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Le formiche argentate del Sahara e i loro 10 minuti di "libera uscita"

Tanti anni fa durante un viaggio nella catena dell’Atlante mi raccontarono di una particolare tipologia di formiche, silver ants (formiche d’argento), capaci di vivere nell’ambiente inospitale del deserto del Sahara e sfuggire ai pochi (ma famelici) predatori presenti usando la doppia strategia della velocità de della scelta di quando uscire.
Mi sono tornate in mente l’altra sera mentre ripercorrevo mentalmente le tappe di quel viaggio (oggi impossibile) e ho pensato valesse la pena citare queste misconosciute formiche.
Il principale problema che devono affrontare è il caldo. Logica vorrebbe che come gli altri animali, queste formiche si muovessero durante la notte o al crepuscolo. Vero però che questi orari equivalgono a veri e propri happy hours per i loro principali predatori, le lucertole. La strategia selezionata dall’evoluzione è stata quella di concentrare tutte le loro attività all’aperto in una finestra temporale molto ristretta (10 minuti) e nel momento meno affollato della giornata cioè intorno a mezzogiorno. La ragione di tale deserto di movimenti nel deserto reale è facile da immaginare: un caldo secco che ti potrebbe abbrustolire e disidratare (minore il rapporto superficie volume, maggiore il rischio) nel giro di poco tempo.
Queste piccole creature hanno però evoluto contromisure temporanee per minimizzare l’effetto del caldo. Possono resistere fino a poco meno di 54 gradi Celsius grazie a proteine note come HSP (heat shock proteins) la cui funzione è quella di stabilizzare e mettere in sicurezza le altre proteine cellulari che avessero perso la conformazione originaria (denaturazione) a causa del caldo.
Beninteso, queste sono proteine presenti in tutto il regno animale (noi compresi) che hanno un ruolo fondamentale nella omeostasi cellulare per evitare problemi di denaturazione spontanea (non necessariamente legata alla temperatura). A fare la differenza qui è che queste formiche sono gli unici organismi in grado di produrle a piacimento prima “dell’evento”, prima di uscire dalla tana, invece di essere prodotte come risposta ad uno stato di stress cellulare. Il che fa la differenza in quanto a protezione preventiva dal calore che dovranno affrontare nella loro frenetica attività di ricerca del cibo.

Ma questa non è l’unica protezione che hanno evoluto. Hanno anche una specie di mantello di mini peli argentati con forma diverse dalla tradizione struttura cilindrica dei peli negli altri animali.
La forma è più simile a prismi triangolari capaci di riflettere oltre il 90% della luce solare incidente. A livello esterno questo spiega perché appaiano così brillanti all’osservatore.
Immagini al microscopio a scansione elettronica dei peli del corpo della formica argentata sahariana in cui si nota: (a) forma triangolare; (b) ondulazioni sul lato superiore del triangolo, c) primo piano delle ondulazioni, d) peli allineati nello stesso orientamento con il lato piatto parallelo. (credit: PLOS ONE)

Per i 10 minuti di tempo di escursioni giornaliere, questi trucchetti garantiscono loro una protezione sufficiente.
A questo aggiungiamo un terzo fattore: la velocità. In relazione alle loro dimensioni le formiche argentate sahariane sono al terzo posto tra gli animali più veloci superati solo da una specie di coleottero tigre e da un acaro californiano. Per dare l’idea ci mettono poco più di 1 secondo a percorrere un metro (100 volte la lunghezza del loro corpo) e per farlo corrono con il paio di zampe anteriori sollevate da terra (immagino per aumentare la velocità o ridurre il contatto con la terra rovente), rendendoli uno dei pochissimi invertebrati di fatto quadrupedi (le formiche hanno 3 paia di zampe).


Libri di Edward Wilson, uno dei maggiori studiosi del comportamento delle formiche


Articoli precedenti su temi correlati




Farmaci fotoattivabili: medicina localizzata per minimizzare il rischio di effetti collaterali

La fotofarmacologia è un'area relativamente nuova ma in pieno fermento nell'ambito della farmacologia, centrata sullo sviluppo di farmaci attivati da luce di lunghezza d'onda predefinita. Il vantaggio è chiaro: anche se il farmaco ha una distribuzione sistemica, agirà solo sul tessuto bersaglio quando questo verrà opportunamente illuminato. Un "trucchetto" che minimizza il rischio di effetti collaterali anche nel caso di farmaci particolarmente aggressivi.


Un team dell'Università di Barcellona ha lavorato a tre trattamenti basati su questa tecnologia innovativa: un derivato della morfina che non crea dipendenza e un farmaco contro la psoriasi; un derivato dell'adenosina utilize per studiare le via della trasmissione del dolore.

Morfina che non crea dipendenza
Ad oggi la morfina e altri derivati ​​degli oppiacei sono centrali nel trattamento del dolore. Il loro successo porta con sé un lato oscuro che comprende sia gli effetti collaterali che la dipendenza, diventata negli USA un vero e proprio caso sociale. La cosiddetta epidemia da oppiacei è responsabile di circa 70 mila decessi all'anno, tutti associati all'abuso di questi farmaci da prescrizione.
Alla base dell'abuso e dipendenza, gli oppiacei vi è il fenomeno della tolleranza agli effetti analgesici, che induce al progressivo aumento della dose per mantenere la soglia di efficacia. Il 30% dei pazienti a cui vengo
no prescritti questi farmaci non li assume seguendo le giuste istruzioni, e a cascata il rischio dipendenza finisce per tramutarsi in realtà nel 10% dei soggetti trattati.
Non entro qui nel dettaglio della fisiologia del dolore e dei bersagli farmacologici (vi rimando ad una eccellente review) ma vado subito al sodo sul nuovo derivato fotosensibile della morfina, attivabile nel sito prescelto mediante un impulso luminoso. 
La nuova molecola ha confermato il suo effetto analgesico sui topi con assenza di fenomeni di tolleranza e di comparsa di dipendenza
Lo studio è stato pubblicato su British Journal of Pharmacology.


Una soluzione per la psoriasi
Sulla rivista Pharmacological Research è stato pubblicato uno studio su una molecola in grado di legare, dopo fotoattivazione, il recettore dell'adenosina A3, inducendo un potente effetto antinfiammatorio utile per il trattamento della psoriasi.
Nota. L'adenosina è un neuromodulatore naturale.
La psoriasi è una malattia cutanea cronica che colpisce il 2% della popolazione. Si manifesta con sintomi cutanei come secchezza, prurito, pelle squamosa, macchie e placche anormali, conseguenza di una crescita eccessiva dei cheratinociti e da una risposta immunitaria anomala.
I trattamenti disponibili sono principalmente sintomatici senza colpire le cause prime della malattia che quindi rimane. Nei casi più gravi il trattamento prevede l'utilizzo di modulatori del sistema immunitario che però presentano seri effetti collaterali a causa dell'azione immunosoppressiva sistemica.
Il nuovo farmaco è stato testato in topi con buoni risultati nella prevenzione delle recedive della malattia; la fotoattivazione locale (cutanea) evita inoltre la comparsa di effetti collaterali.


Uno strumento per studiare la trasmissione del dolore
La produzione di un derivato fotoattivabile dell'adenosina (vedi sopra) si è dimostrato utile anche a livello sperimentale permettendo di mappare il contributo dei diversi recettori dell'adenosina nella trasmissione del dolore.
L'adenosina può agire come analgesico endogeno, ma rimangono ancora punti oscuri sulla funzione dei vari recettori dell'adenosina e in particolare quali tra essi svolga l'azione analgesica. I nuovi risultati saranno utili per progettare e sintetizzare farmaci adenosinergici selettivi per la gestione del dolore periferico e centrale.
Lo studio è stato pubblicato su Bioconjugate Chemistry.


Fonti
- Optical control of adenosine A3 receptor function in psoriasis
M. López-Cano et al. (2021) Pharmacological Research 170, 105731, 2021

- Remote local photoactivation of morphine produces analgesia without opioid-related adverse effects
M. López-Cano et al., (2021) British Journal of Pharmacology

- Optical Control of Adenosine-Mediated Pain Modulation 
K. Hüll et al, (2021) Bioconjugate Chemistry

Virus. "Quasi-organismi" sub-microscopici

(Articolo aggiornato settembre 2021)
I virus sono disponibili in tutte le forme e dimensioni. I virus nella foto (in falsi colori)  sono:  vaiolo; Acidianus bottle-shaped virus; Acanthamoeba polifaga mimivirus; rabbia; batteriofago T4; Rotavirus; Ebola; virus del mosaico del tabacco; HIV-2.
(Iimage credit: SPL; M. Häring et al./j. Virol.; E. Ghigo et al./plos pathog.; Frederico A. Murphy / CDC Global)


I virus sono quasi-organismi incredibilmente semplici pur nella complessità della loro azione.
Ho volutamente condensato nella frase di incipit l'essenza delle problematiche teoriche associate allo studio dei virus, con l'inclusione di termini apparentemente contraddittori ("semplici" e "complessità") oltre che indefiniti ("quasi-organismi").
A sinistra una cellula attorniata da virus Ebola (in azzurro), a destra un classico virus dell'influenza

Cominciamo dalla "contraddizione" e più avanti capiremo anche il perché del sostantivo "quasi-organismi".
I due termini riflettono semplicemente il fatto che il pacchetto di informazioni racchiuso in un virus (vale a dire una sequenza nucleotidica - e di geni - ridotta all'essenziale) è sufficiente per permettere al virus di prendere il controllo di una cellula il cui contenuto informativo ("il programma") è enormemente più complesso. Potremmo semplificare dicendo che una specifica stringa di informazioni è in grado di riprogrammare una "macchina" ultra-sofisticata.
Non preoccupatevi, non avete sbagliato blog, non sto parlando di virus informatici ma di biologia. Parlo dei virus che possono causare malattie (pochi) e della stragrande maggioranza di quelli con cui noi entriamo quotidianamente in contatto ma che sono totalmente inerti per le nostre cellule ... semplicemente perché non siamo il loro bersaglio, anzi meglio, siamo per loro totalmente invisibili. Non è per caso invece se gli informatici hanno deciso di copiare il termine virus per indicare delle "stringhe di comando" in grado di modificare il comportamento di un programma o di un intero computer. Il principio alla base è lo stesso.

Chiarisco subito che non è questa la sede per avere una idea di base su cosa sia un virus. Oltre a wikipedia ci sono in rete molti siti divulgativi ben fatti in grado di fornire le informazioni minime sull'argomento (cominciate da Sapere e Treccani). Non si tratta infatti di un argomento riassumibile in poche righe, come ben si evince dall'essere una materia chiave nei corsi di laurea in scienze biologiche e oggetto di specializzazioni post laurea. 
Scopo di questo articolo è solo evidenziare alcune curiosità dal mondo dei virus, comprensibile sia a chi abbia una infarinatura di biologia del liceo che al semplice appassionato di scienza.

***
Organismi o non-organismi?
Gran parte degli articoli centrati sui virus iniziano con una frase opinabile cioè il definire i virus come i più semplici tra gli organismi viventi sul pianeta, privi di metabolismo, incapaci di riprodursi da soli ma in grado di dirottare tutto il macchinario cellulare (aggirandone le difese) per i propri fini. 
Nella precedente frase c'è il punto dolente, cioè il definire i virus come organismi, quindi per definizione degli esseri viventi. Una visione non corretta che analizzemo nel punto 1 delle curiosità sui vrus.

La continua scoperta di nuovi virus man mano che la ricerca si sposta "fuori" dalle aree di pertinenza sanitaria ed economica, ha imposto una rivisitazione della struttura a 5 livelli in una a 15 livelli, sulla falsariga del modello linneano.
Image credit: Nature (2020)
 
 

1. I virus non sono davvero vivi
I virus sono una continua sfida alla nostra salute come dimostrano l'epidemia di morbillo (assolutamente evitabile, vedi QUI), la devastazione causata da Ebola in Africa occidentale (QUI) e le epidemie annuali di influenza. Questa sfida continua è un dato di fatto non solo per animali e piante ma anche per batteri e protozoi. 
Virus T4, il classico esempio di batteriofago (virus batterico). A sinistra immagine al microscopio elettronico. Le forme dei virus sono estremamente eterogenee (vedi ad esempio qui)
Il virus T4 nel dettaglio: DNA e proteine

I virus fanno il loro mestiere cioè creare nuove copie di se stessi. Una attività che non necessariamente porta alla morte della cellula; anzi, i virus "migliori" (cioè quelli che si sono meglio adattati al proprio ospite) sono quelli che evitano di "stressare" troppo la cellula. Eliminare l'unico strumento che un virus ha per propagarsi equivale infatti ad auto-estinguersi.
Estrema schematizzazione di propagazione virale senza lisi cellulare (credit: wikimedia/waglione)
Nota: si tratta di una GIF per cui se vedete solo l'immagine statica cliccate sopra

Questo sfruttamento e le contromisure adottate dalle cellule infettate è una attività che risale alla notte dei tempi con la  comparsa delle cellule e la successiva coevoluzione di ospite e parassita.
Perché dovrebbero allora esserci dubbi se catalogare i virus come esseri viventi? E se non sono esseri viventi, che cosa sono?
La miglior soluzione possibile è quella di posizionare i virus in una zona al confine tra vita e non-vita. Una scappatoia semantica forse, ma molto utile come vedremo in seguito.
Per affrontare questo argomento è necessario però dare una definizione di "vita", senza la quale non ha senso porre una barriera tra ciò che è vivo e ciò che non lo è.
Un compito non facile. Anni di dibattiti hanno portato ad un consensus per il quale
se coesistono contemporaneamente TUTTI questi elementi
  • metabolismo
  • omeostasi
  • organizzazione
  • crescita
  • adattabilità 
  • responsività a stimoli 
  • riproduzione
allora si può parlare di organismo vivente.
Molti oggetti chiaramente non biologici (dai minerali al fuoco) hanno alcune di queste proprietà (il fuoco si "riproduce" ed espande finché c'è materiale combustibile o ossigeno ...), da qui la necessità di possedere tutte le caratteristiche come punto di demarcazione tra biologico e non biologico. 
Quante di queste proprietà sono associabili ai virus? Facciamo prima a dire che cosa hanno:
  • geni (da un minimo di 2 fino a centinaia), 
  • evolvono grazie alla selezione naturale, quindi sono adattabili
  • si riproducono
  • si organizzano in strutture (le particelle virali) molto specifiche. 
  • potrei perfino attribuire a loro una parvenza di responsività basata sulla capacità di interagire in modo specifico con un recettore di membrana ...
 tuttavia non hanno un loro metabolismo, di sicuro non crescono e non hanno omeostasi. La cellula ospite è il mezzo senza il quale il virus ... non fa nulla.
Anche una "semplice" cellula batterica è di gran lunga più viva di un virus: ha un proprio metabolismo; è in grado di riprodursi da sola; ha una propria struttura (la cellula); risponde e si adatta alle variazioni ambientali; ha un migliaio di geni (circa un ventesimo di quelli presenti negli organismi superiori); non dipende da terzi per attuare tutte queste funzioni.
Quando una particella virale non si trova dentro una cellula è assolutamente inerte, come se fosse un microscopico granello di sabbia. E' solo un pezzo di informazione genetica, circondato da alcune proteine. Questa la ragione principale per cui gran parte degli scienziati non considerano i virus come organismi viventi. D'altro canto sarebbe errato equiparare un virus ad un semplice granello di sabbia dato che in condizioni predefinite (virus integro e in presenza di una cellula permissiva, NON una cellula qualunque) l'informazione fino ad allora inerte si attiva e il virus prende il comando della cellula ordinando a tutti i sistemi cellulari di fare una sola cosa: creare copie del virus.

Il dibattito sui virus non è nuovo; già nel 1892 il microbiologo russo Dmitry Ivanovsky parlò di una infezione causata da qualcosa di molto più piccolo di un batterio per spiegare la malattia della pianta del tabacco. Si dovettero attendere anni perché Wendell Stanley identificasse e purificasse questo misterioso agente patogeno (TMV, il virus della pianta del tabacco), uno sforzo premiato nel 1946 con il Nobel - notare bene - per la chimica e NON per la medicina. Per questo si preferisce ancora oggi parlare dei virus come una categoria al confine del "bio".
Si deve a Walter Reed (ufficiale medico americano) nel 1901 la prima associazione tra malattia umana (febbre gialla) e virus trasmesso da una zanzara.
Per altre informazioni sul dibattito "i virus sono vivi?" vi rimando a due siti divulgativi in inglese (NASA e Scientific American). L'interesse della NASA per la definizione di "vita" non è casuale: come cercare una forma di vita su Marte (o altrove) se non sai definire esattamente cosa cerchi?

2. I virus sopravvivono dirottando il funzionamento di un organismo vivente
Da un punto di vista evolutivo i virus rappresentano una sfida non semplice. Quale è la loro origine? Una teoria ipotizza che i virus fossero già presenti all'epoca del cosiddetto "mondo a RNA" in cui le stringhe di informazioni dotate di attività autocatalitica si organizzavano all'interno di nicchie protette. Alcune di queste nicchie, delimitate da un doppio strato lipidico, avrebbero originato le cellule; altre invece, delimitate da proteine, avrebbero parassitato quelle a base lipidica, originando i virus. All'opposto un'altra teoria ipotizza che i virus siano un prodotto regredito di antiche cellule parassite semplificatesi al massimo (hanno conservato solo l'acido nucleico e gli strumenti per indurre la cellula ospite a copiarlo). 

Come il virus dell'influenza infetta una cellula
Se non vedi il video --> Youtube

Qualunque sia la teoria corretta è indubbio che hanno trovato un modo molto efficiente per mantenersi e moltiplicarsi. Una volta entrati in una cellula adatta, si appropriano del macchinario biochimico, prendendo il controllo delle leve chiave. Come comandanti invisibili ridefiniscono le priorità di una cellula, sfruttandone sia l'energia metabolica che l'hardware produttivo per produrre in primis le proteine virali chiave e infine le copie dell'acido nucleico che vengono impacchettate all'interno di involucri costituiti da proteine virali. I virus migliori sono quelli che non uccidono il proprio ospite ma che continuano a usarlo per produrre magari meno virus per unità di tempo ma in modo continuativo. Negli organismi pluricellulari complessi questo si evidenzia con le infezioni asintomatiche e/o nelle infezioni croniche e di bassa intensità.
Molti sono gli esempi a supporto di questa co-evoluzione spontanea in cui dopo n generazioni di sfida continua, virus e ospite raggiungono un equilibrio di virulenza e resistenza che permette ad entrambe le popolazioni di persistere. Il migliore, in quanto  recente e ben studiato, è la dato dalla sfida, tuttora in corso, tra myxoma virus e conigli. 
Come sapete i conigli, introdotti nel '800 in Australia dagli inglesi si trasformarono in pochi anni in una specie invasiva e distruttiva dell'ambiente a causa dell'assenza di predatori naturali. A metà degli anni '50 si tento un esperimento di controllo biologico utilizzando il myxoma virus (famiglia dei poxvirus a cui appartiene anche il vaiolo) innocuo per esseri umani e altri grandi mammiferi ma letale (mixomatosi) per i conigli.
Nel giro di soli 5 anni dal momento in cui il virus venne introdotto, e con sommo rammarico di chi sperava di avere trovato una soluzione definitiva ai conigli, la selezione operò riducendo la mortalità dal 99% iniziale a circa il 20%. fino alla quasi totale resistenza odierna. La lotta tra i due non è finita perché il virus, rimasto endemico ha evoluto contromisure che hanno permesso di superare la resistenza dei conigli. La "palla" (mossa evolutiva ora spetta al coniglio).
In pochi anni e in modo assolutamente spontaneo si è passati da un virus letale nel coniglio ad una "coesistenza pacifica"
(Immagine ricreata dalla Tab.1 di F. Fenner (1959) Br. Med. Bull.)
 
La domanda che subito sorge spontanea è: "se esiste questo equilibrio per cui virus ed ospite raggiungono un punto di equilibrio, per quale motivo abbiamo malattie virali letali come Ebola, AIDS, etc?". La ragione è che si tratta di zoonosi recenti, cioè del recente passaggio di un virus dal suo serbatoio naturale (pipistrelli nel caso di Ebola, scimmie nel caso HIV) alla specie umana. Non a caso nella specie "sorgente" da cui è arrivato il virus, l'infezione si associa a sintomi lievi o di sostanziale asintomaticità. E' passato troppo poco tempo dal momento in cui il nuovo virus è divenuto capace prima di infettare un umano e poi, con altra mutazione, di trasmettersi tra umani. Nel caso del proto-HIV (o variante SIV) si ritiene che il passaggio sia avvenuto nella prima metà del secolo scorso, mentre nel caso di Ebola (o della SARS) si tratta di passaggi sempre nuovi tra animale e sapiens.

Nell'esempio precedente (myxoma-coniglio), la velocità di raggiungimento di un punto di equilibrio evolutivo è spiegabile con la dinamica dell'epidemia "artificiale" (indotta) il virus è stato fatto diffondere a partire da una popolazione iniziale di conigli molto numerosa: l'alto numero ha reso possibile la presenza e selezione di conigli resistenti e la comparsa (e selezione spontanea) di virus attenuati. In pratica una condizione di evoluzione accelerata.

3. I virus si evolvono più velocemente di qualsiasi altro organismo vivente
A differenza delle cellule (siano esse procarioti o eucarioti) dotate tutte di DNA a doppio filamento, i virus come gruppo hanno un genoma variegato. Esistono virus a DNA e a RNA, che si distinguono poi non solo nel possedere doppio (dsDNA o dsRNA) o singolo  (ssDNA o ssRNA) filamento ma in quest'ultimo caso anche come "polarità" (riferita al contesto codificante) cioè ssDNA-, ssRNA-, ssDNA+ o ssRNA+ (ad es. il coronavirus).
Le specifiche del genoma determinano la modalità di replicazione dentro la cellula (citoplasmatica o nucleare).
Quando una copia del genoma del virus entra in una cellula ospite, si moltiplica in modo nettamente più rapido (temporalmente e numericamente) di quanto è possibile per una cellula. In poche ore possono essere formate migliaia di particelle virali che vengono rilasciate nell'ambiente esterno. La replicazione virale è inoltre "programmata" per fare errori di copiatura e questo è tanto più vero nei virus a RNA a causa della assenza dei meccanismi di correzione dell'errore nella RNA polimerasi. L'insieme di questi due elementi (alto numero e alta frequenza di errore) spiega l'elevata velocità evolutiva intrinseca di un virus e, quindi, la comparsa di mutanti resistenti a terapie o in grado di sfuggire all'attacco del sistema immunitario.
Il grafico seguente descrive la capacità di mutare in base alla tipologia di cellula e di genoma posseduto. I virus a RNA sono tra i più "bravi" ad evolvere (mutare) sfuggendo alla caccia del sistema immunitario che a sua volta continua a cambiare per stare dietro al bersaglio che continua a "cambiare aspetto" (in senso immunologico).
Solo i viroidi (a tutti gli effetti "relitti" del mondo a RNA, incapaci di codificare per alcuna proteina) sono più bravi a mutare dei virus a RNA


4. Il mondo dei virus è variegato
I virus possono essere a DNA o a RNA (a loro volta suddivisibili in sottocategorie a seconda del numero di elementi, dell'essere a singolo o doppio filamento, etc), possono integrarsi nel genoma della cellula ospite (diventando da esso "indistinguibile") oppure rimanere in forma episomale. Possono essere di "bocca buona" e infettare sia più tipi diversi di cellule di uno stesso organismo che diversi organismi, oppure essere estremamente specifici. Possono rimanere "attivabili" per lungo tempo una volta rilasciati nell'ambiente oppure per soli pochi minuti.
Molti virus hanno elevato il loro parassitismo ad un tale livello da avere perso la loro "libertà", rimanendo integrati nel genoma dell'ospite; alcuni di questi continuano a produrre proteine virali e sono in grado di tanto in tanto di cambiare posizione nel genoma (ma sempre senza produrre particelle virali, esempio tipico nelle cellule neuronali) altri sono di fatto dei residui fossili non più in grado di fare alcunché. In mezzo tutte le varianti possibili.
E potrei andare avanti. Il concetto importante è che per capire il funzionamento di un virus non è sufficiente identificare la classe di appartenenza ma bisogna studiarne il genoma.

5. Semplicità e complessità
I virus sono così "naturali" e semplici che, i più semplici tra loro, possono essere assemblati in provette semplicemente mescolando le componenti base, vale a dire proteine e acido nucleico, a determinate condizioni di temperatura, acidità e salinità. Un autoassemblaggio che non deve sorprendere essendo il prodotto della "semplice complessità" evolutiva ottenuta in quasi quattro miliardi di anni di "messa a punto".
Corollario di questa capacità di autoassemblaggio è la possibilità (attuale) di fare virus "su misura" per scopi terapeutici. Se fino a pochi anni (direi fino agli anni '90) creare una sequenza di DNA (o RNA) specifica era non solo teoricamente complesso ma al di là delle possibilità tecnologiche, oggi possiamo prenderci una rivincita sui virus usandoli come strumenti terapeutici, prospettivamente, molto interessanti. Parlo di virus assemblati usando il solo involucro di virus naturali perfetti per "infettare" una cellula specifica e veicolarne al suo interno quello che vogliamo, ma ovviamente incapaci di riprodursi. Ad esempio i virus oncolitici (ancora in fase sperimentale) sono stati pensati per infettare solo le cellule tumorali di un paziente e ucciderle portando al loro interno (e solo li) sostanze tossiche. Altra possibilità è quella di riparare difetti genetici in pazienti affetti da malattie altrimenti incurabili: il gene normale viene veicolato dal virus all'interno della cellula permettendo così di compensare il gene non funzionante.

6. I virus sono molto belli
Nonostante la loro distruttività come agenti patogeni, i virus al microscopio elettronico hanno una bellezza innegabile, superiore a quella di un singola cellula. Le particelle virali hanno una simmetria maggiore rispetto a qualsiasi altra struttura esistente in natura, molte delle quali dotate di simmetria icosaedrica, come un pallone di calcio vecchio stile con i suoi 12 pentagoni neri e 20 esagoni bianchi. Altri, come il virus T4 dei batteri sembrano una navetta spaziale pronta all'allunaggio.


7. Attivi per quanto?
Non potendo definirli "vivi" ripieghiamo su un termine più neutro come "attivabili", ad indicare la loro capacità di entrare in azione una volta entrati in contatto con la cellula giusta. Ogni virus è un caso a parte essendo il risultato di una selezione specifica in condizioni molto diverse. Molti virus hanno una durata indefinita nell'ambiente (mesi, anni?) mentre altri sopravvivono solo minuti al di fuori del loro ospite. Al primo caso appartengono la stragrande maggioranza dei virus batterici ma anche alcuni virus enterici umani come il Norovirus responsabile delle gastroenteriti "da crociera" (in grado di resistere almeno un paio di settimane su superfici come pomelli, sanitari, etc). Al secondo gruppo appartiene HIV che si inattiva nel giro di minuti al di fuori dei fluidi corporei.

8.  Alta pressione dentro il capside
Ogni virus trasporta all'interno del capside il proprio materiale genetico, contenente tutte le istruzioni per produrre nuova progenie virale.  Si tratta evidentemente di un carico prezioso che deve essere salvaguardato al massimo, o almeno per il tempo sufficiente per trovare una cellula adatta. Ma la protezione dal variegato ambiente esterno non è il solo motivo per cui i capsidi sono in genere delle vere e proprie barriere impenetrabili; deve infatti resistere alla elevatissima pressione del DNA o RNA lì stoccato, che può raggiungere pressioni pari a 10 atmosfere. Non stupisce allora la "facilità" con cui, una volta che il capside trova un recettore cellulare di suo gradimento, l'acido nucleico viene letteralmente "sparato" all'interno del canale creato (o indotto a seconda dei casi) dal virus. L'effetto visivo è simile a quello di un palloncino gonfio a cui viene aperto il beccuccio.
Nel video sotto, la simulazione al computer dell'iniezione del DNA durante l'interazione virus T4 e batterio.
Se non vedi il video --> Youtube

9. I virus sono in noi ... letteralmente
Circa l'8% del nostro genoma è di origine retrovirale. I retrovirus sono virus a RNA che usano usano il genoma dell'ospite come "veicolo" intermedio: subito dopo la conversione del RNA in DNA questo si integra nel genoma dove viene trascritto in RNA che verrà poi incorporato in nuove particelle virali. Questi virus non provocano la lisi della cellula ma possono danno luogo ad una infezione cronica (con ampie fasi silenti) che può durare per tutta la vita dell'ospite.
Durante il processo di integrazione capita con una certa frequenza che qualche cosa "vada storto", evento che genera inserti non funzionali (come capacità di produrre virus) che rimangono inerti nel genoma dell'ospite. Se l'infezione coinvolge anche le cellule germinali, questi "fossili" vengono trasmessi alle generazioni successive. La loro non funzionalità non esclude che alcuni dei geni virali possano essere trascritti; in assenza di selezione positiva queste unità trascrizione vengono messe sotto controllo, silenziandole, in genere mediante metilazione.
A volte pero le proteine virali si rivelano utili alla cellula o all'organismo che li ospita. Un esempio classico è quello della sincitina, una proteina fondamentale per i mammiferi placentati (quindi anche noi). La sincitina ha un ruolo cruciale nella formazione della placenta: è grazie a essa che alcune cellule placentari si fondono con le cellule dell'utero della madre, formando i cosiddetti sincizi (da cui il nome della proteina) che costituiscono lo strato esterno della placenta. Un residuo di una infezione produttiva fallita avvenuta qualche decina di milioni di anni fa ha permesso la comparsa della placenta.


***
Alcune curiosità sui virus:
1. Alcune vespe depongono le loro uova in bruchi che diventeranno così dei veri e propri incubatori per le larve. Il genoma della vespa contiene un virus endogeno che blocca il rigetto delle uova da parte del bruco. Un chiaro esempio di simbiosi tra due "predatori" a scapito del bruco.

2. Ogni millilitro di acqua di mare contiene circa un milione di virus Se dovessimo fare un calcolo di quanti virus ci sono nel mare arriveremmo alla cifra di 1030 virioni! Difficile da quantificare. Diciamo allora che se li allineassimo uno di fianco all'altro come perline lungo un filo immaginario, questo sarebbe lungo 200 milioni di anni luce … ben superiore al diametro della nostra Via Lattea (diametro di 100 mila anni luce). 
Questi numeri sono la migliore dimostrazione del fatto che un virus in assenza dell'ospite specifico è meno "fastidioso" di un granello di sabbia in una spiaggia. Questo non vuol dire che nell'ambito dell'ecosistema sia irrilevante. Anzi, gioca un ruolo chiave.

3. Il termine virus viene dal latino ed è sinonimo di veleno. Oggi sappiamo che il termine è estremamente riduttivo.

4. Se pensate che i virus sono una entità difficilmente classificabile, vi consiglio di leggere qualcosa sui prioni (i responsabili del famigerato "morbo della mucca pazza"). In questo caso non ci sono dubbi che queste strutture non sono vive essendo delle "semplici" proteine che a causa di mutazioni o in seguito all'innesco di altre proteine "simili" ma alterate inducono un effetto a cascata che trasforma utili proteine prioniche in "prioni"; una modalità funzionalmente simile all'infezione, solo che qui la "proliferazione" viene dal semplice contatto e non dalla produzione di nuove proteine.

5. Ogni giorno sul pianeta sono prodotti circa 1016 virus HIV, un numero che evidenzia la grandezza del serbatorio naturale da cui possono emergere ceppi resistenti alle nuove terapie, specialmente quando il trattamento non avviene secondo i dettami di continuità obbligatori per queste terapie.

6. Il virus più piccolo è il circovirus, un virus a singolo filamento di DNA scoperto nei maiali. La particella virale è  di circa 20 nanometri (nm) e ha al suo interno un genoma di 1700 nucleotidi (1,7 kb), codificante per sole due proteine.
Come vedremo poi la dimensione del genoma non è un indice univoco della complessità di un organismo. Il batterio Mycoplasma pneumoniae (una cellula, quindi in tutto e per tutto un organismo vivente) ha un genoma di soli 816 mila nucleotidi (codificante per circa 700 geni), una dimensione inferiore a quello di molti virus. D'altro canto alcune piante hanno un genoma ben più grande di quello umano: la Picea glauca ha un genoma di 20 Gbp contro i 3 Gbp umani e un numero di geni quasi il doppio (50 mila contro 23 mila).
Tra i virus a RNA, i retrovirus (come il virus del sarcoma di Rous che causa tumori nei polli) hanno dimensioni di 80 nm e 3500 nucleotidi. Se guardiamo ai virus a DNA a doppio filamento, il virus dell'epatite B (HBV) è di 42 nm per 3200 basi mentre i parvovirus pur essendo dimensionalmente più piccoli (25 nm) hanno un DNA più lungo (5 mila nucleotidi).
La dimensione del virus non è correlata con il grado evolutivo della specie ospite; anzi molti virus di batteri o di amebe sono dei veri e propri giganti (vedi sotto) rispetto a quelli che infettano i vertebrati. Il più piccolo virus batterico (ΦX174) è infatti più grosso del virus HBV (25 nm per 5 kb).

7. Virus giganti scambiati all'inizio per cellule. A questo gruppo appartengono i mimiviruses le cui dimensioni arrivano a 400 nm con un genoma di 1,2 milioni di basi (in molti casi il doppio del DNA di un batterio) che codifica per oltre 900 proteine. Il virus fu scoperto nel 1992 all'interno di una torre di raffreddamento durante una campagna di monitoraggio microbico in Inghilterra.
A seguire sono arrivati i Mamavirus, correlati ai Mimivirus ma ancora più grandi (750 nm). Ma non è la dimensione a caratterizzarli quanto la presenza di un virus satellite di nome Sputnik: il virus di un virus!!
Caratteristica comune dei virus giganti è il loro infettare amebe, eucarioti unicellulari di dimensioni tra poche decine a centinaia di micrometri. Una "scelta" ovvia dato che sarebbe impensabile ipotizzare l'esistenza di un virus "umano" grande poco meno di una cellula umana senza che questo porti alla morte immediata della cellula (e del virus).
Il Tupanvirus, scoperto nelle amebe è un vero gigante con il suo micrometro di lunghezza. È anche il virus con il maggior numero di geni (Image credit: J. Abrahão et al./Nat. Comm.)



8. Il nostro genoma, è fatto in gran parte di fossili retrovirali. Solo considerando gli HERV (retrovirus umani endogeni, 98 mila quelli presenti) si arriva a circa l'8% del nostro genoma! Si tratta come detto di fossili inattivi rimasti intrappolati (i retrovirus si integrano nel genoma cine tratto essenziale per la loro riproduzione) durante una infezione avvenuta in qualche momento nei passati tre miliardi di anni di evoluzione della cellula eucariotica.
La maggior parte di questi virus (non solo gli HERV) rimasti incastrati nel genoma sono dei veri e propri fossili di virus oramai scomparsi da eoni dalla biosfera. Nel 2005 alcuni ricercatori francesi hanno chiesto - e ottenuto - l'autorizzazione governativa a provare a riesumare qualcuno di questi mediante tecniche di "retromutazione". Non si pensi a qualcosa in stile Frankenstein ma "solo" a mutazioni specifiche in grado di correggere le mutazioni inattivanti presenti nel virus fossile.
La sequenza genomica "corretta" è stata poi inserita all'interno di un involucro virale adatto usato per infettare una cellula idonea. Il risultato è stato un virus in grado di infettare alcune linee cellulari umane anche se con scarsa efficienza. Verosimilmente nel tempo trascorso dall'epoca in cui tale virus era presente in natura, le cellule hanno evoluto meccanismi di difesa tali da prevenire i tentativi di hackeraggio, oramai primitivi, di questo virus. Non si è avuta come alcuni temevano alcuna apocalisse, ma a mio parere sarebbe meglio evitare di riattivare virus scomparsi dalla biosfera.

Questo è ovviamente solo un assaggio delle meraviglie (in senso biologico, le malattie non hanno nulla di bello) del mondo dei virus.

Link utili
- viralzone.
- virus pathogen resource.
- bio-alive.com. Animazioni video (in inglese) sul mondo dei virus
- slideshare. Una serie di immagini riassuntive su cosa sia e cosa faccia un virus 
- 20 Things You Didn't Know About... Viruses.


Per chi volesse approfondire lo studio della virologia con testi accademici, ecco alcuni tra i migliori.
  


La IA applicata a riprese video come strumento di diagnostica precoce dell'autismo

Utilizzando l'intelligenza artificiale, un team dell'UNIGE ha sviluppato un dispositivo per la diagnosi precoce del disturbo dello spettro autistico nei bambini.
Un esempio di come OpenPose estrae un'immagine stilizzata da una ripresa video su cui poi la IA effettua l'analisi. (Image credit: © Kojovic, Natraj, Mohanty, Maillart, Schaer)
La diagnosi di autismo non è semplice a causa della eterogeneità dei sintomi, alla base della definizione "ombrello" di disturbo dello spettro autistico (ASD); tra i sintomi più frequenti problemi di comunicazione e difficoltà nelle interazioni sociali. Il disturbo, proprio a causa della sua eterogeneità è difficile da diagnosticare prima dei cinque anni e il ritardo diagnostico rende più difficile iniziare per tempo un intervento comportamentale su misura focalizzato sullo sviluppo delle abilità colpite dalla malattia (la cosa migliore è iniziare il trattamento prima dei 3 anni).
Interventi comportamentali specifici possono infatti cambiare completamente le loro traiettorie di acquisizione delle competenze cognitive permettendo (tranne nei casi più gravi) di integrarsi in una scuola tradizionale.
Nota. In passato erano stati proposti test per una diagnosi nella primissima infanzia ma paiono adatti solo per diagnosticare i casi più gravi.
L'ASD colpisce 1 bambino su 54 ed è caratterizzato da difficoltà nelle interazioni sociali, abilità comunicative alterate e dalla presenza di comportamenti ripetitivi e interessi ristretti. Tra i problemi più comuni la comunicazione non verbale che differisce da quella di un bambino a sviluppo tipico per la difficoltà a stabilire un contatto visivo, sorridere, indicare oggetti o nel rapportarsi e mostrare interesse a ciò che lo circonda.
Nota. Non è superfluo sottolineare come questa frequenza apparentemente abnorme debba essere presa con le pinze. Negli ultimi decenni, specialmente in USA, si è assistito ad un vero problema di eccesso-diagnostico (e a cascata interventi farmacologici) su presunte anomalie comportamentali dei bambini. Il caso più evidente, che purtroppo ha preso piede anche da noi, è la diagnosi di sindrome da iperattività (ADHD). Sul tema vi rimando a due articoli nei media: "Troppe diagnosi ADHD" (ANSA); "Troppe diagnosi ASD" (Repubblica).
Un team interdisciplinare dell'università di Ginevra ha cercato di porre rimedio alla soggettività diagnostica mediante un algoritmo che si applica in automatico su riprese video del bambino (ricordo che in grande parte sono maschi), con il quale valutarne la comunicazione non verbale. Il grosso vantaggio di questo strumento è la sua facilità di utilizzo anche da remoto, utilizzabile direttamente dai genitori per uno screening iniziale.
I test condotti su bambini sani o autistici sotto i 5 anni, ripresi mentre giocavano con un adulto, hanno permesso di classificare correttamente l'80% dei casi. I risultati, pubblicati sulla rivista Scientific Reports, aprono la strada a uno strumento per la diagnosi precoce del disturbo autistico.

Lo sviluppo dell'algoritmo è durato 3 anni, duranti i quali i ricercatori hanno addestrato la IA a classificare i video basandosi esclusivamente sui movimenti del bambino quando interagisce con un'altra persona. La tecnologia alla base, nota come OpenPose e sviluppata alla Carnegie Mellon Universityestrae la raffigurazione stilizzata delle persone in movimento dalle riprese video, consentendo l'analisi dei gesti "essenziali" (età, sesso, ambiente, ecc, sono "persi"). A partire da questa tecnologia i ricercatori svizzeri hanno sviluppato il proprio algoritmo, progettato ad hoc per rilevare i comportamenti autistici.
I test sono stati condotti su 68 bambini con sviluppo tipico e 68 bambini con autismo, tutti sotto i 5 anni, lasciati liberi di interagire giocando con un adulto. I primi 34 di ciascun gruppo hanno svolto la funzione di "addestratori" della IA per creare una "memoria" delle differenze comportamenti su cui la IA poteva imparare. Terminata questa prima fase, i bambini rimanenti hanno fornito il banco di prova dell'apprendimento dell'intelligenza artificiale. Un test successivamente esteso ad altri 101 bambini.
L'attività ludica è stata lasciata libera (nessuno scenario prestabilito) proprio per evitare bias nel test. Il risultato è una accuratezza predittiva del 80% ottenuta in 10' di analisi anche effettuata da remoto. Un particolare importante questo in quanto consentirebbe ai genitori preoccupati per i propri figli piccoli di ottenere una prima valutazione automatizzata dei sintomi dell'autismo.
Beninteso non si tratta di una analisi perfetta ma può essere un primo passo per decidere se è necessario il consulto con uno specialista.

Oltre alla assenza di invasività dell'analisi, un altro punto in favore di questo sistema automatizzato è che fornisce un completo anonimato anche delle immagini analizzate (persone stilizzate). Il sistema è utilizzabile anche su video di archivio, il che permetterà di estendere la casistica e migliorare la capacità predittiva.

Articoli precedenti sul tema --> autismo.

Fonte
- Using 2D video-based pose estimation for automated prediction of autism spectrum disorders in young children
Nada Kojovic et al, Scientific Reports volume 11, Article number: 15069 (2021) 




Gli striscianti vermi robotici si "fanno strada" verso nuove applicazioni tecnologiche

Robot ispirati ai lombrichi, superflessibili, elastici ed in grado di percepire l'ambiente circostante potrebbero trovare impiego in vari campi industriali e perfino nello sviluppo di protesi meccaniche.

Lo studio di fattibilità viene da un gruppo di ricerca dell'università di Glasgow che ha sviluppato robot con tipologia di movimento ispirata a quella dei lombrichi, grazie alla creazione di elettronica compatibile con superfici deformabili.
image credit: gla.ac.uk/news/

I ricercatori sperano che la loro scoperta possa portare a una nuova generazione di robot in grado di esplorare autonomamente luoghi difficili da raggiungere. Tra ke aree di impiego potenziale il settore minerario, l'edilizia e nelle operazioni di ricerca di sopravvissuti intrappolati sotto le macerie. Altri impieghi quello su protesi dotate della flessibilità assente in quelle attuali e dotare i robot della capacità di avvolgere e sollevare oggetti pesanti di forma irregolare.


Grazie alle precedenti esperienze sul campo, il team di ricerca è riuscito a costruire sensori di deformazione interni ai mini-robot vermiformi, lunghi circa 4,5 centimetri, ricoperti di una simil-pelle fatta di plastica (Ecoflex) e da un particolare pasta di grafite.
Alle due estremità del corpo tubolare dei robot, sono stati fissati piccoli magneti che li hanno resi in grado di muoversi su una superficie metallica. I sensori nella pelle li aiutano a "sentire" i loro movimenti (grazie alla variazione della resistenza elettrica nella grafite) indotta dalla deformazione sui loro corpi quando si espandono. Quando la resistenza raggiunge un valore massimo prestabilito, il corpo si contrae nuovamente con il risultato netto di un movimento in avanti.
La propriocezione è una caratteristica vitale di molte forme di vita biologica e gli scienziati sono stati a lungo ispirati a provare a sviluppare sistemi ingegnerizzati che imitassero questa capacità. Da qui lo sviluppo di sistemi robotici morbidi e flessibili capaci di muoversi.
Robot di questo tipo sono in grado di adattarsi ad ambienti ristretti e irregolari, preclusi a quelli di forma e struttura rigida. Tra gli utilizzi ipotizzati in passato per robot-vermi, la colonscopia.
Per altri articoli apparsi in questo blog sul tema robot ispirati a forme viventi (--> "Robotica") o più specificamente su robot simili a insetti (--> "RoboApi")  

Fonte
- Bioinspired Inchworm and Earthworm like Soft Robots with Intrinsic Strain Sensing
Karipoth, P. et al, (2021) Advanced Intelligent Systems


I neuroni ipotalamici che innescano il sonno REM solo quando la temperatura è adatta

È stato a lungo un mistero perché il sonno REM, o sonno da sogno, sia correlato con la temperatura della stanza, che non deve essere maggiore o minore di quello detto "confort". 

Alcuni ricercatori dell'università di Berna hanno osservato tempo fa che l'attività dei neuroni ipotalamici che producono l'ormone MCH (melanin-concentrating hormone) favoriscono la comparsa del sonno REM quando la temperatura ambientale percepita è ottimale (per cui l'organismo non deve implementare misure correttive).

Non si tratta di una osservazione meramente accademica data l'importanza della fase REM nel mantenere efficiente (e giovane) il cervello.
Il sonno REM, che copre circa il un quarto del sonno totale, non solo svolge un ruolo essenziale per la salute cerebrale ma una sua diminuzione è un indicatore precoce di invecchiamento e di deterioramento cognitivo.
Quando ci addormentiamo, entriamo nel sonno non-REM durante il quale abbiamo un respiro lento e regolare, con scarso o nullo movimento oculare. Dopo circa 90 minuti si ha un primo ingresso nella sonno REM (il passaggio avverrà varie volte durante il sonno con fasi REM sempre più lunghe) caratterizzato da maggiore attività cerebrale, respiro veloce e irregolare e movimenti oculari (da cui il nome).
Credit: I, RazerM via wikipedia

La fase REM è anche associata alla paralisi muscoli volontari, una "sicura" che impedisce di tradurre in movimenti "reali" le molteplicità attività svolte durante il sogno, e cosa che più ci interessa qui una diminuita capacità di di termoregolare (attività che consuma molte risorse energetiche). Quest'ultimo dato ha fornito il punto di partenza per indagare i circuiti neurali che permettono il sonno REM.
Secondo un'ipotesi, il sonno REM è una strategia comportamentale che sposta le risorse energetiche lontano dalla costosa difesa termoregolatoria verso attività di "manutenzione" e mantenimento di efficienza delle funzioni cerebrali. Una strategia "inventata" dai mammiferi per coniugare due funzioni essenziali ma dispendiose.

I dati raccolti sono concordi nell'evidenziare che una ristretta popolazione di cellule dell'ipotalamo agiscono su entrambi i suddetti fronti ma in modo "alternato". I ricercatori hanno dimostrato che i topi aumentano dinamicamente il sonno REM quando la temperatura della stanza supera la zona di comfort, in modo simile a quanto era stato visto negli umani. 
La conferma del dato in topi ha permesso test più approfonditi, impossibili negli umani, volti a testare la correlazione tra le suddette cellule e il sonno REM. Grazie a topi geneticamente modificati, funzionalmente privi del recettore per MCH, si è osservato che i topi non aumentavano il sonno REM durante il riscaldamento, esattamente quanto atteso dalla perdita di un sensore attivante la fase REM.
Nel dettaglio, lo spegnimento dei geni di interesse (e quindi della proteina oggetto di studio) è stato effettuato mediante tecniche di optogenetica (attivazione espressione genica mediante impulsi luminosi) con cui attivare/disattivare in modo selettivo i neuroni MCH durante la fase di riscaldamento ambientale.
I risultati confermano la necessità del sistema MCH nel facilitare l'ingresso in fase REM quando la necessità di controllo della temperatura corporea è ridotta al minimo. Tradotto, significa che questi neuroni non sono di per sé l'innesco della fase REM tout court ma dei facilitatori in determinate condizioni di sonno "ottimale".
Si tratta della prima dimostrazione funzionale del legame sonno REM-temperatura ambientale. Ragione in più per ottimizzare la temperatura dei luoghi in cui dormiamo e in cui il nostro cervello svolge la manutenzione programmata quotidiana.
Un articolo sul tema correlato (neuroni e sonno non-REM) lo trovate ––> "The brainstem neurons that regulate non-REM sleep"

Articoli precedenti su temi correlati --> "Indurre il sonno REM con un fascio di luce laser" oppure seguendo il tag --> "Sonno"

Fonte
- Dynamic REM Sleep Modulation by Ambient Temperature and the Critical Role of the Melanin-Concentrating Hormone System
Noëmie Komagata et al, Current Biology 29 (12) pp. 1976-87


Invisibilità e mimetismo: dalla natura al militare fino ... ad Harry Potter

L’invisibilità, o meglio “fondersi” con l’ambiente, fornisce un chiaro vantaggio selettivo in natura, sia che l’animale sia preda o predatore.
Un discorso simile vale in ambito militare dove la volontà di sfuggire ad ogni rilevazione nemica era perseguita anche nell’era pre-tecnologica; nell’era tech le possibilità di sviluppo sono aumentate enormemente. Certamente nella quasi totalità dei casi si rimane su una invisibilità intesa come occultamento/mimetizzazione ma ci sono anche molti esempi di invisibilità “tecnica” (gli aerei Stealth lo sono ai radar grazie all'assorbimento del segnale di rilevazione) fino ad arrivare a situazione fantascientifiche che sembrano emulare il mantello di Harry Potter (vedi la sezione a fondo pagina) 

Rimanendo in ambito mimetismo, uno studio interessante è quello pubblicato tempo fa sul Royal Society Interface dai ricercatori del Camo Lab di Bristol centrato su come trovare il colore ottimale per minimizzare o massimizzare la rilevabilità di un bersaglio.
Stabilire quali colori offrono la migliore resa di occultamento (o visibilità usando un approccio complementare) necessita di definire fattori quali la dimensione, distanza di osservazione,  altezza dal suolo, illuminazione, eterogeneità ambientale, …, nonché le caratteristiche del sistema visivo dell'osservatore.
Utilizzando sistemi basati su reti neurali profonde residue e machine learning più tecniche di elaborazione delle immagini i ricercatori hanno potuto predire quale fosse il colore ottimale che avrebbe minimizzato/massimizzato la visibilità del target.
Nota. La necessità di pesare i dati sul sistema visivo dell’osservatore è facilmente comprensibile usando come esempio il mantello della tigre. Mentre la sua livrea a noi appare facile da identificare in un ambiente sufficientemente aperto, questo colore “arancione” appare invece “verde” alle prede naturali della tigre (ad es. i cervi) a causa della loro visione dicromatica. Di fatto la tigre che si muove contro vento è del tutto integrata all’ambiente… e il cervo se ne accorge quando è troppo tardi
Image credit: bristol.ac.uk


*** Il "vero" mantello dell'invisibilità***
 Il mantello dell'invisibilità esiste solo nel regno della magia di Harry Potter. O no?

Se pensate che il mantello dell'invisibilità sia solo una invenzione di JK Rowling, la brava e geniale creatrice della saga di Harry Potter, vi sbagliate. Ci sono molti ricercatori impegnati a creare qualcosa di simile. 
picasion.com
Il mantello nella versione Harry Potter (picasion.com)
Diventare invisibili non è magia ma semmai (nella realtà) è più simile al trucco di un prestigiatore, dove invece della velocità delle mani, è la fisica dei materiali che permette di mascherare l'oggetto alla luce incidente.
Rendere gli oggetti invisibili vuol dire reindirizzare le onde elettromagnetiche in modo che "scivolino" attorno all'oggetto, senza che siano assorbite o riflesse.

Tra i gruppi di ricerca impegnati, quelli della Michigan Technological University hanno forse avuto le idee più interessanti.
Il problema principale, di non facile soluzione, è trovare il materiale giusto con cui ricoprire (o magari rivestire) l'oggetto che si vuole occultare. L'idea iniziale fu di utilizzare metamateriali metallici, progettati per possedere proprietà assenti nei metalli naturali, ma l'esito non fu del tutto soddisfacente.
Tre sono le forche caudine che un materiale "adatto" deve superare:
  • il primo è il controllo dell'anisotropia cioè il comportamento variabile delle onde che si propagano in diverse direzioni lungo il mantello.
  • In secondo luogo, è fondamentale che il materiale del mantello risponda ugualmente bene sia a onde elettromagnetiche con frequenze d'onda nel visibile che alle microonde; in caso contrario l'invisibilità sarebbe facile da smascherare.
  • Infine, i ricercatori devono riuscire a ridurre la dispersione della luce quando colpisce il materiale del mantello, un problema che oggi limita di molto la dimensione dell'oggetto da occultare.
Il materiale ideale del mantello deve "piegare" il percorso delle onde tutto intorno ad esso, solo così l'oggetto sembrerà invisibile. Vero che sono state sviluppate equazioni per predire la dispersione della luce sulla superficie del materiale in base alla struttura, ma è altrettanto vero che la ricerca del materiale adatto non è semplice.
Onde non perturbate uguale oggetto non visto
(credit: Creative Commons)
Nel corso della sperimentazione si è passati dai metamateriali a base metallica a quelli non metallici costituiti da risonatori dielettrici, scelti perché i materiali dielettrici hanno conduttività trascurabile e bassa perdita. La prima scelta ricadde su risonatori a base vetroceramica o calcogenuro, particolarmente efficaci con microonde e infrarossi, rispettivamente, per poi passare a materiali multistrato fatti da dielettrici ordinari. Dielettrici dotati di effetto lente furono infine sviluppati perché più efficaci nel coprire superfici ampie.
La ragione della scelta di risonatori è indurre le onde elettromagnetiche a rimbalzare avanti e indietro, nello stesso modo in cui un diapason funge da risonatore sonoro. Un trucco che consente di controllare la propagazione delle onde sulla superficie.
L'ultimo ritrovato di cui sono a conoscenza (pubblicato 2 anni fa sul Journal of Optics) sono i cristalli fotonici cioè cristalli composti da mini bastoncelli con proprietà dielettriche. Il vero vantaggio rispetto ai metamateriali, è che la risonanza in questi cristalli non è limitata a specifiche lunghezze d'onda, adatti quindi agli scopi di mascheramento.
I cristalli fotonici sono strutture ottiche periodiche capaci di controllare il flusso della luce impedendo ogni propagazione attraverso essi. Grazie a riflessioni multiple su strati di superfici separate tra loro da spazi minimi (parliamo di distanze intorno alla lunghezza d'onda incidente) si riesce in effetti ad impedire al raggio ottico di propagarsi attraverso il cristallo. Per quanto il nome possa fare pensare a materiali da fantascienza, queste strutture sono presenti in natura, ad esempio sulle ali di alcune farfalle. Per approfondimenti  vi rimando al sito --> Photonics.
Un'altro dei vantaggi teorici dei cristalli fotonici è che permettono alle onde propaganti di raggiungere velocità apparenti supra-luminali (vedi dettagli su --> Scienceworld Wolfram) il che permette di preservare il fronte d'onda incidente quando le onde si curvano oltre l'oggetto ammantato.
Tradotto significa che la velocità delle diverse fasi dell'onda sono diverse nelle varie facce di cristallo, creando onde contrastanti che generano l'illusione dell'invisibilità.

Al di là delle complicazioni tecniche, è ben chiaro che sistemi di occultamento simili rivestono un ruolo chiave sia per la sicurezza nazionale che a scopo industriale.
E le applicazioni vanno ben oltre l'invisibilità alle onde elettromagnetiche. Si possono immaginare (e alcuni sono in fase di sperimentazione) materiali capaci di curvare le onde sismiche attorno ad edifici storici (rendendoli quindi "invisibili" alla forza agente) e altri in grado di minimizzare l'impatto della corrente dei fiumi sui pilastri di un ponte o ancora l'impatto dell'acqua sulla prua di una nave.
Un pilastro "invisibile" all'azione dell'acqua
Credit: J. Park et al., Phys. Rev. Lett. (2019) via phys.org
"invisibilità" alle onde sismiche (credit: Popular Science)

Altro esempio di invisibilità dovuta ad effetti ottici lo abbiamo con il Rochester Cloak

Se non vedi il video ->youtube. Un video più dettagliato è presente QUI.


Se però non avete alcun interesse per le applicazioni scientifiche o volete stupire subito gli amici con mantelli alla Harry Potter, allora la scelta migliore è quella di dare uno sguardo ai prodotti della Wow! Stuff. Tra gli oggetti da loro venduti c'è quello usato durante la realizzazione del film. Si tratta di un mantello apparentemente uguale agli altri ma che appare trasparente quando viene ripreso da uno smartphone su cui è installata la app del produttore. Chi guarda attraverso il display o guarda il filmato avrà l'impressione di un mantello capace di occultare chi lo indossa .
Vedere per credere.
"Ora anche i babbani possono diventare invisibili" grazie alla App
(prodotti disponibili su Amazon ––> Wow! Stuff)




Fonti
- Superluminal media formed by photonic crystals for transformation optics-based invisibility cloaks
Elena Semouchkina et al, Journal of Optics (2016)

- Invisibility Cloak With Photonic Crystals
Allison Mills, Michigan Technological University

- Beyond Good Vibrations: New Insights into Metamaterial Magic
Michigan Technological University

- Full ‘invisibility cloak’ is possible in the real world
Globalnews.ca (2018)

- Two teams build invisibility cloaks for water applications
phys.org (2019)

- Dashing the Dream of Ideal ‘Invisibility’ Cloaks for Stress Waves
Georgia Tech (2019)




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