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Le immagini a luce polarizzata del buco nero al centro della Via Lattea

Sono passati circa due da quando riportai le prime immagini del buco supermassiccio al centro della nostra galassia (l'articolo riproposto in calce al presente) che seguiva la prima visualizzazione in assoluto di giganti del genere fatta nella galassia M87.

Il "nostro" buco pur se distante "solo" 27 mila anni luce è oltre mille volte più piccolo di quello nel cuore di M87, da cui la maggior difficoltà nel visualizzarlo.
Nelle scorse settimane sono stati presentati nuovi dati frutto delle osservazioni effettuate sempre mediante l'Event Horizon Telescope (EHT). La vera novità è l'immagine di Sagittarius A* fatta in luce polarizzata, così da mostrare la struttura a spirale degli intensi campi magnetici, molto simile a quella di M87*; dato che suggerisce come questi campi siano comuni a tutti (o a molti) buchi neri supermassicci.
Le linee sull'immagine indicato la direzione della luce polarizzata
Credits: EHT Collaboration
La differenza analitica fatta dall'osservazione in luce polarizzata è che nella regione che circonda un buco nero "gigante" le particelle sono in uno stato noto come plasma (gas ionizzato caldissimo) e come tali si muovono sulle linee di campo magnetico. Il risultato è la polarizzazione della luce perpendicolare al campo e con essa la possibilità di studiare cosa stia avvenendo in questa zona.
cc
Confronto a luce polarizzata tra M87* e Sgr A*
Credits: EHT Collaboration


*** 
Finalmente ecco il buco nero al centro della nostra galassia
(24/5/2022)
Arriva oggi al traguardo il lavoro di visualizzazione dei buchi neri supermassicci ospitati al centro delle galassie. 
La prima parte dello studio era stata pubblicata nel 2019 con la visualizzazione del buco nero M87* (sito nella galassia Virgo A, vedi l'articolo dedicato), ora conclusa con la pubblicazione su The Astrophysical Journal Letters dell'immagine di Sagittarius A star (Sgr A*).
Sgr A* (image credit: EHT Collaboration via 
@ehtelescope

Il tour di force nella raccolta dati (letteralmente, data la mole di 4 petabytes) avvenne nel corso di 5 giorni nel 2017, con il contributo di ricercatori ai quattro angoli della Terra, afferenti a 8 telescopi che grazie a particolari tecniche crearono un unico telescopio virtuale (Event Horizon Telescope) "grande" quanto la Terra. Uno sforzo tecnico necessario per riuscire a catturare i dettagli non tanto del buco nero (per definizione invisibile) quanto delle zone immediatamente adiacenti da cui provengono i segnali.
Un conto è stata la pur ardua raccolta dati e tutt'altro è stata l'elaborazione degli stessi, per cui sono stati necessari quasi 7 anni.

Per quanto possa apparire strano, è stato più semplice elaborare i dati per visualizzare un buco nero in un'altra galassia, distante 57 milioni di anni luce, rispetto al "nostro" (inteso come galassia) distante poco meno di 26 mila anni luce.
La spiegazione è che pur avendo all'incirca la stessa dimensione apparente nel cielo, M87* è molto più grande (quasi 2 mila più lontano ma 1600 volte più grande). Oltre a meri fattori dimensionali, osservare qualcosa al centro della Via Lattea, data la nostra posizione su un braccio laterale della spirale, è meno "pulito" che guardare al centro di un'altra galassia "di fronte".
Ma perché scegliere M87* invece di, ad esempio, Cygnus X1, che con una distanza di 6 mila anni luce è più vicino a noi perfino di Sgr A*? Anche in questo caso la ragione è meramente dimensionale: il buco nero al centro di Cygnus ha massa di solo poche volte quella solare, quindi debole (Sgr A* e M87* hanno 4 milioni e 7 miliardi di masse solari, rispettivamente).
Nonostante una massa considerevole, Sgr A* é praticamente invisibile ai telescopi ottici a causa della polvere e dei gas presenti nel disco galattico. Già alla fine degli anni 90 comunque, i ricercatori si resero conto che il "velo" di oscurità poteva essere superato dalle onde radio; il problema era che, data la loro lunghezza d'onda, per rilevare queste onde sarebbe stato necessario avere un telescopio delle dimensioni della Terra. Impossibile fattivamente ma non pensando ad un telescopio virtuale, cioè usando l'interferometria per correlare telescopi presenti nei diversi punti del globo.
Come creare un telescopio virtuale grande come la Terra
Image credit: Event Horizon Telescope via nature.com
I primi tentativi utilizzarono onde radio di 7 millimetri e telescopi a poche migliaia di chilometri di distanza. L'immagine ottenuta era sfocata. Bisognava fare un passo ulteriore  migliorando le infrastrutture e ampliando la dimensione (virtuale) del telescopio terrestre. Tra i telescopi aggiuntisi per raggiungere la "capacità" analitica critica, il South Pole Telescope e l'Atacama Large Millimeter/submillimeter Array in Cile.
Un'altra difficoltà riscontrata durante l'analisi di Sgr A* era la minore stabilità dei suoi "dintorni". Date le dimensioni di M87*, la materia che ruota intorno ad esso si trova a distanze superiori a quelle dell'orbita di Plutone dal Sole; al contrario la materia che, surriscaldata, origina il segnale da Sgr A* si trova ad una distanza inferiore di quella di Mercurio dal Sole.
A questo si aggiungeva che la radiazione proveniente da M87* rimaneva sostanzialmente stabile nell'arco di giorni mentre quella di Sgr A* mostrava variazioni ogni decina di minuti. 

M87* e Sgr A* a confronto
(Image credit: EHT collaboration via ESO.org)
A causa di questa variabilità, i ricercatori del EHT hanno dovuto prima generare migliaia di immagini di Sgr A* e infine fare la media delle caratteristiche comuni, per ottenere una media affidabile.
Per visualizzare M87* una immagine era stata sufficiente per essere riproducibile.

L'immagine di Sgr A* ricorda quella di M87* con la presenza di un anello di radiazione che circonda una zona scura, esattamente delle dimensioni previste sia da osservazioni indirette (orbita delle stelle adiacenti) che dalla relatività generale. Tra le differenze visive rilevate, la forma a mezzaluna della regione più luminosa in M87* indica, forse, zone a maggior densità accelerate lungo la nostra linea di osservazione.
Da simulazioni condotte con supercomputer i ricercatori hanno dedotto che Sgr A* ruota in senso antiorario lungo un asse che punta verso di noi, quindi una immagine quasi frontale invece che "di taglio" come quella di M87*.

Pronti per un viaggio virtuale al centro della nostra galassia?



Fonte
- Focus on First Sgr A* Results from the Event Horizon Telescope
Geoffrey C. Bower (2022) The Astrophysical Journal Letters








Letture consigliate scritte da due premi Nobel (link al sito amazon)

La mutazione che ci fece perdere la coda

Chi ha passato la giovinezza a fare ricerca come cacciatore di geni prima che il Progetto Genoma fosse concluso, fornendo un “indirizzario” preciso dei geni presenti in specifiche aree cromosomiche, si sarà scontrato innumerevoli volte con sequenze ripetute della classe Alu che sembravano onnipresenti tra i dati ottenuti. Sequenze da sempre definite come conseguenza dell’abbondanza del cosiddetto DNA spazzatura (alias una parte del DNA non codificante che è la maggioranza del genoma).
La sequenza Alu
Le sequenze ripetute costituiscono la quasi totalità di aree come i centromeri e i telomeri ma possono trovarsi anche negli introni genici o negli spazi intergenici.
Alcune di queste sequenze hanno la particolarità di essere dei discendenti di antichi retrovirus non più funzionali, risultato di un evento di integrazione malriuscito e privi di ogni informazione per la sintesi di involucri virali. Molti di questi hanno però mantenuto la capacità di “riprodurre” la propria sequenza in autonomia (grazie alla capacità di codificare la trascrittasi inversa - assente nelle cellule eucariote) ricreando sequenze di DNA dai trascritti generati dalla RNA pol della cellula; sequenze che poi saltano in altri siti cromosomici.
Un tempo, come detto, si sarebbe catalogate queste sequenze come DNA spazzatura. Oggi si sa che queste hanno avuto un ruolo importante nell’evoluzione (anche umana) facilitando la comparsa di mutazioni/alterazioni DNA, alcune delle quali sono state selezionate positivamente. Non si tratta invero di soli fenomeni multigenerazionali, ma pare essere un evento frequente durante la maturazione neuronale nell’embrione.

Potremmo quindi considerare la comparsa ed evoluzione di (alcune) sequenze ripetute come una endosimbiosi estrema in cui un retrovirus ancestrale** ha dismesso la capacità di generare particelle virali in cambio di un trasporto “gratis” nei cromosomi dell’ospite fornendo all’ospite un acceleratore evolutivo.

A dimostrazione dell’importanza di queste sequenze nell’evoluzione umana, un articolo pubblicato recentemente su Nature in cui si correla uno di questi “salti” intragenomici delle sequenze Alu con il processo di perdita della coda nel primate diretto antenato degli umani.
Nota. Le sequenze Alu, prive della capacità di codificare per la trascrittasi inversa, si affidano a quella codificata da un altro trasposone noto come L1. Chiaramente per essere compatibili con una minima staticità genomica questi eventi non possono essere frequenti; si stima che compare un nuovo inserto Alu trasmissibile (quindi presente nelle cellule germinali) ogni 200 nascite.
**Le sequenze Alu (presenti unicamente nei primati) si calcola siano comparse 65 milioni di anni fa. In questo lasso di tempo sono aumentate da 1 copia a circa 1 milione di copie sparse nel genoma.
Come detto, la maggior parte di questi salti intragenomici non hanno avuto alcun effetto in quanto avvenuti in aree non codificanti (la maggior parte). Ogni tanto però capitava che non solo il salto avveniva dentro un gene ma in un esone, alterando (o distruggendo) la funzionalità di quel gene. Va da sé che se il gene aveva un ruolo cruciale, il salto “incauto” si autoestingueva. Uno di questi salti avvenne all’interno del gene TBXT, codificante per un fattore di trascrizione coinvolto  nello sviluppo della coda (nei topi mutazioni geniche causano la formazione di una coda corta).
La separazione tra primati con e senza coda

All’incirca 25 milioni di anni fa una sequenza Alu si integrò all’interno di questo gene causando la perdita dell’esone 6 e con essa una funzione alterata della proteina che pur rimanendo funzionale (la sua scomparsa provoca morte embrionale) ebbe come conseguenza la scomparsa della coda nella linea evolutiva che avrebbe portato a oranghi, gibboni, scimpanzé, gorilla e umani. La discendenza è stata verosimilmente in grado di sopportare tale deficit (rispetto a cugini arboricoli che necessitano della coda) in quanto linea già indirizzata verso una locomozione sul terreno

Fonte
- On the genetic basis of tail-loss evolution in humans and apes
Bo Xia et al, Nature volume 626, pages1042–1048 (2024)

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