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Le dimensioni non contano. Saturno ha più lune di Giove

Aggiornamento 06/2023

Contrordine del contrordine. Le dimensioni NON contano
Poco più più di 3 anni fa avevo scritto di come la scoperta di nuove lune intorno a Saturno avesse fatto superare il record gioviano rendendo il primo (e più piccolo - di massa e volume) il vincitore.
Qualche tempo dopo la scoperta di nuove lune intorno a Giove aveva riportato il primato al gigante. Passano alcuni mesi ed ecco che un team canadese scopre in un colpo solo altre (piccole) 62 lune portando il computo finale della disfida Saturno-Giove a 145:95 

Certo che definibile veri satelliti è alquanto forzato (ma la decisione è stata vidimata dagli enti preposti) visto che le 12 nuove arrivate hanno un diametro compreso tra 1 e 3 chilometri; sono anche abbastanza lontane dal pianeta con tempi di rivoluzione che in un caso arrivano a 550 giorni.
Gli altri pianeti seguono molto da lontano con Urano (27), Nettuno (14), Marte (2) e ovviamente la Terra (1). 
Tra le missioni future che potrebbero fornire dati diretti da queste lune c'è Juice (Jupiter Icy Moon Explorer), programmata dall'ESA tra due mesi, e Europa Clipper (della NASA) prevista per il 2024.
Image credit: Roberto Molar-Candanosa / Carnegie Institution for Science

Fonte


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Le dimensioni non contano. Saturno ha più lune di Giove (10/2019)

Sembrarà strano ma a distanza di 400 anni da quando Galileo descrisse per primo le lune di Giove (--> lune galileiane o medicee), ci sono ancora incertezze sul numero di satelliti orbitanti attorno ai due pianeti più grandi del sistema solare.
La ragione è sia nella estrema eterogeneità dimensionale delle lune (quelle di Giove hanno diametro che va da 1 km di LIX fino ai 5200 km di Ganimede) che nella difficoltà di visualizzarle, soprattutto nel caso di Saturno a causa del suo anello di detriti.

Ed è proprio da Saturno che arriva la notizia del sorpasso con la scoperta di lune "nascoste" portando ill tabellone ad un baskettistico 79 a 82. Il sorpasso ha preso tutti di sorpresa perché Giove, soprattutto dopo la scoperta l'anno scorso di 12 nuove lune, conduceva in modo tranquillo la "gara". L'identificazione di ben 20 nuovi satelliti di Saturno ha capovolto la classifica, che oramai può essere considerata definitiva visto che difficilmente avremo sorprese in ambito gioviano. 
A onor di cronaca non si tratta nemmeno di lune borderline cioè con dimensioni quasi asteroidali, visto che il loro diametro è in tutte di circa 5 km. Degno di nota il fatto che 17 di queste lune abbiano un'orbita retrograda, cioè in direzione contraria alla rotazione di Saturno, ad indicare ipotetiche remote collisioni che come in un flipper abbia spinto i satelliti su orbite opposte.
In verde e blu l'orbita delle "nuove" lune di Saturno.
Il periodo orbitale delle nuove lune oscilla tra i 2 anni di quelle prossimali ai 3 anni di quelle esterne. Gli astronomi sono concordi nel ritenere queste lune il risultato della frantumazione di una luna più grande, evento che potrebbe essere stato conseguenza di una collisione o più probabilmente di una disintegrazione operata dalle gravità di Saturno su una luna avvicinatasi troppo (la distanza minima che un corpo può raggiungere prima di essere disintegrato è definito dal limite di Roche, la distanza oltre  la quale l'azione gravitazionale è dominante sulle forze di coesione dell'oggetto)

Video riassuntivo 


Le lune sono state scoperte grazie al telescopio Subaru posizionato in cima a Mauna Kea alle Hawaii grazie al lavoro di team appartenenti alla Carnegie Science della UCLA. 

Gli stessi astronomi avevano identificato l’anno scorso 12 nuove lune gioviane, dando così il via ad una gara involontaria tra i due giganti su chi “ne avessse di più”.
Per chi fosse interessato è stato attivato un concorso per battezzare i nuovi satelliti con nomi meno asettici delle classiche sigle astronomiche. 
Chi volesse partecipare può farlo su twitter (@SaturnLunacy) usando l’hashtag #NameSaturnsMoon
Maggiori informazioni sul sito della --> Carnegie Science.

La scoperta rende necessario aggiornare l'atlante delle lune del sistema solare di cui avevo scritto qualche mese fa --> L'atlante interattivo delle lune del sistema solare.


Fonte
- Saturn Surpasses Jupiter After The Discovery Of 20 New Moons And You Can Help Name Them!


Pesticidi comuni e rischio Parkinson

Poco più di 10 anni fa scrivevo dei forti indizi tra l'uso estensivo di pesticidi e il rischio di contrarre il morbo di Parkinson (vedi articolo in calce).
Nel 2023 il dato pare essere stato confermato con l'identificazione di 10 pesticidi tossici per i neuroni dopaminergici (direttamente coinvolti nel movimento volontario).
Credit: neurosciencenews.com
Ecco un breve riassunto
I ricercatori hanno individuato 10 pesticidi che danneggiano in modo significativo i neuroni coinvolti nell’insorgenza della malattia di Parkinson.
Sebbene fattori ambientali come l’esposizione ai pesticidi siano stati a lungo collegati al Parkinson, identificare con certezza il/ vero/i responsabile di questa malattia neurodegenerativa si è rivelata una prova ardua per l'assenza di test specifici
Il nuovo studio pubblicato l'anno scorso su Nature Communications ha esaminato i pesticidi più in uso in California (grazie ad un database molto accurato) con test innovativi per identificare quelli direttamente tossici per i neuroni dopaminergici, cellule cruciali per il movimento volontario.
Il risultato ha mostrato che almeno 10 pesticidi (alcuni ancora presenti) usati nella coltivazione del cotone mostravano effetti diretti su queste cellule. Tra gli effetti più forti le combinazioni di pesticidi che contengono trifluralin, uno degli erbicidi più usati in California.

A parte la loro tossicità nei neuroni dopaminergici, i pesticidi identificati hanno poco in comune sia nella struttura/classe di molecole che come gamma di utilizzo

Nel prossimo futuro i ricercatori si focalizzeranno sullo studio delle alterazioni epigenetiche e metabolomiche legate all’esposizione cercando di capire quali sono i circuiti alterati che portano alla morte delle cellule dopaminergiche


Fonte
- A pesticide and iPSC dopaminergic neuron screen identifies and classifies Parkinson-relevant pesticides
Richard Krolewski et al. Nature Communications


***

Pesticidi e Parkinson: ricercatori UCLA identificano un nuovo collegamento
(26(0/2013)
Il morbo di Parkinson (PD) è una malattia neurodegenerativa invalidante che colpisce milioni di persone in tutto il mondo. I sintomi caratteristici - tra cui tremore, rigidità, difficoltà nei movimenti e della parola - sono il risultato della morte dei neuroni posti nella substantia nigra, un'area particolarmente ricca di neuroni dopaminergici. Quando il Parkinson si manifesta, circa la metà dei neuroni dopaminergici in questa area sono già morti.

Salvo quei casi in cui esiste una familiarità della malattia, le cause principali sono da ricercarsi in inquinanti ambientali.

Per diversi anni i neurobiologi della UCLA hanno cercato conferme sul nesso tra la presenza di pesticidi e morbo di Parkinson. Ad oggi, il paraquatmaneb e ziram - alcune fra le sostanze chimiche più usate dagli agricoltori californiani - sono tra i principali indiziati (mancano infatti dati conclusivi) dell'aumentata frequenza della malattia sia nei contadini che tra le persone che vivevano in vicinanza dei terreni trattati. 
Detto per inciso è curioso che i tanti avversari degli OGM (in uso da 10 anni e senza alcun elemento di tossicità trovato) non abbiano invece alcuna remora nel consumare vegetali trattati con prodotti simili. Curioso visto che il vantaggio principale della agricoltura OGM è di ridurre al minimo i trattamenti chimici.
 Come se non bastasse ecco che ora, grazie allo studio di Jeff Bronstein pubblicato sulla rivista PNAS, un nuovo pesticida viene fatto salire sul banco degli imputati, il benomil, i cui effetti tossici ambientali sono ancora presenti a 10 anni di distanza dalla proibizione da parte della EPA (Environmental Protection Agency) americana. Ma un dato è ancora più inquietante: l'aumentata incidenza di Parkinson sarebbe causata da un effetto indiretto del pesticida.

Alcuni dati riassuntivi a tal riguardo. 
Il benomil inibisce un enzima, la aldeide deidrogenasi (ALDH), importante nel processo di detossificazione della diidrossifenilacetaldeide (DOPAL) un metabolita naturale della dopamina cerebrale. E' evidente che se l'enzima viene inibito, il sottoprodotto tossico (del tutto fisiologico) della dopamina aumenta. Quindi in questo caso non è l'erbicida in se ad essere tossico, ma il suo effetto indiretto. Per spiegarmi meglio, i test di tossicità condotti a suo tempo avrebbero potuto dare segnali allarmanti solo se fossero stati condotti sul metabolismo dei neuroni dopaminergici.
Questo per quanto riguarda i dati di laboratorio, che sono indiziari e non conclusivi vista l'ovvia impossibilità di fare studi sull'uomo.
In ambito scientifico ogni ipotesi per essere validata necessita di studi di causa-effetto. L'unica strada percorribile quindi è stata quella di integrare i dati da colture cellulari con quelli ricavati da animali.
I risultati non si sono fatti attendere: test in zebrafish hanno dimostrato che il benomil colpisce prevalentemente i neuroni dopaminergici lasciando inalterati gli altri neuroni.
 
E' probabile che la comparsa del PD sia il risultato della somma di concause ambientali (inquinanti vari) e di predisposizione genetica. Ad oggi i geni (o meglio gli alleli) noti per essere fattori di predisposizione sono la alfa-synuclein e LRRK2. In entrambi i casi il risultato autoptico mostra la degenerazione dei neuroni della substantia nigra pars compacta a causa dell'accumulo dei corpi di Lewy (ricchi di alfa-synuclein).
Ora con la scoperta di un nuovo meccanismo le possibilità di sviluppare una terapia raddoppiano. Come? Ad esempio mediante farmaci in grado di preservare l'attività della ALDH.

Fonti
Pesticides and Parkinson's: UCLA researchers uncover further proof of a link.

 - Aldehyde dehydrogenase inhibition as a pathogenic mechanism in Parkinson disease
   Proc Natl Acad Sci U S A. 2013 Jan 8;110(2):636-41.
   



Viaggio virtuale al centro di un buco nero e immagini a luce polarizzata da Sgr A*

Articolo aggiornato per inserire l'ultima simulazione fatta dal supercomputer della NASA per "visualizzare" il viaggio di una sonda all'interno di un buco nero

credit: NASA


***  Le immagini a luce polarizzata del buco nero al centro della Via Lattea ***
20/3/2024

Sono passati circa due da quando riportai le prime immagini del buco supermassiccio al centro della nostra galassia (l'articolo riproposto in calce al presente) che seguiva la prima visualizzazione in assoluto di giganti del genere fatta nella galassia M87.

Il "nostro" buco pur se distante "solo" 27 mila anni luce è oltre mille volte più piccolo di quello nel cuore di M87, da cui la maggior difficoltà nel visualizzarlo.
Nelle scorse settimane sono stati presentati nuovi dati frutto delle osservazioni effettuate sempre mediante l'Event Horizon Telescope (EHT). La vera novità è l'immagine di Sagittarius A* fatta in luce polarizzata, così da mostrare la struttura a spirale degli intensi campi magnetici, molto simile a quella di M87*; dato che suggerisce come questi campi siano comuni a tutti (o a molti) buchi neri supermassicci.
Le linee sull'immagine indicato la direzione della luce polarizzata
Credits: EHT Collaboration
La differenza analitica fatta dall'osservazione in luce polarizzata è che nella regione che circonda un buco nero "gigante" le particelle sono in uno stato noto come plasma (gas ionizzato caldissimo) e come tali si muovono sulle linee di campo magnetico. Il risultato è la polarizzazione della luce perpendicolare al campo e con essa la possibilità di studiare cosa stia avvenendo in questa zona.
cc
Confronto a luce polarizzata tra M87* e Sgr A*
Credits: EHT Collaboration


*** 
Finalmente ecco il buco nero al centro della nostra galassia
(24/5/2022)
Arriva oggi al traguardo il lavoro di visualizzazione dei buchi neri supermassicci ospitati al centro delle galassie. 
La prima parte dello studio era stata pubblicata nel 2019 con la visualizzazione del buco nero M87* (sito nella galassia Virgo A, vedi l'articolo dedicato), ora conclusa con la pubblicazione su The Astrophysical Journal Letters dell'immagine di Sagittarius A star (Sgr A*).
Sgr A* (image credit: EHT Collaboration via 
@ehtelescope

Il tour di force nella raccolta dati (letteralmente, data la mole di 4 petabytes) avvenne nel corso di 5 giorni nel 2017, con il contributo di ricercatori ai quattro angoli della Terra, afferenti a 8 telescopi che grazie a particolari tecniche crearono un unico telescopio virtuale (Event Horizon Telescope) "grande" quanto la Terra. Uno sforzo tecnico necessario per riuscire a catturare i dettagli non tanto del buco nero (per definizione invisibile) quanto delle zone immediatamente adiacenti da cui provengono i segnali.
Un conto è stata la pur ardua raccolta dati e tutt'altro è stata l'elaborazione degli stessi, per cui sono stati necessari quasi 7 anni.

Per quanto possa apparire strano, è stato più semplice elaborare i dati per visualizzare un buco nero in un'altra galassia, distante 57 milioni di anni luce, rispetto al "nostro" (inteso come galassia) distante poco meno di 26 mila anni luce.
La spiegazione è che pur avendo all'incirca la stessa dimensione apparente nel cielo, M87* è molto più grande (quasi 2 mila più lontano ma 1600 volte più grande). Oltre a meri fattori dimensionali, osservare qualcosa al centro della Via Lattea, data la nostra posizione su un braccio laterale della spirale, è meno "pulito" che guardare al centro di un'altra galassia "di fronte".
Ma perché scegliere M87* invece di, ad esempio, Cygnus X1, che con una distanza di 6 mila anni luce è più vicino a noi perfino di Sgr A*? Anche in questo caso la ragione è meramente dimensionale: il buco nero al centro di Cygnus ha massa di solo poche volte quella solare, quindi debole (Sgr A* e M87* hanno 4 milioni e 7 miliardi di masse solari, rispettivamente).
Nonostante una massa considerevole, Sgr A* é praticamente invisibile ai telescopi ottici a causa della polvere e dei gas presenti nel disco galattico. Già alla fine degli anni 90 comunque, i ricercatori si resero conto che il "velo" di oscurità poteva essere superato dalle onde radio; il problema era che, data la loro lunghezza d'onda, per rilevare queste onde sarebbe stato necessario avere un telescopio delle dimensioni della Terra. Impossibile fattivamente ma non pensando ad un telescopio virtuale, cioè usando l'interferometria per correlare telescopi presenti nei diversi punti del globo.
Come creare un telescopio virtuale grande come la Terra
Image credit: Event Horizon Telescope via nature.com
I primi tentativi utilizzarono onde radio di 7 millimetri e telescopi a poche migliaia di chilometri di distanza. L'immagine ottenuta era sfocata. Bisognava fare un passo ulteriore  migliorando le infrastrutture e ampliando la dimensione (virtuale) del telescopio terrestre. Tra i telescopi aggiuntisi per raggiungere la "capacità" analitica critica, il South Pole Telescope e l'Atacama Large Millimeter/submillimeter Array in Cile.
Un'altra difficoltà riscontrata durante l'analisi di Sgr A* era la minore stabilità dei suoi "dintorni". Date le dimensioni di M87*, la materia che ruota intorno ad esso si trova a distanze superiori a quelle dell'orbita di Plutone dal Sole; al contrario la materia che, surriscaldata, origina il segnale da Sgr A* si trova ad una distanza inferiore di quella di Mercurio dal Sole.
A questo si aggiungeva che la radiazione proveniente da M87* rimaneva sostanzialmente stabile nell'arco di giorni mentre quella di Sgr A* mostrava variazioni ogni decina di minuti. 

M87* e Sgr A* a confronto
(Image credit: EHT collaboration via ESO.org)
A causa di questa variabilità, i ricercatori del EHT hanno dovuto prima generare migliaia di immagini di Sgr A* e infine fare la media delle caratteristiche comuni, per ottenere una media affidabile.
Per visualizzare M87* una immagine era stata sufficiente per essere riproducibile.

L'immagine di Sgr A* ricorda quella di M87* con la presenza di un anello di radiazione che circonda una zona scura, esattamente delle dimensioni previste sia da osservazioni indirette (orbita delle stelle adiacenti) che dalla relatività generale. Tra le differenze visive rilevate, la forma a mezzaluna della regione più luminosa in M87* indica, forse, zone a maggior densità accelerate lungo la nostra linea di osservazione.
Da simulazioni condotte con supercomputer i ricercatori hanno dedotto che Sgr A* ruota in senso antiorario lungo un asse che punta verso di noi, quindi una immagine quasi frontale invece che "di taglio" come quella di M87*.

Pronti per un viaggio virtuale al centro della nostra galassia?



Fonte
- Focus on First Sgr A* Results from the Event Horizon Telescope
Geoffrey C. Bower (2022) The Astrophysical Journal Letters








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