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Dal telescopio a lente LIQUIDA canadese al futuribile telescopio lunare

Non lontano da Vancouver, in mezzo alle montagne canadesi della British Columbia, posto su solida roccia basaltica, c'era il Large Zenith Telescope, la cui particolarità, unica, era l'utilizzo di uno specchio di mercurio liquido.
Il mercurio, grazie alle sue ben note proprietà tra cui densità (sulla superficie può galleggiare il piombo), liquidità a temperatura ambiente e l'essere l'unico liquido capace di riflettere alla perfezione le immagini, è da secoli oggetto di fascinazione.
Credit: NASA

Da queste caratteristiche la decisione che portò alla realizzazione nel 2003 del Large Zenith Telescope, uno specchio liquido paraboloide di 6 metri di diametro con accuratezza migliore di quella ottenibile con vetro o alluminio e decisamente meno costoso. Fino al 2016 era il terzo telescopio più grande del Nord America. 
Confronto in scala tra i vari telescopi, compresi quelli radar (credit: Cmglee via wikipedia)

Produrre tale specchio fu decisamente meno complicato che creare un analogo di vetro o metallo di pari grandezza e "pulizia" sulla superficie: creato versando il mercurio su un piatto rotante a velocità costante così da costringere il liquido in una parabola sollevata ai bordi per circa 1 mm. La forza di gravità trattiene il liquido mentre l'inerzia dalla rotazione sposta il liquido lateralmente.
La continua rotazione dello specchio, associata alla densità del liquido, è sufficiente a ripristinare la superficie liscia anche in presenza di agenti esterni.
La luce incidente sullo specchio liquido viene focalizzata su uno specchio secondario, non liquido, e infine infine catturata dai sensori CCD.
La prima idea del suo utilizzo in astronomia risale a metà ottocento e si deve all'italiano Ernesto Capocci. Rimase tuttavia solo una ipotesi. Il vero collo di bottiglia incontrato anche nei decenni successivi era nella necessità di un motore che garantisse una velocità di rotazione talmente regolare e affidabile da mantenere "pulita" la superficie della lente e sopportane il peso.
Notare che data la densità del mercurio se si poggiasse un dito (previo utilizzo di guanti di lattice data la tossicità) la sensazione sarebbe quella di toccare qualcosa di quasi solido; solo facendo forza si potrebbe penetrare il liquido creando molte meno onde (solo una sorta di tremolio) di quelle che si formerebbero immergendo il dito nell'acqua.
Chiaramente, a differenza dei normali specchi dei telescopi, il mercurio liquido deve essere tenuto in posizione orizzontale, quindi il telescopio poteva solo essere puntato allo zenith. Fu utilizzato nella quasi totalità dei casi per l'osservazione del cielo notturno
Un esempio delle immagini catturate dal LZT. Altre immagini sul sito astro.ubc.ca

Curiosità. Nel film Orpheus di Jean Cocteau del 1950 lo specchio di mercurio venne usato come "strumento" per simulare uno specchio apparentemente solido ma penetrabile così da permettere al personaggio di varcare il confine verso l'Ade. La posizione verticale dello specchio è solo un trucco creato magistralmente dalla posizione della telecamera.


Il telescopio canadese è stato infine dismesso nel 2016.

Già nel 2008 Roger Angel dell'Università dell'Arizona lavorava all'idea di un telescopio lunare di grandi dimensioni, basato su una lente liquida.
Con un diametro poco superiore ai 90 metri e posizionato all'interno di un cratere in uno dei poli lunari, avrebbe permesso di ottenere una nitidezza delle immagini tale da consentire di rilevare le stelle più lontane da noi, quindi le più antiche. Una risoluzione superiore anche a quella del tanto atteso James Webb Space Telescope, il cui lancio è previsto per il prossimo 21 dicembre.

Il vantaggio dell'utilizzo di liquidi invece del vetro per un telescopio lunare è nel suo minor peso complessivo, un fattore chiave dati i costi del trasporto nello spazio.
Credit: Thomas Connors, Steward Observatory, University of Arizona

Il progetto fu poi accantonato dalla NASA a causa di vincoli di budget e per l'assenza della infrastruttura necessaria all'assemblaggio sulla Luna.
L'idea è tornata alla ribalta l'anno scorso con uno studio di fattibilità pubblicato su "The Astrophysical Journal".
Il suo impiego non sarebbe "limitato" allo studio delle stelle più antiche (o parimenti allo studio di un universo ancora giovane) ma troverebbe applicazione anche nello studio degli esopianeti.
A questo proposito vale la pena menzionare una proposta molto recente pubblicata sulla stessa rivista ma centrata su un più classico radiotelescopio lunare di cui quella sotto è una immagine artistica.
Image credit: universetoday.com


Altre letture oltre a quelle citate nel testo
  • Atlas Obscura
  • Borra E. F. 1991. The case for a liquid mirror in a lunar-based telescope. The Astrophysical Journal, Part 1. 373:317-321.
  • Borra, E. F. 1994. Liquid Mirrors. Scientific American 270(2):76-81.
  • Content R., E. F. Borra, M. J. Drinkwater, S. Poirier, E. Poisson, M. Beauchemin, E. Boily, A. Gauthier and L. Tremblay. 1989. A search for optical flares and flashes with a liquid-mirror telescope. The Astronomical Journal 97:917-922.
  • Gibson, B. K. 1991. Liquid mirror telescopes: history. Journal of the Royal Astronomical Society of Canada 85(4):158-171.
  • Hickson, P. 2002. Wide-field tracking with zenith-pointing telescopes. Monthly Notices of the Royal Astronomical Society 330:540-546.
  • Hickson, P., T. Pfrommer, R. Cabanac, A. Crotts, B. Johnson, V. de Lapparent, K. M. Lanzetta, S. Gromoll, M. K. Mulrooney, S. Sivanandam and B. Truax. In press. The Large Zenith Telescope—A 6-meter liquid-mirror telescope. Publications of the Astronomical Society of the Pacific.
  • Potter, A. E., and M. Mulrooney. 1997. Liquid metal mirror for optical measurements of orbital debris. Advances in Space Research 19:213-219.
  • Worden, S. P., J.R. P. Angel, D. J. Eisenstein, S. Sivanandam, S. P. Worden, J. H. Burge, E. F. Borra, C. M. Gosselin, O. Seddki, S. Thibault, P. Hickson, K. Ma, B. Foing and J. L. Josset. 2006. A lunar liquid-mirror telescope (LLMT) for deep-field infrared observations near the lunar pole. In Space Telescopes and Instrumentation I: Optical, Infrared, and Millimeter. Ed. J. C. Mather, H. A. MacEwen and M. W. M. de Graauw. Bellingham, Washington: SPIE—The International Society for Optical Engineering.

Un pianeta con tre soli

Di pianeti in stile Tatooine se ne conoscono oramai diversi anche se difficilmente vi troveremo un Luke Skywalker su qualcuno di essi (articolo precedente sul tema).
Tramonto su Tatooine (immagine dal film Guerre Stellari)
Passare di livello e aggiungere un terzo sole non è cosa da tutti i giorni data la intrinseca complessità di orbite planetarie stabili.

A riempire il buco arriva ora il sistema stellare GW Orionis (GW Ori), distante 1300 anni luce, sito nella costellazione di Orione. A onor del vero si tratta di un sistema ancora in formazione come evidenziato dalla presenza di un enorme disco di polvere e gas, segno che la planetogenesi e la “pulizia orbitale” sono ancora in divenire.
Lo studio è stato pubblicato il mese scorso sulla rivista della Royal Astronomical Society.
Il sistema GW Ori nell'illustrazione dell'articolo (all credit to the authors)

Animazione della precedente immagine (video credit: ESO)

Non bastasse un sistema fatto da tre stelle, il disco di gas e detriti che circonda il sistema di GW Ori è diviso in due. Facendo un paragone con gli anelli di Saturno è come se questi, a causa della presenza di una zona "libera", fossero divisi in una parte interna e in una esterna, quest’ultima per giunta inclinata di 38 gradi.
Il sistema GW Ori. A sinistra l'immagine artistica. A destra l'immagine reale
Image credit: ESO via smithsonianmag.com
Schematizzazione dei tre anelli di polvere attorno a GW Orionis, il cui orientamento è probabile conseguenza dell'effetto combinato delle tre stelle. La netta separazione del disco più interno dagli altri due potrebbe essere l'indizio del pianeta; dalla massa del gas e detriti scomparsi si propende per un pianeta gigante gassoso (Credito: Jiaqing Bi et al., Lettere APJ, 2020)

Non è ben chiara la causa di questo “buco” nel disco ma l’ipotesi più probabile è che sia il risultato della pulizia orbitale causata da uno (o più) pianeti in via di formazione
Nota. Uno dei requisiti perché un pianeta sia tale e non un planetoide è che la pulizia orbitale sia stata completata. La presenza di detriti orbitale fu una delle ragioni alla base della retrocessione di Plutone.
I modelli disponibili ipotizzano che il pianeta X sia di tipo gioviano e molto giovane (1 milione di anni). Se questo dato sarà confermato allora il pianeta X diventerà il primo pianeta noto ad avere tre soli. 

Un pianeta gioviano non offre chiaramente alcuna possibilità di forme di vita, almeno per come noi possiamo immaginare, ma questa potrebbe comparire in una delle sue lune. Il panorama di cui questo fantascientifico essere godrebbe sarebbe ancora più immaginifico: un pianeta gigante e 3 soli di cui due a grandezza “solare” (le due più vicine) e uno più piccolo ma più luminoso delle stelle sullo sfondo, riferito al sole più distante.
Se il pianeta avesse una luna ecco quale potrebbe essere il panorama. Si tratta di una vecchia rappresentazione di archivio; la versione aggiornata riferita a GW Orionis vedrebbe le due stelle principali più grandi e la terza di dimensioni ridotte.
(image credit: NASA/JPL-Caltech via bigthink.com)



Un altro esempio di sistema multistellare, perfino più estremo se si considera che le stelle coinvolte sono 5, è GG Tau, distante “solo” 450 anni luce dalla Terra.
Nello specifico il sistema comprende due o forse tre stelle al centro in orbita reciproca più un altro sistema binario più distante. Le stelle sono più piccole del Sole (una potrebbe essere una nana bruna) e molto giovani.
Il sistema è insolito perché contiene due distinti dischi concentrici: uno che circonda l'intero sistema e un altro che circonda la componente primaria del sistema. L’analisi del disco circumstellare di GG Tau A ha permesso di rilevare un buco, probabile indizio di un pianeta in formazione
Rappresentazione artistica del sistema GG Tau che mostra il disco di polvere e gas attorno al nucleo binario del sistema (noto come Tauri-A). Dall'analisi delle immagini originali i ricercatori hanno rilevato solo gas nella regione tra i due dischi, potenziale indicatore di pianeti. I sistemi binari sono alquanto comuni nelle prime fasi della genesi stellare (alcuni ipotizzano che anche il proto-Sole lo fosse). Dal disco esterno parte un flusso di materia che va ad alimentare il disco intorno al sistema binaria (Image credit: ESO/L. Calçada)


Allo stato attuale delle conoscenza il pianeta del sistema GW Ori è quello più convincente.

Fonte
- GW Ori: circumtriple rings and planets

-  GW Orionis: A pre-main-sequence triple with a warped disk and a torn-apart ring as benchmark for disk hydrodynamics
Stefan Kraus (09/2020) arxiv.org


Antidepressivi e il loro (nuovo) utilizzo come anti-tumorali

Un nuovo esempio dell'importante processo di drug repurposing ci arriva dal potenziale utilizzo di alcuni antidepressivi nel trattamento di malattie oncologiche.
Il caso più recente viene da studi condotti sui topi in cui si è osservato che i farmaci appartenenti alla categoria funzionale di inibitori del riassorbimento della serotonina (SSRI) potevano rallentare e perfino bloccare la crescita di tumori pancreatici (notoriamente tra i meno trattabili) e del colon, quando utilizzati in sinergia con l’immunoterapia.
Del riposizionamento farmacologico degli antidepressivi ne scrivevo già nel 2013 e la loro azione antitumorale era già stata osservata nel 2020 (vedi nota a fondo pagina). Alla "nuova vita" di questi farmaci ha fatto da contraltare negli ultimi anni anche il processo opposto con  la scoperta nella di un potente effetto antidepressivo nella ketamina (un anestetico divenuto famoso come droga dei rave party) che si è rivelato utile per il trattamento delle forme di depressione resistenti ai farmaci
image credit: scitechdaily

La serotonina è un neurotrasmettitore, noto anche come l'ormone del buon umore e del rilassamento. Nelle persone che soffrono di depressione i livelli di serotonina nel cervello sono ridotti e i farmaci SSRI hanno proprio la funzione di aumentarne la concentrazione nello spazio intersinaptico attraverso l'inibizione degli appositi trasportatori presenti sulla membrana presinaptica.
Image credit: neurosciencenews.com

La serotonina non ha tuttavia solo una azione cerebrale ma estende la sua influenza a molti altri distretti corporei, tanto è vero che la maggior parte di essa è conservata nelle piastrine. L’intestino (non a caso definito il secondo cervello) è tra i maggiori produttori della molecola grazie al fondamentale contributo del microbioma, il cui ruolo nel nostro benessere mentale è troppo spesso trascurato. Tra gli effetti secondari della terapia SSRI è che all'aumento dei livelli di serotonina nel cervello corrisponde una diminuzione della quantità conservata nelle piastrine.

Che la serotonina potesse tornare utile nella terapia tumorale non è una novità assoluta ma rimaneva nell'alveo della aneddotica clinica più che un dato supportato da studi scientifici. 

È di poche settimane fa la pubblicazione di un articolo che pare fornire i dati tanto a lungo attesi.
Punto di partenza dello studio, l’osservazione che al verificarsi di una carenza di serotonina nei distretti addominali sede di alcuni tumori (pancreas e colon) divenuti resistenti alla terapia anticorpale (immunoterapia), si aveva una resensibilizzazione al trattamento che permetteva di attuare nuovi cicli di terapia, con conseguente rallentamento della crescita tumorale. 
Il meccanismo che lega serotonina e resistenza alla immunoterapia è centrato sulla capacità del neurotrasmettitore di aumentare la produzione di PD-L1 (simbolo che indica ligando della proteina effettrice PD-1), una proteina con attività immunoinibitoria capace di indurre l'anergia negli effettori linfocitari. 
Il meccanismo in sé è assolutamente naturale e serve come segnale per indicare alle cellule di sorveglianza “guarda che siamo cellule normali del tuo stesso organismo, quindi spegniti e non attaccarci”, prevenendo così il rischio di reazioni autoimmunitarie.
Il problema terapeutico si ha quando le cellule tumorali, bersaglio di una particolare forma di immunoterapia nota come checkpoint inhibitor therapycominciano a produrre PD-L1 divenendo così resistenti (o meglio invisibili) ai linfociti.
Nel dettaglio PD-L1 si lega alla proteina PD-1 espressa sulla superficie dei linfociti T citotossici e delle natural killer, bloccandone l’azione.
A sinistra la cellula tumorale "spegne" l'attacco della cellula T nonostante l'avvenuto riconoscimento del bersaglio tumorale a causa del segnale mediato da PD-L1. A destra l'effetto di una terapia basata su anticorpi anti PD-L1 che impediscono il contatto, permettendo così l'attacco distruttivo contro il tumore. 
(Image credit: Joaquin Bellmunt et al (2017))
L'idea era che se la serotonina favoriva la produzione di PD-L1 allora diminuendone localmente il livello si poteva sperare di ridurre a cascata l’espressione di PD-L1 rendendo le cellule tumorali nuovamente bersaglio delle cellule immunitarie.
L'ipotesi è stata messa alla prova e infine confermata in modelli murini.

Il passo successivo sarà mettere alla prova il trattamento in uno studio clinico.

NOTA. Nel 2020 uno studio olandese, pubblicato su Molecular Cancer Therapeutics, aveva osservato una inattesa funzione antitumorale nell'antidepressivo sertralina.
Tra i trucchi usati dalle cellule tumorali per sostentare la propria crescita vi è la produzione di grandi quantità di serina e glicina. Questa produzione stimola la proliferazione delle cellule tumorali a tal punto da renderle dipendenti dalla presenza, non limitante, di questi due aminoacidi. Sebbene anche le cellule sane si avvalgano di tale meccanismo, ne sono molto meno dipendenti e possono "contentarsi" della quantità di glicina e serina assorbita dall'intestino; questo non è invece sufficiente per le cellule tumorali.
Durante la ricerca di molecole in grado di contrastare questa dipendenza, i ricercatori scoprirono che l'antidepressivo sertralina, specie in associazione ad altri trattamenti, bloccava la crescita tumorale inibendo la sintesi della serina, affamando così in modo selettivo le cellule tumorali.

Fonte
- Attenuation of peripheral serotonin inhibits tumor growth and enhances immune checkpoint blockade therapy in murine tumor models
Marcel André Schneider et al. Science Translational Medicine (2021), 13(611)


Perché la pillola anti-covid non è sostitutiva del vaccino

Perché la pillola anti-covid non è sostitutiva del vaccino ma "solo" un importante strumento terapeutico.

A distanza di pochi giorni dall'articolo dedicato alla sperimentazione clinica della pillola della Pfizer, ecco la notizia del completamento dell'analisi ad interim dello studio di una pillola (diversa come tipologia e funzione) prodotta dalla Merck. 
Per essere precisi la pillola è prodotta da due aziende, la Msd (ovvero Merck & Co.) e  la Ridgeback Biotherapeutics. 
Notizia che i media generalisti hanno rilanciato, in buona parte, con la consueta modalità copia e incolla. A questa lecita operazione di informazione ne è seguita una meno positiva discussione densa di aspettative da parte di chi pensa "non c'è più bisogno ora (o nel prossimo futuro) di vaccinarsi perché la pillola risolve tutto".

L'affermazione sulla presunta intercambiabilità tra i due strumenti non solo non ha valenza scientifica ma non è nemmeno auspicabile se si tiene a mente l'esempio della resistenza agli antibiotici.
Prima di analizzare nel dettaglio i vari punti la cosa che più mi perplime è la preferenza "ideologica" di molti per un farmaco rispetto ad un vaccino con l'idea "fa meno male" o "non contiene porcherie". Ma su questi due punti tornerò nella nota a fondo pagina.

Spieghiamo in modo molto semplificato il principio attivo alla base del farmaco molnupiravir.
Il farmaco è stato sviluppato (con finalità anti-influenzali) nel 2013 da ricercatori della Emory University di Atlanta e nei primi mesi della pandemia fu testato (insieme a tanti altri seguendo la strada del drug repurposing) su modelli animali per verificarne l’efficacia nei confronti del nuovo virus. Gli studi condotti sui furetti (uno dei modelli migliori per studiare i virus influenzali) confermarono la capacità del farmaco di bloccare la diffusione del virus a sole 24 ore dal trattamento. I mesi che seguirono furono usati per i test preliminari su umani positivi al coronavirus sia come efficacia che, soprattutto, per verificare sicurezza e  dosaggio.
Come facile immaginare, il funzionamento del molnupiravir non ha nulla a che fare con l’induzione dell’immunità e/o con il bersagliare la proteina Spike, la "chiave" che il virus usa per entrare nelle cellule. Si tratta infatti di una molecola antivirale.
Il molnupiravir è in realtà un profarmaco vale a dire che per essere attivato (sotto forma di molnupiravir trifosfato o MTP) la molecola deve essere modificata da enzimi epatici. La molecola risultante è a tutti gli effetti un "sosia" dei nucleotidi naturali almeno per la RNA polimerasi-RNA dipendente virale (enzima assente nelle cellule eucariote ed essenziale per la replicazione del virus) che non fa distinzioni tra questo e citosina o uracile. Il risultato è l'induzione di mutazioni in ogni posizione in cui avviene tale incorporazione durante la copiatura del genoma virale.
Il processo mutageno avviene in due fasi: durante la prima copiatura del +gRNA e nella successiva copiatura del -gRNA durante la quale la polimerasi che si trova di fronte ad un templato contenente il nucleotide "M" inserirà nella copia una adenina o una guanina.
Risultato finale, la produzione di copie virali piene zeppe di errori tali da rendere i nuovi genomi inutilizzabili in quanto contenenti informazioni geniche "senza senso".
Figura estratta dall'articolo su Nature Structural & Molecular Biology (B. Malone & E.A. Campbell).
All credits to the authors.

Il meccanismo di mutagenesi in due passaggi del MTP, alla base della catastrofe mutagenica nel virus
(immagine tratta da Florian Kabinger et al, ALL CREDIT to the authors)

Nota. Vero che le mutazioni sono alla base dell’evoluzione ma è altrettanto vero che quando superano una certa soglia (o colpiscono punti critici dell’informazione che codifica una data proteina) l’esito finale è la produzione di una copia di RNA del genoma virale o del messaggero codificante per una data proteina virale con informazione “senza senso” o non funzionante, rispettivamente.

Il fenomeno di induzione di errori durante copiatura che supera una certa soglia (riparabile dai sistemi di proof-reading) è nota come “mutagenesi letale”.

Andando al succo dei risultati dello studio clinico di fase 2/3 condotto su 775 pazienti sintomatici, si è osservato nei pazienti positivi non vaccinati ma a rischio peggioramento a causa di altre patologie/età, il  dimezzamento del rischio di morte o di ospedalizzazione, purché la pillola venga somministrata entro 5 giorni dalla comparsa dei sintomi
Il tutto al costo di 700$. 
Il numero di soggetti studiati non è molto alto se paragonato agli studi classici di fase 3 che coinvolgono molte migliaia di persone, ma ha fornito (come avvenne a suo tempo nella sperimentazione dei vaccini) dati sufficienti per una analisi ad interim.
Nota. La sperimentazione è stata interrotta seguendo i criteri della analisi ad interim, che si utilizza quando ci sono evidenze molto forti che un dato farmaco sperimentale stia producendo i risultati sperati. La logica sottostante a questa analisi anticipata è velocizzare tutta la procedura spostando i soggetti che erano stati randomizzati nel braccio di controllo (placebo o miglior trattamento farmacologico a disposizione, a seconda dello studio clinico) verso il braccio terapeutico così da estendere anche ad essi il trattamento che appare essere il migliore.
I risultati, indubbiamente positivi, verranno ora sottoposti alla valutazione della FDA perché conceda l’autorizzazione provvisoria (di emergenza) all’utilizzo del farmaco.
Premessa l’importanza di avere una pillola simile per minimizzare nei soggetti a rischio il decorso grave, io vedo anche due potenziali criticità.
Per prima cosa il costo che è di molto superiore al vaccino che nel caso di Pfizer, seppur recentemente aumentato, si attesta oggi sui 19,50$ per dose.
Si potrebbe obiettare che il costo cumulativo sarà inferiore data la minor platea dei riceventi. In realtà questo non è il caso sia perché gran parte della popolazione è oramai vaccinata (e chi non lo è PER SCELTA, affari suoi e non del SSN), sia perché se il protocollo operativo diventa quello di eseguire il trattamento in ogni soggetto sintomatico (mettendo in unico calderone sia quelli, maggior parte, che avrebbero avuto un decorso lieve-moderato che quelli gravi da ospedalizzare) i fruitori finali della costosa pillola aumenterebbero esponenzialmente.
Numeri che aumenterebbero ulteriormente se passasse il concetto di “non mi vaccino/non faccio il richiamo perché tanto c’è la pillola”.
Secondo punto il fatto che questo trattamento non previene il verificarsi dell’infezione. Per sua stessa natura la pillola ha senso se il soggetto che la riceve ha un titolo virale (o di cellule infettate) sufficiente a causare i sintomi. Da qui la possibilità che tutti i soggetti asintomatici (per decorso o perché nella fase iniziale dell’infezione) potrebbero continuare a fare da untori e, cosa più importante, a fungere da laboratori in cui si creano e selezionano nuove varianti (ricordo che è oramai provato che è negli infettati cronici che si sono sviluppate le prime varianti ad aumentata efficienza).
In questo senso l’unico trattamento preventivo sono i vaccini mucosali, di cui ho già scritto in un precedente articolo, la cui efficacia è nella capacità di indurre la produzione di s-IgA, in grado di neutralizzare il virus quando ancora si trova nella parte esterna della mucosa respiratoria (per dettagli vi rimando a due articoli The role of IgA in COVID-19 e Nasal vaccination against SARS-CoV-2: Synergistic or alternative to intramuscular vaccines?).

Aggiungerei infine un altro punto, memore dell’attuale problema della montante resistenza batterica agli antibiotici, risultato dell’utilizzo indiscriminato e massiccio degli stessi a partire dagli anni ’50 e fino a pochi anni fa (e tuttora in molti paesi).
Tutti noi ricordiamo i tempi in cui questi venivano venduti senza ricetta e usati (con posologie e tempi errati) perfino per malesseri (o solo il rischio) di natura virale. Il risultato è che siamo passati da una epoca in cui si credeva di avere sconfitto ogni patologia batterica ad un “ritorno al passato” in cui anche infezioni "comuni" possono risultare intrattabili, quindi a rischio sepsi a causa della avvenuta selezione dei superbatteri (vedi gli articoli precedenti sul tema).
A parziale conforto, il meccanismo di azione del molnupiravir dovrebbe minimizzare il rischio della comparsa di virus resistenti: non agisce direttamente su una proteina virale ma si mimetizza come il suo naturale substrato.
Sebbene tra gli antibiotici standard (o antivirali, vedi i farmaci anti-HIV) ve ne siano diversi che interferiscono con il macchinario di decodifica e trasmissione dell’informazione, bersagliando i ribosomi batterici o le polimerasi virali (e di questi sono stati trovati mutanti resistenti), il molnupiravir assomiglia più all’aciclovir, il farmaco di punta contro l’herpes. Simile ma non identico perché l’aciclovir è un analogo nucleosidico che provoca il blocco della replicazione del DNA virale (quindi più a rischio, per quanto basso, di mutanti resistenti) mentre il molnupiravir è un vero e proprio mutageno specifico per i virus (più simile ad alcuni farmaci antitumorali genotossici). 

Quindi, plaudiamo al risultato senza abbassare la guardia rinunciando in modo aprioristico a tutto l’armamentario antivirale (leggasi i vaccini) che abbiamo faticosamente sviluppato.


Fonti
- Mechanism of molnupiravir-induced SARS-CoV-2 mutagenesis
Florian Kabinger et al, Nature Structural & Molecular Biology, (28) pp. 740–746 (2021)

-Molnupiravir: coding for catastrophe
Brandon Malone & Elizabeth A. Campbell Nature Structural & Molecular Biology, (28) pp. 706–708 (2021)

Merck and Ridgeback’s Investigational Oral Antiviral Molnupiravir Reduced the Risk of Hospitalization or Death by Approximately 50 Percent Compared to Placebo for Patients with Mild or Moderate COVID-19 in Positive Interim Analysis of Phase 3 Study

***

Nota finale
Alcune considerazioni circa affermazioni del tipo “meglio un farmaco che un vaccino. Di sicuro contiene meno porcherie”.
La principale differenza tra un farmaco (qualunque) e un vaccino è anche quella che contraddice la precedente frase: mentre il primo produce alterazioni metaboliche nell’organismo ospite il secondo gioca un ruolo passivo che potremmo definire di istruttore.
Un farmaco, per essere tale, DEVE indurre modificazioni biochimiche nel ricevente siano esse a livello sistemico o solo cellulare. Ad esempio un anti-infiammatorio deve spegnere l’attività di alcune cellule e dei loro mediatori, un anti-colesterolemico come le statine inibisce la HMG-CoA reduttasi, il viagra blocca la fosfodiesterasi 5, etc etc fino ad arrivare alla “banalissima” aspirina (acido acetil salicilico) in cui sebbene il bersaglio principale sia la COX-2, inibita in modo irreversibile, gli effetti indotti sono così ampi  e sistemici (analgesico e anti-piretico, -aggregante, -infiammatorio) da essere tuttora non del tutto compresi.
Questo spiega per quale motivo, prima ancora di test di efficacia, la primissima fase dei test su umani di QUALUNQUE farmaco prevede studi di farmacodinamica e farmacocinetica, descrivibili come lo studio degli effetti biochimici e fisiologici del farmaco sull'organismo e di come il metabolismo agisce/altera il farmaco, rispettivamente. Gli effetti collaterali sono in genere il risultato di un eccesso funzionale. 
Tale nozione ci riporta con la mente alle famigerate terapie di casa Stamina o Di Bella (etc) che si facevano vanto di non produrre alcun effetto collaterale. In effetti se uno utilizza acqua o molecole inerti è difficile che possa sviluppare effetti collaterali in quanto manca l'effetto farmacologico (molecole attive assenti o diluite in stile omeopatico).
Nel caso dei vaccini il discorso è ben diverso.
Nella versione più semplice del vaccino (patogeno inattivato o “pezzi proteici” del patogeno) l'idea è quella di presentare all’organismo una copia inerte del patogeno, sufficiente ad indurre la risposta immunitaria e creare una memoria (una specie di foto segnaletica) di tale incontro. Possiamo immaginare il vaccino come uno sparring partner incapace di rispondere se non mimando l'aggressore, ma adatto per addestrare il pugile al vero incontro.
Vero che molti vaccini utilizzano adiuvanti - il più comune sono i sali di alluminio - ma la ragione è che, soprattutto nel caso in cui il vaccino sia fatto da “pezzi di patogeno” è necessario che le pattuglie immunitarie vengano richiamate nel punto dell'iniezione così da "vedere" il loro bersaglio, altrimenti inerte. I classici effetti collaterali che molti sperimentano nei due giorni successivi alla vaccinazione (fatto salvo il caso di vaccini basati su patogeni attenuati) sono il risultato del sistema immunitario che prende atto della sfida e mobilita le difese esattamente come farebbe con una vera infezione (gli stessi sintomi influenzali non sono mai il risultato della replicazione virale ma della reazione dell'ospite che scopre l’esistenza di un intruso).
Ecco allora la ragione per cui negli studi clinici sui vaccini non sono presenti studi di farmacocinetica e di farmacodinamica (il vaccino è passivo, non modifica nulla nel metabolismo) mentre l’attenzione si focalizza su reazioni immunitarie eccessive, quasi sempre dovute a predisposizione genetica, che possono sfociare in uno shock anafilattico (la stessa ragione per cui alcune persone sono a rischio dopo avere ingerito una nocciolina o dopo la puntura di un'ape).

Tra farmaci e vaccini, è facile allora comprendere perché siano i primi quelli “più a rischio” in quanto proattivi.
I vaccini a RNA hanno aggiunto un livello di complessità ulteriore trasformando le cellule nei produttori, temporanei, di copie dello sparring partner. Qui gli studi di sicurezza si sono concentrati sia sul veicolo (le nanoparticelle lipidiche) che su eventuali reazioni immunitarie non previste.
Gli studi però parlano chiaro: la banalissima aspirina ha un tasso di mortalità 10 mila volte superiore (se prendiamo in considerazione “solo” gli effetti collaterali come emorragie gastrointestinali è ancora maggiore) a quella del pur criticato vaccino AstraZeneca (mortalità di 1 per milione) per non parlare del ben più sicuro Pfizer (4,6 casi di anafilassi per milione, e tasso di mortalità molto inferiore dati i trattamenti anti-anafilattici ampiamente disponibili)



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