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I probiotici fanno bene. Si, forse, ma anche no

Studi scientifici e sentire comune (in aggiunta al marketing delle multinazionali stile Danone) sono concordi nel dire che i probiotici sono un complemento importante dell'alimentazione in quanto contribuiscono all'equilibrio della flora intestinale. 
Non avrei molto da aggiungere, anche perché dell'importanza del microbioma ho già parlato in passato (-->"Il microbioma e noi"), se non fosse che alcuni dati recenti hanno fatto sorgere qualche dubbio sull'universalità della correlazione. Anche qui non mi stupisco più di tanto perché anche nei prodotti indissolubilmente legati al benessere fisico vi sono condizioni che rendono la loro assunzione controproducente se non dannosa.
Localizzazione composizione del microbioma umano (credit: wikipedia)
Il microbioma, o più correttamente il microbiota cioè i trilioni di microbi - batteri, virus, funghi e protozoi - che prosperano nell'intestino, ha un ruolo importante nel determinare lo stato di salute generale di una persona. 
Del resto come non potrebbe avere un effetto se si considera che il rapporto numerico tra le "nostre" cellule e quelle che ospitiamo (principalmente nell'intestino crasso) è di 1 a 10 e che esperimenti oramai classici hanno dimostrato che l'assenza completa di flora intestinale  (possibile solo in un animale nato e cresciuto in ambiente sterile) ha un effetto negativo sia sulla salute fisica che mentale 
Nel caso dei probiotici il campanello d'allarme è suonato riguardo effetti non previsti sul sistema immunitario.
Cosa sono i probiotici? Un modo semplice e sufficientemente generico (vedremo poi perché è bene stare larghi nella definizione) è quello di prodotti ad uso alimentare contenenti microorganismi innocui e già presenti nell'intestino. La loro utilità sta sia nel contrasto alla proliferazione locale dei patogeni che nelle sinergie metaboliche con l'ospite, evidente nella loro produzione delle vitamine B12 e K, e nella liberazione di acidi grassi a catena corta, nutrienti molto graditi dalle cellule della mucosa. Aggiungiamo infine il loro contributo nella produzione di serotonina e il legame tra microbioma e benessere psicofisico si chiude  ( --> "Microbi intestinali e serotonina").
Nota. L'intestino è stato anche definito come "secondo cervello" proprio per la sua   influenza sull'attività cerebrale.
Da qualche anno l'idea di probiotico appare strettamente legata a prodotti dell'industria alimentare,  che decantandone i benefici cerca di venderci con essa l'idea di benessere sotto diverse forme, siano esse pastiglie o latte fermentato. Tuttavia non si tratta di una scoperta dei tempi moderni come ben dimostra la molteplicità di bevande a base di latte fermentato, tramandate dalla notte dei tempi in popolazioni molto lontane tra loro, utili nella prevenzione delle infezioni gastrointestinali. Probiotico  deve il suo nome dal greco antico "favorevole alla vita"
Le potenzialità di questo prodotto fermentato (alias risultato di un metabolismo microbico, i cui attori  rimangono in loco in assenza di pastorizzazione) vennero rilanciate nel 1908 dal premio Nobel Elie Metchnikoff che ipotizzò una correlazione tra la longevità di alcune popolazioni rurali e l'assunzione quotidiana del latte fermentato. Da quel momento il probiotico è storia moderna.

Ma sono (uso ancora il plurale) veramente, e sempre, un toccasana? 
Al netto che una persona sana, con dieta equilibrata e con una propensione all'attività fisica non dovrebbe averne bisogno, è pur vero che gli ultimi punti sono carenti in società pur opulente ma dove si vive un susseguirsi di happy hour e lavoro sedentario, conditi da stress. A questi aggiungiamo le persone debilitate o reduci da terapie antibiotiche ed ecco comparire un gruppo eterogeneo di potenziali fruitori di probiotici.
I numeri parlano chiaro: la domanda di integratori probiotici è in continuo aumento e come mercato globale oggi vale 36 miliardi di dollari.

Alcuni ricercatori si sono chiesti se l'assunzione costante di questi prodotti sia veramente benefica, o almeno innocua, oppure se debba essere controllata in particolari situazioni.
Ricordiamo sempre che non si tratta di materiale inerte ma di microorganismi dotati di un proprio metabolismo e quindi capaci di metabolizzare quello che incontrano nel tubo digerente (cibo ma anche farmaci). Sono inoltre in perenne "contatto" con le cellule del sistema immunitario che pattugliano l'epitelio intestinale e con cui, in condizioni normali, vige un "accordo di non belligeranza", tollerati dalle "guardie di frontiera". Quando qualcosa cambia nella flora locale, anche solo nei rapporti numerici per cui diventano rilevanti popolazioni prima minoritarie, ecco che possono sorgere stati infiammatori e con essi disturbi di varia natura.
Ed eccoci arrivare al perché io abbia usato prima il plurale parlando dei probiotici. Questi prodotti non hanno infatti una composizione predefinita (né sono tenuti ad averla) sia nel confronto tra prodotti diversi che tra lotti diversi dello stesso prodotto. Vero che in genere si tratta di mix contenenti batteri appartenenti al genere Bifidobacteria, Lactobacilli o Eubacteria ma è altresì vero che ciascuna delle multinazionali fonda la "diversità" del suo prodotto su un loro "microbo" divenuto marchio registrato.
Limitandoci ai lactobacilli presenti nei prodotti più famosi abbiamo:
L. acidophilus1 (LC1 di Nestlè)
L. casei (BIO della Danone)
L. casei Immunitas (Actimel della Danone)
L. casei Shirota (Yakult)
Uno studio preliminare presentato ad un convegno tenutosi ad Atlanta ha destato l'interesse della comunità perché mostra una potenziale controindicazione: i pazienti affetti da melanoma rispondevano meno alla terapia se assumevano anche integratori probiotici.
Il campione preso in esame (46 pazienti) è troppo piccolo per formulare conclusioni ma fa sorgere alcune domande sulla capacità dei probiotici di alterare l'equilibrio nella flora intestinale e a cascata ripercuotersi sulla risposta immunitaria (vi rimando  alla nota a fondo pagina per la descrizione di due studi del 2017 in cui si dimostra come la composizione del microbiota influenzi l'efficacia della immunoterapia in tre tipi di cancro).
Nota. I malati di cancro assumono probiotici per mitigare alcuni degli effetti collaterali della terapia - in particolare la diarrea derivante dalla chemioterapia. In linea generale non è il medico a prescriverli ma si tratta di probiotici da banco; le statistiche indicano che il 42 percento dei pazienti in terapia li assume.
E qui arriva il problema che va oltre il concetto stesso (e l'utilità indubbia) dei probiotici cioè una regolazione lassa, che vale anche per vitamine e integratori alimentari, molto diversa da quella rigida che vincola ogni farmaco autorizzato al commercio (a riguardo --> la pagina del ministero della salute). La conseguenza è che il consumatore ingerisce batteri o spore (non patogeni) la cui composizione può variare molto in quanto non vige alcun obbligo per aziende di mantenere la stessa combinazione di ceppi batterici tra un lotto e l'altro.
Variabilità che va a braccetto con non prevedibilità e questo può avere ricadute importanti quando si innesta su terapie in corso. Alcuni ceppi potrebbero facilitare l'assimilazione del principio attivo (aumentando così la dose effettivamente disponibile) mentre altri potrebbero avere l'effetto opposto, annullando la terapia. Quando da terapia farmacologica si passa ad immunoterapia il discorso si complica perché variando la composizione della flora intestinale anche le "guardie di confine" ricevono input diversi e questo può ripercuotersi sulla loro attività. Aggiungiamo che nel caso delle immunoterapie il tasso di successo è intorno al 25%, ed è facile immaginare che non è il caso di introdurre una variabile ad azione ignota; per quello che ne sappiamo potrebbe perfino rivelarsi un utile ausilio terapeutico ma, semplicemente, non ci sono dati in merito.

Torniamo allo studio prima citato, condotto in Texas presso il MD Anderson/Parker Institute.
A 46 pazienti con melanoma metastatico venne chiesto, all'inizio della terapia, di rispondere ad alcune domane sulla loro alimentazione e sull'utilizzo di integratori. I dati vennero poi incrociati con l'analisi dei campioni fecali (analisi genetica del microbioma).
Due le correlazioni emerse: una maggiore assunzione di fibre si correlava ad una microflora più "rigogliosa" e ad una risposta migliore alla all'immunoterapia; all'opposto coloro che avevano assunto probiotici durante il trattamento avevano il 70% in meno di probabilità di rispondere alla immunoterapia.

Troppo presto per trarre conclusioni ma lo studio rende necessario fare ulteriori verifiche, in primis aumentando il campione in esame e caratterizzando la composizione dei probiotici usati, espandendo il test a pazienti con altri tumori.

Ad oggi l'unica certezza è che aumentare l'assunzione di fibre durante la terapia (quindi lavorare sulla dieta) è meglio che usare probiotici


Se passate da Amsterdam vi suggerisco caldamente di visitare Micropia, un museo unico nel suo genere, dedicato sui microorganismi (--> homepage del museo). Non è superfluo sottolineare che la qualità esperienziale dei musei nord europei poco ha a che vedere con quella sonnolente di molti musei italiani.




Fonti
- Probiotics are touted as good for the gut. They may be trouble for the immune system
STAT / news
- Probiotic Safety—No Guarantees
JAMA

***

Nota
Studi condotti su modelli murini hanno dimostrato che il microbioma intestinale può modulare la risposta alle terapie antitumorali.
A completare il quadro sugli esseri umani due studi pubblicati nel 2017 sulla rivista Science. I lavori mostrano l'esistenza di una correlazione tra microbioma intestinale e la efficienza di immunoterapia in pazienti con cancro (terapia il cui bersaglio è PD1, proteina chiave nell'indurre la morte programmata di cellule riconosciute come aberranti).
In entrambi gli studi i ricercatori hanno per prima cosa valutato se la risposta clinica al blocco di PD1 potesse essere prevista conoscendo la composizione del microbioma intestinale. Per raggiungere questo obiettivo si è proceduto, prima e dopo la terapia, all'analisi genomica (microbica) ricavata dai campioni fecali di pazienti affetti da melanoma, carcinoma a cellule renali o carcinoma polmonare NSCLC.
Risultato comune ad entrambi gli studi è che una alta diversità del microbioma intestinale si correlava con una maggiore sopravvivenza libera da malattia successiva alla terapia.
Il primo di questi studi (Gopalakrishnan et al.), focalizzato su pazienti con melanoma, ha osservato che la abbondanza di appartenenti al genere Faecalibacterium prediceva l'efficacia terapeutica (e la presenza di linfociti T CD8+ nel tumore) mentre se abbondavano i Bacteroidales i pazienti avrebbero risposto poco o nulla alla terapia (e un aumento delle cellule T-reg) . Ulteriori test hanno mostrato che la differenza tra risposta e non risposta alla terapia si correlava a variazioni metaboliche con predominanza delle vie anaboliche nei responder edi quelle cataboliche nei non responder. Nessuna correlazione invece tra la responsività alla terapia e composizione microbioma orale.
Il secondo lavoro (Routy et al.) ha valutato se vi fosse una correlazione tra il microbioma intestinale in pazienti con carcinoma e la risposta all'immunoterapia (sempre diretta contro PD1). In questi pazienti l'abbondanza della specie batterica Akkermansia muciniphila si correla ad un esito clinico positivo.
In entrambi gli studi si è osservato che il trattamento antibiotico (a volte imprescindibile) può avere un impatto negativo sull'efficacia terapeutica proprio per la sua azione falcidiante dei batteri intestinali.
Un test che conferma le precedenti scoperte si è basato su (oramai classici) trapianti di batteri fecali tra topi responder e non responder. I risultati confermano che variando in modo guidato la composizione microbica si può invertire la risposta terapeutica (in entrambi i sensi).
I risultati indicano la possibilità di modulare terapeuticamente il microbioma intestinale in pazienti con cancro per migliorare il tasso di successo terapeutico.

Fonti
- Gut microbiome modulates response to anti-PD-1 immunotherapy in melanoma patients. 
V. Gopalakrishnan et al. Science (2017) 

- Gut microbiome influences efficacy of PD‐1‐based immunotherapy against epithelial tumors.
B. Routy et al.  Science (2017) 

- Microbiota: a key orchestrator of cancer therapy. 
Roy, S. & Trinchieri, G. (2017) Nat. Rev. Cancer 17, 271–285



Eppur si muove. Terremoti, lunamoti e martemoti

Affermare "meno male che ci sono i terremoti" non è una provocazione (né vuole esserlo) e tanto meno una mancanza di rispetto per chi ha vissuto tali esperienze e ne ha subito le conseguenze, economiche e umane.
Il senso intrinseco della frase è nella correlazione indissolubile tra i terremoti (maremoti, eruzioni, ...) e l'essere la Terra un pianeta attivo, condizione quest'ultima necessaria (ma non sufficiente) perché sorgano le condizioni minime per ospitare la vita. L'attività sismica non deve essere intesa come una anomalia, una malattia in un organismo sano, ma è una componente intrinseca di un pianeta "maturo", diverso sia dall'ammasso di roccia fusa dei primordi che da una fredda roccia che vaga nello spazio. 

La crosta terrestre e la parte più esterna del mantello costituiscono la litosfera ed è qui che nascono i terremoti. Le rocce che formano la crosta e il mantello superiore sono sottoposti ad enormi forze, risultato del movimento delle grandi placche in cui è suddiviso lo strato più superficiale della Terra (vedi "tettonica a placche"). Tali movimenti sono il risultato dei moti convettivi del mantello che spingono e trascinano le placche come (perdonatemi il paragone semplicistico) tante zattere su un oceano incandescente in continua frizione tra loro (per approfondimenti --> INGV). 
Le rocce fuse nel mantello terrestre (descrivibile come qualcosa di semi-solido, a viscosità molto elevata) sono rimescolate continuamente grazie ai moti convettivi, con il materiale più caldo che nel risalire verso la superficie cede calore (dissipato poi nello spazio), si raffredda, diviene più denso e ridiscende negli strati più caldi del pianeta dove ricomincerà il ciclo.
Come è fatta la Terra al suo interno: litosfera, mantello, nucleo.
(credit: Surachit  via wikipedia). Vedi anche l'articolo "Why Earth core is so hot?"
Sotto il mantello abbiamo il nucleo, diviso in una parte più esterna liquida ed una interna solida (la pressione qui è tale da superare l'effetto "liquefacente" della temperatura). E' nella composizione ferrosa del nucleo, specificamente nel nucleo esterno a causa delle correnti convettive, che trae origine il campo magnetico terrestre ed è nel gradiente di temperatura interno-esterno e nell'esistenza di un mantello "viscoso" che originano due aspetti essenziali che hanno reso il pianeta compatibile con la mera ed effimera possibilità della vita.
Il campo magnetico è all'origine dello scudo (magnetico) che protegge la Terra dal vento solare (risparmiando al pianeta sia la componente radiante che la perdita dell'atmosfera spazzata via dal vento) e dalle radiazioni cosmiche: senza questa protezione nulla potrebbe sopravvivere sulla superficie.
Lo scudo magnetico che protegge la Terra è percepibile vicino ai poli come Aurora Boreale
 Credits: NASA / SOHO
I moti convettivi del mantello, e a cascata la frizione sulla crosta terrestre e con essa terremoti ed eruzioni vulcaniche, sono alla base del continuo riciclo geologico e della presenza di una atmosfera. Pianeti in cui tali processi sono terminati eoni fa (Marte) o non sono mai realmente iniziati (Luna) mostrano le conseguenze: la scomparsa dell'atmosfera e degli oceani di acqua (e forse della vita) marziani; la sterilità intrinseca della Luna dove l'assenza di atmosfera porta a variazioni di temperatura tra i 127 °C delle zone esposte al Sole ai -170 °C delle notti lunari.

Tale premessa spiega l'interesse degli astronomi che si occupano dello studio dei pianeti per la "eso-sismologia", utile sia per comprendere l'evoluzione planetaria che per studiarne la composizione interna.

I media generalisti hanno titolato a caratteri cubitali "terremoti lunari perché la Luna rimpicciolisce". Un tipico esempio di come vendere una notizia in sé corretta facendo pensare a chissà quali sconvolgimenti volumetrici. Facciamo un poco di chiarezza.
La Luna si sta restringendo perché il suo nucleo si raffredda opponendo così un minore contrasto alla pressione della massa soprastante.
La Luna in pillole.
Il nucleo lunare è piccolo rispetto a quello di altri pianeti ed è composto da ferro con tracce di solfo e nichel. Circa il 20% del volume complessivo, mentre ad esempio il nucleo terrestre ha un raggio circa la metà del totale. La temperatura nel nucleo si ritiene essere intorno ai 1600 °C (inferiore a quello della Terra). Il calore di un pianeta viene in genere da tre processi: "originario" (legato al processo di formazione); frizionale (il movimento delle parti più dense verso l'interno); decadimento radioattivo. La diffusione del calore può avvenire per convezione o per conduzione (lenta). Minore la dimensione di un pianeta, maggiore la velocità con cui si raffredda. Se troppo veloce, non ci sarà il tempo per il ferro di "precipitare" (data la sua densità) verso il nucleo e questo spiega per quale motivo il calore interno lunare sia solo frutto del decadimento radioattivo e perché Marte abbia una una superficie molto più ricca in ferro (colore rosso) della Terra. La somiglianza tra la composizione chimica delle rocce lunari e quella del mantello terrestre è una delle migliori prove dell'origine della coppia Terra-Luna attuale, come conseguenza della collisione tra la proto-Terra e Theia, un pianeta di dimensioni marziane, con parte del proto-mantello terrestre scagliato nello spazio e riaggregatosi insieme ad altri detriti a formare la Luna (una variante a questa ipotesi implica un fase detta di sinestesia). Si ritiene che le eruzioni lunari consistenti (indicazione di attività magmatica interna) risalgano ad almeno 3 miliardi di anni fa e che siano scomparse totalmente da almeno 1 miliardo di anni. La testimonianza di questi eventi è nelle zone chiamate mari lunari. La maggior velocità di raffreddamento spiega anche la presenza di una crosta più spessa, che a sua volta diminuisce la probabilità di una attività tettonica. La crosta lunare è il 4% del volume contro l'1% su Marte e lo 0,5% sulla Terra e Venere. La luna gioviana Io, sembrerebbe contraddire quanto ora detto visto che pur essendo un poco più piccola della Luna ha una evidente attività vulcanica: la spiegazione è che il calore interno è da attribuire alla distorsione della luna (quasi ovalizzata durante l'orbita, quindi sottoposta a potenti forze frizionali) causate dalla somma delle forze mareali provocate da Giove e dalla risonanza con Europa, un'altra luna.
Per farla semplice di che rimpicciolimento si parla nel caso della Luna? Circa 50 metri nel corso di centinaia di milioni di anni. Tradotto, 50 metri su un diametro di 3470 km corrisponde allo 0.0014 % di differenza. 
Possiamo immaginare quanto avviene sulla Luna pensando ad un acino d'uva. Così come la superficie dell'acino che si asciuga passa da tesa a raggrinzita, la riduzione, seppur minima del volume lunare porta a tensioni sulla crosta superficiale che deve riposizionarsi su un volume minore. 
Nuovi dati hanno dimostrato che queste forze di riposizionamento sono ancora oggi in atto e sono la causa dei terremoti lunari la cui intensità può essere notevole (5 sulla scala Richter sebbene a questa magnitudo attribuite a frane delle pareti dei crateri). Quindi un terremoto lunare ed uno terrestre hanno cause totalmente diverse.
L'effetto di tali forze è visibile sulla superficie per la presenza di "cicatrici", faglie che si presentano come rilievi "a gradini" alti qualche decina di metri che si estendono per diversi km. Una particolarità ben nota agli astronauti della Apollo 17 (Eugene Cernan e Harrison Schmitt) quando guidarono il rover lunare lungo la parete rocciosa che costeggia la scarpata della faglia Lee-Lincoln.

Eugene Cernan sul rover lunare (credit: NASA)

Una faglia da "raggrinzimento" e crateri (frecce) da impatto meteoritico (credit: NASA)

Video credit: NASA Goddard

Nonostante siano trascorsi 50 anni dall'ultima missione umana sulla Luna, sono stati da poco presentati nuovi dati, frutto della sinergia tra innovativi metodi di analisi al computer, immagini satellitari in HD e i sismografi lasciati sulla superficie lunare dagli astronauti durante le missioni Apollo 11, 12, 14, 15 e 16 (la missione Apollo 13 è andata come sappiamo).
Tralasciando il sismometro dell'Apollo 11 (ha funzionato per sole tre settimane), i quattro rimanenti hanno rilevato, nel periodo compreso tra il 1969 al 1977, circa 10 mila terremoti di cui 28 terremoti poco profondi - il tipo associabile alle faglie di "raggrinzimento".
In totale sono 12500 i lunamoti rilevati. Di questi 3 mila di tipo profondo (700-1000 km sotto la superficie, verosimilmente di origine mareale), 1700 attribuiti ad impatto meteoritico e 28 superficiali (20-30 km sotto la superficie). Il resto troppo debole o non facilmente catalogabile. Si stima che ogni giorno precipiti sulla superficie lunare una tonnellata di materiale meteoritico. 
Lo studio ora pubblicato sulla rivista Nature Geoscience ha ricostruito la mappa sismica del nostro satellite sfruttando capacità di calcolo prima impossibili. 8 dei 28 terremoti superficiali sono stati mappati entro 30 chilometri dalle faglie superficiali, abbastanza vicino da correlare i terremoti all'esistenza dei rilievi. Inoltre 6 degli 8 terremoti sono avvenuti quando la Luna si trovava all'apogeo, il punto orbitale più lontano dalla Terra e quello in cui l'effetto mareale terrestre ha maggior effetto, rendendo più probabili gli eventi di slittamento della crosta lunare.
Attraverso più di 10 mila simulazioni al computer, i ricercatori hanno calcolato la probabilità che la colocalizzazione (fisica e temporale) dei terremoti con le faglie superficiali e con l'orbita lunare all'apogeo, fosse una coincidenza. Il risultato è del 4% il che indica, con ragionevole certezza, che non è una coincidenza.
Non  soddisfatti sono andati a verificare se le onde sismiche rilevate potessero avere una causa diversa dal previsto, ad esempio uno dei tanti impatti meteoritici a cui la Luna priva di atmosfera è esposta. Ipotesi esclusa perché "l'impronta sismica" prodotta da un meteorite è diversa da quella di faglia
Ultima prova presentata nello studio viene dalle immagini (migliaia e ad alta risoluzione) ottenute dalla navicella spaziale Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) della NASA. Le radiazioni solari e spaziali provocano l'oscuramento del materiale sulla superficie, quindi quando si osservano aree più chiare è una indicazione che si tratta di regioni apparse sulla superficie solo di recente. Queste aree si trovano, non a caso, in prossimità dei rilievi, ad indicare che si tratta di zone "movimentate". La pioggia di micro-meteoriti cancella in tempi relativamente brevi queste tracce, il che rafforza l'origine (geologicamente) recente.
Lo studio permetterà di indirizzare i futuri siti di atterraggio lunare in aree chiave per il mappaggio sismico. Non è superfluo ricordare che mappare sismicamente la Luna è il modo più semplice per analizzarne l'interno, ricostruendo la propagazione delle onde sismiche, e in ultima analisi per comprenderne l'evoluzione (vedi l'articolo precedente "L'origine della Luna").
Prendiamo Mercurio come esempio di un pianeta "ristrettosi" con l'età e sottoposto a forze mareali importanti come quelle causate da un vicino "scomodo" come il Sole. Le faglie di superficie su Mercurio sono molto più estese (oltre 3 km in altezza e un migliaio di lunghezza) di quelle lunari, ad indicare che il suo restringimento è stato maggiore. Poiché i mondi rocciosi si espandono quando si scaldano e si contraggono quando si raffreddano, le grandi faglie di Mercurio rivelano che poco dopo la sua formazione era abbastanza caldo da essere completamente fuso. La Luna primordiale era completamente o solo parzialmente fusa? La dimensione relativamente piccola delle faglie sembra favorire lo scenario parzialmente fuso.
La NASA invierà i prossimi astronauti entro il 2024 e prevede di creare sedi stabili entro il 2028.



MARTEMOTI
Ad accorgersi delle "scosse" sul pianeta rosso è stato il lander InSight della NASA a solo pochi mesi dall'inizio della sua fase operativa (articolo precedente --> "InSight ci manda un selfie").
Due sono gli strumenti principali montati su InSight: sismografo e la sonda termica, detta anche "la talpa". Il sismografo è entrato in azione poco dopo l'atterraggio.
Il selfie di InSight (credit:NASA)
Il 6 aprile, 128 giorni marziani (131 terrestri) dopo l'atterraggio sul pianeta lo scorso novembre, i sensori della navicella hanno percepito un lieve tremito della superficie marziana. Una scossa relativamente debole, simile a quella rilevate dai sismometri sulla Luna.
InSight appoggia il sismometro. Il primo su un altro pianeta.
(credit: NASA/JPL-Caltech via NewScientist)


Fino a quel momento l'opinione comune tra i ricercatori era che l'attività sismica marziana fosse collocabile in un punto imprecisato tra quella terrestre e quella lunare, ma più prossima alla prima. I dati ottenuti sembrano invece indicare che sia più simile a quella lunare, il che rafforzerebbe l'ipotesi di un pianeta "morto", cioè privo di quelle caratteristiche planetarie nel nucleo e nel mantello che dotano la Terra di uno scudo magnetico e di un continuo rimescolamento delle rocce (quindi degli elementi chimici presenti).

Ma per ora si tratta ancora di ipotesi. I dati sono ancora troppo scarsi per poter elaborare chiavi di lettura affidabili. A differenza di quanto fatto sulla Luna (mi riferisco allo spettro sismico) non è ancora chiaro se la scossa  abbia avuto origine all'interno di Marte o se sia attribuibile all'impatto di un meteorite da qualche parte sulla superficie marziana, la cui "eco" ondulatoria si sia poi propagata attraverso l'interno del pianeta.
InSight (operante nella zona equatoriale di Elysium Planitia) è dotato di un sismometro basato su tre sensori estremamente sensibili la cui parte esterna è protetta da una cupola che serve per proteggerli dai venti marziani. Già prima di aprile il centro di controllo della NASA aveva rilevato delle vibrazioni ma queste erano state attribuite ai potenti venti, e relative tempeste di sabbia, che di tanto in tanto solcano la superficie (il problema della polvere sui pannelli solari di InSight è discusso sul sito spaceref).
L'evento del 6 aprile aveva però qualcosa di diverso: il segnale proveniva dall'interno del pianeta. Da dove non è ancora possibile dirlo. Comprenderne l'origine ha una valenza ben superiore alla rilevazione di un martemoto; tracciare come l'energia sismica si irradia attraverso il pianeta è il punto di partenza per comprendere come è fatto Marte, che poi è l'obiettivo principale di InSight.
Altri tre eventi si sono verificati il 14 marzo, il 10 aprile e l'11 aprile, ma erano più deboli rispetto all'evento del 6 aprile.
C'è ancora tempo. Il lander è progettato per funzionare per circa due anni terrestri; se si è fortunati (vedi l'esempio del rover Opportunity) la missione potrebbe continuare ben oltre questa data. Un primo problema che dovrà affrontare è però molto pratico: i controllori della missione devono capire come disincagliare la sonda termica che si incastrata sotto un sasso durante le fasi di penetrazione nel terreno per fare le misure.
Dettaglio tecnico del lander InSight (credit: NASA)

Schema comparativo in scala della struttura interna dei 4 pianeti rocciosi del sistema solare. Il vero pianeta gemello della Terra è Venere, che però "è morto nella culla" asfissiato e abbrustolito" da una micidiale combinazione di gas serra.
aggiornamento giugno 2020
Mentre il sismografo ha iniziato da subito a fare il proprio dovere, la sonda termica ("la talpa") ha dato parecchi grattacapi al centro di controllo sulla Terra.
Nelle previsioni la talpa avrebbe dovuto scavare il suolo marziano fino a circa 5 metri di profondità per ottenere informazioni sulle caratteristiche geologiche del pianeta rosso.  Nella realtà i primi tentativi sono andati a vuoto, anzi la sonda sembrava quasi espulsa dal terreno. Al netto di ipotizzare marziani adirati che rispedivano al mittente la sonda quando cercava di penetrare nel terreno, le cause dei problemi non sono mai state del tutto comprese. Probabile un terreno troppo duro o il rover che non riusciva a rimanere fermo mentre posizionava la sonda. Comunque sia, prova e riprova si è riusciti almeno ad iniziare la perforazione usando come perno il braccio robotico pensato in origine per fare tutt'altro.
Una impresa (minima) che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai tecnici come si vede dal tweet con il video dell'operazione

Seguite gli aggiornamenti della "talpa" sul sito ufficiale --> The InSight mission logbook



Fonti
- Shallow seismic activity and young thrust faults on the Moon
Nature Geoscience (2019)
- Shrinking Moon May Be Generating Moonquakes
NASA
- NASA's LRO Reveals 'Incredible Shrinking Moon'
NASA
- The moon is a lot more seismically active than we thought
MIT Technological Review
- The moon is quaking as it shrinks
Phys.org

- NASA's InSight Detects First Likely 'Quake' on Mars
mars.nasa.gov
- First ‘marsquake’ detected on red planet
Nature
- Marsquake! NASA's InSight Lander Feels Its 1st Red Planet Tremor
space.com
- Mars Winds Clean InSight's Solar Planels
spaceref.com
- marsquakes


   

Lo strano caso della donna capace di "annusare" il Parkinson che ha permesso lo sviluppo di un test diagnostico

L'olfatto è uno dei sensi più importanti nel mondo animale, capace di catturare informazioni ambientali (nel senso generale del termine) con una sensibilità di poche particelle per milione. Nella sua accezione più nota questo sistema sensoriale permette di trovare fonti di cibo, acqua, partner o evitare predatori. L'evoluzione degli esseri umani ha pagato dazio in questa capacità sia per ragioni selettive (minore dipendenza dall'olfatto per sopravvivere) che sociali (una atrofizzazione funzionale legata al vivere sempre più in società "inodori") con il risultato di avere relegato questo senso tra quelli meno apprezzati.
Quello che abbiamo perso lo deleghiamo ai cani come rilevatori viventi di "odori" nelle più svariate situazioni tra cui, inattesa emersa negli ultimi, la capacità di percepire stati patologici come tumori e problemi circolatori e (mediante i ratti) perfino la tubercolosi
Ma ci sono umani "speciali", dotati di capacità olfattive sopra la media, in gran parte innate ma anche "educabili" (si può imparare a riconoscere gli odori). Tra questi particolare interesse aveva suscitato il caso della persona capace di identificare persone affette dal morbo di Parkinson (anche nello stadio precoce non diagnosticato) soltanto annusandone gli indumenti (ne ho parlato in un precedente articolo -->QUI).

Il caso è quello dell'infermiera Joy Milne che percepì nel marito un odore strano 12 anni prima che a questi fosse diagnosticata il Parkinson. Solo in seguito il neurobiologo Tilo Kunath confermò come affidabile tale correlazione dando inizio ad uno studio, a cui l'infermiera partecipò come "sensore" per identificare le molecole "odorifere" con la speranza di sviluppare test diagnostici precoci.
Quando compaiono i sintomi del Parkinson, i danni a livello del sistema dopaminergico sono talmente estesi da rendere possibili solo terapie di mantenimento. Trattamenti in ogni caso di breve termine e non terapeutici nel senso stretto del termine (le cellule produttrici di dopamina sono morte e non sostituibili). Per ipotizzare un approccio terapeutico bisognerebbe prima di tutto avere a disposizione test diagnostici capaci di rilevare la malattia quando ancora asintomatica; solo così sarà possibile sviluppare e testare farmaci capaci di prevenire la morte dei neuroni.
Il lavoro è stato completato, con la identificazione di 4 molecole, e il test diagnostico è in fase di validazione clinica, passaggio obbligatorio per ottenere il semaforo verde dagli enti regolatori.

Facciamo ora un passo indietro.
Joy Milne capì che quello strano odore che lei sola notava poteva essere qualcosa di più di una coincidenza quando, insieme al marito oramai malato, iniziò a frequentare gruppi di supporto sul Parkinson. A quelle riunioni scoprì che tutte le persone malate presenti nella stanza emanavano lo stesso odore. Ci pensò un po' prima di condividere queste sue impressioni con Tilo Kunath, un neurobiologo dell'Università di Edimburgo, quasi rassegnata alla reazione di incredulità che avrebbe suscitato la sua affermazione.
Ma Kunath da persona di scienza decise di mettere alla prova tale affermazione mediante un test nel quale la Milne annusò magliette indossate da persone sane o dai malati di Parkinson. La signora non solo identificò senza errori le magliette "parkinsoniane" ma indicò come positiva anche quello di una persona a cui venne diagnosticato il Parkinson solo 8 mesi dopo.
Joy Milne (Credit: Chris Watt / The Telegraph)
Da qui iniziò la ricerca, condotta insieme ad un team della università di Manchester, delle molecole responsabili dell'odore che la Milne descriveva come muschiato. Il terreno di caccia fu delimitato al sebo, un liquido biologico di natura grassa prodotto da particolari ghiandole nella cute. L'area venne ristretta alla parte superiore della schiena dove l'infermiera affermava essere più forte l'odore da lei percepito.
L'analisi della composizione delle molecole presenti nei campioni sebo si è basata sulla tecnica nota come spettrometria di massa. Il processo di raffinazione del mix molecolare, guidato nella selezione dall'olfatto della Milne, ha permesso di ridurre il numero di molecole indiziate dalle migliaia iniziali a quattro, i cui livelli determinano la particolare impronta odorifera del malato.
Nel dettaglio i test hanno rilevato che nel sebo dei parkinsoniani il livello di tre sostanze (eicosano, acido ippurico e aldeide stearilica) era maggiore che nei controlli mentre una quarta sostanza, l'aldeide perillica, era meno abbondante.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista ACS Central Science.

Per validare la capacità predittiva del test bisognerà ora attendere i risultati di uno studio a cui partecipano un migliaio tra pazienti e controlli. Durante questa fase i ricercatori cercheranno anche di capire se esista una correlazione tra l'odore percepito (e a cascata nella composizione delle molecole), la progressione della malattia e le varianti con cui si può manifestare il Parkinson.

Il "dono" della Milne non è scevro da effetti collaterali. La sua sensibilità olfattiva la costringe ad evitare le corsie più profumate dei supermercati e, immagino, possa esserle capitato di trovarsi a disagio percependo odori in persone apparentemente sane, soprattutto considerando che ha scoperto di essere in grado di rilevare "odori" di altre malattie. Se nel caso del Parkinson percepisce un aroma muschiato, con l'Alzheimer ha un vago sentore di vaniglia, mentre con il cancro la sensazione è qualcosa di più "terroso".
Tra i progetti a cui partecipa l'oramai indispensabile Milne, c'è quello legato all'identificazione delle molecole per la rilevazione della tubercolosi, una malattia che pensavamo di avere sconfitto ma che è diventata nuovamente un problema (--> "Il ritorno di polio e TBC").

Articolo successivo sul tema––> "Al lavoro per sviluppare test precoci per il Parkinson"

Altri articoli legati al tema Parkinson (--> QUI) e olfatto (-->QUI)

Fonti
-  Discovery of Volatile Biomarkers of Parkinson’s Disease from Sebum
DK Trivedi et al, ACS Cent. Sci., 2019, 5 (4), pp 599–606

- Super-smeller' helps develop swab test for Parkinson's disease
The Guardian (20/3/2019)




Epidemia degli oppioidi. Condannato il capo di una azienda farmaceutica

La notizia è di quelle impensabili in Italia (e in genere in Europa) ma un punto di svolta perfino in USA dove non sono rari i casi di dirigenti (o politici o divi o …) finiti sul banco degli imputati e condannati a pene pesanti e soprattutto reali cioè senza i benefici legati ad età, malattia o semplicemente potere (fate il confronto tra Madoff e Tanzi e ne avrete una idea).
La condanna del capo di una azienda farmaceutica segna un punto di svolta importante. Non perché in passato le aziende farmaceutiche non fossero finite sul banco degli imputati e, quando condannate, costrette a pagare fior di quattrini che da noi ci sogniamo, ma finora i "piani superiori" erano sempre sfuggiti alle accuse dirette perché "non a conoscenza del fatto o direttamente responsabili".
Da oggi, con la condanna di John Kapoor, le multinazionali avranno di che temere.
John Kapoor, tra i più ricchi, prima di finire sotto processo
Il caso verte sui guadagni miliardari fatti con una particolare formulazione dell'antidolorifico fentanyl (prodotto dalla Insys Therapeutics), o meglio sulle informazioni travisanti fornite dall'azienda ai medici per convincerli a prescrivere il farmaco al di fuori delle condizioni per cui era stato approvato.

Le prove fornite dagli agenti federali nel corso del processo tenutosi a Boston sono state ritenute sufficienti dalla giuria per condannare John Kapoor, fondatore di Insys Therapeutics, e altri 4 dirigenti per cospirazione, corruzione e racket. Accuse legate alla pervicace azione di corruzione dei medici (traviati non solo economicamente ma anche offrendo loro serate di lapdance), alle false informazioni fornite a loro e alle compagnie assicurative per incrementare le vendite del farmaco opioide Subsys (la versione spray del fentanyl). Farmaco perfettamente legittimo e funzionale ... se usato in modo corretto cioè nei casi approvati dagli enti regolatori.
image credit: CNN
Le assicurazioni qui sono parte lesa perché, come parte integrante del sistema sanitario USA, sono preposte al rimborso del costo delle cure sostenute dai loro assicurati; quindi la prescrizione di farmaci "inutili" o pericolosi ha causato loro danni economici in modo diretto (spesa immediata) o indiretto (spesa futura).
La messa sotto accusa (e la condanna) rapprensentano un precedente importante nel settore farmaceutico. In passato anche quando i dirigenti organizzavano massicce e pervasive campagne di marketing per vendere un farmaco sottacendone aspetti chiave, restavano di fatto impuniti scaricando gli oneri (multe o altri costi) sulle loro azienda; nel "migliore" dei casi erano i soliti parafulmini (pardon dirigenti di fascia inferiore) ad essere processati e incolpati di avere agito tenendo all'oscuro i piani alti.

Riassumiamo la vicenda.
Il Subsys è il la versione ad uso orale (spray sublinguale) dell'antidolorifico fentanil, un farmaco 80 volte più potente della morfina. La versione spray non è di suo una novità ma le altre formulazioni presenti sul mercato vanno spruzzate in gola e sono assorbite meno velocemente dello spray sublinguale; una differenza importante per quello che è lo scopo principe, cioè il sollievo dal cosiddetto dolore episodico intenso che affligge molti pazienti malati di cancro (in particolare quelli terminali), nonostante l'assunzione di dosi massicce di farmaci oppioidi. L'efficacia, anche se temporanea, del Subsys aveva permesso l'approvazione da parte degli occhiuti regolatori della FDA, specialmente considerando la sua natura oppioide e quindi il rischio tolleranza e dipendenza.
Come scritto in passato i farmaci vanno valutati per il loro profilo rischio/beneficio; questo spiega perché il suo utilizzo abbia senso per alleviare le sofferenze di pazienti terminali mentre invece non avrebbe mai potuto essere approvato per (ad esempio) i dolori del ciclo mestruale. Non è il farmaco ad essere finito sotto processo ma l'uso indebito.
Il problema è che nonostante la precisa indicazione delle condizioni di utilizzo, l'accusa ha dimostrato grazie a testimoni, l'esistenza di innumerevoli prescrizioni rilasciate a persone non malate di cancro, senza che il paziente fosse a conoscenza dei rischi da dipendenza di questo farmaco e mentendo alle compagnie assicurative circa l'utilizzo (per ottenere i rimborsi).

Non si tratta invero di una novità nel campo. Nel 2008, l'azienda Cephalon si dichiarò colpevole (e dovette pagare 425 milioni di dollari di danni) per avere spinto i medici a prescrivere farmaci (legittimi) come Actiq, un lecca-lecca a base di fentanyl. Anche in questo caso il farmaco, approvato per il solo trattamento sintomatico nei malati di cancro, era stato prescritto illecitamente a persone che soffrivano di emicrania, anemia o altro.
Uno dei testimoni chiave del processo è stato Alec Burlakoff che prima dell'impiego alla Insys lavorava (che combinazione!) alla Cephalon. Dopo avere ammesso le proprie colpe penali nella fase istruttoria, è divenuto la "gola profonda" per rivelare il dietro le quinte del sistema.
Oltre alla sua testimonianza (decisiva) sulle strategie che l'azienda aveva programmato e messo in atto per massimizzare le vendite convincendo i medici a prescrivere il farmaco analgesico al di fuori dei casi oncologici, l'accusa ha presentato un video che ha spazzato via i dubbi sulla piena consapevolezza dei vertici aziendali. Il video, utilizzato nelle fasi di addestramento dei loro rappresentanti del farmaco (alias quelli che devono convincere i medici) mostre due persone in una "cover" di una nota canzone rap, il cui testo, modificato, suona come
"Adoro le titolazioni, sì, non è un problema, ho nuovi pazienti e ne ho molti."
una chiara indicazione della strategia dell'azienda di aumentare la dose ("titolazione") e aumentare il numero di soggetti a cui viene prescritta.
Oltre ai due venditori nel video "rap" compare un individuo travestito da inalatore spray che si rivela essere Burlakoff.
Il problema non è nell'estetica del video (c'è di peggio) ma nell'atteggiamento incredibilmente disinvolto nei confronti di un oppiaceo potenzialmente mortale la cui prescrizione viene "pompata" nel bel mezzo di una vera e propria epidemia nell'utilizzo degli oppioidi "legali" che ha investito gli USA nell'ultimo decennio (vedi articolo riassuntivo sulla CNN --> Opioid Crisis Fast Facts).

Onestà impone nel sottolineare che la Insys NON è la causa prima di tale "epidemia" ma solo uno dei tanti attori responsabili. Sul podio il maggior responsabile va indubbiamente all'ossicodone (Oxycontin) il cui numero di prescrizioni è di gran lunga superiore al fentanil. Quelli di Insys sono finiti sotto i riflettori perché intenti in una aggressiva campagna per aumentare le vendite proprio nel momento in cui il numero delle vittime da abuso di antidolorifici raggiungeva numeri allarmanti.

Dopo due settimane di camera di consiglio la giuria ha emesso settimana scorsa il verdetto di colpevolezza. Un processo lungo (per gli standard USA) visto che l'arresto di Kapoor risale al 2017, nello stesso giorno in cui il presidente Trump dichiarò l'epidemia di oppioidi "a public health emergency" (dopo anni di politici "ciechi" ad un fenomeno ben evidente).
La pena, che dovrà essere comminata dal giudice prevede per tali reati (corruzione, …) fino a 20 anni di carcere ed è costata a Kapoor finora circa 1 miliardo di USD (dal suo patrimonio).
La linea della difesa, che riconosceva i capi d'accusa dichiarando  però che Kapoor non ne fosse a conoscenza, è stata rigettata dalla giuria
Kapoor all'uscita dalla corte federale
(credit: Steven Senne/AP via wgbh.org)
Questa è una buona notizia per dissuadere i futuri imprenditori farmaceutici dal gonfiarsi le tasche mentre, consapevolmente, pianificano il male dei pazienti.



Fonti
- Opioid Executive John Kapoor Found Guilty In Landmark Bribery Case

- Fentanyl executive John Kapoor’s conviction is good news for holding corporations accountable

-  Insys case raises risks for drug industry over opioids
Financial Times

-  Opioid Overdose Crisis
NIH (01/2019)

- America's opioid epidemic
CNN

- Dilaga l'epidemia degli oppioidi negli Stati Uniti. E in Italia?
Wired


Plantoidi. Robot-piante con un "cervello" italiano

Nell'istante in cui mi sono imbattuto nel libro, visti titolo e copertina, ho pensato che fosse un nuovo libro di Stefano Mancuso o magari di Daniel Chamovitz, due ricercatori con l'ugual merito di scrivere saggistica di biologia vegetale divulgativa, seppure in ambiti diversi. 
Errore!
Il libro è di Barbara Mazzolai, direttrice del Centro di Micro-BioRobotica del IIT, ed è stata una piacevole (che nel mio caso fa rima con interessante) lettura sul tema robotica e botanica.
In effetti la mia iniziale sorpresa nell'associare robotica e piante, è solo frutto della abitudine a visualizzare robot dotati di sembianze "animali" (vedi l'articolo sulle --> robo-api), se non propriamente antropomorfi. Ma questo "limite" non ha alcuna ragione reale. Un robot ha (e deve avere) l'aspetto che meglio si adatta allo scopo per cui è stato progettato: serpentiforme se deve muoversi in ambiti ristretti come le macerie di un terremoto; microscopico per futuristici usi terapeutici; antropomorfo se pensato per interagire con umani; oppure di pesce, di insetti e perché no di pianta se deve svolgere compiti sessili.
Possibilità, quest'ultima, esplorata dal team della Mazzolai, che dopo un lavoro pluriennale sui robot "animaloidi" ha cominciato ad interessarsi a quelli plantoidi, su cui il libro è centrato.

Plantoide quindi come sinonimo di robot capace di "sentire" l'ambiente, penetrare il terreno con le proprie radici e di comunicare. Se tutte queste caratteristiche sono già presenti in altri modelli, quello che differenzia nettamente i plantoidi è che sono i primi, a mia conoscenza, che mutano con il tempo essendo capaci di accrescimento. 
L'imitazione della natura è da sempre una guida dell'innovazione umana. Senza bisogno di tornare al tempo di Leonardo, pensiamo al TAV giapponese che si ispira al becco del martin pescatore, ad alcuni famosi adesivi la cui funzionalità viene direttamente dalla soluzione evolutiva adottata dal geco per rimanere adeso alle superfici più varie, e infine i paracadute nati dall'osservazione di come si diffondono i semi di alcune piante.
Come descrivere un plantoide?
E' un robot soffice e plastico, costituito da una parte centrale (il tronco), dove sono alloggiati i circuiti, e parti periferiche (i rami) da cui penzolano foglie artificiali. Ma sono le radici la parte più interessante, in quanto capaci di crescere aggiungendo materiale sintetico stampato in 3D al suo interno e poi posizionato secondo un certo orientamento negli apici, grazie a particolari sensori.
Un "plantoide" (credit: IIT)

Pensare una robo-pianta vuol dire tradurre la tecnologia in prodotti "verdi" secondo un approccio sintetizzabile come "robotica biomimetica".

Nel libro la Mazzolai descrive studi pioneristici centrati sull'implementazione nel robot di capacità tipiche delle piante, che vanno dalla comunicazione chimica ai meccanismi di difesa, con particolare  attenzione agli "organi" più sensibili, le radici. Radici "reinventate" dai ricercatori in modo da potere essere usate nell'esplorazione del suolo per la ricerca di acqua, di nutrienti o come sensore di inquinanti.

Tra le prospettive anche quella di vedere robo-piante capaci di arrampicarsi come un viticcio (--> video) o di funzionare come vere e proprie centraline energetiche, molto più efficienti dei pannelli solari attuali, per convertire l'energia luminosa in energia elettrica.

Evito altre anticipazioni per lasciarvi il piacere della lettura, magari accompagnata da quella dei libri del neurobiologo vegetale Mancuso (Incluso dal New Yorker tra i “world changers”) e di Chamovitz.

Per articoli su temi correlati, clicca sul tag --> "robotica biomimetica"

Fonti
- L'era delle piante robot
National Geographic
- Il primo robot pianta: si arrampica come un viticcio

Il libro è disponibile su Amazon


Due libri per approfondire i sistemi sensoriali delle piante, e quindi il loro potenziale utilizzo come sistemi di rilevazione naturali





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