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L'uccello imitatore che fa scappare il predatore

Acanthiza pusilla
Il vecchio trucchetto di urlare "attento alle tue spalle!" è in voga anche tra alcuni uccelli, come dimostra la sorprendente scoperta fatta da alcuni ricercatori australiani.
Currawong (Credit: J. McLachlan)
Nello specifico è la Acanthiza pusilla, una specie di passero locale, che con il suo grido di allarme cerca di convincere l'aggressore di guardarsi da una minaccia incombente. Come? Simulando il grido di allarme "anti-rapace" che altri uccelli (tra cui proprio il predatore del passero appartenente al genere Strepera o Currawongs per usare il nome locale) usano quando vedono avvicinarsi predatori temibili per tutti come i rapaci.
Il currawong non rappresenta in realtà un pericolo diretto per il passero ma ha la deleteria abitudine di cibarsi dei nidiacei, quindi tenerlo alla larga è fondamentale.

La particolarità del falso segnale d'allarme è che questa specie di passeri oltre ad essere dotata di un proprio richiamo (vero) per avvertire i consimili del rischio rapace, è in grado di mimare quello tipico di altre specie "nemiche" scegliendo quello più adatto a seconda dell'indentità dell'aggressore.

L'effetto della distrazione non è di lunga durata ma è sufficiente al passero per distrarre l'aggressore e mettere in sicurezza il nido.

Articoli precedenti su temi correlati --> "Se sei un mio nidiaceo dammi la password di riconoscimento".



Fonte
- Crying wolf to a predator: deceptive vocal mimicry by a bird protecting young
Branislav Igic et al, Proceedings of the Royal Society B (2015) Volume: 282 Issue: 1809
-  Birds ‘cry hawk’ to give offspring chance to escape predators
Cambridge research / news


Dormire troppo aumenta il rischio di ictus?

Chi dorme più di otto ore al giorno ha un rischio cumulativo di ictus maggiore e questo rischio raddoppia nel caso delle persone anziane. Questo è quanto emerge da uno studio della università di Cambridge.
credit: cam.ac.uk
I dati emersi sono in un certo senso inattesi data l'abbondanza di studi pregressi che all'opposto identificava nel deficit di sonno un fattore predisponente per patologie metaboliche, cardiovascolari e neurologiche (vedi anche --> QUI).
Il dubbio legittimo che mi è sorto leggendo l'articolo è se si tratti di un vero fattore di rischio o di un epifenomeno.
Andiamo con ordine.
Lo studio britannico, pubblicato sulla rivista Neurology, ha coinvolto circa 10 mila persone di età compresa tra 42 e 81 anni, scelti tra i partecipanti allo Studio prospettico europeo sul cancro EPIC-Norfolk. A quattro anni di distanza dall'inizio dello studio fu chiesto ai partecipanti di quantificare il numero di ore di sonno medio e la qualità dello stesso; è ben noto infatti che fenomeni come l'apnea da sonno non solo sono relativamente frequenti nella popolazione ma anche la causa principale della stanchezza cronica giornaliera e di problemi neurovascolari sul lungo periodo.
Quasi sette partecipanti su dieci riferirono di dormire 6-8 ore al giorno, mentre uno su dieci affermò di dormire più di otto ore al giorno. Come atteso la maggior parte dei soggetti ipo-dormienti (meno di 6 ore) erano anziani, donne e soggetti non occupati.
Alla fine del periodo di rilevazione vennero incrociati questi dati con la frequenza di morbilità vascolare, con particolare attenzione a patologie come l'ictus. Dopo la normalizzazione per vari fattori come età e sesso, i ricercatori scoprirono che le persone che:
  • dormivano più di otto ore al giorno avevano un rischio di ictus del 46% maggiore rispetto alla media. 
  • chi dormiva meno di sei ore al giorno aveva un rischio aumentato del 18%. Il rischio aumentava per coloro che avevano dormito poco in modo continuativo nei 4 anni precedenti l'ictus.
I dati ottenuti sono stati quindi combinati in una meta-analisi con quelli già pubblicati in altri 11 studi; nel complesso il numero di soggetti studiati, provenienti da 7 paesi diversi, è arrivato a 560 mila.

Quanto è affidabile questa correlazione?
I numeri parlano chiaro ed indicano che sia dormire poco che dormire troppo prefigura un rischio aggiuntivo. Molto meno chiara è la spiegazione di questo legame cioè se il sonno sia più un sintomo, un marker precoce o la causa di problemi cardiovascolari. E' indubbio che gli anziani sono in genere meno occupati socialmente e questo è di per sé un facilitatore di sonno diurno soprattutto se le ore di sonno notturne sono ridotte (sia per dolori vari che per assenza di sonno).
L'ipotesi a mio parere più corretta è che dormire più a lungo della media sia in realtà un indicatore di problemi fisiologici sotterranei (asintomatici) che la causa dei problemi stessi.
Nota. Uno studio da poco pubblicato ha investigato la solidità dell'ipotesi che identifica nel ritmo di vita moderno (diciamo successivo all'avvento della illuminazione elettrica) la causa principale della diminuzione del numero di ore di sonno per notte. Il mantra comune descrive il buon villico dei tempi andati come uno che seguiva il ritmo solare... come le galline (il corollario quindi avrebbe dovuto essere che nel nord Europa, le persone dormissero moltissimo d'inverno e solo 4 ore per notte d'estate ... il che è ovviamente errato). L'articolo pubblicato su Current Biology ribalta l'assioma dopo avere studiato (grazie a modaioli smartwatch) il ritmo sonno-veglia in alcune popolazioni pre-industrializzate. Quello che emerge è che, forse, dormivano meglio ma di sicuro non più di oggi (--> Natural Sleep and Its Seasonal Variations in Three Pre-industrial Societies, Curr. Biol. (2015) 25, 21, p2862–2868)
Sul tema "sonno" potrebbero interessarvi i precedenti articoli sul tema --> QUI.


Fonte
- Sleep duration and risk of fatal and nonfatal stroke: A prospective study and meta-analysis
Yue Leng, MPhil et al, Neurology. (2015) 84(11):1072-9



Goth e depressione

Gli anni passano e le mode spesso tornano, ma sotto diverso nome. Nella mia adolescenza quelli che oggi si identificano nella cultura goth erano noti come dark, ed erano sicuramente meno meno globalizzati ...  ma solo perché internet non esisteva. 
Se è innegabile che fare parte di una certa corrente di pensiero (che per alcuni è solo moda mentre per altri è condivisione di certi valori e strumento di socializzazione) NON equivale all'essere privi di una propria identità, è però innegabile che il richiamo a valori identitari condivisi agisca come omogenizzatore. 
Un seguace del death metal non è un seguace di tematiche legate all'occulto o al satanismo così come un paninaro non era l'incarnazione anni '80 di un san babilino. Vero però che la condivisione di una certa visione del mondo può fungere da attrattore per persone con ben definiti pattern psicologici, ideologici e comportamentali.

Nel caso dei goth i media hanno spesso rilanciato l'idea di ragazzi con una certa predisposizione a tematiche crepuscolari, all'introspezione e alla presenza di comportamenti autolesionistici. Molto spesso si tratta di generalizzazioni senza alcun fondamento ma come spesso avviene in ogni leggenda c'è una base di verità.
Interessante quindi l'articolo pubblicato sulla rivista The Lancet Psychiatry da Lucy Bowes, docente di psicologia comportamentale all'università di Oxford, sulla correlazione tra cultura goth, depressione e atteggiamenti autolesionistici.

I risultati mostrano che gli adolescenti che all'età di 15 si identificavano come goth avevano a 18 anni una probabilità tre volte maggiore di essere clinicamente depressi e cinque volte maggiore di compiere atti contro se stessi, rispetto a coloro che non si riconoscevano in tale cultura.
Importante. Lo studio NON afferma che l'essere un goth sia la causa ma piuttosto che alcuni giovani goth sono più vulnerabili a sviluppare queste condizioni. Depressione e autolesionismo sono comuni tra gli adolescenti, un periodo notoriamente critico a causa delle trasformazioni fisiche e mentali in atto; in Inghilterra si stima che un adolescente su cinque soffra di tali problemi, in genere limitati e transitori.
Il campione analitico usato è stato estratto da un ampio studio longitudinale (UK Avon Longitudinal Study of Parents and Children - ALSPAC) che ha seguito nel corso degli anni molte migliaia di individui (e i genitori) nati negli anni '90. Dalla mole enorme di dati che comprendono parametri socio-economici e indicatori clinici, si è estratta la componente riferita ai giovani (3694 adolescenti) identificati come depressi e con atti di autolesionismo accertati. A tutti fu chiesto di rispondere ad una serie di interviste e di questionari che, tra le altre cose, mirava a categorizzare le persone in ben definite sottoculture giovanili popolari, come "sportivo", "skater", "solitari", etc

Ancora una volta questo non significa che all'interno di questa gruppo di individui fossero assenti le categorie di "sportivi" ma che l'associazione era più forte per i giovani goth. Per completezza gli "sportivi" mostravano l'associazione più bassa in assoluto, sebbene i "pattinatori" e i "solitari" si collocassero all'estremo superiore dell'intervallo.

E' evidente che il dichiararsi goth non è di per sé sufficiente a fare prevedere un futuro di depressione, dato che molti sono i fattori che concorrono (genetica, famiglia, fattori sociali, ...). Tuttavia l'associazione resiste anche dopo avere normalizzato i dati tenendo conto di variabili come disturbi psichiatrici, l'essere stati vittime di bullismo, (...)  fino alla salute mentale delle madri.

Dato che si tratta di uno studio osservazionale, non è possibile trarre conclusioni definitive e di causa-effetto e non è parimenti consentito affermare che diventare un goth sia di un fattore di rischio per disturbi futuri. Molto più correttamente è la cultura goth che accoglie al suo interno gli individui che vengono marginalizzati dagli altri gruppi giovanili. Al suo interno è possibile quindi trovare sia persone perfettamente normali e non conformisti che altri oggettivamente a rischio depressione.


Fonti
- Risk of depression and self-harm in teenagers identifying with goth subculture: a longitudinal cohort study
Lucy Bowes et al, Lancet Psychiatry. 2015 Sep;2(9):793-800

- Young goths may be more vulnerable to depression and self harm, study finds
N. Hawkes, BMJ (2015) Aug 27;351



Mangiare "per due" in gravidanza? Sbagliato

Sebbene durante la gravidanza sia importante alimentarsi in modo corretto (ivi compreso evitare alcuni alimenti potenzialmente portatori di agenti o sostanze tossiche) nessun medico si sognerebbe di consigliare alla propria assistita di "mangiare per due".
La frase "incriminata" è un residuo della cultura popolare che aveva un senso quando la quantità (e qualità) del cibo a cui aveva accesso la popolazione media era ben inferiore di quello odierno, in molti casi anzi al limite della pura sussistenza.

Applicare questo motto oggi non solo influisce negativamente sul recupero della "linea" della madre dopo il parto ma, cosa ben più importante, ha un impatto negativo sullo stato di salute della progenie anche a distanza di anni.
Nota. La letteratura scientifica disponibile a riguardo è consolidata. Tra gli studi classici a supporto, la dimostrazione della correlazione tra la carestia nelle Fiandre nel '44 e "l'epidemia" di diabete, obesità e altre malattie metaboliche a decenni di distanza negli adulti concepiti in quel periodo (RC Painter et al, BJOG, 2008, v115-10-pp 1243). Sul versante opposto sono ugualmente interessanti i numerosi studi che dimostrano l'impatto negativo sulla progenie di una dieta ipercalorica, oltre che nutrizionalmente sbilanciata, delle madri durante la gravidanza. Nel breve termine (cioè alla nascita) si sa che l'alta glicemia durante la gravidanza si correla a neonati di più grossi; al contrario la pressione alta si associa a neonati più piccoli (J. Tyrrell et al, JAMA (2016) 315 (11)).
A chiudere il cerchio arriva ora lo studio pubblicato sulla rivista eLife che dovrebbe (si spera) mettere la parola fine all'idea ancora diffusa che le donne gravide necessitino di una sovra-alimentazione. I dati indicano che, al contrario, il corpo si adatta estraendo con maggiore efficienza le sostanze nutritive dal cibo ingerito.
Le conclusioni ottenute da analisi condotte sulla drosophila (il moscerino della frutta, animale modello per molta biologia fondamentale) permettono anche di comprendere perché alcune donne lottino senza successo dopo il parto per perdere i chili presi durante la gestazione.
L'idea di questo lavoro nasce da una evidenza molto semplice: l'intestino di molti mammiferi aumenta dimensionalmente durante la gravidanza. Non si capiva però perché questo si verificasse e la base fisiologica di tale modificazione temporanea nella maggior parte degli animali.
Riassumendo in poche righe il contenuto dell'articolo, si è scoperto che nella drosophila il motore dell'aumento della dimensione dell'intestino è "l'ormone giovanile" (juvenile hormone), rilasciato nella femmina subito dopo l'accoppiamento. L'incremento dell'intestino aumenta a sua volta la sua funzionalità e il risultato è un accumulo di grasso, che il corpo "mette da parte" in vista del maggiore fabbisogno energetico che la produzione di uova richiederà.
Nota. L'utilizzo del moscerino della frutta come modello animale non deve stupire; la genetica si basa tuttora su questo animale come insostituibile (per costo e informatività) modello ideale
L'ormone giovanile è il corrispondente funzionale nell'insetto degli ormoni tiroidei nei mammiferi.

Lo stato metabolico (e la sua capacità di adeguarsi al mutare delle condizioni) gioca un ruolo determinante sulla fertilità del moscerino e in particolare per la sopravvivenza delle uova fecondate. Se la produzione dell'ormone giovanile venisse in qualche modo bloccata, l'intestino rimarrebbe nelle condizioni pre-accoppiamento con il risultato, dimostrato, per la drosophila di produrre meno uova.

In modo non troppo dissimile, nella donna gravida si ha una variazione del livello degli ormoni regolatori del metabolismo. Se dopo il parto, per qualunque motivo, il livello di tali ormoni non torna allo stato pre-gravido, l'intestino rimarrà regolato sulla massimizzazione dell'assorbimento; naturale conseguenza sarà la lotta "impari" della donna che cerca di recuperare il peso forma mediante diete ferree e l'organismo che invece fa di tutto per assimilare il più possibile anche da quel poco che viene ingerito.
In conclusione, se già studi precedenti avevano dimostrato che mangiare per due durante la gravidanza è inutile, questo nuovo lavoro ne spiega le ragioni mostrando che il sistema digestivo anticipa le richieste future, modificandosi.

Nota. Pochi giorni dopo la stesura del presente articolo mi sono imbattuto in un nuovo studio che sottolinea i rischi legati all'aumento di peso della madre per il nascituro. Le conclusioni vengono da uno studio svedese pubblicato sulla rivista The Lancet in cui sono state analizzate 457 mila donne che, nel periodo che va dal 1992 al 2012, hanno avuto almeno due gravidanze. Il fattore critico sembra essere non tanto l'indice di massa corporea (BMI) della donna "ante-gravidanza" ma la variazione di peso tra la prima e la seconda gravidanza. Nello specifico le donne il cui indice di massa corporea era aumentato nel periodo tra la fine della prima e l'inizio della seconda di più di quattro unità avevano il 50 per cento di probabilità di partorire un figlio morto e in generale si correlava con un aumento del 30 per cento (rispetto allo standard) di mortalità infantile. La correlazione è particolarmente evidente nelle donne normopeso prima della prima gravidanza. A compendio, le donne che erano invece sovrappeso (BMI > 25) prima della gravidanza e che sono riuscite a diminuire sostanzialmente il peso prima della seconda gravidanza hanno sostanzialmente diminuito il rischio di mortalità infantile.
Non è ancora chiaro il perché di tale correlazione.
(Fonte: Sven Cnattingius & Eduardo Villamor, The Lancet - dicembre 2015).

(articoli su argomenti correlati --> "gravidanza")

Fonte
- Endocrine remodelling of the adult intestine sustains reproduction in Drosophila
Tobias Reiff et al,  eLife (2015) 4: e06930

Studiare il cervello degli astronauti per capire le malattie sulla Terra

Gli astronauti sono una fonte continua di conoscenze: attive in quanto risultato del loro lavoro; "passive" in quanto dipendenti dal semplice fatto di essere rimasti per un certo periodo di tempo in orbita. Proprio grazie al costante monitoraggio dei loro parametri fisiologici in assenza di gravità è stato possibile ricavare informazioni  difficilmente ottenibili altrimenti sulla Terra.
Sopra e sotto pari sono in orbita (credit: ESA)
Il tempo passa in fretta sulla navicella dato il carico di lavoro a cui sono sottoposti gli astronauti; oltre al lavoro direttamente connesso alla manutenzione, gran parte del tempo viene dedicato ad eseguire esperimenti in campi diversi come botanica, metallurgia, biomedicina, psicologia, etc.

Tra i test in corso vale la pena ricordarne alcuni le cui osservazioni preliminari sono state recentemente pubblicate (sebbene come dati preliminari visto che proseguiranno fino al 2018) centrate sulla "memoria" del corpo alla assenza di gravità.
Per il cervello trovarsi in assenza di gravità è una situazione molto stressante in quanto associata alla elaborazione di dati percepiti come contraddittori dai diversi sensi. Alcuni esempi:
  • trovarsi in assenza di gravità (o anche in microgravità) equivale ad essere in caduta libera e questo è il segnale che viene inviato dall'orecchio interno al cervello. Al contrario il sistema visivo manda informazioni di "nulla si muove in modo anomalo rispetto a me".  
  • Altro fenomeno classico legato all'assenza di gravità è lo spostamento dei liquidi verso la testa che viene tradotto dal cervello come trovarsi a testa in giù; ma nella stazione orbitale non c'è un basso o un alto.
  • L'orologio biologico potrebbe inoltre inviare segnali di stanchezza sia legati al ritmo circadiano che ai postumi di una dura giornata di lavoro. Nello stesso tempo però gli astronauti sperimentano 16 albe e altrettanti tramonti nell'arco di 24 ore, tutti input che entrano in conflitto come ben sanno le persone che soffrono di un "banalissimo" jetlag.
Nonostante tutti questi segnali contrastanti il formidabile strumento che è il cervello si adatta nel giro di pochi giorni e gli astronauti si comportano come se fossero nati in orbita. Una adattabilità che non solo permette di affrontare e superare nuove situazioni ma che "usa il passato" come punto di partenza: un astronauta esperto si adatterà alla assenza di gravità molto più velocemente di uno al primo volo, anche se la missione avviene ad anni di distanza dal suo ultimo lancio.

Capire come questo adattamento avvenga è una tra le domande a cui hanno cercato di dare una risposta i ricercatori dell'università di Anversa con lo studio Brain-DT. Il progetto prevede di analizzare 16 astronauti, prima e dopo il volo, mediante una innovativa variante di risonanza magnetica (MRI DTI) in grado di mostrare le reti neuronali del cervello e come i collegamenti cambiano dopo l'esperienza nello spazio. 

 
Video esemplificativo del livello di indagine possibile con la MRI-DTI

Sebbene la raccolta dati sia ancora all'inizio, è possibile già ora osservarne la potenza conoscitiva per comprendere meglio i disturbi neurologici "terrestri". Di fatto vivere nello spazio equivale, per i motivi sopra citati, ad essere sottoposti ad un intenso stato di stress; studiare gli astronauti equivale a studiare le persone colpite sulla Terra da stress sensoriali ma in modo assolutamente etico dato che lo stress non viene indotto appositamente per verificarne la risposta fisiologica.

Molti disturbi neurosensoriali derivano proprio da una errata comunicazione tra diversi centri percettivi e capire come e perché in alcune persone questo "conflitto" cronicizza in patologia è ancora poco chiaro. Alcuni tipi di vertigine ad esempio si sviluppano quando il cervello non si adatta ai segnali contrastanti che arrivano dall'orecchio interno. Gli astronauti rappresentano in questo caso un perfetto esempio di stress continuato che viene tuttavia risolto nel giro di poco tempo.

(articolo precedente sul tema "problemi della vita nello spazio" --> qui)

Fonte
- Astronaut brains as beacons for researchers
ESA, news
- Cortical reorganization in an astronaut’s brain after long-duration spaceflight
Athena Demertzi et al, 2015 Brain Structure and Function pp1-4

L'impronta digitale ci dirà se una persona ha assunto cocaina

Un team internazionale di ricercatori ha applicato la potenza analitica di una tecnica nota come spettrometria di massa alla caratterizzazione delle impronte digitali delle persone in cura presso i servizi di assistenza sanitaria per tossicodipendenti.

Image credit: surrey.ac.uk
Lo scopo era quello di confrontare l'efficienza rilevatrice di questa tecnica rispetto all'approccio classico basato sulla saliva per identificare le persone venute in contatto con la cocaina. Test simili condotti in passato avevano permesso unicamente di dimostrare l'efficienza della tecnica per evidenziare il contatto fisico con la sostanza ma NON che tale sostanza fosse stata assunta.
La novità analitica è descritta dall'autrice del lavoro, Melanie Bailey: "quando qualcuno assume cocaina, vengono prodotti metaboliti come benzoilecgonina e metilecgonine, entrambi rilevabili nella cute e quindi anche nei residui lasciati dalle impronte digitali".
Per informazioni tecniche sul metodo classico per la rilevazione di cocaina metabolizzata, centrato sull'analisi delle urine mediante GC-MS (gas cromatografia-spettrometria di massa) vi rimando ai seguenti PDF--> benzoilecgonina e methylecgonine.
La tecnica nota come DESI (desorbimento per ionizzazione elettrospray) consiste nello spruzzare del solvente sul vetrino su cui è presente l'impronta digitale e procedere all'analisi spettroscopica per determinare la presenza delle sostanze marcatore.

I ricercatori predicono che l'utilizzo di questi "semplici" test potrebbero avere una enorme portata dato che a differenza dei metodi classici non necessitano di procedure invasive (prelievo di sangue) o pro-attive (richiesta di urine). Un metodo quello delle impronte digitali quindi semplice, a costo di raccolta nullo, veloce, igienicamente sicuro per gli operatori e a prova di contraffazione dato che insieme al profilo metabolico rimane strettamente associata l'impronta digitale.

Una tecnica ideale sia per le forze dell'ordine che per il monitoraggio di tutte quelle persone impegnate in attività per le quali cui il non assumere droghe di alcun tipo è fondamentale per la sicurezza (vedi ad esempio i piloti di aerei).

Fonte
- Rapid detection of cocaine, benzoylecgonine and methylecgonine in fingerprints using surface mass spectrometry 
 Melanie J. Bailey et al, (2015) Analyst

L'antenato a quattro zampe del serpente


Spesso ci si dimentica che anche i serpenti sono tetrapodi come noi e quindi hanno un antenato a quattro zampe.

 Trovare però l'anello di congiunzione tra la linea principale dei rettili (con arti visibili) e il sottordine dei Serpentes (in cui gli arti sono visibili come vestigia ossee) è tutt'altro che banale.
Hemiergis quadrilineatum, un rettile australiano in cui sono ancora evidenti
arti oramai "inutili". Nei serpenti il processo di riduzione si è spinto fino alla
presenza di sole vestigia ossee (credit: reptilesofaustralia)
Oltre a fossili viventi come la lucertola mostrata nella figura a fianco, l'unico indizio fossile del percorso evolutivo che ha portato ai serpenti attuali è la Najash rionegrina, un estinto rettile scavatore in cui era evidente l'osso sacro, l'elemento chiave dei tetrapodi.
Mancava però il fossile di transizione tra animali come le moderne lucertole e la Najash.
Nota. Due sono le teorie attuali, in contrasto tra loro, riguardo l'evoluzione dei serpenti. La prima ipotizza che derivino da animali marini spostatisi sulla terraferma, quindi già "quasi" privi di arti se non come vestigia ossee. La seconda teoria ipotizza invece che si siano evoluti da lucertole scavatrici adattatesi talmente bene alla vita nei cunicoli da avere perso ogni necessità degli arti.
Si comprende meglio allora l'entusiasmo che la scoperta di un fossile vecchio di 113 milioni di anni di aspetto serpentiforme ma dotato di quattro zampe ha scatenato nel mondo dei paleobiologi; il ritrovamento ha infatti nel campo la stessa valenza che la scoperta dell'Australopithecus afarensis (noto ai più come Lucy) scatenò tra gli antropologi.
Ad essere onesti il fossile era stato portato alla luce alcuni decenni fa, ma nessuno allora si accorse dell'esistenza delle minuscole zampette, finendo così come reperto semi-dimenticato in una collezione privata. Questo fino al casuale riesame compiuto da David Martill, un paleobiologo dell'università di Portsmouth che dopo averne scoperto i mini arti lo ribattezzò Tetrapodophis amplectus, vale a dire "serpente a quattro zampe in grado di afferrare".
Dave Martill/University of Portsmouth cited in wired.uk

Il proto-serpente mostrato nella foto misura 20 centimetri ed è dotato di due arti anteriori di circa 1 cm, completi di gomito, polso e dita. Le zampe posteriori sono leggermente più grosse e lunghe. Il fossile ha un chiaro aspetto serpentiforme con un tronco allungato, coda corta e scaglie ventrali a supporto di una locomozione serpentina. Il cranio e le proporzioni del corpo, così come la riduzione delle vertebre sono anch'esse a supporto di un adattamento scavatore, tutti dati a sostegno dell'ipotesi di un antenato terrestre.
Anche il cranio del Tetrapodophis mostra che si tratta di un animale terrestre adatto a scavare privo degli adattamenti necessari per una vita acquatica. La presenza di denti orientati verso l'interno suggerisce anche che fosse un feroce predatore; a riprova delle sue abitudini carnivore la presenza nelle viscere del fossile di ossa derivanti dal suo ultimo pasto. Le sue tecniche predatorie sono incerte ma la struttura corporea rende possibile che avesse già al tempo capacità di catturare la preda avvolgendosi intorno e magari fermandola con i mini arti.

Secondo l'autore il fossile dimostra che quando, durante l'evoluzione, il proto-serpente "smise di camminare" (ovviamente una frase sintetica che riassume milioni di anni di processi adattativi), i suoi arti non divennero inutili vestigia ma furono probabilmente utilizzati oltre che per afferrare la preda anche per trattenere il partner durante l'accoppiamento

Il luogo del ritrovamento (Brasile) e l'età del fossile (Cretaceo inferiore) indicano nel supercontinente del Gondwana l'area in cui è avvenuta la transizione.

(articolo precedente sul tema --> "Reperti ossei dell'antenato dei serpenti")

Fonte
- A four-legged snake from the Early Cretaceous of Gondwana
David M. Martill et al, Science (2015) Vol. 349 no. 6246 pp. 416-419

Un farmaco per la pressione contro la sclerosi multipla?

Nuova puntata sul tema "nuova vita per vecchi farmaci" con la notizia che un farmaco in uso per combattere l'ipertensione potrebbe nel prossimo futuro trovare impiego nella terapia della sclerosi multipla, una malattia per cui c'è un disperato bisogno di farmaci efficaci.
Nota. La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da una anomala risposta immunitaria nel sistema nervoso centrale che risulta nella distruzione della mielina, e quindi nella minore capacità dei nervi di trasferire sulle lunghe distanze il segnale elettrico.
Secondo quanto riportato nello studio pubblicato qualche mese fa (estate 2015) su Nature Communications il farmaco guanabenz sembra favorire l'attività autoregolativa del sistema immunitario prevenendo la comparsa dello stress infiammatorio. L'approccio testato è complementare a quelli tentati da altri gruppi di ricerca in giro per il mondo il cui obiettivo è stimolare la ri-mielinizzazione degli assoni; se in questi ultimi il fine è ricostituire la funzionalità perduta, nel caso in esame si mira ad impedire che tale funzionalità venga persa. Un ovvio corollario a questo approccio è che i pazienti che potrebbero beneficiarne sono unicamente quelli nella fase iniziale della malattia o meglio ancora i soggetti asintomatici ma la cui storia familiare li rende ad alto rischio.

Ad indicare il potenziale nuovo utilizzo del farmaco, ci sono diverse evidenze sperimentali:
  • il guanabenz ha una azione protettiva su oligodendrociti in coltura trattati con interferone gamma (una proteina nota per la sua attività pro-infiammatoria);
  • topi geneticamente modificati che esprimono alti livelli di interferone gamma nel cervello (e che contraggono la malattia con alta frequenza), sono protetti se precedentemente trattati con il farmaco.
  • test condotti sul modello animale della sclerosi multipla (topi con sistema immunitario in grado di attaccare la mielina) mostrano che il 20% dei topi trattati non sviluppa la malattia.
  • Test condotti su topi già sintomatici mostrano una riduzione di quasi il 50 per cento della gravità delle recidive che caratterizzano il progredire della malattia.

E' bene precisare che non c'è alcuna evidenza in esseri umani che il farmaco possa avere un effetto terapeutico; la speranza è che possa essere utilizzato in combinazione con altri farmaci per rallentare il decorso o la gravità dei picchi della malattia (caratterizzata da cicli ricaduta-remissione). Uno dei vantaggi associati dall'introduzione del farmaco è che permetterebbe di ridurre il dosaggio dei farmaci ora in uso, minimizzandone in questo modo gli effetti collaterali .

(articolo precedente sul tema sclerosi multipla --> QUI) e su nuovi utilizzi di vecchi farmaci --> NewOldDrugs)

Fonte
- Pharmaceutical integrated stress response enhancement protects oligodendrocytes and provides a potential multiple sclerosis therapeutic
Sharon W. Way et al, Nat Commun. (2015), 6, 6532




Miopia e prevenzione (seconda parte)

(continua da qui)

Nel precedente articolo abbiamo affrontato il problema del boom globale della miopia come conseguenza di uno stile di vita "non naturale" che impone agli occhi uno sforzo continuativo di messa a fuoco di oggetti vicini (libri, tv, monitor e display smartphone). Uno stress aggravato dalla permanenza in ambienti chiusi e con illuminazione insufficiente.

Oggi approfondiamo l'argomento, dando particolare enfasi alle contromisure (già disponibili o in fase di sviluppo) per fermare il dilagare di questo difetto visivo.

Ricchezza input visivi e prevenzione miopia
Esperimenti condotti sugli animali hanno fornito dati molto interessanti sull'effetto benefico che fornisce il vivere in un ambiente "visivamente ricco" (sullo stesso tema vedi anche l'articolo --> "Correre aiuta i topi a recuperare la vista").
In particolare sono stati alcuni test condotti sui pulcini a fornire indicazioni sul ruolo chiave giocato dall'intensità luminosa. Studi oramai classici dimostrarono come il semplice utilizzo prolungato di particolari occhiali in grado di modificare la risoluzione e il contrasto delle immagini in entrata (variando nel contempo anche l'intensità della luce incidente, SEMPRE però all'interno di intervalli fisiologici, quindi non disturbanti) fossero in grado di indurre la miopia. Una prova quindi che la miopia poteva essere indotta semplicemente variando la qualità della visione. Esperimenti successivi come quelli condotti nel 2009 da Regan Ashby della università di Tubinga dimostrarono inoltre che alti livelli di illuminazione - paragonabili per intensità a quelli di una giornata soleggiata - diminuivano la percentuale di pulcini miopi di oltre il 60 %, rispetto a pulcini esposti ad una luce paragonabile a quella presente in una cameretta in cui i giovani sono soliti studiare (Invest Ophthalmol Vis Sci. 2009 Nov;50(11):5348-54). I risultati sono stati confermati da studi analoghi condotti sulle scimmie.
Queste evidenze fecero sorgere una nuova domanda: "come può la luce brillante prevenire l'insorgere della miopia?".

L'ipotesi principale oggi è che la luce agisca stimolando il rilascio di dopamina nella retina, e che questo inneschi una serie di eventi a cascata che contrastano l'allungamento dell'occhio, naturale conseguenza degli sforzi associati alle ripetute messe a fuoco di oggetti vicini (come le parole di un testo).
Nella scienza una ipotesi rimane tale finché non viene messa alla prova sperimentalmente. Ancora una volta furono i pulcini a fornire indizi importanti. Nel 2010 il duo di ricercatori Ashby e Schaeffel dimostrarono che l'iniezione dello spiperone (un farmaco antipsicotico in grado di inibire il segnale dopaminico) era in grado di annullare l'effetto protettivo della luce brillante dimostrando così il nesso causale tra dopamina e luce (Invest. Ophthalmol. Vis. Sci. 51, 5247–5253 - 2010)
Nota. La dopamina retinica è prodotta secondo un ciclo giornaliero caratterizzato da picchi diurni. Il tutto sembra avere la funzione di comunicare all'occhio di passare dalla visione notturna (basata sulle cellule fotorecettrici note come bastoncelli) a quella diurna (a "colori", basata sulle cellule chiamate coni). 
I ricercatori ipotizzarono che l'esposizione prolungata alla luce soffusa (o almeno non naturalmente brillante come quella solare) fosse in grado di alterare il ciclo naturale nel rilascio del neurotrasmettitore con conseguenze sulla crescita dell'occhio.

In base a queste informazioni e ai dati derivati da studi epidemiologici, Ian Morgan, ricercatore presso l'Australian National University di Canberra, è giunto alla conclusione che i bambini dovrebbero passare almeno tre ore al giorno in ambienti illuminati con almeno 10 mila lux per essere protetti dall'insorgere della miopia "comportamentale"
Il lux è la misura internazionale per l'illuminamento ed è data da lumen per metro quadro. Per avere una idea del significato di questo valore basta pensare che è quello percepibile all'ombra di un albero in una giornata d'estate, indossando occhiali da sole. Nelle aule scolastiche i valori standard sono di circa 500 lux.

esempi
Illuminamento Equivalente a
0.0001 lux Notte nuvolosa senza Luna
0.002 lux Notte stellata senza Luna
50 lux Tipica illuminazione da salotto
100 lux Cielo molto nuvoloso
320–500 lux Luce in ufficio
1000 lux Cielo parzialmente nuvoloso
1000025000 lux Tipica giornata soleggiata (all'ombra)
32000100000 lux Luce solare diretta estiva

Non stupisce quindi scoprire che nei luoghi soleggiati (e poco urbanizzati) come l'Australia, dove i bambini passano più di tre ore della loro giornata all'aria aperta, la percentuale di giovani che a 17 anni è miope circa il 30 %, ben inferiore non solo ai picchi cinesi ma anche a quelli americani ed europei; in Europa e in USA si stima che la permanenza media all'esterno (leggasi all'aria aperta e in presenza di luce solare) è inferiore a due ore al giorno.
Sulla base di tali osservazioni Morgan nel 2009 pianificò, insieme al cinese Zhongshan Ophthalmic Center, un esperimento triennale che coinvolgeva un certo numero di classi nel distretto di Guangzhou, comprendenti studenti di sei-sette anni di età; nel periodo dell'esperimento gli studenti svolsero all'aperto, ogni giorno, 40 minuti delle loro lezioni. Come gruppo di controllo furono usate altre classi dello stesso distretto che invece continuarono a seguire le lezioni nel modo classico. I risultati confermarono i dati australiani: degli oltre 900 bambini coinvolti, la percentuale che era diventata miope entro il decimo anno di età era pari al 30 %, contro il 40 % del gruppo di controllo (M. He et al, JAMA 2015, 314 (11):1142-8).
Un esperimento simile venne condotto anche a Taiwan dove gli insegnanti coinvolti indussero i bambini a passare tutti gli 80 minuti della loro pausa pranzo all'aperto; dopo un solo anno di questa sperimentazione il numero di bambini diventati miopi era del 8% contro il 18% di una scuola nelle vicinanze (Ophthalmology (2013) 120 pp10801085).
In fondo niente di tutto questo è nuovo visto che già all'inizio del '900 l'oculista britannico Henry Edward Juler scriveva in un manuale per i pazienti che il miglior contrasto al peggioramento della miopia era stare all'aperto.
A Singapore si cerca di favorire i giovani
a passare più tempo all'aperto
Implementare una tale abitudine è sicuramente importante e non richiede particolari risorse ma è altrettanto evidente che non tutti i paesi hanno la flessibilità (culturale, logistica o semplicemente climatica - troppo freddo o troppa poca luce -) per seguire questa strada. Una alternativa alle attività didattiche all'aperto potrebbe allora essere quella di creare aule con ampie vetrate e/o adeguatamente illuminate e sufficientemente ampie da permettere una visione sulla lunga distanza.

Curiosamente, ma nemmeno tanto, i ricercatori che si sono impegnati in questi anni nel tentativo di cambiare il "modo" di studiare hanno notato che è molto più efficace convincere le scuole ad applicare i cambiamenti (ad esempio imponendo attività all'aperto) rispetto al convincere i genitori, specialmente in Asia dove vige la "dittatura del successo e del risultato". In un articolo tematico apparso sulla rivista Nature, si legge che a Singapore era stato attivato a tal scopo un programma sperimentale in cui i genitori venivano incentivati (munendo i ragazzi di contatori di passi da usarsi nei fine settimana) ad esercitare un ruolo attivo nel favorire attività all'aperto, con premi in denaro. Il risultato fu scoraggiante in quanto nessuna differenza significativa nelle percentuali di miopi emerse tra il campione ed il gruppo di controllo (Ophthalmic Physiol. Opt. - 2014 - 34, 362368).

In attesa che le scuole si adeguino (e aumenti la consapevolezza dei benefici connessi al fare attività all'esterno), i ricercatori si sono concentrati su ulteriori metodi per contrastare l'epidemia di miopia.
Alcuni si sono concentrati sulla creazione di occhiali speciali e lenti a contatto, in grado di focalizzare la luce dall'intero campo visivo e non solo dalla porzione centrale centro (esattamente come fanno gli obiettivi delle fotocamere). Altri gruppi di ricerca hanno notato che l'utilizzo di colliri a base di atropina diluita allo 0.01 %, prima di dormire, è in grado di contrastare la progressione della miopia (Ophthalmology. 2012;119(2):347-54).

Se non vogliamo trovarci con generazioni di ipovedenti si può, e si deve, cambiare.



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