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I momenti chiave della Missione Rosetta

Immagine artistica del momento della separazione tra Rosetta e Philae (ESA - C. Carreau/ATG medialab)
La fase fondamentale della missione Rosetta si è conclusa lo scorso 15 novembre con l'atterraggio del lander Philae sulla superficie della cometa 67P/Churyumov- Gerasimenko, l'esecuzione dei prelievi previsti e la successiva "entrata in letargo" prevista con lo scaricamento delle batterie.
La missione promossa dall'Agenzia Spaziale Europea (ESA) non è in realtà archiviata; nonostante il lander non sia atterrato nel modo previsto essendo finito in una depressione del terreno e parzialmente inclinato (due eventi che hanno impedito di dispiegare correttamente i pannelli solari e catturare sufficiente energia per ricaricare la batteria) la speranza è che con il progressivo avvicinamento al Sole la quantità di luce "catturabile" diventi sufficiente per risvegliare il lander. La sonda Rosetta nel frattempo farà da "scorta" alla cometa (e quindi al lander). Questo il commento a riguardo fornito da Andrea Accomazzo, direttore di volo, “Rosetta continuerà le osservazioni di routine. Si passa alla fase che definiamo come quella 'di scorta', che durerà fino all’anno prossimo, quando la cometa si avvicinerà al Sole e supererà il perielio, il punto più vicino, il 13 agosto, passando a circa 186 milioni di chilometri dalla nostra stella”.
In rosso la traiettoria e posizione della cometa al momento dell'incontro con la sonda Philae (vedi QUI per la posizione attuale)
In attesa di quella data e delle immagini probabilmente spettacolari che ci fornirà, riassumiamo visivamente i momenti salienti della missione.

Vi consiglio di visualizzare/scaricare il poster ad alta risoluzione in formato PDF che ricostruisce i punti salienti, messo a disposizione dalla rivista Nature (qui).
La missione, dopo una serie di rinvii, ebbe inizio il 2 marzo 2004 con il lancio della sonda dalla base di Kourou nella Guyana francese.
Philae (Credit: ESA/ATG medialab)
Rosetta (Credit: ESA/ATG medialab)

A fianco i due protagonisti della missione, la sonda Rosetta e il lander Philae. Ovviamente le dimensioni relative sono sfalsate.



La cronistoria essenziale:
  • Primo sorvolo della Terra (marzo 2005)
  • Sorvolo di Marte (febbraio 2007)
  • Secondo sorvolo della Terra (novembre 2007)
  • Sorvolo dell'asteroide 2867 Šteins (5 settembre 2008)
  • Terzo sorvolo della Terra (novembre 2009)
  • Sorvolo dell'asteroide 21 Lutetia (10 luglio 2010)
  • Ibernazione nello spazio profondo (luglio 2011 - gennaio 2014)
  • Avvicinamento alla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko (gennaio-maggio 2014)
  • Mappatura della cometa (agosto 2014)
  • Atterraggio sulla cometa (12 novembre 2014)
  • Prosegue il viaggio come scorta della cometa nel suo viaggio intorno al Sole (novembre 2014 - dicembre 2015)
La rotta seguita da Rosetta nel suo percorso di avvicinamento alla cometa (©Garafatea at Wikipedia)

Philae è rimasto attivo sulla cometa per sole 64 ore, ma in questo tempo il lander è riuscito a eseguire gran parte dei compiti previsti dalla missione, come il prelievo e l'analisi di alcuni campioni sotto la superficie della cometa. Tra gli obbiettivi della missione, scoprire la presenza di residui organici complessi (anche il metano è un composto organico ma chiaramente non è un marcatore affidabile di vita organica); un compito importante per avvalorare lo scenario del contributo spaziale alla vita su un pianeta. 
Nota. E' importante sottolineare che questa "scintilla" spaziale è come il fornire ingredienti per cucinare. Il bombardamento a cui è stata sottoposta la Terra (ma anche ogni altro pianeta in un sistema in formazione) può avere aiutato incrementando la materia prima, i mattoni organici, perché la vita per come noi la conosciamo, potesse comparire. Una teoria ragionevole ma che nulla ha a che vedere con le visioni new-age di una Terra primordiale inseminata di proto-creature da una qualche civiltà evoluta (che ha avuto poi almeno 3,8 miliardi di anni di tempo per vedere la comparsa dell'Homo) o addirittura da qualche demiurgo con altrettanto tempo a disposizione.

Le prime immagini ad alta risoluzione prese a luglio 2014 dalla sonda nella fase di avvicinamento alla cometa, stupirono alquanto gli scienziati data la forma a "paperella di gomma" lunga 4 chilometri della cometa. "E' stata una piacevole sorpresa" dice Stephen Lowry, un astrofisico dell'università di Kent (UK). Una forma curiosa ma anche maggiori difficoltà per programmare l'atterraggio (o meglio "accometaggio") di Philae; in conseguenza la probabilità che Philae attraccasse correttamente sulla cometa passarono dal 70-75% al 50%.



L'immagine della cometa 67P, vista da Rosetta il 3 agosto quando si trovava ad una distanza di circa 79 km dalla cometa.
Per immagini dettagliate --> QUI.

Credit: ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA
Altro problema emerse dalla diagnostica degli strumenti di bordo: la prima delle due valvole che controllano il flusso di carburante non rispondeva ai radiocomandi dalla Terra. In assenza dei razzi di controllo che sarebbero entrati in azione dopo lo sgancio del lander dalla sonda non rimaneva altro che affidarsi ai calcoli balistici e, soprattutto, agli arpioni di bordo che una volta giunti a circa 100 metri dalla superficie sarebbero stati lanciati (grazie ad un interruttore piezoelettrico) ancorando il lander nella posizione voluta.
Un "selfie" di Rosetta con la cometa il 7 ottobre (Credit: ESA/Rosetta/Philae/CIVA)

Il sito scelto per l'attracco, Sito-J detto anche Agilkia, era nella "testa" della cometa, allo scopo di tutelarsi da ulteriori inconvenienti come problemi nell'aggancio (proprio quello che si verificò) che avrebbero inevitabilmente fatto rimbalzare il lander a causa della microgravità. Il rischio era che se l'attracco fosse avvenuto sulla "coda" al secondo rimbalzo il lander si sarebbe perso nello spazio.





L'immagine di Rosetta vista da Philae subito dopo il distacco mentre sta "precipando" sulla cometa.
Credit: ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA

Una elaborazione video del processo del distacco di Philae (Copyright ESA/ATG medialab link originale)

Se non vedete il video andate direttamente sul --> sito ESA
 
L'immagine della cometa quando mancano 40 metri al contatto
(Credit: ESA/Rosetta/Philae/CIVA)

Il video di seguito è stato ottenuto unendo le immagini scattate dalla sonda nelle fasi di avvicinamento al suolo della cometa.


Durante l'attracco la sgradita sorpresa fu che dopo la valvola di alimentazione anche il contatto piezoelettrico non rispose al radiocomando terrestre e quindi gli arpioni rimasero dentro Philae. Il lander toccò la cometa una prima volta e rimbalzò circa tre volte, la prima delle quali rimase in aria circa 1 ora fino ad urtare la sommità di una "montagna". Al terzo rimbalzò si assestò sulla superficie in modo non ottimale ma tutto sommato accettabile.

(Credit: ESA/Rosetta/Philae/CIVA)
Qui sopra la prima immagine inviata da Philae dopo essersi "assestata" sulla superficie della cometa; l'immagine è stata ottenuta grazie al CIVA (Comet nucleo Infrared e Visible Analyzer). Si può vedere il posizionamento problematico sulla superficie, con la sonda inclinata su un lato e a contatto con una parete rocciosa. Uno dei tre piedi del Lander è visibile in primo piano. 
Grazie a quel poco di luce solare catturata e usando in toto le batterie, Philae ha da quel momento iniziato la sua corsa contro il tempo per forare la superficie e prelevare dei campioni da analizzare.

La sequenza dell'atterraggio (e dei rimbalzi) vista da Rosetta
  (Credit: ESA/Rosetta/MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA)

Le immagini riprese da Rosetta hanno permesso di ricostruire in dettaglio tutte le fasi dell'atterraggio e dei "capitomboli" successivi prima di ancorarsi alla posizione definitiva. I ricercatori pensano che dopo essere attraccato Philae sia rimbalzato per circa 1 chilometro.


Con il progressivo esaurimento dello stato di carica della batteria, gli addetti al controllo hanno cercato di attuare una manovra "last-minute" per orientare correttamente la posizione dei pannelli solari, con la speranza di prolungare l'attività di Philae e/o facilitarne il risveglio nei mesi successivi. 
Cosa avverrà lo scopriremo solo la prossima estate.

L'evoluzione dell'orbita di Rosetta intorno alla cometa. Potete trovare il video QUI (Credit: ESA)



****
Il 13 giugno Philae si è risvegliata ---> articolo successivo sul blog
***

A gennaio 2016 si fa il punto della situazione e a pianificare come "terminare" la missione --> "La fine della Missione Rosetta"  



Fonti e link utili
- ESA---> qui e immagini HQ.
- NASA
- Blog ESA sulla missione



Pompelmo e dieta. Basi scientifiche e avvertenze

Mese che passa, dieta che trovi.
Alcune delle quali molto fantasiose (articolo precedente su --> dieta del gruppo sanguigno), altre oramai consolidate, pur se con tutti i limiti legati al buonsenso e alla necessità per i non addetti ai lavori di farsi seguire da personale qualificato.
Tra gli alimenti pro-dieta il pompelmo ha sempre ricoperto un ruolo centrale vuoi per il suo sapore asprognolo, a chi piace, che per la pubblicità indiretta fornita dalle riviste di gossip a cui ogni tanto "sfugge" la notizia di una star hollywoodiane invaghita di questo frutto per le sue (presunte) proprietà dietetiche.
Niente da ridire dato che anche io amo usarlo come spuntino di mezzo pomeriggio.
(wikipedia)
Tuttavia, quando si parla di pompelmo è necessario sottolineare alcune sue caratteristiche fondamentali da un punto di vista medico: il pompelmo ha controindicazioni anche molto importanti, se preso in associazione con farmaci, anche abbastanza comuni.
Il pompelmo, o meglio alcuni dei suoi componenti appartenenti alla classe delle furanocumarine, ha infatti la caratteristica di inibire enzimi chiave del sistema di detossificazione cellulare, il sistema che modifica le molecole assorbite dall'organismo rendendole più facilmente eliminabili dal rene (per dettagli vedi articolo precedente ---> qui).
Se non prendete alcun farmaco non vi dovete preoccupare di nulla dato che il frutto (a dosi ragionevoli) non presenta controindicazioni, fatta salva l'eventuale intolleranza personale. Se il medico vi prescrive un farmaco, o ne acquistate uno da banco in farmacia, fatelo presente o controllate sul foglietto illustrativo che il farmaco in questione non sia tra quelli "a rischio". L'inibizione del citocromo P450 3A4 è infatti irreversibile e ci vogliono dai 3 ai 7 giorni, dall'ultimo pompelmo ingerito, perché le cellule ne risintetizzino in quantità sufficiente (Clin Pharmacol Ther. 2000 Oct;68(4):384-90). In assenza di farmaci questo non è un problema dato che il sistema di detossificazione è ridondante ma nel caso di assunzione di farmaci, la carenza del sistema può portare ad un sovradosaggio o a un sottodosaggio funzionale, a seconda della farmacocinetica.
Dopo questa precisazione, possiamo tornare al legame pompelmo-dieta, effetto finora aneddotico in quanto gli studi condotti erano o incompleti o statisticamente insufficienti per capire se l'effetto dimagrante fosse reale o una suggestione (chiaramente in associazione ad una dieta equilibrata). Un articolo pubblicato qualche mese fa sulla rivista PLoS ONE ha fornito evidenze in favore di un suo effetto pro-dimagrante.
Lo studio è stato condotto da un team della University of California a Berkeley, e si è avvalso di topi nutriti con una dieta ricca di grassi a cui è stato dato da bere succo di pompelmo diluito (senza polpa) o acqua (vedi sotto per i dettagli sperimentali). I topi che avevano bevuto succo di pompelmo erano meno ingrassati (il 18 per cento in meno) rispetto ai controlli. Non solo, l'effetto benefico "protettivo" era evidente anche dall'analisi dei livelli ematici di glucosio, insulina e trigliceridi; in tutti i casi i valori registrati erano nettamente migliori rispetto ai controlli.

Alcune precisazioni:
  • si parla qui di minor guadagno di peso durante una dieta ad alto contenuto di grassi (ma con uguali calorie rispetto al controllo) e non di un dimagrimento tout-court. Il pompelmo non ha infatti proprietà anoresizzanti.
  • L'effetto del pompelmo sul peso e sui parametri ematici è stato osservato SOLO nei gruppi alimentati con dieta ad alto contenuto di grassi. O meglio, negli altri topi gli effetti sono molto più sottili e si limitano ad una riduzione del colesterolo "cattivo". Questo ci dice due cose. In primis l'effetto appare come una riduzione dell'aumento di peso e non di una riduzione di peso in senso generale. Secondo, l'effetto sui topi con dieta bilanciata potrebbe necessitare di troppo tempo (per la vita media di un topo) per potere essere rilevato
  • Un dubbio legittimo nasce dal fatto che parte dello studio è stato finanziato da una cooperativa di produttori californiani di pompelmo. Sebbene non vi siano dubbi circa la bontà scientifica dello studio, il dubbio che è lecito porsi è se si sarebbe data uguale attenzione a risultati di segno opposto. A questo proposito i ricercatori hanno sottolineato di non avere mai subito condizionamenti o influenze sul come "disegnare" lo studio.
 C'è però un problema di fondo (generale e non legato al caso specifico) che nasce dalla oggettiva rarità di trovare articoli contenenti risultati negativi, dove per negativo si intende "assenza di effetto rispetto all'ipotesi da provare". Il che ha un senso in quanto lo scopo della ricerca è sempre stato dimostrare qualcosa e non dimostrare l'infondatezza di ipotesi astruse. Un problema non secondario soprattutto nella ricerca clinica dove fino a poco tempo fa gli studi falliti finivano semplicemente nel dimenticatoio rendendo impossibile agli altri ricercatori imparare dagli errori (spesso totalmente inattesi) altrui.
I dati presentati in questo lavoro, giusto per essere chiari, sono passati attraverso il filtro della revisione di altri ricercatori del campo. Si può quindi ragionevolmente affermare che l'effetto "anti-ingrassante" del pompelmo è stato dimostrato. Nessuna evidenza invece riguardo a proprietà dimagranti.

Alcuni dettagli su come è stato condotto lo studio.
I topi, divisi in sei gruppi, sono stati alimentati per 100 giorni con una dieta diversa per contenuto di grassi (il 10 o il 60% del totale ma isocalorica) e con una bevanda a base di pompelmo (10-50% in volume) o acqua nel caso del gruppo di controllo. Il pompelmo, a causa della sua natura acidula e amarognola e per questo poco attraente per molti animali, è stato diluito in diverse concentrazioni e dolcificato con saccarina. L'acqua del gruppo di controllo è stata modificata in modo analogo sia mediante glucosio (presente naturalmente nella frutta) che con dolcificanti in modo da renderli comparabili sia a livello calorico che per contenuto di saccarina. I topi che hanno ricevuto pompelmo hanno mostrato una riduzione del 13-17 per cento dei livelli di glucosio nel sangue e una diminuzione di tre volte dell'insulina, dato che evidenzia una maggiore sensibilità all'insulina dei tessuti periferici.
La riduzione dell'insulina è un elemento particolarmente importante dato che nei soggetti con diabete di tipo 2, il pancreas è costretto a produrre più insulina proprio per compensare la maggiore resistenza all'ormone.
Come ulteriore verifica i ricercatori hanno somministrato a gruppi diversi di topi la naringina, il composto bioattivo presente nel succo di pompelmo indiziato come un agente chiave della perdita di peso, oppure la metformina, un farmaco ipoglicemizzante spesso prescritto alle persone con diabete di tipo 2.
Anche qui i risultati sono coerenti:
  •  il succo di pompelmo abbassa il glucosio nel sangue con la stessa efficienza della metformina, ad indicare che una bevanda a base di questo frutto ha la stessa efficiacia nel normalizzare la glicemia di un farmaco di prescrizione.
  • I topi alimentati con dieta ad alto contenuto di grassi e naringina avevano livelli di glucosio nel sangue più bassi rispetto al gruppo di controllo, ma non c'era alcun effetto sul peso, il che suggerisce che la naringina è necessaria ma non sufficiente per l'effetto benefico del pompelmo.
Passaggio successivo sarà quindi identificare quale/i tra i molti composti attivi nel succo di pompelmo, alcuni con funzionalità ignota, gioca un ruolo chiave. Una volta identificati tutti gli elementi chiave del pompelmo, la conseguenza immediata sarà sviluppare degli integratori derivati dal pompelmo ma privi degli effetti inibitori a carico del citocromo

(Sul pompelmo e i suoi effetti vedi anche "Pompelmo e farmaci: quasi due ex-nemici")

Fonte e link utili
- Consumption of Clarified Grapefruit Juice Ameliorates High-Fat Diet Induced Insulin Resistance and Weight Gain in Mice  
Rostislav Chudnovskiy et al, (2014) PLOS ONE,  October 08, 2014
- alcune informazioni sui valori nutrizionali del pompelmo rosa, qui 


Cause simili per diabete di tipo I e di tipo II. Una nuova via terapeutica

Diabete giovanile e adulto. Due nomi per una causa sottostante comune?

Questo sembra proprio essere il risultato a cui sono giunti i ricercatori dell'università di Manchester (UK) e di Auckland (NZ). Uno stesso meccanismo e due esiti temporalmente diversi ma simili.

I dati pubblicati poco tempo fa sulla rivista scientifica FASEB Journal, forniscono prove convincenti che entrambe le forme di diabete sono causate dalla formazione di grumi tossici di un ormone chiamato amilina.  I risultati, basati su un lavoro durato 20 anni e condotto in Nuova Zelanda, suggeriscono che il diabete di tipo 1 e di tipo 2 hanno non solo una evento molecolare scatenante in comune ma che proprio questa similitudine è la chiave su cui lavorare per sviluppare farmaci preventivi più efficaci. Bloccare la formazione dei depositi tossici di amilina equivale a bloccare l'insorgenza della malattia.

L'amilina è un ormone che al pari dell'insulina viene prodotto da cellule specializzate del pancreas. Mentre il ruolo dell'insulina è quello di segnalare alle cellule la disponibilità di glucosio durante il pasto (fosse anche solo uno spuntino), l'amilina gioca un ruolo più ampio come il rallentamento dello svuotamento gastrico, azione che favorisce il mantenimento del senso di sazietà ed è fondamentale per minimizzare i picchi glicemici post-prandiali.

Insulina e amilina normalmente lavorano insieme per regolare la risposta del corpo ad assunzione di cibo. Se la loro produzione è sbilanciata, lo è anche l'omeostasi glicemica, con aumento della glicemia cronico, stato che può evolvere in diabete che, se non trattato adeguatamente, può causare seri danni ad organi come cuore, reni, occhi e nervi.
Come accennato sopra, sembra che l'amilina giochi in tal senso un ruolo chiave. Anomalie nella sua sintesi possono dare luogo a depositi negli spazi pericellulari delle cellule del pancreas, un evento che favorisce la comparsa di uno stato infiammatorio locale che se protratto porta alla morte delle cellule nell'area. La conseguenza della morte di un numero sufficiente di cellule del pancreas è il diabete.
Se finora i dati raccolti erano andati nella direzione del rapporto amilina-diabete di tipo 2, ora è il rapporto con il diabete di tipo-1 ad essere stato indagato.
La differenza principale tra le due forme di diabete è sia nella diversa progressione della malattia che nel caratteristico esordio precoce del diabete di tipo 1 (spesso durante l'infanzia) rispetto al diabete di tipo 2, tipico invece delle persone oltre la mezza età. Inoltre è da anni noto che il diabete di tipo 1 è causato da una reazione autoimmunitaria (scatenata da un fattore X, forse un mix tra virus e predisposizione genetica); al contrario il diabete di tipo 2 è stato generalmente associato alle conseguenze a lungo termine di una alimentazione squilibrata e del sovrappeso. Sulle cause microbiche scatenanti la risposta immunitaria contro le proprie cellule produttrici di insulina vedi il recente lavoro pubblicato dalla università di Cardiff (--> qui)
Per entrambe le forme di diabete mancava però quella che potrebbe essere detta la "pistola fumante", cioè il fattore responsabile della malattia.

Ora con questo studio si scopre che non solo i depositi di amilina giocano un ruolo chiave ma che il diabete di tipo 1 ha una comparsa precoce proprio perchè la velocità con cui si formano questi depositi è maggiore.
Questa scoperta ha dato una accelerata alla ricerca di Garth Cooper, il responsabile del progetto, che può ora contare su bersagli più "concreti" per farmaci di nuovo tipo.
La speranza è quella che già nei prossimi due anni vengano attivati gli studi clinici di nuovi farmaci anti-diabetici.

(per articoli pubblicati in precedenza sul tema diabete, cliccate il tag "diabete" nel pannello a destra)

Fonti
- The pathogenic mechanism of diabetes varies with the degree of overexpression and oligomerization of human amylin in the pancreatic islet β cells 
Shaoping Zhang et al, FASEB J. 2014 Aug 19
- Scientists show both types of diabetes are caused by same underlying mechanism
University of Manchester, news

Cronistoria dell'epidemia di Ebola e prospettive immediate

Le domande sull'origine di Ebola e le prospettive future
Credit: Centre for Infections/Public Health England/SPL/Nature
Come prevedibile è calata una cortina di silenzio sui media italiani riguardo l'epidemia di Ebola in atto nell'Africa occidentale. Una noncuranza grave dato che come abbiamo visto nei mesi scorsi, bastano veramente poche ore di volto al virus per migrare dall'Africa equatoriale ai nostri aeroporti. Come al solito si spera che chi di dovere vigili e sappia implementare misure contenitive immediate qualora dovessero palesarsi casi sospetti. 
Nota. Nei giorni scorsi mi ha fatto abbastanza sorridere la notizia rilanciata da molti media "se arriva Ebola, noi siamo pronti". Il sunto del messaggio è che sono state infine predisposte aree adeguate per il trattamento e la quarantena di eventuali pazienti presso l'ospedale Sacco di Milano. Un'area simile è stata approntata presso l'aeroporto Malpensa. Le foto distribuite mostrano l'equipaggiamento protettivo e il personale impegnato in una esercitazione. Il sorriso mi è venuto perché (a parte la chiara posa di molte foto) questa simulazione mostra il trasporto di un soggetto sintomatico e prevede l'utilizzo di un aereo militare. Quindi è riferito al caso in cui si decidesse consciamente di trasportare un malato a Milano dalla zona di contagio. Più interessante sarebbe stato vedere le procedure implementate negli scali civili e nei pronto soccorso della penisola per gestire un soggetto "a rischio" o che manifesta sintomi sospetti. Chiaro che se viene a mancare questo filtro, queste esercitazioni servono a ben poco.
Approfitto allora di questa assenza di notizie eclatanti per fare una breve cronistoria dell'epidemia Ebola e dei motivi per cui l'epidemia attuale in Africa non deve essere presa sottogamba ma necessita di tutta l'attenzione degli organi competenti e dei media.

*************

Carta d'identità del virus Ebola
Ordine:    Mononegavirales
Famiglia: Filoviridae
Genere:    Ebola-like viruses
Specie:     Ebola
Sottotipi:  Ebola-Zaire, Ebola-Sudan, Ebola-Costa d'Avorio, (...)

Almeno cinque sono le specie di virus strettamente correlate a cui gli scienziati si riferiscono con il nome di ebolavirus, tra queste quella responsabile dell'attuale epidemia in Africa occidentale è lo Zaire ebolavirus
Credit: Eri Nakayama et al (Front. Microbiol., 05 September 2013)

Insieme con il virus Marburg e il virus Lloviu (genere Cuevavirus), gli ebolavirus costituiscono la famiglia dei filovirus (Filoviridae).
Il nome "Filoviridae" deriva dal latino e significa "filiforme". Non si sa molto sui filovirus sia perché la loro scoperta è relativamente recente che per la loro alta patogenicità li rende difficili da studiare. I Filovirus necessitano del livello di biosicurezza 4, secondo quanto stabilito dall'americano CDC, nel senso che molti dei suoi membri sono tra i più letali virus noti. I Filoviridae causano febbre emorragica, caratterizzata da massicce emorragie interne e (a volte) esterne. La famiglia dei filovirus ha forti somiglianze genetiche e strutturali con rhabdoviruses e paramyxoviruses.
 
Il genoma dei filovirus è (-)RNA, non segmentato, lungo circa 18 mila nucleotidi. I virioni sono pleomorfi, nel senso che presentano molte anche forme diverse a causa della loro flessibilità. Il nucleocapside ha una simmetria elicoidale e le dimensioni vedono 80 nm di diametro per una lunghezza compresa tra 120 e 1400 nm (maggiori info ---> ICTVdB).


La identificazione dei filovirus è abbastanza recente (risale alla fine degli anni '60) ed è dovuta sia alla oggettiva difficoltà tecnica di caratterizzare un virus in assenza di strumentazioni adeguate che al fatto che questi virus erano di fatto sconosciuti al di fuori delle foreste, peraltro scarsamente abitate, del centro Africa. I membri della famiglia dei filovirus condividono caratteristiche strutturali in comune, oltre all'essere tutti dei virus a RNA. Ma la caratteristica per noi peggiore è che sono, nella grande maggioranza dei casi, estremamente pericolosi per i primati (essere umano compreso), pericolosità che si manifesta con febbre emorragica e collasso multi-organo. Come vedremo successivamente, la estrema "debolezza" dei primati al virus è il miglior indizio che nessuno di loro sia il serbatoio naturale del virus non è un primate ma "solo" uno sfortunato ospite saltuario e casuale.

Che si sia solo all'inizio della fase di caratterizzazione dei membri appartenenti alla famiglia dei Filovirus, è una ipotesi considerata verosimile dagli scienziati. La maggior parte dei virus a noi ancora sconosciuti ci sono "sfuggiti" o perché inoffensivi per noi (quindi non rilevabili se non per puro caso) o perché occupano nicchie molto diverse da quelle dei primati.

La ricerca si è concentrata negli ultimi a cercare di capire l'origine dell'infezione, cioè identificare l'animale (o gli animali) che fungono da serbatoio naturale di questi virus. Solo così si può sperare di comprendere le cause alla base del costante aumento registrato negli ultimi anni dei focolai di epidemia: negli ultimi 21 anni, almeno 19 sono state le epidemie certificate, tre di queste solo nell'anno in corso. 
Per una lista aggiornata ---> qui

Non si tratta di un compito facile dato che i focolai sono imprevedibili (o quasi dato che l'epidemia in Africa occidentale era stata definita probabile da alcuni virologi) e che maneggiare campioni potenzialmente contenenti questi virus richiede procedure di sicurezza molto elevate.

Cronistoria delle conoscenze su Ebola
  • Era il 1967 quando venne identificato il virus Marburg, nome derivante da una città tedesca in cui avevano sede laboratori in cui si studiavano scimmie prelevate dall'Africa. La scoperta del virus è legata ad eventi tragici legati alla errata manipolazione di tessuti prelevati da cercopitechi morti di una malattia allora sconosciuta, che portò all'infezione di 31 persone, 7 delle quali morirono in breve tempo. Questa fu la prima evidenza dell'esistenza di un virus fino ad allora "sepolto" nelle foreste africane. Scoperta la malattia e il virus si poterono cominciare a fare indagini nel territorio in cui vivevano le scimmie, arrivando così ad evidenze anedottiche di rari focolai della malattia in umani che vivevano nei pressi della foresta. Focolai che sorgevano inaspettati e altrettanto rapidamente si estinguevano con la morte dei soggetti infetti (e spesso dei famigliari). La dinamica dell'infezione faceva chiaramente ipotizzare che la malattia si trasmetteva all'uomo in seguito a rari e casuali contatti con l'ignoto animale portatore del virus. Il fatto che tali epidemie fossero fino a quel momento passate inosservate è la logica somma della presenza (e suscettibilità degli abitanti) a molteplici patogeni locali, all'elevata mortalità e rapido decorso della malattia, all'assenza di strade e alla bassissima densità umana che avevano impedito al virus di diffondersi. L'elevata letalità dell'infezione da filovirus nelle scimmie era inoltre una chiara indicazione che i primati non erano gli ospiti naturali (o primari) del virus; se un virus uccide troppo e troppo velocemente l'ospite, si auto-condanna ad estinzione in brevissimo tempo. L'ospite primario in genere è ben adattato al virus, cosa che si manifesta con sintomi dell'infezione non gravi o anche asintomatici (vedi anche quanto scritto in precedenza e referenze a fondo pagina). I sospetti caddero quasi subito sui pipistrelli, ma nessuna prova sostanziale (cioè la scoperta di un pipistrello infetto) fu al tempo trovata.
  • Nel 1976, si presentò in Sudan l'occasione di seguire dal vivo (e non per resoconti) un focolaio epidemico. Le sei persone inizialmente infettate avevano in comune il fatto di lavorare in una fabbrica in una zona rurale sui cui soffitti erano soliti dimorare i pipistrelli. Analisi successive dimostrarono la presenza nel sangue degli animali sia di anticorpi specifici per il virus che di tracce genetiche di Ebola. Mancava tuttavia una delle prove più importanti, cioè identificare il pipistrello come il serbatoio naturale (cioè l'ospite primario) del virus e non come un semplice ospite. Una prova difficile da ottenere.
 Negli anni successivi, i nuovi focolai epidemici non supportarono una correlazione chiara tra la presenza di pipistrelli nella zona e il virus. Ma del resto è difficile trovare prove univoche quando i pazienti zero vivono nei pressi di fitte foreste equatoriali a contatto con molteplici animali.
  • Nel luglio 2007, un minatore che conduceva una attività di prospezione alla ricerca di piombo e oro in una grotta ugandese si infettò con il virus Marburg. I funzionari preposti all'indagine chiusero la grotta fino all'arrivo di un team di ricercatori del US Centers for Disease Control and Prevention (CDC). La speranza era quella di riuscire finalmente ad identificare l'ospite naturale dei filovirus. A tale scopo i ricercatori catturarono circa 1.300 pipistrelli della frutta che erano soliti rintanarsi nella grotta, per fare loro un prelievo di sangue e verificare la presenza del virus Marburg (o di anticorpi specifici). Cinque pipistrelli risultarono positivi al virus, nessuno dei quali (e questa è la chiave di volta) mostrava alcun sintomo della malattia. Altri pipistrelli infetti furono infine rinvenuti in una grotta vicina dove, guarda caso, si era registrato in passato un altro caso legato al virus di Marburg.
Trovato il potenziale colpevole, il passo successivo era capire come fosse avvenuto il contagio. Molto difficile pensare, per la natura dell'animale, ad un contatto diretto; molto più probabile che questo fosse avvenuto attraverso fluidi corporei o deiezioni. I test di laboratorio indicavano che un pipistrello positivo al virus presenta tracce del virus in bocca. L'idea più ovvia fu allora associare la presenza di saliva sulla frutta di cui questi pipistrelli si cibano, e che i virus in essa contenuti fossero poi stati ingeriti da altri animali, tra cui i primati.
Restava ovviamente da chiarire se anche gli altri membri della famiglia dei filovirus potevano trasmettersi nello stesso modo.
  • Arriviamo così all'epidemia attuale che si ritiene sia iniziata nella zona sud-orientale della Guinea nel dicembre 2013, quando un bambino di due anni morì di una misteriosa malattia trasmessa poi in rapida successione a familiari e operatori sanitari. Non si sa molto altro dato che gli sforzi, comprensibilmente, si sono concentrati nel contenere l'epidemia più che a fare analisi a ritroso della sua diffusione. Non è urgente ora ma è fondamentale che venga fatto nel prossimo futuro se si vuole cercare di prevenire futuri focolai, minimizzando il rischio di esposizione alla fonte naturale del virus.
Tutto risolto? C'è una complicazione non secondaria.
I filovirus non sono stati, purtroppo, trovati solo nei pipistrelli, il che rende più difficile identificare il vero "serbatoio" (o forse al plurale se diversi sono gli animali che possono ospitare il virus). 
  • Questo divenne evidente nel 2008 quando funzionari filippini chiesero aiuto al CDC per indagare su un focolaio di malattia nei suini. Quando i ricercatori arrivarono scoprirono che i maiali erano infettati con il Reston ebolavirus, una specie virale scoperta nel 1989 in scimmie importate in USA dalle Filippine.
La scoperta che il maiale poteva ospitare il virus fu uno shock dato che era la prima indicazione del fatto che il virus Ebola poteva diffondersi in animali da fattoria, un fattore di rischio chiaramente molto più elevato rispetto al caso "ideale" di un solo ospite primario e pochi ospiti secondari. Epidemie limitate a scimmie e pipistrelli (animali che solo raramente vengono in contatto con l'essere umano) sono di gran lunga meno preoccupanti di una malattia che può essere trasmessa dal proprio animale di cortile. 
  • La presenza del Reston ebolavirus nei suini è stato osservato nel 2012 anche in Cina.
C'è un dato importante da sottolineare: il virus Reston sembra essere una specie relativamente innocua per l'uomo, come si evince dal fatto che i lavoratori impiegati nelle aziende agricole in cui erano presenti maiali infetti non si sono mai ammalati pur avendo sviluppato anticorpi; chiaro segno questo che il virus era entrato nel loro organismo ma era stato facilmente neutralizzato dal sistema immunitario.
Nota. La relativa innocuità in un animale (es. uomo) di un virus altrimenti estremamente patogeno in altri animali, non è un evento anomalo. Il verificarsi di una infezione acuta in seguito ad un contagio interspecie è un evento raro e i motivi sono facilmente comprensibili. Il virus è il prodotto di una selezione che ha ottimizzato la sua capacità di sfruttare le "porte d'ingresso" (recettori) e il macchinario replicativo di un certo tipo di cellule. Porte e macchinari variano non solo tra una specie e l'altra ma anche tra i diversi tipi di cellule di uno stesso organismo. Quando un virus riesce a "valicare" la barriera della specie (attraverso una serie di mutazioni spesso mediate da infezioni in soggetti deboli come gli immunodepressi) il risultato può oscillare tra una forma leggera della malattia (il virus non è sufficientemente veloce o abile nello sfruttare il nuovo ospite) o una forma molto più grave rispetto a quella dell'ospite originario (già dotato delle contromisure per combatterlo). Al primo caso appartiene ad esempio il vaiolo bovino, al secondo l'influenza aviaria ed Ebola.
Vale la pena ricordare che proprio questa fu l'osservazione che permise a Jenner nel '800 di sviluppare il primo vaccino anti vaiolo. Il virus "bovino", meno adatto a replicarsi nell'essere umano, provocava una malattia nei lavoratori delle stalle estremamente più blanda di quella causata dal vaiolo umano, dando il tempo all'organismo di montare una risposta immunitaria in grado non solo di debellare l'infezione in atto ma anche di conferire una memoria immunitaria contro i virus della famiglia del vaiolo.
Tornando al caso dei maiali ...
  • ... nel 2011, i ricercatori hanno confermato definitivamente che i maiali sono suscettibili all'infezione del ceppo Zaire ebolavirus, il più noto tra quelli altamente patogeni per l'uomo. 
Come scritto sopra, la cosa è preoccupante in quanto è ora chiaro che i suini possono non solo fungere da serbatoio per il virus ma cosa ancora peggiore forniscono un ambiente in cui si possono generare nuovi ceppi di virus. Evento "possibile" se l'animale ha la sventura di venire infettato simultaneamente da diversi tipi di filovirus.
Nota. Lo scambio di materiale genetico tra virus diversi è un fenomeno che tutti hanno sperimentato sulla propria pelle a causa delle epidemie annuali di influenza e la periodica comparsa di pandemie e/o varianti molto più aggressive (SARS). Nel virus influenzale la differenza tra riassortimento e mutazione spiega le differenze tra le epidemie annuali e le pandemia (vedi anche antigenic drift vs. antigenic shift). Un fenomeno non atteso in Ebola (almeno non con la stessa intensità) a causa della diversa struttura del genoma.
Il Reston ebolavirus non rappresenta un problema per l'uomo ma la suscettibilità all'infezione da parte dei suini non deve essere presa sottogamba.


E' oramai chiaro che i virus sono più comuni di quanto non si pensasse un tempo, anche perché passano totalmente inosservati fino al momento in cui non causano malattie a noi o agli organismi (animali o vegetali) con cui siamo soliti interagire.
Siamo probabilmente solo all'inizio del percorso che ci permetterà di scoprire (e studiare) i diversi tipi di filovirus esistente e la loro distribuzione geografica. Oltre al Reston ebolavirus sono stati recentemente scoperti il Bundibugyo ebolavirus (in Uganda nel 2007) e il virus Lloviu (scoperto nel 2011 in Spagna in pipistrelli morti).
  • Nel 2010, è emerso un dato interessante che mostra che ben il 20% delle persone testate in alcune aree del Gabon erano positive ad anticorpi contro lo Zaire ebolavirus, segno di avvenuta (e asintomatica) esposizione al virus. Un dato questo che tuttavia va preso con le pinze in quanto la presenza di anticorpi specifici per il virus di Ebola, potrebbe essere teoricamente il risultato di cross-reattività, successiva ad esempio all'esposizione di virus "simili" ai filovirus per alcuni epitopi, ma di fatto innocui.
Prospettive
Il monitoraggio dell'attuale epidemia può aiutare a capire anche cosa stia avvenendo al virus (Zaire ebolavirus) in seguito alla diffusione mai così ampia per numero di soggetti infettati. Tanto maggiore è il numero di infetti e tanto maggiore è la popolazione virale, quindi maggiore è il rischio che particolari mutazioni, estremamente rare, riescano a comparire e a fissarsi nella popolazione virale.
Un intento ribadito da Kristian Andersen, virologo presso il Broad Institute di Cambridge, Massachusetts "dobbiamo iniziare a indagare se vi sono differenze importanti tra il ceppo 2014 e quelli precedenti".
Una differenza importante, inquietante ma anche attesa, è che il virus si sta adattando all'ospite umano. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che mentre nelle epidemia precedenti si era avuto in contemporanea un rapido declino del numero di scimmie (gorilla e scimpanzè) con centinaia di decessi accertati (--> Science), il virus attuale non sembra avere colpito i primati non umani. L'evento è appunto atteso dato che il virus si è autoselezionato con la trasmissione Homo-Homo. Il vantaggio di questo è che una volta cancellata l'epidemia, il virus umanizzato avrà probabilità nulla di sopravvivere in natura in altro ospite, lo svantaggio è che fino a che l'epidemia non viene messa sotto controllo, il virus è più efficiente nell'infettare altre persone.
Le analisi genetiche condotte finora hanno dimostrato che il ceppo dello Zaire ebolavirus protagonista dell'attuale epidemia, è mutato centinaia di volte da quando si è distaccato dal ceppo di ebola originario circa dieci anni fa (vedi articolo su Nature dello scorso agosto), ma pochissimo si sa circa l'effetto che queste mutazioni hanno avuto sulle proprietà del virus.
Sui motivi che hanno favorito la inusitata diffusione del virus, si ritiene che le cause debbano essere cercate nel fatto che l'epidemia si è diffusa in aree in cui tale infezione non era nota, e quindi non è stata subito identificata. A questo può avere contribuito una iniziale errata attribuzione da parte dei medici locali (o anche dei pazienti) dei sintomi iniziali a quelli  tipici di altre malattie endemiche nella zona come la malaria.

Altro punto critico è il ricordare che l'elevatissima mortalità associata all'infezione (media del 65% con punte fino al 90%; solo rabbia e vaiolo non trattati hanno valori così elevati), ha una duplice spiegazione.
Il tasso di mortalità nel breve periodo in assenza di trattamento
  1. Ebola e altri filovirus hanno letalità così elevata in quanto attaccano direttamente le difese immunitarie dell'organismo, ma in modo diverso rispetto a quanto fa il ben più lento HIV. Quando un virus penetra nel corpo si attiva il meccanismo di difesa "innato" del sistema immunitario, vale a dire la difesa di primo livello, aspecifica e diretta verso un invasore non "identificato"; l'infiammazione è il segno più evidente di questa difesa. Tale meccanismo permette all'organismo di guadagnare tempo e riuscire così a sviluppare una risposta immunitaria specifica per quel determinato invasore. Il virus Ebola sbaraglia la prima linea di difesa dato che infetta e neutralizza proprio le cellule chiave della risposta immunitaria innata. Come se non bastasse, la morte di queste cellule provoca a sua volta il rilascio di molecole effettrici come le citochine, che amplificano l'effetto distruttivo sulle cellule circostanti, tra cui quelle responsabili della produzione degli anticorpi, la seconda e critica linea di difesa. Un fenomeno questo noto come "tempesta di citochine". Sebbene questa capacità sia presente anche in altri virus altamente patogeni, i filovirus sono particolarmente distruttivi in questa azione, dato che hanno la capacità di infettare più tessuti, come il sistema immunitario, milza e reni. In aggiunta al danno ai vasi sanguigni che cominciano così a "perdere" liquidi (da qui i classici sintomi emorragici) si può avere il coinvolgimento di polmoni e fegato, evento che precede il collasso sistemico degli organi, causa principale della morte del paziente. Bloccare sul nascere la "tempesta di citochine" è verosimilmente il modo migliore per eliminare gran parte degli effetti negativi in quanto si da tempo all'organismo di sviluppare la risposta antivirale. Altro approccio chiave è cercare di capire per quale motivo alcuni soggetti sono riusciti a sopravvivere alla fase acuta dell'infezione, pur in assenza di farmaci specifici.
  2. La terapia base seguita è cruciale per aumentare il più possibile la probabilità di sopravvivenza. E' una triste verità il fatto che non esiste ancora alcun farmaco approvato e che quei pochi testati hanno una efficacia tutta da dimostrare. Il più avanzato tra questi è lo Zmapp, che si è dimostrato molto efficace in scimmie ma non è mai stato testato sul campo e tantomeno in laboratorio su umani (per ovvie ragioni etiche); ci sono molti dubbi sul fatto che le pochissime persone testate finora siano guarite per il farmaco invece che per la somma di cure prestate. Tra queste di fondamentale importanza è il mantenimento dell'idratazione del paziente e, la dialisi renale. Non che l'idratazione sia risolutiva ma di sicuro aiuta a stabilizzare il paziente, fornendo così tempo prezioso perché il soggetto riesca ad attivare i meccanismi di difesa pesantemente danneggiati dal virus. Nella maggior parte degli ospedali in Africa la reidratazione (quando pure viene fatta) avviene per via orale mentre sarebbe molto più efficace farlo per endovena. Tuttavia dato che la trasmissione del virus è molto alta per il contatto con i liquidi corporei in generale e con il sangue in particolare (e in assenza di strumenti di protezione adeguati) gran parte del personale sanitario locale si rifiuta (quando anche fosse possibile) di attaccare una flebo al paziente e lo stesso dicasi per la dialisi. La mortalità rimarrebbe in ogni caso molto alta ma attuando queste procedure potrebbe essere dimezzata.

La domanda chiave è se l'epidemia possa essere bloccata in assenza di una terapia farmacologica mirata.
A questo proposito bisogna ricorda che in passato si sono avute decine di focolai legati ai filovirus e che le procedure di contenimento usate si sono rivelate, di fatto, efficaci nel bloccare la diffusione dell'epidemia alle comunità circostanti. Ruolo centrale in tali strategie contenitive hanno avuto termini come "isolamento e trattamento" dei pazienti, "tracciamento e monitoraggio" dei loro contatti e infine "quarantena" di OGNI soggetto a rischio. Le stesse procedure sono state implementate in queste settimane in Nigeria e in Senegal, dopo la comparsa dei primi casi di infezione veicolati da soggetti provenienti dalle zone infette delle nazioni limitrofe.
E' bene però ricordare che questo approccio è fattibile fintanto che il numero di soggetti malati (o a rischio) è limitato. Pena la immediata saturazione dei luoghi (e del personale) deputati al contenimento. Non si può permettere quindi che il virus arrivi alle zone densamente popolate (come la capitale nigeriana).
Il rischio paventato da molti esperti è che, sulla base del ritmo di diffusione attuale, il numero di infetti possa addirittura raggiungere il prossimo gennaio la cifra di centomila persone, un numero oggettivamente inquietante per l'effetto che produrrebbe nell'area.
Agire il prima possibile è quindi una urgenza reale e non tema da esercitazioni dialettiche.


(Su questo blog diversi sono gli articoli su questo tema: QUI trovate i principali).


Articoli di riferimento
- Ebola virus mutating rapidly as it spreads
Nature, agosto 2014
- The Ebola questions
Nature, ottobre 2014
- Microbe-wiki

L'esplosione cambriana. Immagini, ricostruzioni video e nuovi dati geologici

Esplosione cambriana
Immagini e video da un eccellente sito e nuove una nuova ipotesi sulle cause da un nuovo articolo

Serata di pioggia.
Niente di meglio che riprendere in mano un buon libro mentre ci si delizia con una cioccolata calda.
Ad esempio "Il Mondo d'Acqua" di Frank Schätzing.
Il libro è una cavalcata a 360 gradi dal Big Bang fino al moltiplicarsi della vita sul nostro pianeta. Un libro "quasi" per tutti, nel senso che la mole di informazioni fornita potrebbe risultare spiazzante se affrontata nel modo sbagliato, cioè cercando di assimilare tutti i dati. Molto meglio maneggiare il libro come, appunto, una cavalcata bio-geologica della storia della Terra; la lettura risulterà di sicuro più affascinante e leggera.
Certamente avere una infarinatura di conoscenze su astrofisica, biologia e geologia (tutte materie in effetti studiate al liceo) non guasta. Non che questo sia strettamente necessario, ma di sicuro facilita la tecnica di incasellare mentalmente quanto letto in un capitolo, per poi riprenderlo al momento opportuno.

Lo stile dell'autore (uno scrittore e non uno del "mestiere"), seppur denso, è alleggerito dalla sua capacità di divulgare le informazioni che lui stesso ha dovuto reperire e assorbire mentre scriveva "Il Quinto Giorno", il fanta-bio-scientifico romanzo precedente.
Quindi non si preoccupi chi teme il libro a causa del numero di pagine e dalla complessità dell'argomento. E' vero che si è sommersi di informazioni ma lo scrittore è bravo nell'alleggerire le descrizioni con trovate divertenti.

Torniamo all'incipit dell'articolo.
Ho riletto stasera la parte riguardante quella fase cruciale della vita sulla Terra nota come esplosione cambriana (avvenuta circa 540 milioni di anni fa) dove sono descritte in modo particolareggiato le più incredibili forme di vita apparse e poi scomparse "improvvisamente" (su scale temporali terrestri) per una serie di eventi geo-biologici ... . Rimango sul vago dato che sarebbe qui inopportuno entrare in dettagli recuperabili facilmente in rete.
image credit: interestingengineering.com


Durante il Cambriano compaiono forme di vita affascinanti di cui fortunatamente conserviamo tracce fossili. Forme talmente curiose da avere rappresentato un vero rompicapo per diverse generazioni di studiosi. 
link
I risultati dello studio dei fossili rinvenuti presso l'affioramento di argilla noto come Burgess Shale sito nello Yoho National Park (Canada) sono disponibili sul sito omonimo "The Burgess Shale" gestito dal Royal Ontario Museum.
Un sito molto ben fatto, e che ovviamente raccomando, dove le fotografie dei ritrovamenti si accompagnano ad elaborazioni al computer e a dati scientifici. Sembrerà quasi di vedere in vita questi animali, più che esotici quasi alieni.
Ne riporto sotto solo alcuni esempi, selezionati tra quelli più strani in cui mi si sono imbattuto nel libro. Ovviamente sono solo una parte minima di quelli presenti nel sito. Sono sicuro che una volta iniziato a "navigare" vorrete approfondire l'argomento e, in un certo senso, viaggerete indietro nel tempo ... fino al Cambriano.


Hallucigenia sparsa, --> qui

image credit: lescienze.it


 
clicca sull'immagine per vedere il movimento (dal sito della Cambridge University)


Anomalocaris canadensis --> qui
Anomalocaris (All credit to the original poster)




Opabinia regalis  --> qui
courtesy of prehistoricbeastoftheweek (original ®Smithsonian Institution --> QUI)

Altre creature cambriane le trovate in un precedente articolo in questo blog ---> QUI.

Se l'esplosione cambriana vi ha stupito, altre sorprese vi attendono nel periodo immediatamente precedente noto come ediacarano.




*****************
Dopo la scorpacciata di immagini e dati da questo mondo lontano ma fondamentale per la nostra stessa esistenza, passiamo ad un articolo recentemente comparso sulla rivista Geology pubblicato da Ian Dalziel della University of Texas.
Il punto centrale dell'articolo è l'ipotesi che all'inizio del Cambriano sia avvenuto qualcosa di geologicamente rilevante, conseguenza della attività tettonica, che avrebbe innescato un innalzamento del livello del mare insieme ad altri cambiamenti ambientali; l'insieme di questi eventi sarebbe alla base dell'esplosione cambriana. Un fenomeno le cui cause sono ancora poco comprese.
Un problema non da poco per uno scienziato, dato questa "esplosione" è anche nota anche come il "dilemma di Darwin", in quanto apparentemente contraddice il concetto centrale della evoluzione graduale guidata dalla selezione naturale.
"Al confine tra il Precambriano e il Cambriano, è avvenuto qualcosa di tettonicamente rilevante che ha a sua volta innescato la comparsa di mari poco profondi attraverso quello che allora era un pianeta diviso tra un unico supercontinente e il restante oceano", queste le parole di Dalziel.

Credit: Ian Dalziel
La figura sopra mostra quello che è avvenuto, secondo l'autore. La comparsa di una frattura che è andata via espandendosi, e all'interno della quale è penetrato l'oceano.
Questa serie di eventi ha avuto diverse conseguenze: un innalzamento del livello delle acque; un rimescolamento delle acque con un cambiamento della chimica oceanica e una più "facile" liberazione dell'ossigeno nell'atmosfera.

Nell'articolo Dalziel propone una mappa in cui si vede l'attuale nordamerica ancora attaccato a quelli che ora sono continenti meridionali. Tutti questi posizionati nella zona tra l'equatore e il tropico australe (si noti anche la posizione dell'Australia. Tutto questo in ogni caso è già noto).
 La differenza con i modelli finora accettati delle mappe del Cambriano è che in questi si raffigura il continente Laurentia (cioè il nucleo ancestrale del nord America), come già separato dal supercontinente Gondwana.
Al contrario Dalziel ipotizza la comparsa di una frattura che percorre tutto il supercontinente fino ad unire il Pacifico e il Giapeto (cioè l'Atlantico ancestrale) e che questo evento, avvenuto all'inizio del Cambriano, abbia prodotto il continente Laurentia e a rapido giro, le condizioni per l'esplosione di vita del Cambriano.
Perché non è stata fatta prima questa ipotesi?
Monti Ellsworth Credit: NASA/Michael Studinger
"Principalmente perché fino a pochi anni fa i dati geologici transcontinentali erano incompleti" spiega Dalziel. "Ad esempio, i campioni chiave di roccia dell'Antartide provengono dalla zona dei monti Ellsworth, tra i più remoti di un continente già di per se poco accessibile. La similitudine con affiorazioni rocciose del nordamerica ha permesso di formulare l'ipotesi che il continente nordamericano fosse all'inizio direttamente fuso con quello delle attuali Africa e Nordamerica e non, come prima ipotizzato, con Africa e subcontinente sudamericano".
E' chiaro che la strada è ancora lunga per arrivare a capire tutta la serie di eventi che ha permesso l'esplosione Cambriana ma di sicuro un nuovo e importante tassello è stato aggiunto.
Un atteggiamento condiviso da Dalziel "Non pretendo con questa ipotesi di dare la spiegazione ultima dell'esplosione del Cambriano, ma può aiutare a spiegare quello che stava accadendo geologicamente in quel momento".

Sul tema --> La vita nell'ediacarano
(potrebbe anche interessarvi l'articolo "un lago cambriano sotto la superficie del Canada"o l'articolo successivo su un proto-artropode cambriano)

Fonte
- Massive Geographic Change May Have Triggered Explosion of Animal Life
University of Texas, news

Diffusione di Ebola. Gli ultimi dati

Diffusione di Ebola. Numeri, cause e prospettive
(articolo precedente sul tema --->QUI)

Introduzione
Gli aeroporti americani sono per me da sempre fonte di fascinazione sia per l'enorme quantità di passeggeri in transito che per l'apparente contrasto tra due modalità di controllo che coesistono: da una parte la fiducia in quanto viene dichiarato dal passeggero sul proprio passato e intenzioni future, e dall'altra il sempre più imperante utilizzo dell'elettronica sia per verificare l'accuratezza dei documenti che della effettiva identità (vedi le tecnologie facial recognition il total body scan).
Chiaro che questa diarchia degli opposti si è esasperata dopo i tragici avvenimenti del passato che hanno mostrato come la semplice autocertificazione di non appartenere a organizzazioni criminali et similia, non fosse sufficiente per filtrare i malintenzionati. Un suggerimento che avrebbe potuto dare qualunque italiano o mediterraneo che dell'assenza di fiducia da parte dello stato sulle proprie dichiarazioni (e molto spesso a ragione) ha piena esperienza.
Negli ultimi anni tuttavia un nuovo e diverso pericolo si è affacciato. Oltre al potenziale ingresso di soggetti umani indesiderati si è fatto via via più pressante il rischio di clandestini non umani, microbici o minuscoli che siano. Non mi riferisco al rischio legato ad atti terroristici con armi non convenzionali (sebbene anche il pericolo sia reale) ma al transito di soggetti infettivi o in fase di incubazione della malattia, e quindi asintomatici.
Fino alla fine degli anni '90 il rischio "biologico esogeno" (ogni organismo non localmente endemico e potenzialmente in grado di causare malattie a vegetali o animali, o di alterare l'equilibrio ecologico) veniva controllato mediante un rigoroso filtro dei prodotti importati: qualunque prodotto non trattato (da salumi e formaggi fino a piante e animali) rientrava o nella classe dei prodotti non ammessi o in quelli da mettere in quarantena.
La globalizzazione del mercato, con la saturazione dei meccanismi di controllo, ha inferto un duro colpo a questi controlli come si evince dalla diffusione di malattie inconsapevolmente veicolate da navi cargo (vedi West Nile Virus e gli pneumatici) o da passeggeri più o meno inconsapevoli (SARS).

Quella che segue è una simulazione fatta dalla University of California a Berkeley che mostra la diversa velocità di diffusione di una epidemia a seconda della probabilità che hanno le persone infette di percorrere lunghe distanze.
Per inciso l'esempio opposto della diffusione di malattie in epoche in cui il trasporto commerciale era lento è quello della peste bubbonica nell'Europa medievale (vedi grafico ---> Univ. di Berkeley)


Il caso Ebola
Il caso di Eric Duncan (il paziente "zero" di Ebola negli USA) è emblematico dei problemi che derivano dalla somma di:
  • globalizzazione dei trasporti;
  • omessa dichiarazione dei fattori di rischio;
  • non attuazione delle procedure di contenimento per i passeggeri provenienti dalle zone ad altissimo rischio.
Risultato? Un virus sconosciuto al di fuori delle profondità della foresta africana, e per sua stessa natura (alta letalità) auto-limitante, è riuscito a diffondersi rapidamente varcando addirittura un oceano nel giro di poche ore.
Fonte: WHO Ebola Response Team N. Engl. J. Med. http://doi.org/vvw (2014) (Ebola); go.nature.com/actu4r (other diseases); go.nature.com/wcve2j (map); WHO and EbolaCrisisResponse.org (bar chart). Design: Jasiek Krzysztofiak/Nature

Sopravvivenza in miglioramento
Come risulta chiaro dal grafico precedente l'epidemia di Ebola in Africa occidentale continua ad imperversare, con un numero di persone infette che raddoppia ogni 3-4 settimane. I numeri, di sicuro sottostimati, mostrano che più di 8.000 persone hanno contratto la malattia, metà delle quali sono morte (fonte Organizzazione Mondiale della Sanità).

Ho scritto "numeri sottostimati" dato che i numeri reali devono tenere conto dei casi non segnalati alle autorità (vedi articolo precedente).
I soggetti a rischio maggiore sono, ovviamente, gli operatori sanitari. I numeri parlano chiaro: al 10 ottobre il numero di operatori infettatisi è pari a 416, 233 dei quali sono deceduti.
La buona notizia è che alcuni operatori (un cameramen e due infermiere in Spagna e USA) sono riusciti a guarire. Il problema è che sono stati trattati in strutture speciali e con una dedizione (in termini di persone e trattamenti dedicati) non esportabili e nemmeno implementabili nei paesi ricchi se il numero di casi dovesse superare una certa soglia.
Ancora una volta il caso Duncan è emblematico: pur essendo stato ricoverato in un ospedale attrezzato come quello di Dallas, non si è potuto fare nulla per bloccare l'infezione.

Vediamo un po' di numeri
Qui per aggiornamenti della cartina


Credit: WHO (mappa); European Centre for Disease Prevention and Control (case plots); WHO; Jasiek Krzysztofiak/Nature

credit: americaninfomaps / WHO / IUCN

Cronistoria (credit e aggiornamenti --> mobs-lab.org)

L'epicentro dell'infezione rimane nell'area delimitata da Guinea, Liberia e Sierra Leone (abbiamo già visto il modo "assurdo" con cui il virus è entrato in Sierra Leone). A parte i casi di Dallas, New York e in Spagna, i numeri al di fuori dell'area critica sono minimi e si contano sulle dita di una mano in Nigeria e in Senegal. Il pericolo però è reale come mostra il caso di un liberiano infetto che nel suo viaggio verso la capitale della Nigeria ha infettato altre 19 persone. Solo l'immediata azione delle autorità che hanno rintracciato e messo sotto controllo le persone venute in contatto con i neo-infettati ha permesso di bloccare la progressione della malattia in Nigeria. Un caso simile è stato riportato in Senegal, causato da una persona in viaggio dalla Guinea a Dakar (vedi QUI un esempio del ritracciamento fatto di alcuni soggetti chiave dell'infezione).
Pensare di avere la situazione sotto controllo è un altro dei rischi che non ci si può permettere, come mostra la comparsa di nuovi focolai a Conakry, capitale della Guinea, un'area che si riteneva sotto controllo.
NOTA. Questo è il traffico aereo dalle zone a rischio NON i casi effettivi. E' solo una misura del rischio potenziale (credit: MFC Gomes et al, PLoS Current Outbreak, settembre 2014). PER LE MAPPE AGGIORNATE ---> mobs-lab

Per vincere questa sfida le risorse da allocare (umane ed economiche) dovranno essere ingenti. Il segretario generale dell'ONU, Ban Ki-moon, in un recente discorso ha parlato di aumentare di 20 volte le forze (economiche ed operative) in campo per riuscire a mettere sotto controllo la malattia.
lAggiungendo la frase sibillina "le cose andranno peggio prima di vedere dei miglioramenti". Quanto peggio non è dato saperlo.


Esiste però un problema centrale che di rado viene sottolineato, cioé il legame tra crescita della popolazione e aree in cui il virus è naturale. Se prima i contatti tra essere umano e virus si risolvevano molto rapidamente data la rapidità di azione del virus, la bassa densità di popolazione, la distanza tra i centri abitati e l'assenza di mezzi di locomozione veloci, ora quasi tutte questi "filtri naturali" sono crollati e il virus non potrà che emergere dalla giungla sempre più frequentemente.
Anche prima della attuale epidemia i ricercatori avevano posto i tre paesi ora focolaio come paesi in cui maggiori erano le probabilità relative di comparsa della epidemia
"Human populations in countries that are likely to harbour filoviruses have nearly tripled since the viruses were first discovered, and flight traffic has increased by one-third since 2005".
"The viruses are not coming to us; instead, we are encroaching on the viruses, as population growth and increasing travel put humans in contact with viral hosts, and then people unwittingly transport the viruses around the world" (E.C. Hayden, Nature ottobre 2014)

(Articoli successivi sul tema ---> "Cronistoria dell'epidemia"  e "Ebola, un anno dopo").

Materiale aggiuntivo
----> americaninfomaps.wordpress (mappe e grafica)
----> dati aggiornati dallo European-CDC
----> dati settimani dallo WHO

Volete vedere i casi di malattie infettive pericolose vicino a dove abitate? Questo sito ufficiale fa per voi -----> healthmap


Fonte
- Ebola by the numbers: The size, spread and cost of an outbreak.
Declan Butler & Lauren Morello, Nature 15 ottobre 2014
- Assessing the International Spreading Risk Associated with the 2014 West African Ebola Outbreak.
M. F. C. Gomes et al, (2014), PLoS Current Outbreak, 2 settembre
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