbero qui la fase di ridistribuzione, quindi rimanendo più ricco di idrogeno.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://media.cnn.com/api/v1/images/stellar/prod/230720130546-02-janus-star-magnetic-lines.jpg?c=16x9&q=h_720,w_1280,c_fill" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="800" height="317" src="https://media.cnn.com/api/v1/images/stellar/prod/230720130546-02-janus-star-magnetic-lines.jpg?c=16x9&q=h_720,w_1280,c_fill" width="564" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il campo magnetico di Giano che potrebbe spiegare ia differenza in composizione superficiale tra le facce opposte della stella <br />(image credit: K. Miller, Caltech/IPAC)</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">Ipotesi alternativa formulata dai ricercatori è i campi magnetici locali alterino la pressione e densità di questi elementi nella parte più esterna, consentendo la formazione di un "oceano" di idrogeno dove il campo magnetico è più forte.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/y27GF03kaZ0" width="320" youtube-src-id="y27GF03kaZ0"></iframe></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <span style="text-align: left;"><i>A rotating white dwarf shows different compositions on its opposite faces</i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><a href="https://www.nature.com/articles/s41586-023-06171-9" target="_blank">I. Caiazzo et al</a>, Nature</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;">- </span><span style="text-align: left;"><i>Two-Faced Star Exposed</i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><a href="https://www.caltech.edu/about/news/two-faced-star-exposed" target="_blank">Caltech /news</a></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div style="text-align: center;"><span style="text-align: left;"><iframe sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" style="width:120px;height:240px;" marginwidth="0" marginheight="0" scrolling="no" frameborder="0" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B09KY8KK2W&linkId=5c1fa08e028e1e1f1779f59a9c2753f6"></iframe></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div>The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7973958946267130001.post-21727328851699357872023-08-17T16:39:00.002+02:002023-08-17T16:39:07.267+02:00Un "urlo" per riposizionare l'antenna della sonda Voyager 2<div style="text-align: justify;">Riporto in prima pagina la missione Voyager, le cui sonde sono in viaggio da 45 anni.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1e/Voyager_probe.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="557" data-original-width="800" height="223" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1e/Voyager_probe.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Credit: NSSDC NASA</td></tr></tbody></table><div style="text-align: justify;">L’aggiornamento odierno riguarda <b><a href="https://solarsystem.nasa.gov/missions/voyager-2/in-depth/" target="_blank">Voyager 2</a></b> che qualche settimana fa era apparentemente ammutolita. Con ragione in effetti. Si scoprì quasi subito, che la la causa era un errore nella stringa di comando inviata il 21 luglio dalla Terra, che causò uno spostamento di due gradi dell’orientamento dell’antenna.</div><div style="text-align: justify;">Due gradi può sembrare poco ma se il segnale arriva da una sonda distante 19,9 miliardi di chilometri equivalgono a … parlare al vuoto. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">In un primo momento si era stimato che l’errore non avrebbe potuto essere corretto prima del 15 ottobre, data in cui la Voyager 2 avrebbe dovuto effettuare una manovra di riallineamento automatizzata. Ma, come si dice, la necessità aguzza l’ingegno e il 1 agosto gli ingegneri della NASA hanno usato la rete di osservatori terrestri che formano il <a href="https://eyes.nasa.gov/dsn/dsn.html" target="_blank"><b>Deep Space Network</b> (DSN)</a> per rilevare l’onda portante proveniente dalla Voyager 2.</div><div style="text-align: justify;"></div><blockquote><div style="text-align: justify;"><b>Nota</b>. ricordo che il <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Deep_Space_Network" target="_blank">Deep Space Network</a> equivale ad avere, come copertura e risoluzione (dopo interpolazione) un rilevatore del diametro del pianeta Terra.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://www.nasa.gov/sites/default/files/styles/full_width/public/thumbnails/image/2021_ground_station_map.png?itok=Aw0Aa5LO" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="800" height="326" src="https://www.nasa.gov/sites/default/files/styles/full_width/public/thumbnails/image/2021_ground_station_map.png?itok=Aw0Aa5LO" width="580" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">La rete di telescopi che forma il DSN</td></tr></tbody></table><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://scientificgems.files.wordpress.com/2021/02/nasa_dsnb.png" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="800" height="585" src="https://scientificgems.files.wordpress.com/2021/02/nasa_dsnb.png" width="585" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Come la rete DSN viene usata per parlare con le varie sonde</td></tr></tbody></table></blockquote><div style="text-align: justify;">Sebbene il segnale fosse ancora troppo debole per leggerne i dati trasmessi, l'averne intercettato la portante era la prova che si poteva inviare un messaggio alla sonda… purché “urlato” (sic!). </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Operazione eseguita il 4 agosto dal JPL (produttore e gestore di Voyager) mediante il DSN.</div><div style="text-align: justify;">Ci sono volute 18,5 ore di viaggio alla velocità della luce perché il messaggio arrivasse a destinazione e 37 ore in totale perché i controllori della missione verificassero che il messaggio era stato ricevuto e, soprattutto, interpretato correttamente riposizionando l’antenna. Nella notte del 4 agosto Voyager 2 ha iniziato a restituire dati scientifici e di telemetria indicando che stava funzionando normalmente e che era nella traiettoria prevista.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Fonte</b></div><div style="text-align: justify;">- <i>NASA Mission Update: Voyager 2 Communications Pause</i></div><div style="text-align: justify;"><a href="https://www.jpl.nasa.gov/news/nasa-mission-update-voyager-2-communications-pause" target="_blank">NASA/news</a></div><div><br /></div><div style="text-align: center;"><iframe frameborder="0" marginheight="0" marginwidth="0" sandbox="allow-popups allow-scripts allow-modals allow-forms allow-same-origin" scrolling="no" src="//rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?lt1=_blank&bc1=000000&IS2=1&bg1=FFFFFF&fc1=000000&lc1=0000FF&t=abotheclo-21&language=it_IT&o=29&p=8&l=as4&m=amazon&f=ifr&ref=as_ss_li_til&asins=B06XC75T5C&linkId=f73f193d2189af42749facd2d5315a1f" style="height: 240px; width: 120px;"></iframe></div><p style="text-align: center;">***</p><p style="text-align: center;"><b><span style="font-size: large;">PRECEDENTI ARTICOLI SUL TEMA VOYAGER</span></b></p><div style="text-align: justify;"><div>Quando scrissi l’<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2018/03/anche-voyager-2-si-appresta-ad.html" target="_blank">articolo sulla uscita dei due Voyager</a> dal sistema solare pensavo fosse il capitolo finale di una avventura durata (ad oggi) 45 anni. In fondo una volta usciti dalla eliosfera, con poca energia rimasta e “nessun incontro ravvicinato” previsto (fatto salvo qualche membro fuggito dalla nube di Oort o, per miracolo, il fantomatico pianeta 9) non ci sarebbe stato molto da aggiungere alla già raggiunta gloria.</div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://www.nasa.gov/sites/default/files/styles/full_width/public/thumbnails/image/voyager_2_uranus_voyager_trajectories.png?itok=GeVhT5a5" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="668" data-original-width="800" height="447" src="https://www.nasa.gov/sites/default/files/styles/full_width/public/thumbnails/image/voyager_2_uranus_voyager_trajectories.png?itok=GeVhT5a5" width="536" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Credit: NASA</td></tr></tbody></table><div>Invece <a href="https://www.jpl.nasa.gov/news/nasas-voyager-will-do-more-science-with-new-power-strategy" target="_blank">eccoci qui con una notizia arrivata qualche giorno dal JPL</a> di un “miracolo” tecnico compiuto dagli ingegneri che hanno trovato il modo per usare l’energia rimasta per tenere attivi gli strumenti almeno fino al 2026.</div><div>In una rotta che porta sempre più lontano dal Sole si sapeva già in fase di progettazione che l’energia non avrebbe potuto essere ricavata da pannelli solari ma si doveva sfruttare una batteria "atomica” (più precisamente dei generatori termoelettrici a radioisotopi di plutonio) che non è eterna e il suo esaurimento avrebbe richiesto (per preservare almeno la capacità di inviare messaggi) lo spegnimento di uno strumento scientifico, in aggiunta ai vari sottosistemi spenti nel corso degli anni. </div><div><br /></div><div>La soluzione escogitata si è focalizzata sul sistema di backup per stabilizzare la tensione della corrente che alimenta i rilevatori così da proteggerli da sbalzi improvvisi. Si è optato per utilizzare questa potenza addizionale per alimentare gli strumenti scientifici anziché lo stabilizzatore.</div><div><br /></div><div>Voyager 1 non ha per ora queste necessità (anche se in futuro potrebbe seguire la strada del fratello) in quanto perse uno dei suoi strumenti scientifici nelle prime fasi della missione, quindi meno energivoro.</div><div><br /></div><div>Il miracolo di queste sonde è che furono progettate per una missione di quattro anni, il tempo sufficiente per avvicinare Giove e Saturno. Solo in seguito, dato l’allineamento dei pianeti che si ripete solo ogni 175 anni, si sfruttò questa finestra temporale per inviare Voyager 2 verso Urano e Nettuno. La sonda Voyager 1 avrebbe nei piani dovuto raggiungere Plutone ma si preferì inviarla su una rotta che intersecasse Titano, una delle lune di Saturno. Plutone ricevette infine la tanto attesa visita dalla sonda New Horizon nel 2015.</div><div><br /></div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><blockquote style="text-align: center;"><span style="text-align: left;">*** <b>04/05/2021 </b></span><span style="text-align: left;">***</span><span style="text-align: left;"> </span></blockquote><p> <span>La sonda Voyager 1, distante oramai 152 UA, ha </span><a href="https://news.cornell.edu/stories/2021/05/emptiness-space-voyager-1-detects-plasma-hum" target="_blank">registrato la vibrazione di fondo</a><span> del gas interstellare</span></p><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/d/da/PIA17046_-_Voyager_1_Goes_Interstellar.jpg/2560px-PIA17046_-_Voyager_1_Goes_Interstellar.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="446" data-original-width="800" height="314" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/d/da/PIA17046_-_Voyager_1_Goes_Interstellar.jpg/2560px-PIA17046_-_Voyager_1_Goes_Interstellar.jpg" width="564" /></a></div><br /><span><br /></span><p></p><p style="text-align: center;">*** <b>I dati inviati da Voyager 2 dopo avere attraversato il confine del sistema solare</b> *** <br />(<b>04/11/2020)</b></p><p>Quando tutti davano per defunta Voyager 2 dopo la sua uscita "ufficiale" dal sistema solare (<a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2019/11/i-dati-inviati-da-voyager-2-dopo-avere.html" target="_blank">--> "<i>Il viaggio di Voyager 2</i></a>") ecco arrivare dallo spazio profondo un suo messaggio (del tipo "tutto ok"). </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://curiosmos.com/wp-content/uploads/2020/10/stscihp1701am2000x1933-780x470.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="470" data-original-width="780" height="193" src="https://curiosmos.com/wp-content/uploads/2020/10/stscihp1701am2000x1933-780x470.jpg" width="320" /></a></div><p>Notevole se si pensa che è in viaggio da 43 anni (il lancio risale al 20 agosto 1977), con la missione di studiare la parte esterna del Sistema Solare. Il messaggio, risalente a fine ottobre, è stato captato dall'antenna radio terrestre <b><a href="https://www.cdscc.nasa.gov/Pages/Antennas/dss43.html" target="_blank">Dss43</a></b> (<i>Deep Space Station 43</i>), sita in Australia. </p><table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: justify;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://www.cdscc.nasa.gov/Images/Antennas/antennapg_dss43_3.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="533" data-original-width="800" height="214" src="https://www.cdscc.nasa.gov/Images/Antennas/antennapg_dss43_3.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Credit: NASA<span style="text-align: justify;"> </span></td></tr></tbody></table><blockquote><div></div></blockquote><div>Con i suoi 70 metri di diametro, le periodiche manutenzioni e i recentissimi aggiornamenti, la pur datata Dss43 continua a svolgere il suo lavoro, in concerto con altre antenne della rete NASA site in California e vicino a Madrid.</div><div><br /></div><div>E' stato proprio al termine di uno di questi aggiornamenti che i tecnici hanno testato la funzionalità dell'antenna inviando una stringa di comandi a Voyager 2, che dopo qualche ora (ci vogliono 16 ore per raggiungerla) ha risposto di averli eseguiti correttamente. </div><div><br /></div><div>Chissà mai che uno dei prossimi messaggi che riceveremo da Voyager sia riferito al fantomatico <b>Planet 9 </b>(no, NON si tratta della storpiatura del titolo del film di Ed Wood "<i>Plan 9 from outer space</i>") che verosimilmente non esiste; una delle ipotesi alternative atte a spiegare l'effetto gravitazionale sui pianeti esterni è che sia dovuto ad una miriade di piccoli planetoidi nella zona nota come Nube di Oort. </div><div><br /></div><div><br /></div><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://1.bp.blogspot.com/-Dfl0ZI94134/X6MVibkNd4I/AAAAAAAANgo/Q12zKw7B3zcs74OrI5dqMKg6K3tBu4tmgCLcBGAsYHQ/s1279/aa.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="743" data-original-width="1279" height="352" src="https://1.bp.blogspot.com/-Dfl0ZI94134/X6MVibkNd4I/AAAAAAAANgo/Q12zKw7B3zcs74OrI5dqMKg6K3tBu4tmgCLcBGAsYHQ/w606-h352/aa.jpg" width="606" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="text-align: justify;">Per sapere dove si trova Voyager in tempo reale <a href="https://voyager.jpl.nasa.gov/mission/status/" target="_blank">--> NASA/mission status</a></span><br /></td></tr></tbody></table><div><br /></div><div><br /></div><div><br /></div><div>Quale è la <b>fonte d'energia</b> per comunicare e fare rilevazioni ad una tale distanza da qualunque sorgente luminosa?</div><div><div>Entrambe le sonde Voyager sono dotate di generatori plutonio-238 MHW RTG (Multi-Hundred Watt Radioisotope Thermoelectric Generators) che forniscono tutta l'alimentazione necessaria.</div><div>Ciascuna sonda ha tre di questi generatori. Ogni RTG fornisce circa 157 watt (quando è nuovo di zecca) il che significa per i primi anni di viaggio poteva contare su circa 470 watt di potenza.</div><div>Il lancio è avvenuto nel 1975 e da allora il plutonio (con un tempo di dimezzamento di 88 anni si è consumato solo in minima parte).</div><div>Il fattore limitante non è quindi il plutonio ma le termocoppie di silicio-germanio che trasformano questa energia in corrente elettrica utilizzabile dalla sonda. Il loro problema è che essendo esposte direttamente al flusso di neutroni proveniente dal decadimento del plutonio si danneggiano e questo spiega come mai a soli 40 anni dal lancio la potenza residua sia scesa al 25% di quella originale. L'energia residua è appena sufficiente per mantenere accesi i riscaldatori della navicella e inviare ancora un segnale da 19 watt alla Terra e fare poche altre rilevazioni.</div><div><br /></div><div><div></div></div></div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: center;">*** <b>8/11/2019</b> ***</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">È passato circa un anno da quando Voyager 2 ha varcato i confini del sistema solare nel suo moto senza fine all'interno della galassia. Un passaggio anticipato qualche anno prima da Voyager 1; sebbene lanciati a poche settimane di distanza l'una dall'altra nel 1977 le due sonde hanno seguito rotte diverse, da qui l'ampio sfasamento temporale.<br /><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td><a href="https://www.universetoday.com/wp-content/uploads/2019/11/PIA21839-1024x576.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="800" height="180" src="https://www.universetoday.com/wp-content/uploads/2019/11/PIA21839-1024x576.jpg" width="320" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption"><span style="font-size: x-small;">Voyager 2 (credit: <a href="https://www.universetoday.com/143945/what-voyager-2-learned-after-spending-a-year-in-interstellar-space/" target="_blank">universetoday.com</a>)</span></td></tr></tbody></table></div><blockquote class="tr_bq"><div style="text-align: justify;">Articoli precedenti sull'uscita dal sistema solare di <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2013/09/voyager-1-e-uscito-dal-sistema-solare.html" target="_blank">--> Voyage 1 (2013)</a> e <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2018/03/anche-voyager-2-si-appresta-ad.html" target="_blank">--> Voyager 2 (2018)</a>. La mappa delle rispettive traietttorie viste da Terra sono disponibili -<a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/3/34/Voyager_1_skypath_1977-2030.png/800px-Voyager_1_skypath_1977-2030.png" target="_blank">-> Voyager 1</a> e <a href="https://en.m.wikipedia.org/wiki/Voyager_2#Mission_profile" target="_blank">--> Voyager 2</a>. </div></blockquote><div style="text-align: justify;">E' di pochi giorni fa la pubblicazione di una serie di articoli sulla rivista Nature Astronomy in cui sono riportati i dati raccolti durante il passaggio in questo invisibile confine. I dati arrivano solo ora sia perché è stato necessario attendere il loro arrivo sulla Terra (<a href="https://en.m.wikipedia.org/wiki/Voyager_2#Mission_profile" target="_blank">19 ore circa</a>) e soprattutto elaborarli ed analizzarli (mesi di lavoro). Inoltre lo strumento preposto, <a href="http://museum.mit.edu/150/132" target="_blank"><b>Plasma Science Experiment</b></a>, ha funzionato correttamente solo su Voyager 2 (la versione montata su Voyager 1 ha smesso di funzionare ben prima del previsto)</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La prima cosa che emerge è che l'uscita di Voyager 2 è stata molto più "pulita" rispetto alla gemella Voyager 1.</div><div style="text-align: justify;">L'uscita di Voyager 2 è avvenuta "ufficialmente" il 5 novembre 2018 quando lo strumento registrò una improvvisa riduzione delle particelle del "vento solare" (provenienti quindi dall'interno, cioè dal Sole) e un aumento parallelo di quelle associate ai raggi cosmici (provenienti da fuori, dalla galassia) e del campo magnetico interstellare.</div><div style="text-align: justify;"><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody><tr><td><a href="https://cdn.mos.cms.futurecdn.net/NbdkHRRtLj4Mxs4UjdRVcg-970-80.jpg" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="449" data-original-width="780" height="358" src="https://cdn.mos.cms.futurecdn.net/NbdkHRRtLj4Mxs4UjdRVcg-970-80.jpg" width="600" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption"><span style="font-size: x-small;">credit: NASA via space.com</span></td></tr></tbody></table><br /></div><div style="text-align: justify;">Nel loro insieme, questi dati indicavano che la navicella spaziale era passata oltre la "sfera" d'influenza del nostro sole, un confine noto come eliopausa.</div><blockquote class="tr_bq"><div style="text-align: justify;">Nota. L'eliopausa ha una definizione vaga del tipo il punto di inizio dello spazio interstellare. E' anche definita come il limite esterno della eliosfera. </div></blockquote><div style="text-align: justify;">Le due Voyager sono le prime e uniche, al momento, macchine costruite dall'uomo ad aver raggiunto lo spazio interstellare.</div><div style="text-align: justify;">Sebbene in punti diversi (la distanza è di circa 165 UA), il traversamento dell'eliopausa è avvenuto a distanze dal Sole tutto sommato simili (su scala del sistema solare, ovviamente): 121,6 UA per Voyager 1 e 119 UA per Voyager 2 (ricordo che UA sta unità astronomica ed è la distanza media della Terra dal sole <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2012/09/senza-squilli-di-trombe-o-rullar-di.html" target="_blank">-->"<i>Definito il valore esatto di 1UA</i>"</a> ). Grande differenza invece nel tempo necessario per traversare questo confine: 28 giorni per Voyager 1 meno di 1 giorno per Voyager 2.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La ragione non è ben compresa ma sembra che Voyager 1 sia stato l'unico ad avere incontrato una cosiddetta regione di stagnazione, ampia 8,6 UA, una zona cioè dove il movimento del plasma attorno al veicolo spaziale è quasi nullo (un dato ricavato da altri strumenti a bordo visto che, come detto, il Plasma explorer era rotto). Voyager 2 non ha incontrato nulla di simile ma una regione definita di transizione in cui il flusso di plasma (alias gas ionizzato) proveniente dal sole inizia a cambiare in forza e direzione fino a che incontra uno "strato limite" in cui i flussi provenienti dall'esterno aumentano fino al culmine dell'eliopausa. </div><div style="text-align: justify;">La ragione di questa differenza (nelle regioni incontrate) non è chiara. Potrebbe essere conseguenza di una riduzione dell'attività solare (il ciclo solare dura 11 anni) per cui quando Voyager 2 si avvicinava al confine l'eliopausa si stava muoveva verso l'interno.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Interessante il fatto che le distanze di uscita delle due sonde siano mappabili a distanze simili (nonostante la distanza tra esse), pur in presenza di livelli significativamente diversi di attività solare. Il che fa sorgere interrogativi sulla possibile struttura dell'<b><a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Heliosphere" target="_blank">eliosfera</a></b>: una "bolla" sferica o qualcosa di più simile ad una cometa, con una coda che si estende all'indietro indietro a causa del movimento del sole attraverso la galassia? </div><div style="text-align: justify;">Interrogativi a cui si spera potranno contribuire le nostre due viaggiatrici, la cui attività è prevista durare ancora per un altro decennio.<br /><br /><div style="text-align: center;">***<b>Aggiornamento giugno 2020</b>***</div>Grazie all'utilizzo dei dati ottenuti dalla sonda IBEX della NASA durante un intero ciclo solare, si è potuto studiare come varia l'eliosfera nel tempo.<br />Il ciclo solare dura circa 11 anni, durante il quale il Sole alterna fasi di bassa ed alta attività. I ricercatori erano curiosi di capire come queste variazioni si ripercuotessero ai confini del sistema solare. I risultati mostrano in grande dettaglio le variazioni della parte esterna dell'eliosfera esterna.<br />I dati sono stati <a href="https://iopscience.iop.org/article/10.3847/1538-4365/ab8dc2" target="_blank">pubblicati su <i>The Astrophysical Journal Supplements</i> il 10 giugno 2020</a>.<br />Di seguito un video riassuntivo creato da NASA/Goddard<br /><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/ZY8D71NW1wM/0.jpg" frameborder="0" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/ZY8D71NW1wM?feature=player_embedded" width="320"></iframe></div><div style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;">Link diretto al video su <a href="https://www.youtube.com/watch?v=ZY8D71NW1wM" target="_blank">-->youtube</a></span></div><br /><br />Articolo precedente sull'argomento <a href="https://scienceabovetheclouds.blogspot.com/2018/03/anche-voyager-2-si-appresta-ad.html" target="_blank">--> <i>Voyager</i></a>.<br /><br /><div class="c-article-references__text" id="ref-CR1" itemprop="headline"><b>Fonti</b></div><ul><li>Stone, E. C., Cummings, A. C., Heikkila, B. C. & Lal, N. <i>Nat. Astron.</i> <a href="https://doi.org/10.1038/s41550-019-0928-3">https://doi.org/10.1038/s41550-019-0928-3</a> (2019).</li><li>Krimigis, S. M. et al. <i>Nat. Astron.</i> <a href="https://doi.org/10.1038/s41550-019-0927-4">https://doi.org/10.1038/s41550-019-0927-4</a> (2019).</li><li>Burlaga, L. F. et al. <i>Nat. Astron.</i> <a href="https://doi.org/10.1038/s41550-019-0920-y">https://doi.org/10.1038/s41550-019-0920-y</a> (2019).</li><li>Gurnett, D. A. & Kurth, W. S. <i>Nat. Astron.</i> <a href="https://doi.org/10.1038/s41550-019-0918-5">https://doi.org/10.1038/s41550-019-0918-5</a> (2019).<span class="c-article-references__counter"></span> </li><li>Richardson, J. D., Belcher, J. W., Garcia-Galindo, P. & Burlaga, L. F. <i>Nat. Astron.</i> <a href="https://doi.org/10.1038/s41550-019-0929-2">https://doi.org/10.1038/s41550-019-0929-2</a> (2019). </li><li>Nasa Voyager 2 interstellar space mysteries. <a href="https://www.space.com/nasa-voyager-2-interstellar-space-mysteries.html" target="_blank"><i>space.com</i> (2019)</a></li><li><div>Voyager 2 makes an unexpectedly clean break from the solar system. <i>Scientific American (2019)</i></div><div><i><br /></i></div></li></ul></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br />The Scientisthttp://www.blogger.com/profile/06209192769569717510noreply@blogger.com0