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Batterio con mini genoma o quasi-virus?

In un precedente articolo si è discusso del motivo per cui i virus sono catalogati come quasi-organismi, senza però fare ipotesi sulla loro origine.
Tre le ipotesi principale, non mutualmente esclusive: 
  • stringhe di informazione prebiotica comparse al tempo del mondo a RNA, capaci di parassitare le cellule;
  • regressione massima di una cellula che parassitava altre cellule (endoparassita) adattatasi talmente bene da essersi ridotta a mera informazione genetica veicolata da involucro proteico;
  • sul modello del gene egoista proposta da Dawkins, una stringa di informazione comparsa in un genoma diventata indipendente e capace, una volta ricoperta da un involucro proteico, di  infettare altre cellule.
A supporto della seconda ipotesi un articolo apparso su BioRxiv in cui si descrive il batterio Sukunaarchaeum adattatosi a tal punto al ruolo di parassita cellulare da essere rimasto (quasi) solo il suo genoma.
Dati ancora indiziari in verità considerando che ad oggi di questo organismo è noto solo il DNA scoperto all’interno del dinoflagellato Citharistes regius (eucarioti unicellulari Regno Protozoa).
Citharistes regius
Molto interessante, ed indicativo di una evoluzione finalizzata al totale parassitismo, il fatto che la maggior parte dei 189 geni che compongono del piccolo genoma sono attinenti a funzioni legate alla sua replicazione senza quasi geni codificanti per vie metaboliche
I virus propriamente detti sono avanti di un passo avendo eliminato gran parte dei geni "replicativi" (tranne nel caso della trascrittasi inverse necessaria ai retrovirus) demandando il compito della copiatura al macchinario replicativo della cellula, dirottato ad uso esclusivo del virus per generare la progenie.
A rendere ancora più curiosa la scoperta, l’analisi genomica del microbo-quasi-virus lo collaca nel regno degli Archea (batteri antichi diversi dai batteri moderni tanto quanto lo sono dagli eucarioti, con cui tuttavia hanno punti in comune).

La scoperta del Sukunaarchaeum è stata, come spesso accade, casuale.
I ricercatori erano intenti al sequenziamento del DNA nelle cellule di C. regius perché era nota la presenza all'interno del dinoflagellato di cianobatteri simbiotici. Sorpresa fu il ritrovamento, accanto al DNA del dinoflagellato e dei cianobatteri, di una sequenza genica diversa consistente in DNA circolare di sole 238.000 paia di basi, appena il 5% della lunghezza del genoma del batterio Escherichia coli, mai identificato al di fuori di questa cellula ad indicare un ciclo vitale strettamente da endoparassita. 

Per quanto piccolo, la metà del Nanoarchaeum equitans, anch'esso un archeobatterio parassita endocellulare, il record di "essenzialità" spetta alle 160k paia di basi di un batterio che vive in simbiosi nelle cellule di alcuni insetti, a cui fornisce molecole utili.
Nanoarchaeum equitans (ingranditi) e la cellula da loro colonizzata
Credit: alchetron
Sukunaarchaeum è privo di praticamente tutte le vie metaboliche riconoscibili, il che suggerisce che il microbo abbia solo una relazione parassitaria (sfruttamento unilaterale) con il dinoflagellato. Come anticipato, quasi tutti i geni di Sukunaarchaeum sono coinvolti nella replicazione, trascrizione e traduzione del DNA cosa che lo mette a metà strada tra un virus (che delega alla cellula il lavoro) e un classico endoparassita dotato di proprie vie metaboliche.

Manca ancora la fotografia al microscopio del Sukunaarchaeum, cosa non facile considerando che le sue dimensioni sono verosimilmente inferiori al micrometro (le dimensioni di N. equitans, il cui genoma è 2 volte più grande, sono di soli 0,4 micrometri). Ideale sarebbe trovare un “parente” che vive libero così da determinare esattamente la funzione delle proteine del microbo, comprese diverse proteine di grandi dimensioni associate alla membrana che potrebbero essere correlate al modo in cui interagisce. con il suo ospite.

Sukunaarchaeum è con ogni probabilità solo il primo di una lunga lista se si considera che dall'analisi dei database contenenti sequenze di DNA trovate da prelievi in mare in diverse parti del globo, sono state trovate sequenze simili.

Fonti
Microbe with bizarrely tiny genome may be evolving into a virus
Science (06/2025)
A cellular entity retaining only its replicative core: Hidden archaeal lineage with an ultra-reduced genome
Ryo Harada et al. (2025) bioXriv
The genome of Nanoarchaeum equitans: Insights into early archaeal evolution and derived parasitism


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Le prime tracce di vita multicellulare sulla Terra ... suggerita da alcuni batteri odierni

L'origine (come, quando) della vita multicellulare sulla Terra è ancora oggetto di dibattito. Il consensus fa risalire l'evento a circa 1,2 miliardi di anni fa o secondo alcuni poche centinaia di milioni di anni prima.
La multicellularità non è una "curiosità" accademica ma è stato il volano che ha trasformato (letteralmente) il nostro pianeta da una luogo deserto in cui la vita germogliava solo in luoghi molto specifici (camini sottomarini) mentre tutto il resto era un deserto di rocce o acqua, in quello odierno. La multicellularità ha innescato una cascata di effetti che non ha portato solo a nuove forme di vita ma  nuove nicchie ecologiche e reti trofiche. Ha cambiato l'atmosfera terrestre, il ciclo del carbonio e la biogeochimica, guidando l'evoluzione. 
Un intervallo di tempo considerevole rispetto alla comparsa della vita sulla Terra, le cui tracce più antiche (e certe) risalgono a 3,7 miliardi di anni fa, visibili nelle stromatoliti trovate in Groenlandia.
Si ipotizza tuttavia che pur in assenza di evidenze fossili la Terra avrebbe potuto ospitare la vita a partire da 4,3 miliardi di anni fa.
Il passaggio tra cellule indipendenti alla multicellularità è verosimilmente transitato attraverso colonie di cellule (batteriche probabilmente) divenute con il tempo sempre più dipendenti dalla vita in gruppo fino a non potere più vivere singolarmente. Una teoria questa che va sotto il nome di Teoria Coloniale e che si basa sui vantaggi evolutivi acquisiti dal vivere a stretto contatto.
Passaggio successivo al vivere in comunità l'unione fisica tra almeno alcune di queste (a formare una sorta di sincizio dove il materiale genetico era tenuto separato pur all'interno di cellule unite, o come possibilità che non esclude la precedente, le singole cellule della colonia iniziarono prima a scambiarsi segnali chimici per poi assumere funzioni specializzate, come ad esempio la cattura del cibo in quelle più esterne. 

Oggi sono noti solo un tipo di batteri (unicellulari) il cui ciclo vitale avviene all'interno di gruppi che  si organizzano come organismi multicellulari. Si tratta dei "batteri magnetotattici multicellulari" (MMB) il cui nome deriva dalla capacità di usare il campo magnetico terrestre per muoversi e orientarsi. Mancano dati definitivi ma l'ipotesi corrente è che questi batteri presentino una multicellularità obbligata, non essendo stati trovati (o coltivati) come entità singole.
Immagine in falso colore MMB
(credit R. Hatzenpichler)
Il problema principale nello studiare i MMB è il non poter essere coltivati (almeno con le tecniche oggi note) in laboratorio, per cui i dati vengono dalla loro osservazione in. condizioni naturali.
Utile per la loro caratterizzazione uno studio appena pubblicato su PLOS Biology che indica come gli MMB siano più complessi di quanto ipotizzato.
Tra i dati emersi quello che le cellule MMB non sono del tutto identiche morfologicamente e che ciascuna possiede un patrimonio genetico leggermente diverso, dato che li differenzia sostanzialmente da altri batteri (chiaramente clonali) capaci di vivere in colonie come ad esempio i cianobatteri che formano le stromatoliti: mentre i cianobatteri possono sopravvivere individualmente, gli MMB no.

Dal sequenziamento del DNA di 22 colonie di MMB, si è dedotta l'esistenza di  8 nuove specie. La quantificazione della diversità genetica all'interno di ciascuna colonia ha rivelato che le cellule all'interno non sono clonali. 
Alcune cellule possiedono funzionalità specifiche che permette la sopravvivenza del gruppo. Colonie (o forse consorzi?) con un metabolismo di tipo solfato-riduttori mixotrofi.

Sappiamo che la multicellularità si è evoluta più volte durante l'evoluzione, come evidente dalla comparazione tra piante, animali e funghi.
Si riconoscono tre fasi generali in questa evoluzione: adesione cellula-cellula, comunicazione cellula-cellula, cooperazione, specializzazione e, almeno in alcuni casi, una transizione dalla multicellularità semplice a una multicellularità più complessa.
Il dibattito sugli MMB rimane aperto. Non tutti i ricercatori in effetti concordano sul fatto che siano veramente organismi multicellulari. Ci sono invero molte sfumature in questa definizione. La maggior parte dei biologi preferisce definirla multicellularità "semplice" o "primitiva". In questo senso, rappresentano un passaggio intermedio tra gli organismi unicellulari e gli organismi veramente multicellulari.
Fonte
Multicellular magnetotactic bacteria are genetically heterogeneous consortia with metabolically differentiated cells
GA Schaible et al, PLOS Biology (2024)

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Nuovi indizi sul legame tra Asgard e proto-eucarioti

In un precedente articolo si era parlato degli Asgard, sottogruppo di Archea, come gli organismi più simili alle cellule che avrebbero originato gli eucarioti.
In estrema sintesi l'albero della vita consta di 3 Domini (Archea, Bacteria e Eucarya), il più recente dei quali il nostro (cioè Eucarya) sarebbe originato dalla "fusione" simbiontica tra un Archea e un batterio. 
Maggiori dettagli negli articoli––> "Asgard" e "Alla ricerca di LUCA". 
Da un ramo degli Archea e una "preda" batterica, l'origine degli eucarioti
Graphic: Florian Wollweber / ETH Zurich
Di particolare interesse sul tema la recente caratterizzazione di un membro degli Asgard, Lokiarchaeum ossiferum, la cui analisi proteica ha permesso di identificare proteine analoghe (funzionalmente omologhe) alle "nostre" actina e tubulina così da fare luce su alcuni dei passaggi evolutivi che hanno accompagnato la transizione tra questi Archea e gli eucarioti.
Lokiarchaeum ossiferum
Image T. Rodrigues-Oliveira, University of Wien

Nella prima dello studio, pubblicato 2 anni fa su Nature, i ricercatori descrissero la struttura cellulare del L. ossiferum, scoperto in Slovenia nei sedimenti di un canale di acqua salmastra, evidenziando la presenza di alcune strutture tipiche degli eucarioti, basate su una proteina molto simile alla actina degli eucarioti.
Questa proteina, chiamata Lokiactin (poi trovata in gran parte degli Asgard), forma strutture filamentose abbondanti nelle protrusioni simili a tentacoli che emanano dal corpo cellulare di questi Archea, che sembrano svolgere un ruolo chiave nel mantenere la architettura cellulare (quello che negli eucarioti chiameremmo citoscheletro).
Il citoscheletro degli eucarioti però è basato (anche) sui microtubuli, polimeri lineari in perenne rimaneggiamento il cui mattone fondante è la tubulina. Questi minuscoli tubi sono importanti per i processi di trasporto all'interno di una cellula e la segregazione dei cromosomi durante la divisione cellulare. L'origine (evolutiva) dei microtubuli è ancora oggi poco compresa essendo (apparentemente) assente negli altri Domini. 
Un recente articolo apparso su Cell pare viene in aiuto a questo mistero riportando la scoperta di proteine (funzionalmente) simili alla tubulina negli Asgard. capaci di assemblarsi a formare microtubuli, sebbene più piccoli di quelli presenti negli eucarioti.
Dato curioso, solo poche cellule di Lokiarchaeum producono i microtubuli. Inoltre, a differenza dell'actina, tali proteine (i geni) sono presenti solo in pochissime specie degli Asgard e non sono state rilevate negli altri Archea.
Graphic: Margot Riggi, Max Planck Institute of Biochemistry
Domanda a cui bisognerà rispondere è perché solo alcuni microbi di Lokiarchaea producono queste strutture e che ruolo rivestono nella funzione cellulare. Come prima anticipato, negli eucarioti i microtubuli sono responsabili dei processi di trasporto all'interno della cellula e vi sono delle proteine ​​motrici che "camminano lungo" questi tubi (chinesina e dineina ad esempio), proteine però mai identificate negli Asgard.
Il fatto che anche nei Lokiarchaea tali strutture siano dinamiche (i monomeri di tubulina si aggiungono ad una delle estremità) rafforzan l'idea che queste svolgano (anche) funzioni di trasporto simili ai microtubuli negli eucarioti.

L'opinione comune attuale è che la comparsa di un citoscheletro sia stato uno dei passaggi più importanti tra quelli che hanno portato agli eucarioti. Possibile quindi che i progenitori di questi Asgard abbiano compiuto, sviluppando queste strutture, il primo passo verso la pluricellularità e la differenziazione funzionale, proprio quando hanno sviluppato strumenti come le "appendici" (protrusioni) cellulari guidate da proteine actiniche con le quali avrebbero catturato e inglobato il batterio dalla cui mancata digestione si sarebbe evoluto un profondo rapporto simbiontico di cui i mitocondri e i plastidi sono testimoni.
Nel tempo, la comparsa del nucleo e dei compartimenti cellulari avrebbe sancito la nascita del Dominio Eukarya.

In sintesi, l'identificazione di proteine e strutture tipo il citoscheletro degli eucarioti (assenti sia nei Bacteria che, in parte, negli altri Archea) rafforza l'ipotesi che tra gli antenati degli Asgard ve ne siano stati alcuni che, dotati della capacità di catturare prede mediante estroflessioni cellulari, abbiano infine dato il via alla fusione simbionte con una preda batterica non digerita. 

Vantaggio ulteriore di queste scoperte è che l'isolamento di queste proto-actine/tubuline permetterà di generare anticorpi specifici utili per scandagliare acquitrini o colture microbiche complesse alla ricerca di nuovi Archea.


Fonte
- Microtubules in Asgard archaea
Wollweber F. et al. (2025) Cell 

- Actin cytoskeleton and complex cell architecture in an Asgard archaeon.




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La cooperazione funziona meglio tra le formiche che tra gli umani

Chiunque abbia avuto a che fare con le formiche in cucina o durante un picnic sa che le formiche sono creature altamente sociali: non le vedrete mai da sole. Anche gli umani sono creature sociali (con tutte le eccezioni del caso). 
Le formiche e gli umani sono le uniche creature in natura che cooperano durante il trasporto di grandi carichi le cui dimensioni superano di molto quella dei singoli membri.
Un team di ricerca israeliano del Weizmann Institute of Science ha sfruttato questa comune tendenza per condurre un'affascinante gara su chi fosse più bravo a manovrare un carico voluminoso lungo un percorso non lineare in cui la "muta" intelligenza collettiva (da intendersi come cooperazione muta per risolvere il problema) era la chiave per riuscire nell'impresa.

I risultati dell'esperimento comportamentale, pubblicati sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), permettono di chiarire alcune dinamiche dei processi decisionali di gruppo.
Chiaramente umani e formiche per quanto sociali siano non hanno molto in comune per cui era necessario ideare un confronto interspecie non viziato dalle dotazioni fisiche e di comunicazione. A tale scopo i ricercatori hanno creato una versione reale del "rompicapo dei traslocatori di pianoforti", che non è il titolo della celebre scenetta sulla scalinata di Laurel&Hardy ma un classico problema computazionale nel campo della pianificazione del movimento nella robotica, sui possibili modi di spostare un oggetto dalla forma insolita (ad esempio un pianoforte) dal punto A al punto B in un ambiente complesso. Nello specifico i due sfidanti dovevano spostare non un (mini)pianoforte ma un oggetto a forma di T, di dimensione tale che potesse essere spostato da un singolo membro del team solo spingendo/tirando, lungo un percorso diviso in tre camere collegate da due strette fessure. 
Reclutare i partecipanti allo studio è stato più facile nel caso degli umani, che si sono offerti volontari semplicemente perché era stata offerta loro questa possibilità e probabilmente perché gli piaceva l'idea di una competizione.
Le formiche, d'altra parte, sono tutt'altro che competitive. Si sono unite perché sono state indotte a pensare che il carico pesante fosse un boccone succulento da trasportare a casa. Le formiche scelte per competere con l'Homo sapiens sono le Paratrechina longicorni, una specie molto comune a volte definite "formiche pazze" per il movimento  caratteristico restio dal seguire percorsi lineari come invece fanno altre formiche.

Formiche vs. umani (credit: Weizmann)
Sia il team umano che quello formica sono stati suddivisi in sottogruppi composti da un numero diverso di individui in modo da valutare quale fosse la situazione in cui l'intelligenza di gruppo dava il suo meglio.
  • Il team formiche ha affrontato la sfida del labirinto in 3 combinazioni: singola formica; gruppo di 7; gruppo di 80. 
  • Gli umani hanno gestito il compito in 3 modalità: singolo; gruppo di 6 o 9 individui; gruppo di 26. 
Per rendere il confronto il più significativo possibile, in alcuni casi ai gruppi di umani fu chiesto di evitare di comunicare tramite parole o gesti, in alcuni casi indossando maschere chirurgiche e occhiali da sole per nascondere bocca e occhi. Inoltre, ai partecipanti umani fu detto di tenere il carico usando solo le maniglie che simulavano il modo in cui viene le formiche trasportano i pesi. Le maniglie contenevano misuratori che misuravano la forza di trazione applicata da ciascuna persona durante il tentativo.
Ogni combinazione è stata ripetuta varie volte in modo da avere significatività statistica e i vari tentativi sono stati catturati via video e analizzati al computer.

Non sorprenderà sapere che le capacità cognitive (pianificazione e strategia) degli umani siano state determinanti nel fare vincere la prova al team umano nella sfida individuale.
Nella sfida di gruppo, tuttavia, il quadro era completamente diverso, soprattutto per i gruppi più grandi. Non solo i gruppi di formiche hanno ottenuto risultati migliori delle singole formiche, ma in alcuni casi hanno ottenuto risultati migliori degli umani.

I gruppi di formiche agivano insieme in modo calcolato e strategico, esibendo una memoria collettiva che le aiutava sia a persistere in una particolare direzione di movimento che ad evitare di ripetere gli errori. Una sinergia e miglioramento delle prestazioni che pareva mancare agli umani specie nei gruppi più numerosi, in particolare quando la possibilità di comunicazione verbale e "espressiva" tra i membri del gruppo veniva impedita (qui le prestazioni essere inferiori perfino a quelle del singolo individuo a riprova del vecchio detto "meglio soli che male accompagnati").
Il gruppo umano pareva andare sempre verso la soluzione attraenti a breve termine che però si rivelava fallata sul percorso complessivo.

Tra le ragioni biologiche che spiegano la miglior resa di gruppo delle formiche è senza dubbio il loro strettissimo grado di parentela (sono tutte sorelle) con interessi comuni (sopravvivenza del nido e trasmissione dei geni) tanto da avere fatto coniare al celebre biologo Edward O. Wilson il termine superorganismo per descrivere le colonie di formiche (e non solo) come una sorta di corpo vivente composto da più "cellule" che cooperano tra loro; il gruppo è ben superiore alla somma delle singole "parti" che sono sacrificabili esattamente come le cellule della epidermide attivano un programma di differenziamento che le porta alla morte in modo da formare un rivestimento impermeabile per il corpo.
Nel libro "Il gene egoista" Richard Dawkins spiega in termini genetici per quale motivo le api operaie trovino più vantaggioso (in termini genetici) lavorare perché la loro sorella "regina" si occupi della produzione della progenie invece di farlo esse stesse. 
Le formiche che agiscono in gruppo sono più intelligenti, perché per loro il gruppo è maggiore della somma delle sue parti. Al contrario, la formazione di gruppi non ha ampliato le capacità cognitive degli esseri umani. La famosa "saggezza della folla" che è diventata così popolare nell'era dei social network ha dimostrato la sua fallacia in questi esperimenti e la cosa non mi sorprende specie guardando al comportamento degli influencers e degli "influenzati"



Fonte
Comparing cooperative geometric puzzle solving in ants versus humans.





La omochiralità degli aminoacidi non è un retaggio del mondo a RNA

La chiralità della molecole, nota dal XIX secolo, è importante in ambito farmaceutico dato che gli enantiomeri, per quando chimicamente identici, non sempre sono funzionalmente equivalenti.

La chiralità è la proprietà di un oggetto di non essere sovrapponibile alla sua immagine speculare. Due molecole chirali possiedono le medesime proprietà fisiche tranne nel potere rotatorio (identico per intensità ma opposto di segno per ognuna di esse) della luce polarizzata.
Chiralità negli aminoacidi
Le molecole chirali, ripeto identiche ma speculari, mostrano lo stesso comportamento chimico nei confronti di sostanze non chirali mentre la loro interazione chimica nei confronti di altre molecole chirali è diversa (esattamente come una mano destra, stringendo un’altra mano, riesce a distinguere se la mano stretta è destra o sinistra). Questo spiega per quale ragione (a volte) due enantiomeri dello stesso principio attivo di un farmaco, a volte, non sono equivalenti nel profilo beneficio/tossicità, conseguenza di quale associazione mirror-twin sia presente tra effettore e bersaglio. 
Esempio di tale differenza funzionale la ketamina, in cui l'enantiomero R- presenta un miglior profilo funzionale e di sicurezza.
Ecco perché  alcuni farmaci possono essere costituiti dalla forma racemica (mix di enantiomeri) del principio attivo mentre altri devono contenere esclusivamente l'enantiomero destrogiro (R-) o levogiro (L-).
L’analisi con cui si stabilisce la chiralità usa la luce polarizzata circolarmente nella quale il campo elettromagnetico ruota in senso orario o antiorario, formando un “cavatappi” destro o sinistro in cui l’asse è lungo la direzione del raggio di luce; la luce "chirale" viene assorbita in modo diverso dalle molecole R- o L-. Effetto piccolo, ma misurabile, perché la lunghezza d’onda della luce è maggiore della dimensione di una molecola: il “cavatappi luminoso” è troppo grande per percepire la struttura chirale della molecola in modo efficiente. Un metodo migliorato per l'analisi si avvale del laser ad impulsi.
Risulta chiara allora l'importanza di individuare e separare "facilmente" i vari enantiomeri specie quando mostrano uguale comportamento, tranne che durante l'interazione con un bersaglio chirale.
In ambito biologico tre sono le (macro)molecole in cui l'importanza della chiralità è evidente e si manifesta con il fenomeno della omochiralità (prevale un solo enantiomero): zuccheri, aminoacidi e acidi nucleici (la chiralità di questi ultimi è invero la diretta conseguenza della presenza del ribosio - monosaccaride pentosio - nell'unità fondante, cioè il nucleotide). Vedi nota** a fondo pagina.

Poiché in genere le caratteristiche chimico-fisiche degli enantiomeri sono identiche, la ragione della dominanza di un enantiomero come costituenti degli organismi terrestri è verosimilmente conseguenza della specificità del macchinario enzimatico/strutturale che ha amplificato con l’evoluzione la rottura della simmetria già ai tempi del mondo prebiotico. Non ci sono altre ragioni infatti per cui gli zuccheri sono nella quasi totalità D- (cosa che si riflette anche nei nucleotidi con il D-ribosio) e gli aminoacidi L-.

Tra le domande rimaste a lungo senza risposta verificare la possibilità che l'affermazione di un solo enantiomero sia stata guidata da vincoli durante la biosintesi. Una ipotesi classica ipotizzava la esistenza di proteine costituite prevalentemente da residui L-aminoacidi (invece di D-) come conseguenza del D-ribosio negli acidi nucleici, secondo uno schema "specchio".
Nota. Durante la sintesi proteica i “mattoncini” (aminoacidi) da assemblare vengono trasportati al ribosoma dal tRNA (mediatore tra la tripletta del codone genetico e l'aminoacido) che viene caricato con il corretto aminoacido da enzimi noti come aminoacil-tRNA sintetasi, enzimi che mostrano una netta preferenza per L-aminoacidi anche in presenza di entrambi gli enantiomeri.

Una sfida sperimentale a questa ipotesi è stata recentemente pubblicata su Nature Communications che non ha potuto confermarla lasciando aperto il dibattito.
I test di laboratorio sono stati fatti su 15 diversi ribozimi (molecole di RNA con attività enzimatica) capaci di catalizzare i passaggi finali della sintesi di aminoacidi a partire da precursori, molecole che potrebbero essere esistite nel mondo (prebiotico) a RNA. Il risultato è stata la produzione di D- e L- aminoacidi in egual misura, a dimostrazione che l’RNA manca di una predisposizione strutturale tale da favorire una data forma di aminoacidi.
L’omochiralità della vita come noi la conosciamo non sarebbe quindi il risultato di un determinismo chimico, ma di una selezione casuale avvenuta successivamente quando emersero “limiti” nell’assorbimento/metabolismo dell’altro enantiomero, conseguenza della struttura delle proteine evolutesi.

Un contributo importante a tale “spostamento dell’equilibrio” potrebbe essere venuto dagli aminoacidi e dai nucleotidi originati dallo spazio, veicolati dal massiccio bombardamento meteoritico subito dalla Terra primordiale. Indizi in tal senso vengono da studi condotti sui meteoriti come quello del 1997 (che mostrò come tra gli aminoacidi trovati sui resti gli L-aminoacidi erano del 2-9% più abbondanti rispetto alla forma D-) ed uno più recente, del 2021.
Altro articolo interessante sull'argomento "Prebiotic chiral transfer from self-aminoacylating ribozymes may favor either handedness" (Nature Communications, 2024) 

** Nota aggiuntiva sulle molecole chirali.
Carboidrati. Il glucosio è una molecola chirale (due enantiomeri, D- e L- glucosio) di cui solo la forma D- è quella prodotta/utilizzata dagli organismi viventi. Pur essendo versioni speculari l’uno dell’altro le nostre cellule (quindi proteine ed enzimi) sono in grado di utilizzare solo la forma D- 

Aminoacidi. Tranne la glicina tutti gli aminoacidi sono chirali. In natura tuttavia la forma nettamente più abbondante (>90%) nell’organismo è la forma L- sebbene in alcuni occasioni ci siano picchi locali di incremento di D-aminoacidi (ad esempio il D-aspartato durante lo sviluppo del cervello).
Occasionalmente si trovano D-aminoacidi sia in forma libera che come “mattoni” delle proteine originati sia dall'azione di enzimi come le racemasi che per eventi di racemizzazione spontanea degli L-aminoacidi una volta incorporati nella proteina. Nella forma libera i D-aminoacidi sono raggruppati in 3 categorie in base alla loro capacità di funzionare come agonisti sui recettori NMDA, di agire in modo indipendente dai recettori NMDA o se inerti. Oltre che per l'azione delle racemasi una importante frazione di questi D-aminoacidi sono assunti dall’esterno (cibo processato da batteri, ad es. formaggi e yogurt). 

Fonte
Prebiotic chiral transfer from self-aminoacylating ribozymes may favor either handedness
Josh Kenchel et al. Nature Communications (2024)


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Giochi per scienziati di domani (238 esperimenti in una scatola)

... e una lettura interessante per i grandi
"The Vital Question" (Nick Lane)


Dal mondo prebiotico alla vita sulla Terra primordiale

Ricostruire i passaggi che hanno portato da un mondo abiotico alle primissime forme di vita, dando il via all’evoluzione degli organismi unicellulari, è un compito improbo a cui gli scienziati si dedicano fin dai tempi del “brodo di Miller”.
Non solo domande sul "come" ma anche il “dove” sia avvenuto sono oggetto di indagini che negli anni hanno portato alla rimodulazione dalle ipotesi classiche (camini idrotermali sottomarini) alle calme acque in prossimità delle isole (vedi il precedente articolo sul tema e il tag "paleobiologia").
Sul "quando" le stime sono un poco meno nebulose.
Le primissime evidenze della vita sulla Terra risalgono a circa 3,7 miliardi di anni fa (dati basati su rocce verdi trovate in Groenlandia) anche se si stima che la vita fosse già presente 3,9 miliardi di anni fa, quando la Terra iniziò a raffreddarsi fino a una temperatura alla quale esisteva allo stato liquido. La comparsa delle prime cellule (procarioti) è datata intorno a 3,5 miliardi di anni fa mentre per gli eucarioti bisogna bisogna aspettare 1,8-2 miliardi di anni fa (vedi l'articolo "Alla ricerca del LUCA").
Piacevole la sorpresa di trovare un articolo (breve ma adeguato) su un quotidiano che per sua natura, aggravata a volte da faciloneria senza revisione, non è un luogo ideale in cui trovare temi scientifici trattati adeguatamente. Il Foglio ospita una sezione curata da Enrico Bucci che è invece la dimostrazione di come, volendo, sia possibile trattare temi specialistici in modo adeguato.
In questo ultimo Bucci riassume gli studi più recenti centrati sulla dimostrazione della possibilità, nella Terra primordiale, di reazioni spontanee capaci di produrre i "mattoni" della vita e la capacità di questi mattoni di autoassemblarsi in strutture sempre più complesse.
Scopo non è dimostrare COME la vita abbia avuto inizio (impossibile a meno di avere una macchina del tempo) ma che certi eventi siano potuti avvenire.

Prendo spunto dalla bella idea di Bucci per approfondire un poco il tema aggiungendo alcune informazioni e referenze 

Possiamo iniziare il viaggio dalla accertata presenza di molecole organiche complesse come i ribonucleosidi (i mattoni del RNA) durante il primo periodo Adeano. Presenza confermata (anche) dal ritrovamento di queste molecole sui meteoriti, rocce vecchie come il Sistema Solare.
Si ipotizza che i ribonucleosidi possano formarsi anche nello spazio attraverso una serie di reazioni chimiche che coinvolgono semplici molecole organiche come la formaldeide, l'acido cianidrico e l'acqua, tutte molecole presenti sia nelle nubi interstellari che nelle comete. In presenza di radiazione (cosmica o ultravioletta) tali molecole possono essere indotte a reagire formando ribosio, il precursore dei ribonucleotidi.
La scoperta dell'aminoacido glicina in una cometa nostra vecchia conoscenza (vedi qui) ha evidenziato come anche gli aminoacidi possano formarsi nel mezzo interstellare (Ioppolo et al, e S. A. Krasnokutski et al).
Sulla Terra primordiale, condizioni simili potrebbero essere esistite nelle bocche idrotermali grazie alle alte temperature e alla presenza di vari gas e minerali.

Altra ipotesi sulla formazione dei ribonucleotidi è quella sottesa alla ipotesi del mondo a IPA, secondo cui gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) avrebbero svolto un ruolo importante nell’origine della vita, fungendo, nell'ipotetico stadio del "mondo a RNA", da precursori della sintesi di acido ribonucleico. A conferma dell'ipotesi la recente scoperta che tali composti sono estremamente abbondanti nelle nubi molecolari presenti nello spazio (vedi "Un mega idrocarburo nella nube del Toro").

La disponibilità di ribonucleosidi non sarebbe stata però sufficiente. Era necessario che fossero presenti le forme "attive", i ribonucleotidi trifosfato (rNTP) cioè le forme a cui l’aggiunta di tre gruppi fosfato li rende reattivi e idonei per la polimerizzazione. Nella cellula questo processo è mediato da processi che sfruttano l’energia prelevata dal “cibo” (molecole organiche scisse nei componenti base usati per la generazione di energia, conservata sotto forma chimica in molecole reattive come ad esempio ATP). Una volta usato per alimentare una reazione chimica l'ATP perde un gruppo fosfato diventando ADP e deve essere ricaricato usando l'energia chimica accumulata. Stesso discorso per attivare i "mattoni", rNTP e NTP, necessari alla sintesi di RNA e DNA, rispettivamente.
Chiaramente tali reazioni catalizzate da enzimi non potevano esistere nel mondo prebiotico per cui la “attivazione” doveva essere mediata da processi spontanei conseguenti all’interazione tra molecole preesistenti.
Kim e Benner nel 2021 dimostrarono che in condizioni simili a quelli esistenti nell’Adeano, tra cui la presenza di borato, nichel e di un donatore di gruppi fosfato, la sintesi abiotica di rNTP era possibile.
Il ruolo di nichel e borato è catalizzatore e stabilizzatore, rispettivamente. 
Una volta "comparsi" i rNTP  il passo successivo è stato verosimilmente la loro polimerizzazione a formare filamenti di RNA sufficientemente lunghi dal possedere una qualche attività catalitica (vedi in tale proposito il concetto di ribozima). 
Nel 2022 lo studio di Jerome e collaboratori provò che in presenza di materiale vetroso di origine vulcanica (come diabasebasalto e gabbro prodotti in seguito al rapido raffreddamento della lava) i rNTP potevano polimerizzare spontaneamente in catene di RNA di lunghezza fino a 300 nucleotidi.
Processo che, detto per inciso, avrebbe potuto avvenire anche su Marte, un tempo pianeta vulcanicamente attivo.
A questa nozione aggiungiamo i risultati presentati nel 2020 da Tjhung e colleghi che dimostrano che (alcune delle) molecole di RNA prodotte, rientranti nelle dimensioni di cui sopra, erano in grado di sintetizzare copie funzionanti di sé stesse. Il lavoro successivo di Jerome et al. evidenziò attività catalitiche paragonabili ad una ribozima polimerasi e a ribozima ligasi di classe I capaci nel complesso (polimerizzazione e ligazione) di autoreplicarsi
La ligasi è un enzima (o ribozima in questo caso essendo fatto di RNA) capace di catalizzare la formazione di un legame chimico. La polimerasi catalizza la polimerizzazione dei singoli mattoni (monomeri).
La bassa fedeltà di copiatura delle ribozima polimerasi (e in generale delle RNA polimerasi) è un volano di mutazioni che ha conseguenze evolutivamente importanti. Se da una parte i ribozimi "figli" prodotti avranno una certa probabilità di non funzionare (o male) dall'altra l'alta frequenza di mutazioni faciliterà il processo di autoselezione (leggasi evoluzione) di ribozimi più affidabili.  
Punto questo indagato in un lavoro del 2021 (Portillo et al) in cui si sono impiegate tecniche di evoluzione diretta (riproducono in laboratorio la selezione naturale). I ricercatori dimostrarono che erano sufficienti 52 generazioni per ottenere, spontaneamente, ribozimi polimerasi migliorati in efficienza e fedeltà, capaci di generare sequenze di RNA più lunghe. 
Pesiamo questo dato ottenuto in poche generazioni con le decine o centinaia di milioni di anni a disposizione nella Terra primitiva per formare molecole di RNA più complesse ed efficienti nella replicazione (vedi concetto di fitness genetica)
Un articolo del 2022 (Mizuuchi et al) mostra che oltre all’evoluzione verso forme più efficienti si è andata via via affinando la cooperazione tra molecole di RNA che ha portato a ribozimi interdipendenti e a reti di replicatori: l’interazione porta ad un aumento della stabilità complessiva del sistema, favorendo i replicatori coinvolti (vantaggio evolutivo).

Cooperazione che, come mostrato nell’articolo di Müller et al. (2022), avrebbe coinvolto non solo molecole di RNA ma anche corti polimeri di aminoacidi (peptidi), a loro volta capaci di interagire tra loro.
Le molecole ibride RNA-peptide appaiono più stabili e attive rispetto ai singoli RNA o peptidi e come tali avrebbero rappresentato una fase intermedia cruciale nella transizione dal mondo a RNA a un mondo dominato da ribosomi (macromolecole ribonucleoproteiche in cui avviene avviene la sintesi di proteine partendo dall’informazione contenuta nell’RNA) primitivi. 
Un evento chiave per l'emergere del codice genetico e del flusso di informazione RNA-proteine.

I processi ora delineati avvenivano però in un ambiente liquido privo di “barriere”, con il risultato di rendere le interazioni rare e limitate all’instaurarsi di condizioni locali permissive (in una nicchia nella roccia sul fondo dell’oceano o una pozza di acqua calma in una laguna). Riproducibilità e frequenza su tempi non su scala di eoni erano possibili solo se gli ingredienti si fossero trovati all’interno di una struttura protetta; dovevano in altre parole formarsi delle protocellule, ambienti sufficientemente stabili da separarsi dall'instabilità esterna dell’Adeano.
Nulla a che vedere, sia chiaro, con le attuali cellule che anche nella forma batterica hanno un buon grado di complessità. Queste protocellule dovevano essere strutture sferiche delimitate da molecole lipidiche anfipatiche capaci di autorganizzarsi in uno stato energicamente favorevole mediante una  membrana a due strati, delimitante l'interno acquoso in cui erano intrappolati ribozimi e peptidi. Vantaggio della formazione di compartimenti interni era l’aumento di concentrazione locale che rendeva possibile reazioni chimiche anche senza l’ausilio di catalizzatori biologici (enzimi).
Proof of concept verificato nel 2021 nell’articolo di Köksal et al. Fosfolipidi e acidi grassi che dovevano essere presenti nel mondo prebiotico hanno mostrato capacità di auto-organizzarsi come protocellule in presenza di superfici minerali.
Ultimo studio sul tema quello di Saha et al. (2024) in cui si dimostra come l’inglobamento dell’RNA all’interno delle protocellule, oltre a migliorare stabilità e attività catalitiche, accelera l’evoluzione.
Nel dettaglio si è visto che ribozimi incapsulati in vescicole (micelle, liposomi, etc) evolvono più velocemente rispetto a quelli non incapsulati, selezionando forme sempre più attive. Il fenomeno descritto, noto come effetto di Matthew
Effetto di Matthew. Chiunque sia in una situazione di vantaggio (in questo caso, i ribozimi più efficienti) tende ad acquisire più vantaggi rispetto alla concorrenza aumentando così la fitness. Le protocellule come sinonimi di acceleratori/incubatori di impresa o se vogliamo metterla in sociologia "chi più ha, più avrà".

Una ultima notazione riguarda i lipidi che compongono le membrane cellulari. A differenza degli altri "mattoni" della vita che abbiamo dimostrato potere essere sintetizzati anche nello spazio, i lipidi devono essere prodotti. Un importante tassello che manca nel quadro oggi delineato. La soluzione a questo dilemma viene dai cosiddetti condensati biomolecolari, cioè aggregati spontanei e non delimitati da membrane presenti all'interno delle cellule sia nei procarioti che negli eucarioti, e che svolgono ruoli chiave (ribosomi, etc). Questi aggregati avrebbero potuto formarsi nella Terra primordiale creando una sorta di proto-cellule in cui le reazioni di sintesi (anche dei lipidi) diventavano possibili.


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Alcuni libri sul tema
E. Smith & H.J. Morowitz

D.W. Deamer


La genetica dei Neanderthal rivela l'esistenza di almeno due popolazioni poco inclini a "frequentarsi"

Lo studio dei “cugini” Neanderthal è una sfida cruciale sia per comprendere in pieno l’evoluzione dell’Homo sapiens che per conoscere i fattori, ancora poco noti, che decretarono il loro fallimento quando si trovarono a competere con i nostri antenati.
Credit: Neanderthal Museum
Vi rimando agli articoli precedenti** in cui ho descritto gli incroci dei sapiens sia con i Neanderthal che con i Denisova di cui tutti i sapiens odierni (tranne le popolazioni africane) o solo alcune popolazioni in Tibet/Filippine, rispettivamente, portano tracce nel loro genoma. Di particolare interesse sono i vantaggi adattativi (ma anche la predisposizione a certe malattie) che tali incroci hanno prodotto
Di particolare interesse un recente studio che rimescola in parte l’assunto sui Neanderthal come gruppo omogeneo (al netto di differenze dovute al vivere in aree lontane tra loro), grazie alla analisi genetica di resti rinvenuti nella grotta di Mandrin (Francia), con cui si dimostra la presenza nelle ultimo periodo della loro esistenza di almeno due linee di Neanderthal in Europa occidentale rimaste totalmente separate tra loro per quasi 60 mila anni.
I principali gruppi di Neanderthal
(credit: V. Fabre at al, 2009)
Le conoscenze attuali collocano il declino dei Neanderthal intorno a 40-45 mila anni fa con l’arrivo in Europa dei sapiens (gli ultimi reperti risalgono a 42 mila anni fa). L’assunto comunemente accettato è che i Neanderthal facessero parte di un'unica popolazione geneticamente omogenea che spiega anche la sostanziale omogeneità dei loro geni trasmessi ai nostri antenati (tale omogeneità dimostra in effetti più che un massiccio accoppiamento tra i due Homo, una netta selezione positiva dei discendenti che portavano i geni “giusti”, meglio adatti alla sopravvivenza nel "nuovo" ambiente europeo.

La ricerca pubblicata su Cell Genomics complica questo quadro, rivelando che nella fase finale della loro esistenza esistevano almeno due linee di Neanderthal, la "classica" e quella “nuova” scoperto nella grotta francese.
Il nome attribuito al Neanderthal trovato nella grotta (rappresentativo della “nuova” linea) è Thorin, mutuato dal mondo tolkeniano in quanto Thorin era uno degli ultimi re dei nani; allo stesso modo si colloca la linea del neanderthal Thorin come una delle ultime della loro specie.
Il lavoro decennale (ancora lungi dall’essere terminato) iniziò con il ritrovamento dei denti all'ingresso della grotta che oggi sommano a 31 quelli ritrovati (Thorin ne doveva avere 34 in realtà, il che rappresenta il primo Neanderthal mai trovato con molari soprannumerari), oltre alla mascella, frammenti del cranio, falangi e migliaia di piccole ossa.
L'arcata dentaria ricostruita di "Thorin"
Image: Ludovic Slimak et al
L’analisi genetica dimostra che questa nuova popolazione si era differenziata dagli altri Neanderthal europei nel corso dei precedenti 50 mila anni. Inoltre a differenza della maggior parte dei tardi Neanderthal  in cui si riscontra una sostanziale omogeneità genetica, la “famiglia” di Thorin è rimasta geneticamente distinta dagli altri nel periodo che va da 105 mila anni fa fino alla sua estinzione.

La separazione tra le linee di Neanderthal solleva un’altro importante problema cioè come abbiano potuto le popolazioni umane in Europa rimanere isolate per decine di migliaia di anni, nonostante vivessero a distanze percorribili con due settimane di marcia. Forse questa è una chiave importante per comprendere le differenze tra loro e i Sapiens, i cui processi evolutivi, culturali e sociali li spinsero a diffondersi prima in Europa e poi nel mondo mentre i Neanderthal pur in giro da molto più tempo non valicarono mai le steppe eurasiatiche una volta trovato il loro habitat ideale. Probabile anche che non abbiano mai sperimentato un picco demografico che avrebbe forzato la ricerca di nuove terre e, a cascata, l’accoppiamento con loro simili ma di “tribù” diverse.

Thorin non è beninteso un caso isolato. Le analisi genetiche hanno rivelano collegamenti con un altro Neanderthal (Nana) contemporanea di Thorin che viveva ad oltre 1700 km di distanza a Gibilterra. La stretta vicinanza genetica suggerisce che Nana e Thorin appartenessero alla stessa popolazione degli ultimi Neanderthal, una popolazione che non avrebbe avuto scambi con i classici Neanderthal europei per almeno gli ultimi 60 mila anni della loro esistenza.
Scultura di Nana e Flint esposta al museo di Gibilterra 
Lo studio suggerisce anche l'esistenza di una stirpe di Neanderthal "fantasma", che vagava per l'Europa nello stesso periodo e che funse da veicolo di diffusione di geni, ma di cui ad oggi non si hanno tracce fossili. Ne deriva che in quel periodo esistevano altre popolazioni di Neanderthal in Europa che non appartenevano né ai classici Neanderthal né alla popolazione di Thorin.
Inizia quindi ad emergere lentamente una storia affascinante in cui i Neanderthal non sono più un blocco monolitico, ma sono rappresentati da popolazioni diverse non particolarmente propense ad incontrarsi e incrociarsi. Una scoperta che impone di riconsiderare radicalmente la nostra comprensione dell'umanità primitiva.

Gli stessi autori dello studio qui riassunto, avevano dimostrato nel 2022 l'esistenza di una prima migrazione di Sapiens in territorio europeo 10-12 mila anni prima di quanto fino ad allora ipotizzato; gruppi che già padroneggiavano tecnologie come arco e frecce e che verosimilmente rappresentarono, una sfida senza possibilità di opposizione agli Homo che avevano vissuto indisturbati nel continente da molte migliaia di anni (i primi fossili che richiamano i Neanderthal risalgono a 430 mila anni fa).
Tra le domande ancora aperte è se i Neanderthal si siano estinti in modo “repentino” (evolutivamente parlando) magari in seguito a repentini cambiamenti climatici o ad uno sconvolgimento naturale, oppure se siano stati sempre più diluiti dall’avanzare impietoso dei sapiens. La prima ipotesi mi sembra poco coerente data la loro lunga permanenza in Europa

Per capire l'evoluzione dei Sapiens che si sostituirono ai Neanderthal, dobbiamo, anche, capire cosa erano e come vivevano i Neanderthal. 

Fonte
Long genetic and social isolation in Neanderthals before their extinction
Ludovic Slimak et al, (2024) Cell Genomics, 4(9)
Neanderthals and humans lived side by side in Northern Europe 45,000 years ago
UCB, news
Who were the Neanderthals?


** articoli precedenti sul tema
Per articoli simili cliccate sul tag "antropologia evolutiva"


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L'ultimo libro dell'autore dello studio oggi discusso



Vivere senza mitocondri

Caratteristica condivisa tra tutti gli eucarioti la presenza dei mitocondri, conseguenza (ne ho scritto nell'articolo "Alla ricerca di LUCA" che vi consiglio di leggere prima di questo) di un processo endosimbiotico avvenuto eoni fa tra una cellula proto-eucariotica ed un batterio. 
Evento simile, ma presente solo nel regno vegetale, ha portato alla “unione” tra il proto-eucariote (probabilmente già in possesso dei mitocondri) con un cianobatterio (fotosintetico) ad originare i cloroplasti
Notizia sorprendente quindi la scoperta di eucarioti privi di mitocondri, la centralina energetica con la duplice funzione di utilizzo e neutralizzazione (essendo tossico) dell’ossigeno molecolare per ricavare energia chimica.
Monocercomonoides
(credit: Naoji Yubuki)
Il dato si riferisce ad un genere di protisti che vive nell’intestino di molti animali (dalle termiti ai ruminanti), in cui l'assenza dei mitocondri è quasi sicuramente un evento secondario (evolutivamente).
I protisti sono un (ex) raggruppamento/regno del vivente che comprende organismi molto diversi tra loro, oggi usato solo come termine ombrello per indicare quegli organismi (unicamente) unicellulari che non sono catalogabili come vegetali, animali o funghi (vedi concetto di parafilia).
Lo studio, pubblicato sulla rivista PLOS Genetics, è stato condotto sui Monocercomonoides (protisti dell'ordine Ossimonade) che vivono nelle viscere di animali, organismi quindi evolutisi in un ambiente in cui l’ossigeno è praticamente assente. Vero che precedenti studi avevano mostrato che diversi gruppi di protisti possiedono mitocondri più semplici della versione classica ma si riteneva che fosse impossibile per una specie perderli completamente.
La scoperta che Monocercomonoides exilis (phylum: Preaxostyla - classe: Metamonada) erano privi di mitocondri ha spinto i ricercatori a fare una analisi comparativa del genoma di varie specie di ossimonade allo scopo di comprendere quali siano stati gli adattamenti biochimici che hanno permesso a queste cellule di compensare la perdita dei mitocondri.
L’analisi ha permesso di datare la perdita dei mitocondri ad antenati vissuti circa 100 milioni di anni fa (in piena era dei dinosauri), tempo che coincide con il processo di speciazione delle ossimonadi oggi diffuse.

La "scelta" di fare a meno dei mitocondri, in un organismo evolutosi insieme ad essi, è stata possibile grazie alla rimodulazione della biochimica cellulare con il trasferimento (ovviamente precedente la "perdita") di alcune funzionalità chiave dal mitocondrio al citosol. Lo studio ha dimostrato che questo evento ha coinvolto il trasferimento di reazioni come la sintesi del FeS cluster**, evidente in "cugini" ossimonadi originati da un antenato comune al clade, a dimostrare un preadattamento che ha reso possibile, in alcune specie, la perdita dei mitocondri (il che dimostra anche che tale "modifica" non è stata un adattamento alla perdita dei mitocondri ma la condizione che ha reso possibile tale perdita)

Lo studio di più specie di ossimonadi ha fornito la prova che la profonda riorganizzazione della sintesi del cluster FeS è stata avviata da un trasferimento genico orizzontale della via batterica SUF e da una perdita della via mitocondriale ISC già prima dell'ultimo antenato comune di questo clade (vedi Mitochondrial iron-sulfur clusters: Structure, function, and an emerging role in vascular biology).

Come molti protisti anaerobi, M. exilis non è in grado di sintetizzare ATP mediante fosforilazione ossidativa; l'ATP viene invece sintetizzato tramite glicolisi nel citosol (Karnkowska et al. 2016). Insieme alla perdita di fosforilazione ossidativa, M. exilis non codifica per nessuno degli enzimi del ciclo dell'acido tricarbossilico
M. exilis possiede una via completa dell'arginina deiminasi che gli consente di produrre ATP mediante conversione di arginina in ornitina, NH3 e CO2 (Novák et al. 2016). Dall'analisi del genoma si evince che il protista può generare ATP metabolizzando anche altri amminoacidi, tra cui triptofano, cisteina, serina, treonina e metionina

Fonte
Characterization of the SUF FeS cluster synthesis machinery in the amitochondriate eukaryote Monocercomonoides exilis
Priscila Peña-Diaz et al, (2024) Current Biology

The Oxymonad Genome Displays Canonical Eukaryotic Complexity in the Absence of a Mitochondrion
Anna Karnkowska et al, (2019) Mol Biol Evol.

- Genomics of Preaxostyla Flagellates Illuminates the Path Towards the Loss of Mitochondria
Lukáš V. F. Novák et al, (2023) PLOS Genetics


Note

** I cluster ferro-zolfo (Fe-S) sono cofattori il cui ruolo più noto è mediare il trasferimento di elettroni all'interno della catena respiratoria mitocondriale attraverso i complessi I, II e III al citocromo c, prima del successivo trasferimento all'ossigeno molecolare.. I percorsi dei cluster Fe-S che funzionano all'interno dei complessi respiratori sono altamente conservati tra batteri e mitocondri delle cellule eucariotiche. 
Nei batteri questi cluster sono localizzati in varie sedi cellulari e sono coinvolti in numerosi processi biologici essenziali, tra cui:
Citosol.
  • via metabolica degli amminoacidi e delle purine, e la replicazione e la riparazione del DNA. Sebbene prodotti direttamente nel citosol, non fluttuano “a caso” ma sono subito incorporati in proteine/enzimi specifici, liberi o associati alla membrana, dove partecipano alle reazioni redox. 
  • Nei casi in cui siano utilizzati come mediatori nel trasporto di elettroni (ad esempio nei batteri aerobi) , i cluster Fe-S sono componenti della catena respiratoria, in modo simile a quanto avviene nei mitocondri.
Membrana
  • Nei batteri fotosintetici, come i cianobatteri, i cluster Fe-S sono componenti integrali dei complessi proteici fotosintetici legati alla membrana e dei trasportatori di elettroni.
  • Sistemi di cluster ferro-zolfo (ISC) e fattore di utilizzazione dello zolfo (SUF): questi sistemi sono responsabili dell'assemblaggio e del mantenimento dei cluster Fe-S. Il sistema ISC funziona in condizioni normali, mentre il sistema SUF viene attivato in condizioni di stress come stress ossidativo e carenza di ferro.
  • Batteri fissatori di azoto: nei batteri fissatori di azoto, i cluster Fe-S fanno parte del complesso enzimatico nitrogenasi, che è essenziale per la fissazione dell'azoto.


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L'angolo dei consigli per gli acquisti
Un modellino didattico del mitocondrio e un libro sull'elusivo mondo dei protisti (link ad Amazon)





Nikolaj Ivanovič Vavilov. Quando il pensiero scientifico si scontra con l'ortodossia ideologica (o religiosa)

 La mela, la scienza e le ideologie
Quando si pensa agli ostacoli che il pensiero scientifico ha dovuto affrontare per "riuscir a riveder le stelle" (parafrasando Dante), il pensiero va subito all'inquisizione e a Galileo. Una visione semplicista (e miope) l'implicito identificare il cattolicesimo come il nemico principale della conoscenza scientifica.
Più prosaicamente sono LA religione (in particolare quelle monoteiste ... ma non solo, come alcuni pogrom induisti insegnano) e l'ideologia i principali avversari del pensiero scientifico, che per definizione non accetta verità altre a quelle "scritte nel Libro". O meglio la religione e l'ideologia diventano nemiche della scienza nel momento in cui escono dall'ambito personale o di confronto dialettico e pretendono di imporre il pensiero unico ritenendosi le uniche depositarie della verità.
Numeri alla mano, a cavallo del 1600 e nella sola Germania luterana le persone processate per stregoneria furono 73 mila, di cui almeno 40 mila condannate al rogo (numeri ben superiori a tutta l'inquisizione spagnola cattolica). Una persecuzione che non risparmiò nemmeno Keplero che dovette difendere la madre settantenne dalle accuse lanciate (si badi bene) non dallo "stato" ma dai concittadini, che peraltro ignoravano il senso dei suoi scritti e che non conoscevano di persona essendo emigrato da anni.
Mendel era un frate ed è grazie ai suoi studi che nasce la genetica. Darwin non era certo un ateo ma è grazie alla sua libertà di pensiero (e all'essere vissuto in un epoca sì bigotta ma in cui la religione aveva perso il potere "esecutivo" e il pensiero illuminista si stava fondendo con il positivismo) che il concetto stesso di evoluzione si afferma e sostituisce il Lamarckismo; teoria quest'ultima che noi posteri non dovremmo disprezzare dato che l'epigenetica è di fatto una sorta di neo-lamarckismo che non si contrappone alla genetica classica ma la completa. Se solo Darwin e Mendel (contemporanei) avessero conosciuto le rispettive opere chissà che sintesi ne sarebbe venuta fuori! Come loro, molti sono stati gli studiosi di scienza che erano parte integrante della chiesa: il canonico Copernico; Padre Angelo Secchi, uno dei padri dell’astrofisica; don Georges Lemaitre, padre del Big Bang, don Lazzaro Spallanzani (fondamentale per la biologia moderna);  ... . La differenza la fanno quindi le leggi che la società sa imporre per prevenire aneliti teocratici o totalitari. Dimentichiamo troppo spesso quanto le libertà europee oggi date per scontate siano state conquistate dopo secoli di contrapposizione società/stato/religione.
Se fosse solo un problema religioso potremmo anche farcene una ragione. Ma i nemici delle scienze biologiche si annidano anche in ideologie ammantate di puro materialismo, come il comunismo. Sarà che quando le ideologie diventano "assolutiste" (alias non esiste altra verità all'infuori di essa) diventa difficile distinguerle dalla religione se non per l'assenza di un pantheon divino, prontamente sostituito dal culto della personalità come ben dimostrano i casi dei "laicissimi" Mao e Stalin.

Un fenomeno poco noto quello della lotta scienza-ideologia, ben esemplificato però dalla fine di Nikolaj Ivanovič Vavilov e dal caso delle mele selvatiche del Tien Shan, da lui identificate come le progenitrici delle mele oggi coltivate in tutto il mondo. L'accusa che portò alla sua condanna a morte, commutata in 20 anni di gulag siberiano (dove morì dopo soli tre anni), verteva sul reato di aver difeso la genetica classica mendeliana, considerata una "pseudoscienza borghese".
A leggerlo oggi fa effetto ma sappiamo bene che una tale accusa non stonerebbe in stati teocratici odierni.

Riassumiamo la vicenda.
Malus sieversii selvatica in Kazakhstan
La mela oggetto del contendere è la Malus sieversii, dal nome del suo scopritore, il tedesco Johann Augustus Carl Sievers. Nel suo ruolo di membro della Accademia imperiale russa delle scienze di San Pietroburgo  e noto l'interesse di Caterina II per la botanica, Sievers compì una serie di viaggi in Asia centro meridionale (attuali Kazakhstan, Uzbekistan, ...) dove si imbatté in mele selvatiche, piccole e dolci. Ben prima di essere "scoperta", la mela si era diffusa lungo la Via della Seta al seguito dei mercanti, fino ad arrivare ai centri delle civiltà mesopotamiche, egizie, cinesi, greche, romane e infine nelle americhe al seguito di Colombo.
Durante il suo lento diffondersi la Malus sieversii si sarebbe trasformata (ad opera della selezione operata dall'uomo) nelle varietà attuali, perdendosi la memoria dell'origine. Per riscoprirne la sua centralità filogenetica bisogna attendere il 1929 quando il genetista e agronomo russo Nikolaj Vavilov, dopo avere visitato le foreste di meli selvatici del Tien Shan (le Montagne Celesti del sud del Kazakhstan ... bellissime!) identifica tali mele come le progenitrici delle varietà attuali. Una affermazione oggi innocua ma che alle orecchie sovietiche suonò come una indebita ingerenza "borghese" (termine che comprendeva ogni studio non centrato sulle problematiche marxiste).
Una accusa non solo frutto di cecità ideologica ma che in realtà sottintendeva il dirigismo economico sovietico impegnato ad eliminare ogni coltura che non rientrasse nei piani quinquennali. E le mele selvatiche non rientravano in questi piani ma anzi, come vedremo poi, l'idea era di sostituirle in toto con le varianti "moderne". Una scelta quanto meno miope per il semplice fatto che tale ceppo primigenio era sopravvissuto sostanzialmente indenne per decine di milioni di anni. Una specie resistente, in grado di tollerare mutazioni climatiche letali per altri ceppi.
 Nota. Oggi si sa che il melo esisteva già nelle fasi finali dell'era dei dinosauri (circa 70 milioni di anni fa), per cui alla prova dei fatti capace di superare eventi come l'impatto meteorico che pose fine al loro dominio, e le più "recenti" glaciazioni.
Sostituire una specie antica con una meno rodata anche se apparentemente più produttiva appariva a Vavilov come una scelta molto rischiosa. Rischiosa non solo da un punto di vista ecologico ma anche per l'effetto che avrebbe potuto avere una annata di condizioni climatiche estreme sulla disponibilità di mele, fonte principale dell'alimentazione locale. Bisogna ricordare che Vavilov non era un teorico con poco senso pratico ma uno che aveva dedicato gran parte della vita di studioso (noto anche oltreoceano) a combattere la cronica penuria di cibo post-rivoluzionaria, ottimizzando le coltivazioni in modo "scientifico" in modo da massimizzare e ampliare la gamma delle coltivazioni locali (che l'attuazione dei "piani quinquennali" decisi a Mosca rendeva sempre più a rischio). Quanto le mele fossero importanti in quell'area lo si evince dal nome della (ex) capitale, Alma Ata, coniato a metà '800, che in Kazako vuol dire "padre delle mele".
Proprio in questo ambito avvenne lo scontro tra la scienza di Vavilov e l'ideologia, impersonata in Trofim Lysenko, direttore dell'Accademia di scienze agricole dell'URSS. Uno scontro tra la genetica mendeliana del primo e la "nuova biologia, proletaria che deve opporsi alle pseudoscienze borghesi" (sic!). Non bastasse questo atto d'accusa è lo stesso Lysenko a sostanziare l'accusa con parole incredibili in quanto dette da uno scienziato (ideologizzato): "l'URSS si fonda sul marxismo-leninismo e sul materialismo-dialettico e dato che esse non prevedono la genetica mendeliana, questa è da considerarsi una falsa scienza che va rimpiazzata con la vera biologia". Rileggetevi l'atto d'accusa. Un tono anche peggiore rispetto alle scomuniche religiose in quanto si nasconde dietro pretese di "vera scienza", ma che altro non sono che ideologia e come tale lontana dal pensiero scientifico.
Lysenko parla nel 1935 di fronte al Politburo
Una sfida che andrà oltre Vavilov (morto nel frattempo in Siberia) e il picco del periodo staliniano. Negli anni '50 Lysenko sarà il più accanito persecutore di Aymak Djangaliev (allievo di Vavilov) quando questi si opporrà al piano esecutivo di eradicazione dei meli selvatici. Un piano fatto approvare a Mosca da Lysenko con la giustificazione che "il melo selvatico è un errore della natura che andava corretto attraverso il lavoro dell'Uomo".
E' superfluo dire chi abbia avuto la peggio anche se, essendo in un epoca più "moderata" Djangaliev se la cavò con l'espulsione dal partito, la proibizione dei suoi libri, la revoca del dottorato e il rogo di gran parte dei suoi appunti, ... .
Ovviamente i risultati della "nuova biologia" non furono eccelsi. I vecchi meli, che pure erano sopravvissuti a 5 inverni di fila con picchi a -50 °C (alla faccia degli errori della natura), furono estirpati e i loro sostituti non superarono il primo inverno duro. Il Kazakhstan perse così il 70 per cento dei suoi meli ma Lysenko si dimostrò più resistente riuscendo a passare indenne anche al processo di destalinizzazione perseverando nelle sue idee fino agli anni '80.

Nel 2009 il biologo molecolare americano Barry Juniper dimostrò, grazie al sequenziamento del genoma del Malus Sieversii e alla comparazione con le altre specie di meli la correttezza della teoria di Vavilov. Il Malus Sieversii è veramente il progenitore della mela moderne.

Ricordiamocelo quando ascolteremo per l'ennesima volta le affermazioni di coloro che si professano "materialisti" mentre ragionano da religiosi. Un esempio su tutti? La crociata naturista anti-OGM "senza se e senza ma" che, guarda caso, vede tra gli adepti e profeti tutte le categorie sociali ad esclusione di chi abbia, non dico competenze nel campo, ma anche solo una cultura scientifica universitaria (vedi il CV e i trascorsi dei guru di tale movimento come Capanna e Petrini. Poca scienza e tanta ideologia).


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Nota. Vale la pena ricordare un caso analogo e dalle conseguenze catastrofiche, quello della coltivazione del cotone in URSS. A partire dagli anni '40 si cominciarono ad implementare piani quinquennali volti a fare diventare l'Unione Sovietica il principale esportatore mondiale di cotone. La zona scelta in cui sostituire le colture tradizionali con una monocoltura intensiva di cotone fu quella dell'Asia centrale circostante il lago d'Aral. Un progetto coerente con l'idea sovietica di organizzare ciascuna repubblica in modo che producesse una sola cosa (alimentare, metalli, legno, ...), con l'indubbio vantaggio di impedirne l'autosufficienza, ottimo antidoto a velleità indipendentiste. Per soddisfare l'elevata richiesta di acqua (tipica del cotone e ancora di più data l'estensione delle colture) furono dirottate gran parte delle acque che rifornivano il lago d'Aral attraverso canali mal progettati che fecero perdere fino al 70% dell'acqua convogliata.

Il risultato è stata la quasi totale scomparsa del lago in soli 30 anni, trasformato in una pianura salina piena di scorie tossiche (pesticidi e rifiuti militari) e non utilizzabile, come si sarebbe voluto, come acquitrino in cui coltivare il riso. Si perché la cancellazione del lago fu vista come opportunità per fare altro ... senza però saperlo fare. Oltre all'impatto ecologico pensiamo all'effetto della scomparsa della economia locale fondata sulla pesca di pesca).
La capacità obnubilante delle ideologie dimostra ancora una volta la sua forza ... .

Fonti
Sono debitore per l'idea di questo articolo a molte fonti. Su tutte 
  • "Le mele dei dinosauri" (C. Vulpio su La Lettura, 33, 2016)
  • "Expo, nel padiglione russo l’eredità di Vavilov: 323 mila piante e semi" (L. Zanini sul CdS del 4/6/2015)
  • "Le foreste dei meli selvatici del Tien Shan", XXXVII edizione Premio Internazionale Carlo Scarpa, 2016
  • "Les Origines de la pomme", documentario (2012)
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Se vi interessano altri esempi in cui abbiamo assistito allo scontro ragione/scienza vs. ideologia, vi suggerisco la lettura di articoli precedentemente apparsi in questo blog (clicca sul titolo per aprire la pagina)

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Ottimo libro per capire il dibattito Nature vs. Nurture (ossia innativismo vs. ambiente)


Un valido "antidoto" all'imperante clima di pseudo-scienza che sembra imperare di questi tempi?  Allora vi consiglio "Il più grande spettacolo della terra" di Richard Dawkins; una lettura piacevole oltre che utile per chi si "ciba" di scienza



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"Un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere letto anche a 50"
Clive S. Lewis

"Il concetto di probabilità è il più importante della scienza moderna, soprattutto perché nessuno ha la più pallida idea del suo significato"
Bertrand Russel

"La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve essere necessariamente infinita"
Karl Popper