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Visualizzazione post con etichetta Serotonina. Mostra tutti i post
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I dubbi sull'ipotesi serotonina-depressione

[aggiornato 09/24]
Il legame tra serotonina e depressione messo in dubbio da una meta-analisi e con esso il ruolo dei SSRI nella terapia antidepressiva.
Il lavoro, pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry da ricercatori inglesi, va contro il dogma oggi in auge che la depressione sia (solo) il risultato di uno squilibrio chimico causato da un deficit del neurotrasmettitore serotonina. La maggior parte degli antidepressivi oggi in uso (fatta salva la ketamina, terapia di recente introduzione) agiscono come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (farmaci noti come SSRI), azione che permette di aumentarne la concentrazione.
Il che non vuol dire che l'eziopatogenesi della malattia sia nota (anzi) ma che la serotonina era l'unica "pistola fumante", indice di una correlazione. Da questa nebulosità conoscitiva si può comprendere come mai la terapia farmacologica non sia del tutto efficace.

La relazione depressione-serotonina, sebbene formulata nel 1960, vide la sua "accettazione terapeutica" negli anni '90 su iniziativa dell'industria farmaceutica per promuovere la nuova gamma di antidepressivi (SSRI); correlazione avallata da istituzioni ufficiali come l'American Psychiatric Association. Il risultato è stato la diffusione delle SSRI tanto che in UK rappresentano un sesto delle prescrizioni nella popolazione adulta.
I dubbi sulla validità generale della relazione serotonina-depressione circolano da anni nell'ambiente accademico ma finora mancavano analisi complete come quella adesso pubblicata.

A prima vista sembrerebbe incongruo dubitare dell'azione funzionale degli SSRI essendo i farmaci più diffusi ma la vera domanda a cui cercare di rispondere è se sia veramente l'aumento temporaneo della disponibilità di serotonina nel cervello (indotto dal farmaco) a compensare deficit preesistenti; in altre parole il meccanismo d'azione potrebbe interessare reti neurali non ancora del tutto noti.
Uno dei problemi riguardo gli studi clinici sulla depressione è che questa categoria di pazienti è particolarmente sensibile all'effetto placebo (30-40%).
Altro problema è che gli antidepressivi provocano un intorpidimento emozionale la cui origine neurologica non è del tutto compresa ma che potrebbero contribuire alla diminuzione (insieme ad altri effetti) della "percezione" depressiva.

Lo studio inglese contiene una analisi sistematica dei dati clinici prodotti nel corso di decenni sul tema  serotonina e depressione. Gli aspetti analizzati sono molteplici.
Una parte dello studio si è focalizzata sul confronto dei livelli di serotonina (e dei suoi prodotti di degradazione) nel sangue e nel liquido cerebrale, nei soggetti sani e in quelli depressi. L'analisi non ha mostrato una differenza rilevante tra i due gruppi.
Un'altra parte dello studio si è invece concentrata sui recettori della serotonina. Anche qui i ricercatori non hanno rilevato differenze rilevanti nella presenza di particolari varianti alleliche nel gruppo di depressi.
L'analisi genetica condotta sul trasportatore della serotonina, la proteina che rimuove il neurotrasmettitore dal canale sinaptico (questa è la proteina su cui agiscono gli SSRI), ha suggerito, semmai, un aumento della attività della serotonina in alcuni pazienti depressi (il dato potrebbe tuttavia essere stato inquinato dal fatto che molti partecipanti a questi studi avevano usato o stavano usando antidepressivi).
Una sezione molto interessante dello studio riguardava se la depressione potesse essere indotta nei volontari abbassando artificialmente i livelli di serotonina. Una sorta di prova del nove per determinare il rapporto causa-effetto.
Non c'è bisogno di alcun farmaco per indurre questo calo, basta una dieta povera dell'aminoacido triptofano, il precursore della serotonina.
Due review del 2006 e 2007 più alcuni studi recenti mostravano dati negativi in questo senso: il calo di serotonina non induceva la depressione tranne in un sottogruppo di persone con storia familiare di depressione.

Infine l'analisi degli studi genetici disponibili (su un numero complessivo di decine di migliaia di pazienti) non ha portato all'identificazione di varianti geniche (sui geni che definiscono la via serotoninergica) che possano in qualche modo essere predittive del rischio della malattia.

A complicare il quadro il fatto che sebbene alcuni degli antidepressivi oggi in uso siano considerati serotoninergici, in realtà agiscono anche sui livelli cerebrali di noradrenalina (la cui correlazione con la depressione è ritenuta più debole della serotonina, ma questo per dire degli effetti ad ampio spettro).

In sintesi, una volta ridimensionato il contributo dell'ipotesi serotonina, ad oggi non esiste un chiaro e univoco meccanismo farmacologico accettato che spieghi l'indubbio effetto anti-depressivo di alcuni farmaci oggi in uso. 

Fonte
- The serotonin theory of depression: a systematic umbrella review of the evidence
J. Moncrieff et al (2022) Molecular Psychiatry

***

Uno studio pubblicato a settembre 2024 fornisce nuovi dettagli sul legame serotonina-depressione. 
Grazie ad una sonda fluorescente specifica per la serotonina (attivata solo dopo l'interazione) e utilizzabile anche per lo studio dentro la cellula, si è dimostrato che il livello di serotonina nelle cellule produttrici ottenute da individui affetti da depressione e normali, è molto simile. La vera differenza è nella minore capacità delle cellule "depresse" di rilasciare la serotonina, un meccanismo mediato da mTOR, confermato con l'utilizzo di inibitori selettivi di questo messaggero intracellulare.

Fonte
Development of a Fluorescent Probe with High Selectivity based on Thiol-ene Click Nucleophilic Cascade Reactions for Delving into the Action Mechanism of Serotonin in Depression
Weiying Lin et al. (2024) Angewandte Chemie International Edition







Il boom in borsa dei farmaci antidiabetici che fanno anche perdere peso

Tra le hit di borsa degli ultimi mesi figurano alcune aziende farmaceutiche accomunate dal lancio di farmaci i cui principi attivi paiono ugualmente efficaci come antidiabetici e per perdere peso, due degli elementi chiave per contrastare la sempre più diffusa sindrome metabolica.

Elemento chiave dell'entusiasmo tra gli analisti l'incontrovertibile effetto positivo di questi farmaci contro l’obesità (Zepbound) e il diabete (Mounjaro) ma anche la lunghezza dell'ultimo studio clinico a supporto dei risultati, durato 176 settimane, che dimostra continuità dell’effetto e assenza di rilevanti effetti collaterali. Nello specifico rispetto al gruppo di controllo trattato in doppio cieco con un placebo, i soggetti (in sovrappeso o obesi) trattati con il farmaco hanno mostrato una riduzione media del 94% del rischio di sviluppare diabete di tipo 2 (T2DM), la patologia più comune tra questa categoria di persone, e una riduzione media del 22,9% del peso corporeo.
Alla fine dello studio durato poco meno di 3 anni e mezzo è stato inserito un periodo di 17 settimane senza farmaco così da avere un quadro completo della funzione farmacologica e della durata dell'effetto nei mesi successivi. Vero che al termine del trattamento i pazienti hanno iniziato a riprendere peso mostrando una alterazione dei parametri in senso diabetico ma il fattore di rischio di sviluppare il diabete propriamente detto è risultato inferiore dell’88% rispetto a prima di iniziare il trattamento. Un trattamento che come per tante terapie della sindrome metabolica deve essere continuativo, sebbene (i dati lo confermano) possa essere interrotto senza grossi problemi.
Di nuovi farmaci contro l’obesità ce ne sono stati vari nell'ultimo decennio (molti dei quali ritirati dal mercato) ma ben pochi sono stati accompagnati da studi clinici con risultati così chiari come Zepbound e Mounjaro, prodotti da Eli Lilly, che in comune hanno come principio attivo la molecola tirzepatide, brevettata nel 2016 con finalità di controllo glicemico nei soggetti affetti da T2DM e approvata nel 2021 dalla FDA.
L’effetto dirompente lo si è avuto dopo la conferma che le osservazioni aneddotiche sulla capacità della stessa di indurre perdita di peso erano fondate.
Tali osservazioni avevano convinto molti medici a prescriverla off-label a individui obesi. Ricordo che in assenza di studi clinici dedicati un farmaco (approvato per altro scopo) NON può essere prescritto come terapia per altra patologia. La FDA ha autorizzato l’uso come farmaco per la perdita del peso solo nel 2023, nella formulazione nota come Zepbound.
Ciliegina sulla torta il nuovo studio (ora sotto revisione) dimostra l'efficacia della tirzepatide anche nei soggetti prediabetici con finalità di prevenzione.

La tirzepatide appartiene a una classe di farmaci antidiabetici che funzionano come agonisti del recettore dell'ormone peptidico Glp-1 (glucagon-like peptide 1), molecole con azione simile a quella dell'ormone peptidico Glp-1 prodotto dal corpo per regolare l’appetito
Nei soggetti sani il livello dell’ormone si abbassa durante il digiuno, il che è innesca lo stimolo della fame. Negli individui obesi il livello si mantiene basso e questo spiega la loro ricerca di cibo anche subito dopo avere mangiato. Ulteriori dettagli a fine articolo **.
Nota aggiuntiva. Uno studio recente ha dimostrato come l'atto di ingoiare induca il rilascio di serotonina (ormone associato alla sensazione di piacere) che spiega come, in individui predisposti, il mangiare invece di indurre sazietà porti ad un rinforzo del piacere di mangiare.
In aggiunga al suo ruolo di agonista, la tirzepatide funziona anche come recettore del peptide inibitorio gastrico (Gip), ormone che ha dimostrato di poter migliorare l'efficienza con cui l'organismo scompone gli zuccheri e i grassi attraverso l'aumento della produzione di insulina e del tempo di ritenzione del cibo nello stomaco. I recettori del Gip si trovano, non sorprendentemente, selle cellule beta nel pancreas.

Tutto fa pensare che i farmaci basati sulla tirzepatide diventeranno la gallina dalle uova d’oro per Eli Lilly senza che questo pesi sui conti (statali o personali) dato il costo molto contenuto del trattamento (pesato per la diminuzione dei costi sanitari in assenza di trattamento)

***

Altra azienda molto attiva nello stesso segmento terapeutico è la danese Novo Nordisk, i cui farmaci di punta sono Ozempic (per il diabete ma da usare con cautela come ben insegna quel "genio" di Lottie Moss) e Wegovy (per la perdita di peso). Diverso il principio attivo che qui è la semaglutide, anch’essa una molecola agonista del recettore Glp-1. 


Nota
** GLP-1 (glucagon-like peptide 1) è un ormone che stimola la produzione dell’insulina e inibisce la secrezione del glucagone. Viene rilasciato dall’intestino dopo il pasto quando la glicemia inizia a salire per effetto dei carboidrati assunti. Il che spiega la popolarità degli analoghi del Glp-1, per la loro impossibilità a causare ipoglicemia, rischio invece concreto con le iniezioni di insulina.
Il GLP-1 rallenta inoltre lo svuotamento gastrico il che a cascata aumenta la sensazione di sazietà e riduce l’appetito, agendo direttamente sui centri di regolazione della fame del sistema nervoso centrale. Alcune osservazioni indicano anche una potenziale azione protettiva delle cellule beta del pancreas e del cuore.
Una volta in circolo il GLP-1 viene distrutto dall’enzima DPP-4 (dipeptil-peptidasi 4) e questo spiega perché non sia mai stato utilizzato a scopo terapeutico (sarebbe necessaria una infusione continua…). Da qui la ricerca di molecole equivalenti (dette analoghi) capaci di agire da agonisti sul recettore dell’ormone e più resistenti alla degradazione, meglio ancora se associati a molecole/matrici inserite in dispositivi (es. cerotti o infusori) che rallentano l’assorbimento cutaneo così da allungare la finestra temporale di utilizzo. A seconda dell'analogo la somministrazione prevede iniezioni da 1 volta al giorno a una volta a settimana (dulaglutide)
Curiosità. La prima molecola con tali proprietà, exenatide, venne sviluppata a partire da una molecola estratta dal veleno della lucertola Gila Monster

Funghi allucinogeni per trattare la dipendenza da alcol?

Negli ultimi anni si sono accesi i riflettori sul potenziale utilizzo terapeutico di alcune droghe (naturali o sintetiche) per la terapia in ambito psichiatrico o nelle dipendenze.
Vi rimando sull'argomento ai precedenti articoli sulla ketamina (approvata per la depressione resistente ai farmaci) e sugli allucinogeni in generale.
Ultimo arrivato è uno studio (pubblicato su Brain) che mostra le prospettive di utilizzo della psilocibina, il principio attivo dei funghi allucinogeni, per il trattamento della dipendenza da alcol.
image from myscience.org
Nell'articolo gli autori riportano l'analisi dell'espressione di alcuni geni, noti per essere coinvolti nella dipendenza da alcol, in un'area del cervello chiamata nucleus accumbens. Questa regione svolge un ruolo centrale nella dipendenza, collegando le sensazioni piacevoli della droga alla motivazione a cercarla e ad assumerla.
Tra i dati ottenuti quello forse più inatteso è la lateralizzazione cerebrale negli effetti della psilocibina, con una modificazione dell'espressione di alcuni geni (aumento o diminuzione) nella parte sinistra o destra del nucleus accumbens.
Il nucleus accumbens (NAc) diviso nella parte sinistra e destra, e anteriore/posteriore.
Per verificarne gli effetti i ricercatori hanno iniettato la psilocibina nel NAc di ratti anestetizzati, per valutarne gli effetti sull'espressione genica e in particolare nella produzione dei recettori delle molecole alla base del circuito della ricompensa. Da qui la scoperta della diminuzione dell'espressione dei recettori 5HT-2A della serotonina) solo nel NAc sinistro e, cosa ancora più interessante, un effetto che provocava il dimezzamento dell'assunzione spontanea di alcol (effetto assente se la psilocibina veniva iniettata nel NAc destro).
Gli effetti allucinogeni della psilocibina sono legati alla sua azione sui recettori della serotonina 5-HT2A che vengono iperprodotti dopo l'assunzione.

Prova finale per dimostrare il coinvolgimento di questi recettori 5-HT2A, misurare gli effetti della psilocibina sul consumo di alcol dopo averli "inattivati" usando un bloccante specifico come la ketanserina. A conferma della predizione l'infusione del bloccante nel NAc sinistro eliminava l'effetto di riduzione dell'alcol mentre nessun cambiamento avveniva dopo infusione nel NAc destro.

Tra gli effetti fisiologici indotti dalla psilocibina, l'aumentata espressione nel NAc di ratti alcolizzati, dei recettori della dopamina D2. Poiché sappiamo già che nella dipendenza da alcol, sia gli animali che gli esseri umani mostrano una diminuzione dell’espressione dei recettori D2, questi risultati potrebbero anche spiegare come faccia la psilocibina a contrastare la dipendenza: ripristinando l’espressione di questi recettori.

Il prossimo passo sarà quello di mappare la lateralizzazione degli effetti in modo più preciso e verificare se può essere generalizzata ad altri psichedelici (LSD, DMT, ecc.). In un futuro prossimo si potranno sviluppare trattamenti mirati al NAc mediati da questo allucinogeno per gli alcolisti che non riescono a resistere al richiamo dell'alcol.


Fonte
Psilocybin reduces alcohol self-administration via selective left nucleus accumbens activation in rats.


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Letture consigliate in ambito neuroscienze e genetica (link associato al miglior prezzo su Amazon)





I farmaci "psichedelici". Una risorsa di cui però si ignora il meccanismo di azione

Ne ho scritto in passato (a partire dall'approvazione della ketamina come antidepressivo) quindi non dico nulla di nuovo citando gli studi in dirittura d'arrivo su farmaci derivati da molecole con attività non solo psicotropa ma psichedelica (vedi i funghi allucinogeni). Studi mirati a verificare l'efficacia del trattamento (riduzione dei sintomi) senza però che sia compreso a fondo il loro meccanismo d'azione cerebrale.
Illustration by Kasia Bojanowska
Il tutto nasce dall'utilizzo (plurisecolare se non millenario) da parte di alcune culture di droghe naturali a scopi rituali e terapeutici. Esempi in tal senso sono la psilocibina (da funghi allucinogeni), la mescalina (presente nel peyote, una pianta succulenta del Messico), l'ibogaina (estratta dalla corteccia di un arbusto centro-africano). 
Libro in cui si tratta, con piglio giornalistico/antropologico delle 4 principali piante con attività psicotropa (credit: Amazon)


Già alla fine degli anni '50 si iniziarono studi per determinare in modo rigoroso il loro potenziale terapeutico come antidepressivi, che però vennero in gran parte terminati quando queste e altri allucinogeni sintetici (ketamina, LSD, MDMA, ...) quando queste sostanze furono vietate o sottoposte a forte controllo nella maggior parte dei paesi. 
Si è dovuto attendere l’inizio degli anni 2000 per nuovi studi clinici che confermarono sia il potenziale terapeutico che la possibilità di usare versioni modificate di queste molecole, depauperate della loro attività allucinogena così da evitare rischio dipendenze e abusi.

Il 2019 ha segnato un momento importante di queste sperimentazioni quando una variante della ketamina (più sicura e priva di effetti allucinogeni) ha ricevuto il via libera da parte della FDA come  trattamento per il disturbo da stress traumatico (PTSD). Lo scorso maggio (2023) l'Oregon ha aperto il suo primo centro di trattamento per la somministrazione di psilocibina, risultato però di un percorso diverso cioè della decisione dello Stato di legalizzarla (la psilocibina rimane invece illegale negli altri stati). Negli ultimi mesi una organizzazione di ricerca senza scopo di lucro ha chiesto formalmente alla FDA l'approvazione della MDMA (nota anche come ecstasy) per il PTSD in base a due studi che ne hanno evidenziato la capacità, previa somministrazione sotto stretto controllo, di ridurre i sintomi più velocemente di altri trattamenti oggi disponibili.

Ci sono però alcune ombre in questi risultato legati sia ai limiti della sperimentazione animale per farmaci ad uso psichiatrico che (conseguenza del precedente e dei forti vincoli nel loro utilizzo sugli umani) le grandi lacune nella conoscenza del meccanismo d'azione di MDMA e di altre sostanze psichedeliche. Il recente cambiamento normativo che ha reso "più semplice" usare/studiare queste droghe sugli umani aiuterà a fare luce su alcuni meccanismi ma ci vorranno anni per avere un quadro paragonabile a quello dei farmaci non psichiatrici approvati. La comprensione del meccanismo del farmaco è inoltre un passaggio obbligato per disegnare molecole che mantengono la funzione terapeutica ma più sicure e private della loro componente allucinogena.

Alcune informazioni aggiuntive.
Da un punto di vista farmacologico, la parola “psichedelico” si riferisce storicamente a molecole con attività allucinogena (ad es. psilocibina, LSD, etc) che si legano ad uno dei vari recettori della serotonina chiamato 5-HT2A presente sulla superficie dei neuroni. Sebbene tale definizione non includa sostanze come ketamina o l’ibogaina, queste droghe sono spesso raggruppate insieme alle sostanze psichedeliche sia negli articoli di ricerca che sui media. Perfino il tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis, è talvolta catalogato come sostanza psichedelica. Va da sé che il permanere di tale definizione vaga, combinata con la mancanza di reagenti e protocolli standardizzati, può rendere difficile per i ricercatori confrontare il loro lavoro con quello pubblicato da altri colleghi.
Aggiungiamo poi il fatto che sostanze "psichedeliche" come ketamina e MDMA, sono funzionalmente "sporchi" perché interagiscono con molti tipi di neuroni e molecole nel cervello. Perfino gli psichedelici classici (LSD e psilocibina) interagiscono, anche, con recettori diversi dal 5-HT2A.

La recente "promozione" della ketamina da anestetico veterinario, (mal)usato come droga da party dagli umani, a farmaco antidepressivo è conseguenza della sua capacità di legare e bloccare il recettore NMDA, recettore ionotropico del glutammato presente sulla membrana dei neuroni e che gioca un ruolo essenziale nella plasticità sinaptica e nel consolidamento della memoria. Con il blocco si innesca una serie di eventi molecolari che, in modo inatteso (vale a dire non previsto dalle conoscenze precedenti), contrastano lo stato depressivo. Alcuni studi hanno ipotizzato che il tutto sia conseguenza dell'azione di un prodotto di degradazione della ketamina che va a legare a un recettore non ancora identificato.
Un recente articolo ha provato che la ketamina può rimanere intrappolata nel recettore NMDA e sopprimere, in alcune regioni del cervello, l’attività del recettore fino a 24 ore, il che potrebbe spiegare la potenza e velocità del suo effetto rispetto ai classici antidepressivi.

Alcuni ipotizzando che tutte le droghe "psichedeliche" potrebbero avere qualcosa in comune, anche se non utilizzano il recettore della serotonina. Una conferma in questa direzione viene da studi che hanno mostrato che tutte queste sostanze si legano (anche) al recettore di un fattore di segnalazione cerebrale noto come fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), coinvolto nella crescita dei neuroni e nel ricablaggio del cervello.
Vero che anche gli antidepressivi classici, come il Prozac (fluoxetina), si legano al recettore, ma il legame è fino a 1000 volte più debole rispetto agli psichedelici, il che spiega perché uno sembri migliorare i sintomi in poche ore, mentre gli altri richiedano molti mesi.
In verità sebbene non tutti i ricercatori concordano con il ruolo prominente del recettore BDNF, vi è accordo sul fatto che le droghe psichedeliche aumentino la plasticità cerebrale, consentendo ai dendriti e agli assoni che formano i circuiti neurali di diversificarsi e creare nuove connessioni. La plasticità potrebbe aiutare una persona depressa a vedere il mondo in un modo diverso, o aiutare una persona con PTSD a disconnettere i propri ricordi traumatici da una risposta di paura. Vero però che la plasticità in sé e per sé non è necessariamente una buona cosa: ci sono buone ragioni per cui il cablaggio del cervello si sviluppa in questo modo e mantiene connessioni tra esperienze ed effetti.
Ad esempio alcune condizioni patologiche come autismo e schizofrenia, potrebbero (talvolta) derivare da un’eccessiva plasticità del cervello. Inoltre, tutti i tipi di droga, comprese la cocaina e le anfetamine, possono indurre una sorta di plasticità e tutto noi conosciamo l'effetto negativo (fisico e psichico) indotto da queste sostanza.
Forse la ketamina induce un particolare tipo di plasticità che consente ai neuroni di regolare la loro attività di fronte a uno stimolo che normalmente li influenzerebbe in un certo modo. A differenza dei meccanismi di plasticità che rafforzano o indeboliscono specifiche connessioni neuronali durante l’apprendimento e la memoria, questa plasticità omeostatica consente ai neuroni di combattere contro fattori che cercano di cambiarli. In questo modo, la ketamina potrebbe fornire al cervello gli strumenti di cui ha bisogno per mantenere uno stato sano. Se questo meccanismo si rivelasse vero, la ketamina potrebbe servire da “Stele di Rosetta” per comprendere come funzionano altre sostanze psichedeliche.
Altri scienziati, tuttavia, non pensano affatto che le sostanze psichedeliche influenzino direttamente la plasticità. Piuttosto, potrebbero sbloccare qualcosa noto come metaplasticità, rendendo i neuroni più suscettibili a uno stimolo che induce plasticità, ad esempio un ormone. Questa teoria darebbe maggiore importanza ad altri fattori – l’interazione sociale, per esempio, o la rivisitazione di un ricordo traumatico – nel rimodellare i neuroni e formare nuove connessioni.
In un esperimento di somministrazione ai topi di queste sostanze (MDMA, ibogaina, LSD, ketamina o psilocibina) si sono osservati risultati comportamentali interessanti. I topi trattati sono diventati più disposti a dormire in uno scompartimento con altri (chiaro segno di riduzione di stress) e l’effetto è durato per settimane. Poiché i topi adulti non tendono a cambiare il loro comportamento sociale, la scoperta suggerisce che i farmaci psichedelici sono stati in grado di riaprire il “periodo critico”, la fase in cui i topi giovani imparano ad associare la socialità a qualcosa di positivo. Nello stesso studio si è  anche scoperto che i neuroni degli animali trattati hanno iniziato a esprimere un insieme di geni coinvolti nel rimodellamento della matrice extracellulare, una zona che che funge da “malta” tra i neuroni: il rimodernamento libera i dendriti e gli assoni dando loro la capacità di formare nuove connessioni.
Ma proprio come la plasticità, troppa metaplasticità potrebbe essere dannosa “fondendo il cervello”: rompendo i circuiti neurali guadagnati con fatica, causando convulsioni e amnesia e distruggendo la capacità di apprendere. 

Questi studi potrebbero portare innovazione anche in aree apparentemente diverse della neurofisiologia. I ricercatori stanno verificando se nei topi queste sostanze riescano ad aprirealtri periodi critici. L’apertura di un periodo critico nella corteccia motoria, ad esempio, potrebbe allungare il periodo di tempo in cui le persone che hanno avuto un ictus possono trarre beneficio dalla terapia fisica. Le sostanze psichedeliche potrebbero aiutare le persone a recuperare i sensi perduti o indeboliti oltre il breve intervallo temporale oggi accettato per iniziare una terapia di recupero.

Se però il contesto è essenziale, l’esperienza allucinogena stessa potrebbe essere necessaria per aprire i periodi critici sopra citati.
Vero anche che l'esketamina, la versione modificata della ketamina approvata per la terapia antidepressiva (necessita di dosaggio molto inferiori e questo evita gli effetti collaterali della droga), non è inferiore alla ketamina per cui è possibile agire sulla riduzione degli effetti allucinogeni.
Non è necessario ingerire un farmaco per avere un cambiamento neurochimico, abbiamo continuamente cambiamenti neurochimici causati dalla nostra esperienza e la psicoterapia stessa funziona (anche) attraverso l'indizione di cambiamenti epigenetici.
Ecco allora che forse il farmaco potrebbe semplicemente migliorare la capacità della terapia di cambiare permanentemente la prospettiva di una persona. Una ipotesi non condivisa da altri ricercatori secondo i quali gli effetti diretti delle sostanze psichedeliche sul cervello sono parte fondamentale della loro efficacia terapeutica.


Tra i problemi della sperimentazione clinica in ambito psichiatrico il ben noto "effetto placebo" che (a differenza delle malattie in altri distretti corporei) può da solo rendere conto dell'80% dell'effetto terapeutico.
L'effetto placebo lo si osserva nei gruppi di controllo in doppio cieco dove sia il medico che il paziente non sanno se la "pillola" è un farmaco o un placebo. Chiaramente il problema diventa ancora più importante se il trattamento farmacologico è associato ad un effetto intenso che palesa immediatamente al paziente cosa ha ricevuto. Per cercare di minimizzare questi condizionamenti la FDA ha approvato un sistema per gli studi sull’MDMA in cui gli psichiatri, che non sono coinvolti nella somministrazione della terapia, valutano il miglioramento dei sintomi di ogni persona senza sapere chi ha ricevuto il farmaco.
Una misurazione del problema placebo viene dai ricercatori di Heifets Labs che hanno sviluppato un modo  per quantificare l’intensità dell’effetto placebo; il team di ricerca ha testato la ketamina su persone sottoposte a intervento chirurgico che erano state messe sotto anestesia e incapaci di sperimentare gli effetti dissociativi del farmaco. Le persone che escono dall’intervento chirurgico spesso sperimentano sintomi di depressione accentuati. Ma i ricercatori hanno scoperto che, indipendentemente dal fatto che un paziente avesse ricevuto ketamina o un placebo, i suoi sintomi miglioravano se pensavano che avrebbero potuto assumere il farmaco: l’aspettativa stessa di ricevere il farmaco stesso avrebbe potuto migliorare il loro umore.

Articolo precedente sul tema "Il farmaco psichedelico che spegne la PTSD"

Una linea diretta tra cervello e stato microbiota intestinale

I neuroni ipotalamici rilevano direttamente le variazioni dell'attività batterica nell'intestino e adattano di conseguenza l'appetito e la temperatura corporea. I risultati dimostrano l'esistenza di una comunicazione diretta tra cervello e microbiota intestinale.

L'intestino è considerato un secondo cervello non tanto per l'immagine comune di "reazioni viscerali" a particolari situazioni ma per l'elevata innervazione ad opera del sistema nervoso enterico e per il ruolo chiave giocato dal microbiota intestinale nella produzione di serotonina e a cascata il suo impatto sul  nostro stato mentale.
Il sistema nervoso enterico si basa sullo stesso tipo di neuroni e neurotrasmettitori che si trova nel sistema nervoso centrale
L'intestino ospita una vasta comunità microbica (nella quasi totalità batteri) con numeri intorno ai 1000 miliardi di batteri suddivisi in 300-1000 specie diverse. Dalla loro composizione dipende anche la nostra silhouette; molti sono oramai gli studi che dimostrano come la flora negli obesi, nei diabetici e nei malati del morbo di Crohn sia diversa da quella presente nei normopeso e come il trapianto del microbiota possa eliminare molti problemi.
Sul tema vedi i precedenti articoli (tag "microbioma"), ad esempio "microbioma: un ecosistema"
A completare il quadro arriva ora uno studio pubblicato sulla rivista Science in cui ricercatori francesi hanno scoperto che i neuroni ipotalamici sono in grado di rilevare direttamente le variazioni dell'attività batterica nell'intestino adattando di conseguenza l'appetito e la temperatura corporea. Un risultato che dimostra il dialogo diretto tra il microbiota intestinale e il cervello, e che potrebbe aprire la via per nuovi approcci terapeutici a malattie metaboliche come il diabete e l'obesità.
Nello studio condotto su un modello animale, i ricercatori si sono concentrati sul recettore intracellulare NOD2, importante per il riconoscimento di particolari molecole batteriche, i peptidoglicani; come tale non sorprende che sia espresso principalmente dalle cellule immunitarie 
Nello specifico NOD2 riconosce un tipo particolare di peptidoglicani noti come muropeptidi il cui nome indica i peptidoglicani associati alla parete cellulare batterica.
Varianti del gene NOD2 sono state associate ad un aumento (40x) del rischio di sviluppare il morbo di Crohn, nonché a malattie neurologiche e disturbi dell'umore.

I dati finora disponibili erano però insufficienti per dimostrare una relazione diretta tra l'attività neuronale nel cervello e l'attività batterica nell'intestino.
Grazie a tecniche di imaging cerebrale, i ricercatori hanno osservato che NOD2 nei topi era espresso anche da neuroni in varie aree del cervello, in particolare, nell'ipotalamo. Passo successivo è stato rilevare la scomparsa dell'attività elettrica di questi neuroni quando entrano in contatto con i muropeptidi batterici dall'intestino.
A riprova della correttezza dell'osservazione, se si eliminava NOD2 da questi neuroni, anche l'attività neuronale non era più soppressa in presenza dei muropeptidi. 
La presenza di muropeptidi nell'intestino, sangue e cervello è un biomarcatore dello stato di proliferazione batterica, più elevata e maggiore la crescita. Da qui il senso del sistema di feedback negativo per cui quando le cellule dell'ipotalamo rilevano una aumentata proliferazione, viene diminuita la voglia di assumere altro cibo e minore regolazione della temperatura. I topi femmina sono anche meno propensi a costruire un nido, indice che le condizioni non sono ideali. 
I topi mutati sono meno capaci di regolare l'assunzione di cibo e la temperatura corporea e in conseguenza sono sovrappeso e più suscettibili (specialmente le femmine mature) allo sviluppo del diabete di tipo 2.
 Credit: Institut Pasteur / Pascal Marseaud via neurosciencenews.com


In sintesi con questo studio si è dimostrato che i neuroni di un'area chiave del cervello (ipotalamo) sono in grado di rilevare direttamente la presenza (e la "conta") dello stato della flora intestinale e come tale operare le contromisure. Finora si riteneva che questa rilevazione fosse mediata dalle cellule immunitarie.
L'impatto dei muropeptidi sui neuroni ipotalamici e sul metabolismo solleva interrogativi sul loro potenziale ruolo in altre funzioni cerebrali e potrebbe aiutarci a capire il legame tra alcune malattie cerebrali e varianti genetiche di NOD2.

Fonte
- Bacterial sensing via neuronal Nod2 regulates appetite and body temperature
 Ilana Gabanyi et al, Science, 2022 Apr 15;376(6590)







Antidepressivi e il loro (nuovo) utilizzo come anti-tumorali

Un nuovo esempio dell'importante processo di drug repurposing ci arriva dal potenziale utilizzo di alcuni antidepressivi nel trattamento di malattie oncologiche.
Il caso più recente viene da studi condotti sui topi in cui si è osservato che i farmaci appartenenti alla categoria funzionale di inibitori del riassorbimento della serotonina (SSRI) potevano rallentare e perfino bloccare la crescita di tumori pancreatici (notoriamente tra i meno trattabili) e del colon, quando utilizzati in sinergia con l’immunoterapia.
Del riposizionamento farmacologico degli antidepressivi ne scrivevo già nel 2013 e la loro azione antitumorale era già stata osservata nel 2020 (vedi nota a fondo pagina). Alla "nuova vita" di questi farmaci ha fatto da contraltare negli ultimi anni anche il processo opposto con  la scoperta nella di un potente effetto antidepressivo nella ketamina (un anestetico divenuto famoso come droga dei rave party) che si è rivelato utile per il trattamento delle forme di depressione resistenti ai farmaci
image credit: scitechdaily

La serotonina è un neurotrasmettitore, noto anche come l'ormone del buon umore e del rilassamento. Nelle persone che soffrono di depressione i livelli di serotonina nel cervello sono ridotti e i farmaci SSRI hanno proprio la funzione di aumentarne la concentrazione nello spazio intersinaptico attraverso l'inibizione degli appositi trasportatori presenti sulla membrana presinaptica.
Image credit: neurosciencenews.com

La serotonina non ha tuttavia solo una azione cerebrale ma estende la sua influenza a molti altri distretti corporei, tanto è vero che la maggior parte di essa è conservata nelle piastrine. L’intestino (non a caso definito il secondo cervello) è tra i maggiori produttori della molecola grazie al fondamentale contributo del microbioma, il cui ruolo nel nostro benessere mentale è troppo spesso trascurato. Tra gli effetti secondari della terapia SSRI è che all'aumento dei livelli di serotonina nel cervello corrisponde una diminuzione della quantità conservata nelle piastrine.

Che la serotonina potesse tornare utile nella terapia tumorale non è una novità assoluta ma rimaneva nell'alveo della aneddotica clinica più che un dato supportato da studi scientifici. 

È di poche settimane fa la pubblicazione di un articolo che pare fornire i dati tanto a lungo attesi.
Punto di partenza dello studio, l’osservazione che al verificarsi di una carenza di serotonina nei distretti addominali sede di alcuni tumori (pancreas e colon) divenuti resistenti alla terapia anticorpale (immunoterapia), si aveva una resensibilizzazione al trattamento che permetteva di attuare nuovi cicli di terapia, con conseguente rallentamento della crescita tumorale. 
Il meccanismo che lega serotonina e resistenza alla immunoterapia è centrato sulla capacità del neurotrasmettitore di aumentare la produzione di PD-L1 (simbolo che indica ligando della proteina effettrice PD-1), una proteina con attività immunoinibitoria capace di indurre l'anergia negli effettori linfocitari. 
Il meccanismo in sé è assolutamente naturale e serve come segnale per indicare alle cellule di sorveglianza “guarda che siamo cellule normali del tuo stesso organismo, quindi spegniti e non attaccarci”, prevenendo così il rischio di reazioni autoimmunitarie.
Il problema terapeutico si ha quando le cellule tumorali, bersaglio di una particolare forma di immunoterapia nota come checkpoint inhibitor therapycominciano a produrre PD-L1 divenendo così resistenti (o meglio invisibili) ai linfociti.
Nel dettaglio PD-L1 si lega alla proteina PD-1 espressa sulla superficie dei linfociti T citotossici e delle natural killer, bloccandone l’azione.
A sinistra la cellula tumorale "spegne" l'attacco della cellula T nonostante l'avvenuto riconoscimento del bersaglio tumorale a causa del segnale mediato da PD-L1. A destra l'effetto di una terapia basata su anticorpi anti PD-L1 che impediscono il contatto, permettendo così l'attacco distruttivo contro il tumore. 
(Image credit: Joaquin Bellmunt et al (2017))
L'idea era che se la serotonina favoriva la produzione di PD-L1 allora diminuendone localmente il livello si poteva sperare di ridurre a cascata l’espressione di PD-L1 rendendo le cellule tumorali nuovamente bersaglio delle cellule immunitarie.
L'ipotesi è stata messa alla prova e infine confermata in modelli murini.

Il passo successivo sarà mettere alla prova il trattamento in uno studio clinico.

NOTA. Nel 2020 uno studio olandese, pubblicato su Molecular Cancer Therapeutics, aveva osservato una inattesa funzione antitumorale nell'antidepressivo sertralina.
Tra i trucchi usati dalle cellule tumorali per sostentare la propria crescita vi è la produzione di grandi quantità di serina e glicina. Questa produzione stimola la proliferazione delle cellule tumorali a tal punto da renderle dipendenti dalla presenza, non limitante, di questi due aminoacidi. Sebbene anche le cellule sane si avvalgano di tale meccanismo, ne sono molto meno dipendenti e possono "contentarsi" della quantità di glicina e serina assorbita dall'intestino; questo non è invece sufficiente per le cellule tumorali.
Durante la ricerca di molecole in grado di contrastare questa dipendenza, i ricercatori scoprirono che l'antidepressivo sertralina, specie in associazione ad altri trattamenti, bloccava la crescita tumorale inibendo la sintesi della serina, affamando così in modo selettivo le cellule tumorali.

Fonte
- Attenuation of peripheral serotonin inhibits tumor growth and enhances immune checkpoint blockade therapy in murine tumor models
Marcel André Schneider et al. Science Translational Medicine (2021), 13(611)


Morbo di Parkinson e batteri intestinali. Una "liaison" pericolosa da approfondire

Dal lavoro di un team di ricercatori del Caltech emergono indizi sul potenziale collegamento funzionale tra le caratteristiche della flora batterica intestinale e il rischio di morbo di Parkinson (da qui in avanti userò PD, acronimo anglosassone per Parkinson Disease). In estrema sintesi, i cambiamenti nella composizione della flora batterica sono correlate e precedenti al deterioramento delle capacità motorie, uno dei marcatori diagnostici più precoci della malattia.
Il lavoro è stato pubblicato sul numero di dicembre della prestigiosa rivista Cell dal gruppo coordinato da Sarkis Mazmanian.

Morbo di Parkinson
Le aree più ricche di  neuroni dopaminergici
sono le più danneggiate nel Parkinson
 
Il PD ha una prevalenza nella popolazione italiana sopra i 60 anni poco sotto al 2 % per un totale di 230 mila individui affetti; a livello globale il numero è intorno a 10 milioni con 1 milione solo negli USA (numeri destinati a cresce con l'invecchiamento della popolazione anche in aree finora "risparmiate" ma solo perché l'aspettativa di vita media è inferiore alla età media di esordio del PD). Numeri alla mano il PD è la seconda malattia neurodegenerativa in termini di frequenza e ha un impatto economico e sociale nettamente superiore a quello delle patologie neoplastiche in quanto è una malattia invalidante, non curabile e con lungo decorso (quindi ad alto carico assistenziale). 
Tra le manifestazioni esterne tipiche del PD vi sono tremori e difficoltà a camminare mentre a livello cellulare si possono osservare aggregati proteici ricchi di alfa-sinucleina (αSyn) sia a livello cerebrale che intestinale. Altro marcatore noto è l'aumento a livello cerebrale di proteine pro-infiammatorie (citochine) che a loro volta innescano danni tipici di una infiammazione cronica.
Il 75% delle persone con PD presenta inoltre problemi nella funzionalità gastrointestinale che si palesano principalmente con sintomi di costipazione.

Il morbo e l'intestino
Dati i sintomi è nell'intestino che i  ricercatori sono andati alla ricerca di un qualche fattore "facilitatore" della malattia, trovandolo nella flora intestinale; attenzione però, facilitatore è cosa ben diversa da agente induttore in quanto NON è un evento necessario e sufficiente ad indurre la malattia.
Il microbiota opera per il nostro benessere (se bilanciato)
Come descritto in articoli precedenti l'intestino è sede permanente di una variegata comunità di batteri (quasi sempre benefici e dannosi quando l'equilibrio tra le varie componenti viene meno) noto come microbiota (o microbioma se si usa una prospettiva genetica ---> QUI). Il microbioma ha, oltre ad una funzione ausiliaria nella digestione, un ruolo chiave per lo sviluppo e il funzionamento dei sistemi immunitario e nervoso.
Il primo viene costantemente "tenuto in esercizio" e "modulato" in modo da abituarsi ai batteri "buoni" (essenziali sia da un punto di vista metabolico che come competitori dei ceppi patogeni) e in grado di autoregolarsi evitando così il permanere di stati infiammatori.
Il secondo aspetto è diretta conseguenza del fatto che il 70% di tutti i neuroni del sistema nervoso periferico si trova nell'intestino e che ad esempio la serotonina (uno dei neurotrasmettitori chiave per l'umore) è prodotta per il 90% in questo distretto. Il sistema nervoso dell'intestino è direttamente collegato al sistema nervoso centrale attraverso il nervo vago, il che aiuta a comprendere meglio come la qualità del cibo possa influenzare l'umore e viceversa come l'umore abbia effetti sulla digestione. Non a caso Michael Gershon ha titolato brillantemente il suo libro "Il secondo cervello" per sottolineare la centralità dell'intestino anche nelle funzioni "alte".
Credit: Caltech
La correlazione tra intestino e Parkinson è nota da tempo, sebbene catalogato come epifenomeno, e trova facile riscontro nella comparsa dei problemi gastrointestinali con anni di anticipo rispetto ai sintomi motori. Il dato di per sé non è ovviamente sufficiente per affermare che l'intestino è l'epicentro della malattia ma solo che i primi effetti si manifestano in tale sede forse a causa dell'estesa innervazione dell'area; al massimo una tale evidenza potrebbe rafforzare l'ipotesi ambientale come concausa della malattia, specie nelle forme di PD non familiari (il 90% dei casi sono sporadici, correlabili a mutazioni de novo e/o a cause ambientali).
L'eziologia della malattia è complessa anche nelle forme familiari dove la forma monogenica (un solo gene alterato responsabile) non supera il 30% dei casi ereditari (che ricordo sono il 10% del totale dei casi). Il che pone un problema diagnostico non indifferente nei soggetti sani ma a rischio (per familiarità) dato che il restante 70% delle forme ereditarie sarà per definizione poligenico, vale a dire conseguente alla mutazione o deregolazione di due o più geni (18 sono i geni "parkinsoniani" più comuni). Il problema è ancora più evidente quando non si dispone di biopsie dei genitori deceduti da cui ricavare il profilo genetico a rischio. Oltre alla αSyn i geni più frequentemente alterati nei malati sono PARK2, UCH-L1, LRRK2, PINK1 e DJ-1 (per approfondimenti --> "Genetics of Parkinson’s Disease").
La somma di questi elementi ha innescato nei ricercatori una domanda "semplice" e diretta: esiste un legame tra microbioma e rischio/decorso della malattia?

Lo studio
Per verificare tale ipotesi di lavoro i ricercatori hanno utilizzato un modello animale classico della malattia cioè topi modificati geneticamente che producono alti livelli di αSyn (come negli umani questa alterazione cellulare provoca la deplezione dei neuroni dopaminergici). I topi sono stati separati in due gruppi, di cui uno allevato in ambiente classico di stabulario e l'altro in ambiente asettico, con il risultato che i primi possedevano una normale flora intestinale mentre i secondi ne erano privi. Per il resto la genetica e le condizioni di vita (cibo, attività ludiche sulla ruota, etc) erano identiche. Ad intervalli regolari i topi vennero valutati per le loro abilità motorie di tipo prettamente ludico (test su tapis roulant, discesa e risalita da un palo, camminata su un asse). Ebbene, i topi cresciuti in ambiente asettico (e quindi senza germi intestinali) possedevano abilità motorie significativamente migliori di quelli cresciuti normalmente. Ricordo che i topi di partenza sviluppano nella quasi totalità sintomi parkinsoniani già nelle primissime fasi dell'età adulta, quindi il miglior risultato del primo gruppo indica che il decorso della malattia è stato fortemente rallentato se non bloccato; l'unica differenza tra i due gruppi è il microbioma.
Nessuna differenza è stata invece riscontrata usando topi normali come popolazione di partenza, e questo è il controllo essenziale per definire l'importanza della alterazione in αSyn.

Il nesso causale tra presenza di batteri e predisposizione genetica potrebbe risiedere nel metabolismo delle fibre alimentari su cui la flora intestinale ha una azione determinante (scompone la cellulosa in elementi assorbili dalla mucosa). Tra i prodotti ottenuti dalla digestione delle fibre vi sono gli acidi grassi a catena corta (SCFA), come ad esempio acetato e butirrato, molecole capaci di attivare la risposta immunitaria nel cervello, un'area nota per essere "immunologicamente privilegiata in quanto ad accesso limitato anche per le cellule immunitarie" (una scelta evolutiva proprio per prevenire i danni provocati da una infiammazione anche solo temporanea). La difesa immunitaria del cervello è assicurata da cellule immunitarie locali ((microglia) e da una barriera "impenetrabile" a tossine e patogeni (la barriera ematoencefalica).
I dati raccolti hanno portato Mazmanian ad ipotizzare che fosse lo squilibrio nei livelli di SCFA a favorire la comparsa di uno stato infiammatorio nel cervello e da lì i sintomi motori tipici del PD. A riprova di tale ipotesi se si arricchiva con SCFA il mangime dato ai topi privi di germi, le cellule della microglia si attivavano e dopo alcune settimane comparivano i sintomi parkinsoniani. Nei topi normali (che non esprimono alti livelli di αSyn) l'aggiunta di SCFA nel mangime non provocava invece alcun effetto ad indicare che gli SCFA (e quindi il metabolismo dei batteri) non erano l'agente causale ma una concausa.
In altre parole le cause sono una summa di genetica e "ambiente".
Prove ancora più convincenti di tale correlazione sono venute dalla collaborazione tra il team di Mazmanian con quello di Ali Keshavarzian a Chicago, in cui vennero eseguiti test centrati sul trapianto fecale.
Nota. Già in un precedente articolo avevo accennato a questo approccio "strano" ma molto promettente per la terapia di patologie intestinali croniche come la sindrome del colon irritabile. Si è visto che per compensare squilibri (innati o acquisiti) nella flora intestinale che causano la comparsa di uno stato infiammatorio cronico, è possibile trapiantare la popolazione batterica presente nell'intestino dei soggetti sani in quello dei malati (attraverso un "banale" trasferimento di materia fecale dall'intestino del primo verso i secondi); tale trattamento è sufficiente per eliminare i sintomi più acuti della malattia, altrimenti difficilmente trattabili.
L'esperimento congiunto è consistito nel trasferimento di campioni fecali prelevati da pazienti con malattia di Parkinson (oppure da controlli sani) nell'intestino dei topi privi di germi. Risultato anche qui chiaro: i sintomi del Parkinson comparivano solo nel primo gruppo mentre nessun effetto era evidente se il destinatario del "trapianto" erano i topi normali (senza alterazione in αSyn) o se il materiale fecale proveniva da batteri non parkinsoniani.
Gli indizi raccolti sono forti (e la pubblicazione su Cell lo dimostra) ed indicano che il metabolismo batterico che porta alla produzione di SCFA è capace di indurre l'attivazione immunitaria nel cervello con effetti deleteri in presenza di una genetica predisponente.
Video riassuntivo della scoperta (credit: Caltech)

Le implicazioni di questa scoperta sono notevoli in quanto suggerisce che oltre allo sviluppo di farmaci ad azione cerebrale miranti a rallentare il decorso del Parkinson si apre un nuovo promettente campo di intervento cioè agire sul microbioma intestinale: molto più semplice da raggiungere e da modificare. Tali farmaci potrebbero essere progettati per modulare i livelli di SCFA e/o la composizione dei batteri locali, come fanno i probiotici.
Nota. Ho scritto rallentare e non invertire in quanto i sintomi motori compaiono quando circa l'80% dei neuroni dopaminergici in alcune aree sono morti, quindi quando i danni sono molto estesi
Un approccio particolarmente utile in fase preventiva per i soggetti con storia familiare di Parkinson.

Articoli precedenti sul tema --> "Parkinson"

Fonte
- Gut Microbiota Regulate Motor Deficits and Neuroinflammation in a Model of Parkinson's Disease
Sampson TR et al, Cell (2016)167(6):1469-1480
- Parkinson's Disease Linked to Microbiome
Caltech/news




Il cuore spezzato è come la dipendenza da cocaina

(articolo precedente sul tema --> "La sindrome del Cuore Spezzato") 

****

Il patema d'amore appare ad un adolescente (ma non solo) come uno stato irrimediabile a cui è preclusa ogni speranza (o desiderio) di sfuggire a tale morsa. Eppure, la grandissima parte delle persone alla fine ne esce senza conseguenze e guardandosi indietro fatica a capacitarsi del livello di obnubilamento provato. 
Se il fenomeno è così totalizzante da mettere in secondo piano le attività primarie per la propria sopravvivenza (mangiare, alzarsi la mattina, etc) è lecito domandarsi come sia possibile uscire da questa fase e come mai alcune persone giungano invece a gesti estremi per situazioni che, viste dall'esterno, sono meno che irrilevanti. 
Il merito va, come ovvio, ai meccanismi di difesa del nostro cervello che, quando lo stress raggiunge livelli di allarme si aiuta ... dopandosi. 
Il nucleus accumbens attivato
nella fase di reward
(S. Mackey and J. Younger)
Esempio classico di autodoping fisiologico è quello che si sperimenta con la sensazione di benessere alla fine della sessione quotidiana di jogging. Una sensazione che ci "vizia", se svolta con frequenza regolare, a tal punto da indurre stati simili all'astinenza quando si saltano sessioni di allenamento: il nervosismo di chi non è riuscito a fare la corsa quotidiana non è altro che la manifestazione del calo dei livelli degli endocannabinoidi (e in misura inferiore delle endorfine), entrambe molecole che il corpo rilascia per attenuare lo stress legato all'attività fisica (J. Fuss et al, PNAS, 2015).
Nei precedenti articoli sulla biochimica dell'amore (vedi link a fondo pagina) avevo già introdotto due ormoni chiave:
  • ossitocina, essenziale per il "bonding" (la creazione di un legame emotivo tipo quello madre-neonato);
  • dopamina, prodotta nella parte basale/posteriore dell’encefalo e trasportata all’occorrenza verso i lobi frontali della corteccia. Trasporto che avviene dopo una grossa soddisfazione (premio) o quando il cervello vuole limitare l'entità di uno stato negativo.
Non si tratta di un meccanismo tipicamente umano ma è comune a tutti i mammiferi superiori. Il che è comprensibile sia per le necessità di legare la madre alla prole, che da lei dipende in tutto per sopravvivere (alimentazione in primis), che per situazioni più tipiche dell'animale adulto: lo sconforto di avere perso una preda (o un boccone particolarmente ambito o avere perso la gara chiave per conquistare il comando, etc) non possono in natura essere affrontati con l'aiuto di uno psicologo. L'animale (quindi anche noi) deve essere pronto il prima possibile a riprendere le sue attività … pena l'estinzione immediata.
Nel caso degli esseri umani la situazione è ovviamente più complicata (si sa che noi siamo specializzati nell'inventarci problemi) ma la soluzione fisiologica è sostanzialmente simile: una bella scarica di dopamina e siamo pronti a ricominciare anche semplicemente minimizzando quando avvenuto.
E se la secrezione di dopamina prodotta dai circuiti classici non è sufficiente per "riattivare" il comportamento normale, esistono meccanismi per stimolarne la produzione. Se i meccanismi di compensazione sono inefficienti si casca nella situazione descritta in apertura di articolo.
Molte specie di mammiferi superiori evitano in toto questo problema limitando gli incontri al solo momento dell'accoppiamento.
Nelle specie in cui la presenza di entrambi i genitori è fondamentale per la sopravvivenza della progenie la natura ha dovuto implementare meccanismi in grado "incentivare" la convivenza dei partner.
Ma gli ormoni non fanno miracoli e infatti la gran parte dei rapporti con il partner, anche le storie vissute come totalizzanti per anni possono avere termine; una evidenza che da un punto di vista neurobiologico è sostanziata dal titolo di un articolo che riassume il lavoro condotto da un team di psicologi della università di Saint Louis. Il titolo "wired to break" (programmati per rompere) sostanzia in tre parole le cause del "collasso" dello stato di innamoramento, diverse nei due sessi:
  • l’uomo non ama essere tradito;
  • la donna detesta essere imbrogliata. 
Il che ha perfettamente senso da un vista biologico. Il maschio deve evitare il rischio di far crescere cuccioli suoi e la femmina necessità di un maschio che dia affidamento per la crescita dei cuccioli stessi. Il maschio vuole fedeltà, la femmina lealtà e affidabilità. 
Che poi nella realtà queste aspettative vengano sempre soddisfatte, è un altro discorso.
Il doping neuronale ha proprio il fine di minimizzare ogni motivo di attrito, anche a costo di negare l'evidenza, nelle fasi in cui la coppia deve essere solida. Se qualcosa va storto in questa fase, la sensazione provata sarà quella di un malessere profondo.
Helen Fisher
Un tradimento o la perdita della sensazione di "tutela e assistenza" possono avere effetti dirompenti e di diversa durata.
Il grado di tolleranza varia nelle diverse coppie le cui cause sono identificabili nell'attività cerebrale. Helen Fisher (già autrice di un buon libro divulgativo dal titolo "Perché amiamo") ha analizzato mediante risonanza magnetica l'attività cerebrale delle coppie che affermavano di essere profondamente innamorate, proprio per valutare le basi della "resistenza" ai fattori di rottura, presenti in ogni coppia. I dati ottenuti mostrano che queste coppie hanno una aumentata attività delle aree del cervello associate al piacere, le stesse che vengono attivate dall'uso di cocaina.

Questo il commento di Brian Boutwell "Il lavoro di Helen Fisher ha rivelato che questo circuito nel cervello, profondamente associato ai fenomeni di dipendenza, è anche implicato nell'attrazione romantica e può aiutare a spiegare l'attaccamento che segue alle classiche fasi di infatuazione fisica". 
Rompere questo circuito equivale, funzionalmente, a togliere ad un cocainomane la possibilità di accedere alla sua droga (ricordo per inciso che l'astinenza da cocaina ha caratteristiche molto diverse da quelle associate agli oppiacei, molto "mentale" la prima e molto "fisica" la seconda).
Chiedere a chi si trova improvvisamente privato del legame amoroso di "guardare avanti" equivale sotto molti aspetti a chiedere a qualcuno di "non pensare alla mancanza della dose quotidiana".
Brian Boutwell

Gli studi di Boutwell si sono concentrati sull'attività cerebrale di ex cocainomani proprio per cercare di capire come il cervello si sia adeguato allo stato di deprivazione; i dati indicano un aumento della materia grigia (vale a dire l'area ricca di corpi cellulari) in specifiche aree. Non mi stupirebbe quindi scoprire simili modificazioni nelle persone uscite dal tunnel di una relazione troncata e passati attraverso un periodo forte depressione.
Tra gli studi attuali di Boutwell di particolare interesse sono i test per valutare l'effetto di una particolare classe di farmaci antidepressivi, noti come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). Questi farmaci, grazie all'abbassamento dei livelli di dopamina, noradrenalina e testosterone, dovrebbero "raffreddare" le pulsioni romantiche (il bisogno di stare vicini alla persona oggetto dei propri pensieri) e l'interesse sessuale. 
Trattandosi di farmaci, è ovviamente necessario un costante monitoraggio medico per evitare o controllare la comparsa di effetti collaterali imprevisti. Potrebbe tuttavia essere un utile rimedio per trattare i troppi casi di amati respinti che degenerano in stalking quando non peggio.

Articoli sul tema --> "La biochimica dell'amore"

Fonti
- 'Just Slip Out the Back, Jack' We're Wired to Get Over Romantic Break Ups
University of Saint Louis, news
- When love dies: Further elucidating the existence of a mate ejection module.
BB Boutwell et al. (2015) Review of General Psychology, 19(1)pp10-38

Lo sballo chimico dei Rave party e la terapia anti-depressiva

La ketamina è una sostanza nata come analgesico per uso ospedaliero e veterinario che ha tuttavia riscosso un successo inatteso - non voluto - come sostanza ad azione psicotropa, in particolare tra i partecipanti ai rave party dove è nota con il nome di Special K.

Ketamina
Va da se che al di fuori degli ambiti il cui utilizzo è legiferato, il possesso di questa sostanza è illegale in quanto è associabile in toto alle sostanze stupefacenti. Tra gli effetti a cui deve la sua popolarità, la sensazione di distacco dal proprio corpo, una profonda alterazione percettiva e potenti allucinazioni (per una descrizione dettagliata degli effetti e dei rischi associati rimando al sito della ASL).

Tuttavia quello che ci interessa oggi non è il suo utilizzo come droga ma le potenzialità terapeutiche, diverse rispetto all'effetto analgesico, che sono emerse grazie a nuovi studi. Sembra infatti che se opportunamente dosata e sotto controllo medico, la ketamina abbia un futuro nel trattamento di disturbi psichiatrici non facilmente trattabili come depressione, disturbo bipolare e tendenze suicide.
Nel caso dei disturbi depressivi l'azione della ketamina si distinguerebbe dalle classiche terapie antidepressive per l'alta velocità di azione. Mentre gli antidepressivi necessitano di almeno 10-12 giorni di trattamento perché gli effetti comincino a manifestarsi e 2-4 settimane perché i sintomi depressivi si attenuino (ma solo nei soggetti responsivi - per altre info vedi QUI) l'effetto antidepressivo della ketamina compare già dopo due ore!
Una scoperta che ha però dei chiaroscuri importanti: se infatti questa inattesa proprietà del farmaco ha fatto impennare il numero di prescrizioni, soprattutto negli USA, da parte dei medici ansiosi di dare sollievo ai tanti pazienti insensibili alle comuni terapie, dall'altra non può, né si deve, sottovalutare il rischio implicito di un trattamento continuativo di cui si ignorano gli effetti sul lungo periodo.
V. Van Gogh
Il punto chiave su cui verte la potenzialità della ketamina come farmaco antidepressivo sta nel diverso meccanismo di azione rispetto agli antidepressivi classici. 
Mentre questi ultimi agiscono sulle vie cerebrali della serotonina o della noradrenalina (o su entrambi), la ketamina agisce bloccando il recettore NMDA che lega il neurotrasmettitore glutammato, molecola centrale nei processi mnemonici e cognitivi.

La scoperta dell'azione antidepressiva della ketamina è tanto importante quanto inattesa. 
Le prime evidenze si hanno nel 2013 quando il gruppo di ricerca guidato da James Murrough del Mount Sinai Hospital di New York, mostrò alla comunità scientifica l'effetto terapeutico della ketamina con uno studio su 73 volontari affetti da depressione e insensibili ad almeno tre diversi trattamenti classici. Già 24 ore dopo il trattamento il 64% dei pazienti trattati mostrava una chiara diminuzione dei sintomi legati alla depressione!
Ricordo tuttavia che il semplice decremento dei sintomi depressivi non è di per sé sufficiente ai fini terapeutici. 
Una delle caratteristiche più pericolose associate ai trattamenti antidepressivi classici è, in assenza di attento monitoraggio, l'incremento del tasso di suicidio tra i pazienti. La cosa non deve stupire dato che un soggetto afflitto da un profondo stato depressivo è generalmente in uno stato tale da non avere la forza mentale per porre in atto le pur desiderate azioni di "soppressione dello stato di infelicità". La fase più critica è da sempre quella tra il momento in cui il soggetto comincia a manifestare un miglioramento (uscita dallo stato passivo) e quella in cui sono minimizzati gli effetti autodistruttivi. 
Il trattamento con ketamina, forse a causa della velocità dell'effetto, si è dimostrata in questo senso nettamente più sicura. Nessun paziente ha cercato di recare danno a se o agli altri né durante né dopo il trattamento.

Il lavoro di Murrough è continuato negli ultimi due anni e si è focalizzato sull'analisi per imaging funzionale (una tecnica assolutamente non invasiva) del cervello dei pazienti trattati, per cercare di capire "come" la ketamina modifichi la funzionalità cerebrale nell'espletare la sua azione terapeutica.

Aggiornamento. La ketamina sotto forma di spray nasale (esketamina) è stata approvata per la terapia antidepressiva da FDA e EMA nel 2019.



Articolo precedente sulla depressione --> qui e qui.

Fonte
- Antidepressant Efficacy of Ketamine in Treatment-Resistant Major Depression: A Two-Site Randomized Controlled Trial


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